Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2019

 

LA CULTURA

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

 

ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI

         

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.

L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA E GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

INDICE PRIMA PARTE

LA POLITICA ED I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

INDICE SECONDA PARTE

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

 

INDICE TERZA PARTE

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

INDICE QUARTA PARTE

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

INDICE QUINTA PARTE

LA SOCIETA’

 

PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.

STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.

 

INDICE SESTA PARTE

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

INDICE SESTA PARTE

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

CHI COMANDA IL MONDO:

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

QUARTA PARTE

LA CULTURA ED I MEDIA

PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutte le piccole grandi cose che hanno fatto la Storia.

Scoperti in Calabria due nuovi minerali: la Linarite e la Connellite.

L'ultimo giorno dei dinosauri.

Loch Ness, svelato il mistero (forse):  il mostro è un’anguilla gigante.

I Topi che guidano una macchina.

La Scoperta della carta igienica.

La Musica che guarisce.

Mai dire Wi.Fi.

Come funziona Starship, l’astronave di Musk che porterà l’uomo su Marte.

Il Sabotaggio dei razzi spaziali.

L’Uomo Volante.

I “super soldati”.

Le Radium Girls: le ragazze fantasma.

Zichichi ed il Supermondo.

L’Ignoranza saccente.

Scienziate, non discriminate la filosofia.

I licantropi esistono davvero?

Mala Marijuana.

Pelle, occhi, malattie rare: le nuove frontiere delle cellule staminali.

Tumore e cancro: il vero, il falso, l'improbabile.

Alla ricerca dell’anima.

Albert Einstein: indagine sui segreti dell’universo.

Il Genio Folle.

I Geni.

I misteri dell’Area 51 (e 52).

Vaccini e 5G: Stupidi o Cavie da Laboratorio.

I Complottisti.

Teoria del complotto sulle scie chimiche.

Sulla Luna ci siamo stati?

Il Terrapiattismo. 

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Controllo della Mente.

Così la Cia creò l’Lsd (per controllare le menti).

Una Scossa vi Guarirà.

Una scarica elettrica per renderci pro accoglienza.

Il primo sistema che traduce i pensieri in parole.

Ancora attacchi sonici a Cuba? 

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Università, dalla dea Cerere alla scuola di Salerno. Storia di una corporazione.

Ecco le scuole migliori d’Italia. La classifica città per città.

Ripetenti Patentati.

La scuola si svuota e restringe.

Cattivi Maestri.

Indottrinamento a scuola. I Libri di Storia li scrivono i vincitori e …gli ignoranti.

Istat, ragazzini promossi ma ignoranti.

Da Gentile a Sullo sino a Fioramonti: ministro che viene, esame di maturità che cambia.

Scuola, i furbetti del Diploma.

Ignoranti, diplomati e laureati.

Ritardi a scuola, 16 milioni di ore perse in un anno.

Degni di nota.

Le note ai genitori violenti.

Vittore Pecchini e gli altri, presidi sotto attacco.

Non c’è scuola senza autorità.

L’educazione non è istruzione. Senza il padre non c’è legge nè Stato.

La lezione di vita della prof: «Ecco perché il latino ci insegna l’amore».

L’avvento della scuola comunista.

Il business delle lezioni private: vale quasi un miliardo ed è quasi tutto in nero.

Oltre 600 professori universitari sono sotto inchiesta per il doppio lavoro.

Quanto costa una laurea?

I lasciati indietro. Un sistema dinastico chiamato scuola.

Disabilità. La scuola non è di “Sostegno”.

Scuola. Non c’è più la foto ricordo.

A scuola col cellulare.

Le okkupazioni educative.

La dittatura delle minoranze. Quando a condizionare la vita sono i pochi.

Quelli che non sono laureati…e fanno la morale.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le Svolte storiche.

Bronzi di Riace: è stato rubato qualcosa prima o dopo la scoperta?

Antonio Canova vs Bertel Thorvaldsen.

I Falsi d'arte.

Orologi. Le leggende al polso.

La Stretta di Mano e gli applausi.

Il significato dei simboli.

Tirchi o contro lo spreco?

I Maligni.

 “Conosci te stesso”, mistero e alla precarietà dell’esistenza.

Non sappiamo chiedere scusa.

Siami senza amici.

I Mozart.

Staino.

Il Doping delle autocitazioni.

«Quella forza chiamata leggere».

Alla caccia del libro… 

I venerati maestri ci lasciano. E quelli nuovi non arrivano.

I Libri dei Vip.

L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo

La civiltà ci rende infelici e menefreghisti: La società signorile di massa.

L’esercizio della Critica.

La cultura? In Italia non è più un valore.

 “Ok, boomer”. L’ultima discriminazione generazionale comunista.

Gioventù del Cazzo.

Generazioni a confronto. L’Italia dei Baby boomer, della Generazione X, della Generazione Y, della Generazione Z, dei bamboccioni, dei Neet e dei Hikikomori.

Volgare 2.0. L’Esperanto dei ragazzi.

La coerenza? Non esiste!

L’Italia sta pagando caro l’analfabetismo digitale.

Quando il nerd si fa hard.

La "vera" Biancaneve? Era una baronessa cieca.

Il Cinema e la dittatura.

Mostra del cinema di Venezia: scandali e follie.

Cinema e motori.

L’Italia dei Tabù. Il sesso è solo vintage.

Tanto porno, niente educazione sessuale.

Televendita dell’arte.

Maurizio Cattelan.

Papà Renzo Piano.

La signora delle Barbie.

Anna Wintour, Prada, Renzo Rosso, Valentino, Donatella Versace, Dolce e Gabbana, Capucci, Lagerfeld, Giorgio Armani. La moda è loro.

L’alloro di Dante.

Buon compleanno, ispettore Marlowe.

Casanova e la Gonorrea.

Mary, la moglie geisha che Hemingway tradiva.

Ian Fleming: il mappatore.

Le Memorie di Giorgio De Chirico.

Renato Balsamo con un ritratto sapeva rubarti l'anima.

Povero Belli.

Parlando di Rossana Rossanda.

Gaia Servadio

Stefania Auci.

Liliana Cavani.

Susanna Tamaro.

Carlo Fruttero e Franco Lucentini.

Pietrangelo Buttafuoco.

Indro Montanelli.

Oriana Fallaci, vergogna di Stato: la Rai l'ha boicottata.

Dacci oggi il nostro Cairo Quotidiano.

La Sapienza dei sinistri.

Il ravvedimento degli intellettuali di sinistra.

Pascoli e l’omicidio del padre.

Il pessimismo di Leopardi? Ottimo ritratto della modernità.

In questa epoca sfinita non c'è spazio per l'eroico Foscolo.

Il Nobel partigiano.

Premio Strega: metodo Palamara-CSM.

Misteri letterari…col trucco.

Editoria di “Stocazzo”.

Libri contraffatti.

Penne brille.

La Società dei Magnaccioni...

Vite da Scoponi.

I pavoni della penna.

Il Successo da una botta e via…

Prima la Fama e poi la Fame.

Le lettere inedite. Da Sorrentino a Pirandello.

Massimo Troisi. Un poeta fragile e imperfetto riscoperto anche dai giovani.

Perché siamo complottisti? 

Quei "simboli del male" che durano un giorno.

Oscurare i graffiti su tv e giornali.

Le lenzuola e la manifestazione del pensiero.

QI: Il Quoziente intellettuale. Quei geni che (non) ti aspetti.

Leonardo: il genio che voleva misurarsi con Dio.

I Simpson trent’anni dopo: più politicamente corretti

Il progetto dei comunisti: quello di sconvolgere la morale borghese.

Il Politicamente Corretto Ideologico.

Il nefasto “politicamente corretto”.

L’uso dell’immagine per manipolare la coscienza.

“Bella Ciao” sulla bocca di tutti…

Spettacolo: "La droga è ovunque ma vince l’ipocrisia".

I Selficienti. I Selfi della Gleba: Gli Egomostri.

Siamo circondati da Influencer.

Gli influencers ideologici.

Piero, Angela il Grande.

Mughini & Company. Gli Influencers della Cultura.

Ritratto di Mauro Corona.

Marco Paolini non si perdona.

Rampini: il rinnegato comunista.

Intervista a Pier Paolo Pasolini.

Letizia Battaglia.

Intervista a Natalia Aspesi.

Piccoli tasti. Grandi firme.

Vespa Memories.

Come in pace così in Guerri.

Il peace and love.

Le atrocità del Comunismo: La giornata della memoria è un dovere.

La dittatura della Massa.

Il comune senso del pudore. La censura del pelo.

L’Involuzione della specie italica.

Niente soldi al “Terzani” comunista.

La cultura dei camerati.

Ritratto di Gianrico Carofiglio.

Ritratto di Erri De Luca.

Andrea De Carlo.

Giampaolo Pansa.

Ritratto di Michela Murgia.

Saviano: i segreti di una star.

Nuto Revelli,  l’ira e il riscatto.

Paperino compie 85 anni: la storia.

Topolino ne fa 70!

Gómez Dávila, Giovanni Comisso. I grandi scrittori? Tutti di destra.

La Dittatura Culturale Sinistra.

Emarginato se non sei di sinistra.

Quelli che vogliono solo scrittori partigiani.

«Attenti al fascismo degli antifascisti».

Tra Pluralismo e Relativismo. Gli Haters. Ossia: gli odiatori.

L’odio figlio dell’Invidia.

I simboli scaduti dell’altro millennio che i comunisti usano per alimentare odio e paura di un pericolo immaginario.

Dall'ideologia all'odiologia.

L’egemonia della sinistra chiamata Cultura.

La cultura fondata sulla Politica e sulla Finanza. 

Quando l’editoria di sinistra non è foraggiata…muore!

Il Cinema ed il finanziamento del politicamente corretto e schierato.

La Cultura della Legalità.

La Cultura della Legalità e dell'Antimafia.

La cultura della Solidarietà.

Percezioni errate: il primato è degli italiani.

La Conformità al pensiero unico.

Internet è Libertà. Chi non vuole il Web.

Wikipedia ed il Recentismo.

Gli Oscar alla carriera.

Che noia questi Oscar 2019 così politici.

La tv è gay. Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay.

L’Oscar LGBTI.

Cannes delle femministe.

Cannes, Nuovo Cinema Paradiso e il premio 30 anni fa.

Woodstock, i tre giorni che hanno cambiato il mondo.

La culla dell’hip hop quando la musica era la voce del ghetto.

Gli artisti senza pensione.

Unesco: quanto paghiamo per diventare patrimonio dell’umanità.

La lingua italiana è un diritto.

Le radici meridionali della lingua italiana.

La Citazione sbagliata.

Ecco l'italiano dei giornali.

L’età della parolaccia.

Storia della parola «bullo»: oggi è un delinquente ma significava amico.

La Rai editrice.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Lo share è di destra o di sinistra?

Il processo in Tv e la giuria popolare.

Giornali e Tv Spazzatura.

Piange l’edicola del mercimonio.

Così Gramsci ha creato l’egemonia su giornali e magistratura

Fatti la tua idea...la nostra!

Quell'infinito striscione per Giulio Regeni.

Il Metodo Raggi.

Assange: spia o eroe?

L’ostensione delle fidanzate.

Le redazioni sessiste.

Il Concertone politico.

Il Pettegolezzo.

La Macchina del Fango? Parcheggiata a sinistra. La primogenitura della diffamazione mediatica.

La disinformazione, o no?

Il problema delle false citazioni.

L'Era digitale e la post-notizia. Il Popgiornalismo.

Diritto all’oblio. Una censura tutta Comunitaria.

Il Diritto di Citazione. Censura e Fake News. Se questi son giornalisti...

Wikipedia: l’enciclopedia partigiana.

Deepfake, dopo le fake news arrivano i video bufala: come si costruiscono?  

La censura, o no?

Liste di Proscrizione e Censura.

Querele temerarie.

Sergio Romano.

Annalisa Chirico.

Il Tribunale del Conformismo e la censura degli opposti.

Censura: con le buone o con le cattive.

Politica e media: tu chiamale se vuoi emozioni…

Gruber & Company. I compagni propaganda.

Lottizzazione Rai: metodo Palamara.

Lavoro alla Rai…Ma quanto mi costi?

Chiudere la Rai.

Mario Giordano, il giornalista comodissimo della (vecchia) Rete 4.

Il bastiancontrarismo.

La tv e i soliti esperti del Nulla.

Daniele Capezzone.

Paolo Guzzanti.

Salvate il soldato Sgarbi, impiegato del litigio da copione.

Aldo Grasso. La cultura televisiva e il suo pioniere. 

Paolo Mieli. Lo Storico.

Perché amiamo le bugie (e odiamo la verità).

I media ignorano i giovani, tranne quando c'è da fare la morale.

Niente giornali ai diciottenni.

Miserie, gaffe e smentite… Storia dei fuorionda rubati.

Mario Calabresi, addio a Repubblica.

Il Consiglio disciplina campano archivia Luigi Di Maio.

I comunisti contro Maria Giovanna Maglie.

L’ostracismo per Monica Setta.

L’ostracismo per Roberto Poletti.

Chiudere Radio Padania!

Chiudere Radio Radicale!

Eccesso di Fede. I Partigiani nella Redazione.

 

 

 

LA CULTURA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Tutte le piccole grandi cose che hanno fatto la Storia.

Il primo fiammifero della storia? Un fungo secco, trovato tra i reperti di Matera. Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 da Corriere.it. Al museo archeologico di Matera — non a caso la terza città più antica al mondo tra quelle ancora abitate, dopo Aleppo e Gerico, e prima di Gerusalemme — c’è un reperto straordinario che rischia di passare inosservato in mezzo ai molti altri oggetti che ci riportano al paleolitico e alle origini della nostra società: un fungo secco trovato nelle tasche di alcuni nostri lontanissimi progenitori tra i sassi della città lucana. La curiosità è doppia visto che si tratta di un fungo ancora oggi esistente e che si presenta del tutto indigeribile dallo stomaco dell’essere umano. Perché i nostri progenitori ne avevano avuto, dunque, così tanta cura da farli seccare per garantirne il trasporto? Il nome del fungo, ancora oggi, ne rivela la magica utilità: si tratta del fomes fomentarius, in sostanza un fungo che «fomenta» il fuoco. Di fatto, nella storia della tecnologia, lo possiamo collocare come il primo «fiammifero» della storia.

Che cos’è veramente un robot? Dalle prime paure all’arrivo nelle nostre case. Pubblicato venerdì, 20 dicembre 2019 da Corriere.it. Diciamo “robot” e pensiamo “futuro”. Pochi sanno, tuttavia, che la parola robot è ormai quasi centenaria. Fu coniata infatti nel 1920 dallo scrittore ceco Karel Capek, partendo dal termine robota, che nella sua lingua significa “lavoro”.Da allora i robot hanno iniziato a popolare moltissimi scenari di fantascienza — tra sogni di liberazione e paure di tradimento. Ad esempio, proprio per prevenire rivolte verso l’umanità, i robot immaginati dallo scrittore Isaac Asimov dovevano obbedire a tre famose leggi:

1) Un robot non può arrecare danno a un essere umano né permettere che, a causa della sua inazione, un essere umano venga danneggiato.

2) Un robot deve obbedire a qualsiasi ordine di un essere umano, a patto che non vada in conflitto con la Prima Legge.

3) Un robot deve proteggere la sua propria esistenza, purché ciò non infranga la Prima o la Seconda Legge.

Alberto Fraja per “Libero Quotidiano” il 17 dicembre 2019. Diceva Pietro Nenni che le idee camminano con le gambe degli uomini. Il vecchio leader socialista dimenticava di aggiungere che se ai piedi infili pure un paio di scarpe comode, è ragionevole prevedere che quelle idee arrivino a interessare un numero non trascurabile di potenziali adepti. Della storia, del ruolo sociale e della valenza simbolica assunta nei secoli della scarpa si discetta nella mostra che si apre oggi a Firenze al Museo della Moda e del Costume di Palazzo Pitti (vi rimarrà fino al 19 aprile 2020) e il cui titolo è Ai piedi degli dei. Le calzature antiche e la loro fortuna nella cultura del Novecento. L' esposizione allinea i principali tipi di scarpe utilizzate nel periodo compreso fra il V secolo a.C. e il IV a.C, rinvenute in diversi contesti archeologici d' Europa. Ad essa affianca una sezione dedicata alla fortuna della calzatura antica nella cultura del Novecento, attraverso due punti di vista fra loro complementari: la moda e il cinema. Scarpe dei maggiori stilisti italiani del secolo scorso sono esposte insieme ai modelli della più celebre manifattura italiana di calzature per il cinema, la Pompei Shoes, quella che sfornava calzari per gli attori dei film peplum divenuti veri e propri cult: da Cleopatra a Quo Vadis, da Ben Hur al Gladiatore. Le prime testimonianze grafiche di calzature risalgono a circa 15.000 anni fa anche se l' esemplare più antico rinvenuto in buono stato di conservazione (fu trovato in una caverna dell' attuale Armenia), pare sia stato confezionato intorno al 3.500 a.C. Si tratta secondo gli studiosi di una scarpa da donna, numero 37 e mezzo formata da un unico pezzo di pelle bovina, allacciata nella parte anteriore e in quella posteriore con una cordina di cuoio. La scarpa smette di fungere da solo oggetto indispensabile ad evitare la scarnificazione dei piedi in epoca egizia. I sudditi del faraone cominciano, infatti, ad assegnarle un carattere simbolico elevandola a tratto distintivo del rango da essi rivestito nella società. Un esempio: la carica onorifica di "portatore di sandali" spettava al seguito di faraoni e nobili. È tuttavia con gli antichi greci che l' evoluzione della scarpa comincia ad assumere forme e modelli base poi tramandati nel tempo. L'Upodémata, il tipico sandalo con suola di cuoio o di legno legato al piede da strisce di pelle, l'Embàs, uno stivaletto allacciato da donna e l' Embàtes uno stivale di cuoio o stoffa per i cavalieri diventeranno motivo d' ispirazione, nei secoli avvenire, di legioni di calzolai. Si sappia inoltre che nel mondo greco, lo status e il ceto di appartenenza di una persona si distinguevano anche in base all' altezza delle suole. Anche i romani adottano tecniche di concia delle pelli simili a quella dei greci, e anche nel loro caso la scarpa diventerà presto uno status symbol. I Calcei, per dire, erano suole senza tacco con tomaie in pelle che avvolgevano tutto il piede ed erano prerogativa di nobili e senatori. Curiosità: nella Venezia del quattrocento tra le donne della upper class cominciò a diffondersi la moda di calzare le cosiddette Cioppine, zeppe talmente vertiginose che il Maggior Consiglio della Serenissima si vide costretto addirittura a legiferare per stabilirne l'altezza massima (alcuni modelli raggiungevano addirittura il metro). Caracollare su trampoli del genere determinò un numero non precisato di distorsioni alle caviglie. La moda delle scarpe si diffonde in Francia nel XVI secolo grazie a un' italiana: Caterina de' Medici. Le più ambite si chiamavano Souliers à pont. Nel XVII secolo le donne cinesi presero a infilarsi stravaganti calzari con un piedistallo al centro della suola. Erano talmente scomode e pericolose che per camminare le signore erano costrette a ricorrere al sostegno di qualche maschietto di buona volontà. Fu nel XVII secolo che presso l'aristocrazia e le classi più abbienti comincia a prendere piede, è proprio il caso di dirlo, la moda degli stivali. Dapprima alti fino al ginocchio, poi oltre e strombati. Nel secolo successivo spopolano tra le donne le scarpe a punta mentre più in generale la calzatura assume forme più moderne. Le scarpe del primo Novecento si ispirano nientemeno che all' Art Noveau francese, hanno la punta allungata e l' accollatura alta. Prima della Grande Guerra la calzatura più diffusa è il tacco "Luigi", in stile rococò e dalla forma a rocchetto. Dopo il secondo conflitto mondiale è lo stile italiano a dettare il passo: sandali più audaci e décolleté danno la cifra delle nuove tendenze grazie a marchi e firme del made in Italy come Valentino, Versace, Ferrè e Armani. Per concludere: sapete chi sono i protettori dei calzolai? I santi Crispino e Crispiano. I due fratelli raggiunsero nel terzo secolo la Francia per predicarvi la fede cristiana. Facevano i ciabattini. Il resto del tempo lo dedicavano a risuolare le anime. Con successo a quanto pare.

9 cose che erano fondamentali nelle nostre vite e sono diventate obsolete negli ultimi 20 anni. Dave Johnson il 15/12/2019 su it.businessinsider.com. Via via che la tecnologia avanza, le cose che una volta erano innovative e rivoluzionarie stanno diventando obsolete. Negli ultimi 20 anni, i nastri Vhs, i laboratori fotografici che stampavano le foto in un’ora e le cabine telefoniche sono alcune delle cose che sono quasi completamente scomparse. Ecco nove cose che sono diventate obsolete negli ultimi 20 anni.

La tecnologia sfreccia sempre velocemente. Poco più di un secolo fa, intere industrie legate al trasporto con cavalli sono scomparse da un giorno all’altro con l’avvento dell’automobile. Più recentemente, i progressi nella tecnologia di registrazione musicale ci hanno consentito di passare da dischi a cassette, a Cd, e infine a Mp3 e streaming digitale. Anche se oggi potresti non essere consapevole del ritmo febbrile del cambiamento, è facile guardare indietro a dozzine di tecnologie che sono ora completamente obsolete grazie alla velocità del progresso.

I laboratori che stampavano foto in un’ora e che occupavano angoli di strade e centri commerciali. Le fotocamere per smartphone hanno reso la fotografia un’attività per tutti. Ma per decenni, usare una macchina fotografica significava scegliere con cura i movimenti, poiché i rotoli di pellicola contenevano un numero finito di scatti e richiedevano che il rullino venisse elaborato e stampato. Con il miglioramento della tecnologia alla fine degli anni ’70, i servizi di elaborazione delle foto che impiegavano una settimana spesso eseguiti da negozi specializzati di macchine fotografiche hanno lasciato il posto a laboratori che stampavano le foto in un’ora. Questi laboratori sono spuntati in grandi magazzini, negozi di alimentari, negozi di macchine fotografiche e persino chioschi autonomi costosi all’angolo della strada. Al loro apice nel 1993, c’erano 7.600 laboratori di foto in un’ora negli Stati Uniti e altri 14.700 cosiddetti mini-lab all’interno di catene di negozi come Kmart. Se non hai vissuto negli anni ’80 e ’90, è difficile renderti conto di quanto fossero comuni questi negozi. Naturalmente, non è una sorpresa quello che è successo ai laboratori fotografici di un’ora e agli sviluppatori di foto in generale. Via via che le fotocamere digitali e gli smartphone sono arrivati sul mercato, la necessità di sviluppatori di foto è sparita praticamente da un giorno all’altro. Nel 2015, Bloomberg riferì che nessun’altra attività negli Stati Uniti era diminuita tanto nei 15 anni precedenti quanto i laboratori fotografici di un’ora e, in quell’anno, c’erano solo 190 negozi ancora attivi in tutto il paese.

Per due decenni, ogni computer è stato dotato di un’unità floppy per caricare i programmi. La storia del floppy disk è indissolubilmente legata alla crescita del personal computer. Sebbene una versione da otto pollici del floppy risalga al 1967, il primo PC IBM fu distribuito con un floppy da 5,25 pollici nel 1981. Contiene 360 kilobyte di dati, che rappresentano circa un terzo di megabyte. Si chiamava unità “floppy” perché il disco dati era racchiuso in una guaina flessibile, ma il nome rimase anche per la versione da 3,5 pollici molto più rigida che divenne rapidamente equipaggiamento standard su PC per i successivi due decenni. Fino all’ascesa dei Cd, i floppy disk erano il supporto standard per il modo in cui il software veniva impacchettato, venduto e installato. Non era insolito, ad esempio, ottenere un box con una dozzina di floppy disk per installare un programma di grandi dimensioni (Microsoft Office 97 è arrivato su 55 floppy disk). Alla fine, non solo il software è diventato troppo grande, ma anche un singolo file utente – come un file di canzone MP3 – non poteva stare su un floppy, che conteneva solo 1,44 MB. Nonostante fosse universale, c’era un enorme interesse a sostituire il floppy per i trasferimenti di file standard. A metà degli anni ’90, molti consumatori possedevano unità di archiviazione come l’unità Iomega Zip, che leggeva ad esempio cartucce intercambiabili da 100 MB, e verso il 2000 circa, le unità flash USB offrirono finalmente una soluzione semplice, economica e ad alta capacità che viene ancora regolarmente utilizzata oggi. Il 1998 è stato l’inizio della fine per il venerabile floppy. Apple ha presentato iMac G3, il primo personal computer senza floppy, e i produttori di PC hanno seguito lentamente l’esempio negli anni successivi. I floppy hanno resistito per diversi anni, ma Sony – l’ultimo produttore di floppy disk sulla terra – ha smesso di produrre dischi nel marzo del 2011. Anche se i floppy disk sono ormai del tutto obsoleti, vivono ancora come icona “salva” su molti programmi per computer, anche se i giovani non hanno idea di cosa si tratti.

Gli Assistenti digitali personali sono stati i precursori degli smartphone. Il Personal Digital Assistant, noto come Pda, ha conquistato il mondo negli anni ’90. Non è difficile capire perché: erano proto-smartphone, in grado di dare alle persone il loro primo assaggio del mobile computing tascabile. I Pda memorizzavano le informazioni di contatto, eseguivano app, offrivano giochi e alcuni potevano svolgere attività più avanzate come riprodurre musica e video e accedere a Internet. PayPal ha di fatto iniziato con i Pda come un’app che consentiva agli utenti di Palm Pilot di scambiare denaro.

Gli anni ’90 furono un decennio impegnativo per le aziende tecnologiche che cercavano di inventare il dispositivo portatile perfetto, ma molti concorderanno sul fatto che Apple abbia avviato il movimento Pda nel 1993 con il suo Newton MessagePad, che ha riconosceva la calligrafia inglese. Ma i dispositivi che la maggior parte delle persone effettivamente acquistavano erano il Palm Pilot (che è emerso nel 1996) e il Pocket PC di Microsoft, entrambi diventati, anche se solo per alcuni anni, strumenti aziendali essenziali. Certo, non è difficile capire perché siano svaniti. I Pda erano smartphone dell’era giurassica e potevano esistere solo finché nessuno aveva preso le caratteristiche intrinseche di un Pda e ci aveva aggiunto la possibilità di effettuare chiamate telefoniche. Quando Apple ha lanciato l’iPhone nel 2007, si è integrato perfettamente nella vita di tutti i giorni in un modo in cui i Pda non avrebbero mai potuto. Palm ha smesso di produrre Pda semplici entro il 2007, ma ha lanciato uno smartphone senza successo chiamato Palm Pre nel 2009.

Per decenni, gli insegnanti hanno utilizzato proiettori dall’alto per le loro lezioni. Il proiettore da soffitto è stato un dispositivo fisso nelle scuole e negli uffici per quasi 50 anni. Il sistema di proiezione mostrava le immagini su una parete o su uno schermo: una luce proiettata verso l’alto attraverso un piano trasparente rimbalzava su uno specchio che deviava la luce di 90 gradi in avanti. I proiettori da soffitto erano semplici dispositivi, ma richiedevano che il documento fosse trasparente. Per quasi tutti gli studenti dagli anni ’60 agli anni ’90, vedere gli insegnanti scrivere durante una lezione su un foglio trasparente che viene proiettato sul muro era una cosa normalissima. Negli anni 2000, i proiettori aerei hanno iniziato a essere sostituiti da una serie di nuove tecnologie. Le scuole hanno iniziato ad adottare lavagne interattive che consentono agli insegnanti di progettare documenti digitali come presentazioni di PowerPoint e altri contenuti più coinvolgenti. Sebbene in alcune scuole ci siano ancora proiettori luminosi in uso, il mercato di questi dispositivi è evaporato. 3M, una società che produce proiettori da oltre 50 anni, ha smesso di produrli nel 2015.

Grazie ai videoregistratori, ogni casa aveva film sui nastri VHS che dovevi riavvolgere. Immagina di poter guardare un film a casa, quando vuoi. Oppure di guardare un episodio di “Mork e Mindy” che ti sei perso perché sei tornato a casa troppo tardi. Era difficile immaginarlo prima del 1977, ma fu allora che il videoregistratore Vhs debuttò. (La piattaforma sconfisse la Betamax di Sony in gran parte perché era meno costosa e i nastri potevano contenere due di film ore anziché una.) Vhs era un punto fermo dell’intrattenimento domestico negli anni ’80 e fino agli anni ’90. I videoregistratori hanno consentito il time-shifting o la registrazione di uno spettacolo televisivo da guardare in seguito. E hanno anche dato vita a negozi di noleggio video, che nel 1988 erano decine di migliaia negli Stati Uniti. Prendere un film a noleggio il venerdì sera è stato il passatempo di intere generazioni. I videoregistratori non sono diventati obsoleti da un giorno all’altro, ma sono morti lentamente. I videofili hanno abbracciato il formato LaserDisc e nel 1998 c’erano 2 milioni di famiglie col LaserDisc. I lettori Dvd sono entrati sul mercato nel 1997, seguiti sia da HD DVD che da Blu-ray. Nel 1998, l’industria dei videoregistratori ha provato la strada dell’alta definizione con HD VHS. Ma il primo piano di streaming di Netflix ha dato forse il colpo fatale ai nastri analogici di film nel 2007. Funai, l’ultima azienda sulla terra a produrre videoregistratori, ha interrotto la produzione nel 2016.

Gli annunci hanno mantenuto i giornali cartacei in vita per più di un secolo, ma Craigslist se ne è sbarazzato rapidamente. Forse la cosa più antica a morire di questa lista sono gli annunci che hanno reso i giornali redditizi per la maggior parte del secolo. La prima sezione di annunci moderni fu pubblicata sul Philadelphia Public Ledger poco dopo la fine della guerra civile. In alcuni casi, nel corso del XX secolo, gli annunci non personali rappresentavano fino al 40% delle entrate dei giornali. Era il punto di riferimento delle persone per comprare e vendere oggetti per la casa, trovare auto usate e cercare lavoro. Verso la metà degli anni ’90, tuttavia, Internet stava sottraendo annunci ai giornali. Senso comune vuole che un sito in particolare – Craigslist – avrebbe ucciso da solo gli annunci pubblicitari di giornali, poiché il sito era facile da usare e la maggior parte degli annunci erano gratuiti. Nel 2006, l’ Economist scrisse che il fondatore di Craigslist “Craig Newmark … ha lavorato probabilmente più di qualunque altro fattore per distruggere le entrate dei giornali”. Nel 2010, Poynter ha riferito che le entrate pubblicitarie da annunci erano diminuite del 70% negli ultimi 10 anni.

Tanto tempo fa, la maggior parte delle persone trasportava mappe stradali cartacee in auto. Le mappe stradali sono state un oggetto immancabili in ogni auto. Per esempio, negli Stati Uniti, dopo la costruzione del sistema autostradale interstatale, è diventato popolare per aziende come Rand McNally creare mappe stradali per le compagnie di carburante, che in genere davano in omaggio mappe alle stazioni di servizio. A metà degli anni ’60, erano state date almeno 200 milioni di tali mappe stradali. Com’era prevedibile, i navigatori Gps hanno fortemente ridotto le vendite delle mappe stradali – semplicemente non sono più fondamentali. Le carte stradali hanno iniziato a perdere valore alla fine degli anni ’90, quando siti come MapQuest hanno permesso agli utenti di creare indicazioni stradali dettagliate e stamparle sulla propria stampante di casa. Alla fine, le auto hanno iniziato a essere progettate con il Gps integrato e oggi, anche questa innovazione non è essenziale, grazie agli smartphone con Gps e alle app cartografiche. Oggi i dipartimenti statali del turismo stampano molte meno mappe, se non affatto. Nel 2012, la Pennsylvania stampava solo un quarto dei 3 milioni di mappe che aveva stampato un decennio prima e lo stato di Washington aveva fermato del tutto la produzione. E sebbene Rand McNally continua a vendere mappe, prova a trovare qualcuno che conosci che ne abbia una in macchina.

I lettori MP3 erano fondamentalmente iPhone che non potevano effettuare chiamate telefoniche. Come i Pda, i lettori Mp3 sono una tecnologia che ha avuto un breve momento d’oroi. Il primissimo modello, MPMan F10, è arrivato alla vendita al dettaglio nel 1998 e l’intera categoria è stata dichiarata sostanzialmente morta entro il 2012, grazie all’ascesa dello smartphone. Forse non c’è stato segnale migliore del fatto che gli Mp3 fossero obsoleti quando nel 2014 Apple interruppe la produzione della maggior parte degli iPod, la linea di prodotti che praticamente definiva il lettore Mp3. Anche Steve Jobs capì cosa stava succedendo e una volta definiì l’iPhone “il miglior iPod che abbiamo mai realizzato”. Ma nel periodo in cui erano in circolazione, i lettori Mp3 sono stati una rivelazione per le persone che volevano musica in movimento. Erano migliori dei lettori di cassette portatili perché non avevano parti mobili ed erano spesso più piccoli. Ma all’inizio, i lettori Mp3 erano dispositivi goffi. In genere richiedevano di copiare una quantità limitata di musica sul dispositivo tramite un cavo o di copiare tracce su una scheda di memoria, quindi di inserirla nel lettore. I dispositivi successivi potevano sincronizzarsi con il computer desktop, ma spesso mancava ancora la memoria: il Rio PMP300, un lettore popolare del 1998, veniva fornito con 32 MB. Nel 2001, Apple ha introdotto l’iPod, una versione raffinata del concetto di lettore musicale portatile ed è diventato il lettore più popolare sul mercato. Alla fine, i lettori Mp3 sono scomparsi per lo stesso motivo per cui molte cose sono diventate obsolete – è stato completamente incorporato dagli smartphone.

Solo 20 anni fa c’erano 2 milioni di cabine telefoniche negli Stati Uniti. Non molto tempo fa per trovare una cabina telefonica bastava camminare su una qualsiasi strada di città. Ma quando è stato realizzato il film “Phone Booth” di Colin Farrell nel 2003, i produttori del film hanno dichiarato che l’ultima cabina telefonica a Manhattan era stata rimossa mentre il film veniva girato in città. C’era una ragione non intenzionale per cui le cabine telefoniche erano diventate così popolari in primo luogo. Nel 1967, la Corte Suprema degli Stati Uniti decretò che le persone avevano un diritto sancito dal quarto emendamento alla privacy nelle cabine telefoniche, e così divennero rapidamente un paradiso per i criminali per condurre affari per le strade. Indipendentemente dal motivo per cui sono state utilizzate, le cabine telefoniche erano onnipresenti: c’era più di un milione di cabine telefoniche nel 1960 negli Stati Uniti e nel 1999 ce n’erano 2 milioni. Oggi ci sono solo circa 100.000 telefoni a pagamento negli Stati Uniti, ovvero appena in più di quanti ne esistessero nel 1902. Sebbene non sia un mistero il motivo per cui i telefoni a pagamento sono oggi meno popolari di quanto non fossero alcuni decenni fa – tutti hanno un telefono in tasca – c’erano anche fattori di politica pubblica coinvolti. Come riportato nell’Atlantic, un certo numero di città ha trascorso gli ultimi decenni a lavorare in silenzio per rimuovere i telefoni a pagamento o disconnetterli per tentare di ridurre il crimine.

 Il codice a barre compie 45 anni. Dalla nascita ai 6 miliardi di beep al giorno. Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 da Corriere.it. Il codice a barre compie i suoi primi 45 anni ma nel frattempo ha fatto tanta strada da quando, nel 1948 Bernard Silver e a Norman Joseph Woodland ebbero l’intuizione in riva al mare, osservando le linee disegnate sulla sabbia. Da lì l’idea di creare un riconoscimento automatico alle casse che potesse velocizzare code e pagamenti nei supermercati e nel 1973 dopo quattro anni di lavoro e di test, l’associazione statunitense delle principali aziende del settore alimentare adotta il codice a barre GS1 (allora UPC). Fece il suo ingresso nel mercato nel 1974 passando per la prima volta alla cassa di un supermercato (Marsh nella città di Troy in Ohio) per l’acquisto di un pacchetto di chewing-gum Wrigley’s gusto juicy fruit. Il successo fu stato immediato e venne adottato da sempre più aziende. A svilupparlo è l’organizzazione mondiale neutrale e no profit presente in 114 paesi che mantiene lo standard del codice a barre GS1 e gli altri standard internazionali. In Italia, è GS1 Italy, l’unico ente autorizzato a rilasciare il codice a barre GS1 a cui aderiscono 35 mila imprese di produzione e di distribuzione di beni di consumo. Ha la capacità di superare frontiere culturali e geografiche usato in tutto il mondo da oltre un milione di imprese senza bisogno di traduttori oltre confine. A 45 anni dalla sua nascita, solo in Italia, sono più di 60 milioni le persone che lo usano e passa con il suo beep 6 miliardi di volte al giorno in tutto il pianeta. Un piccolo simbolo che permette l’identificazione e la tracciabilità del prodotto lungo tutta la filiera.

Jessica D'Ercole per “la Verità” il 29 novembre 2019. C' è un cerotto per tutto. Da semplice rimedio per rimarginare le ferite ora si usa per somministrare farmaci e vaccini, per far passare il mal d' auto e i sintomi della menopausa, per smettere di fumare e di russare, per eliminare punti neri, vesciche, verruche, rughe e cellulite, per decontrarre muscoli, per tirar su il seno, per fare sesso o per non fare bambini. Ma la scienza non si ferma qui. Da ultimo a Chicago ne hanno inventato uno capace di leggere il sudore. Rileverà i livelli di Ph, elettroliti, glucosio e lattato e un domani sarà utile anche per la diagnosi della fibrosi cistica e delle malattie renali. Cerotti, quindi, che oltre a curare prevengono. In principio ci fu Josephine Frances Knight, sbadata moglie di Earle Dickson, addetto agli acquisti del cotone per la ditta Johnson & Johnson nel New Jersey. Josephine, per compiacere il marito, si dava un gran da fare nelle faccende domestiche ma in cucina era talmente maldestra da procurarsi continuamente tagli e scottature. Ferite che si medicava da sola, con scarsi risultati, un rotolo adesivo e della garza. Stufo di vedere la consorte in queste condizioni, e di doverle rifare le medicazioni ogni sera, un giorno del 1920 Dickson pensò di preparare dei bendaggi già pronti affinché, al momento del bisogno, Josephine potesse applicarseli da sola senza rischiare ulteriori infezioni. Si trattava di una striscia di nastro adesivo chirurgico su cui aveva applicato, a intervalli regolari, dei quadrati di garza sterile. Il tutto veniva infine ricoperto con una striscia di crinolina in modo che potesse essere riarrotolato. Soddisfatto della sua soluzione, Dickson la raccontò a un suo collega di lavoro. Questi ritenne la trovata talmente geniale da convincerlo a esporre l' idea anche agli amministratori. I Johnson erano inizialmente titubanti ma quando videro la facilità con la quale ci si poteva applicare il bendaggio da soli si decisero a produrlo. Era nato il cerotto. Il 18 maggio del 1921 entrò in commercio, tre anni dopo fu prodotto in massa. Il bendaggio ebbe un tale successo che Dickson divenne vicepresidente della compagnia. Peccato però che nel 1961, a 69 anni, morì senza avere ricevuto quote dei profitti economici derivanti dalla sua invenzione. Alla sua morte erano arrivati a più di 30 milioni di dollari all' anno. Kate Middleton fotografata negli ultimi anni con cerotti color carne su pollici, indici, medi, anulari, dorsi e palmi delle mani. Pare che solo i mignoli si siano salvati dalle sue piccole distrazioni quotidiane. Wilt Chamberlain, tra i più forti cestisti di tutti i tempi, era così magro che usava dei cerotti adesivi per tenere su i calzettoni. Mario Balotelli nel 2012 sdoganò il taping neuromuscolare (Tnm), ovvero il cerotto blu capace di ridurre dolori muscolari, accelerare la guarigione dei tessuti e correggere l' allineamento delle articolazioni. Inventato nel 1973 dal chiropratico e agopuntore giapponese Kenzo Kase, fu migliorato nel 1999 dall' australiano David Blow: se il prodotto nipponico privilegiava la compressione della parte sofferente, quello di Blow agisce sul versante della decompressione. Di gran moda, questi cerotti oggi vengono appiccicati sul viso per cancellare rughe e zampe di gallina, sul collo per ridurre il doppio mento, sulle terga per glutei più alti. Kim Kardashian ha lanciato una linea di cerotti per tenere a bada i suoi prosperosi seni. Si tratta di nastri adesivi, facilmente removibili, che permettono di tirar su le proprie grazie anche con i più generosi décolleté, quelli che non permettono l' uso di lingerie. Si chiamano Skims e vengono venduti in rotoli da 36 dollari l'uno. Gli scienziati dell' Università di Edimburgo hanno creato un nuovo tessuto a partire da materiali sintetici le cui nanofibre, migliaia di volte più sottili di un capello, possono essere sintetizzate in tempi rapidi guarendo così ferite e ustioni senza lasciare cicatrici. Questo tessuto verrebbe applicato sulla pelle come un cerotto, con la differenza che non va strappato perché viene completamente assorbito. Secondo gli scienziati, però, ci vorranno almeno quattro anni perché questo nuovo tipo di bendaggio entri in commercio. Anche il cerotto inventato dall' équipe dell' Università di Harvard guidata da Benjamin Freedman promette di guarire ferite senza lasciare cicatrici. Realizzato in Idrogel, costituito al 90% di acqua, contiene l' actina, una proteina embrionale della pelle in grado di tirare l' epidermide, sigillandola alla perfezione. Pare che rimargini le ferite molto più rapidamente e che aderisca dieci volte più rispetto a un normale cerotto assumendo qualunque forma. Ma nemmeno questo prodotto è ancora in circolazione. Allo studio anche un cerotto che grazie all' energia solare accelera la guarigione delle ferite e delle ustioni. Un' idea che lo scorso anno valse alla napoletana Francesca Santoro il Mit innovators under 35 Europe. Per permettere ai medicinali di agire più velocemente i ricercatori dell' italiana Materias, una start up napoletana, hanno inventato un cerotto a microaghi in grado di modulare il rilascio della sostanza. Indolore e minimamente invasivo, questo sistema migliorerebbe la funzione dei normali cerotti transdermici permettendo anche di iniettare medicinali a chi soffre di belonefobia, la paura degli aghi. Un cerotto simile, a base di ovoalbumina di pollo, una proteina, è in via di sperimentazione per un vaccino contro il melanoma. Il cerotto umano di Berengario, anatomista dello Studio bolognese, autore del De fractura calvae sive cranei (1518): «Fra le medicine di uso esterno nessuna mai conobbi uguale al mio cerotto detto anche umano perché nella sua composizione entra una parte notevole di umana sostanza ovverosia di mummia». Per confezionarlo teneva in casa teste di cadaveri rinsecchiti, da cui attingere le dosi necessarie di carne, di volta in volta stemperate in latte di puerpera (Piero Camporesi, Il pane selvaggio, Garzanti, 2004). Il caso dei cerotti detox per i piedi che più che a un' innovazione somigliano a una bufala. Alcuni sostengono che applicandoli sulle piante dei piedi prima di andare a dormire sarebbero in grado di assorbire le tossine del corpo depurando l' organismo e giovando al metabolismo. A comprova, il fatto che togliendoli al mattino questi da bianchi diventano marroncini ed emanano cattivi odori. Secondo alcuni studiosi i cerotti cambierebbero colore non per via delle tossine, ma a causa di una reazione chimica delle sostanze contenute al loro interno con l' umidità. Luca Medici che prima di diventare Checco Zalone faceva il rappresentante di medicinali: «Sono stati gli anni più bui della mia vita. Allora andavano di moda i cerotti sul naso per non russare. Li aveva usati non ricordo quale calciatore. Ovviamente non funzionavano. Ma nelle farmacie ne ho piazzati tantissimi. Poi però quando tornavo scoprivo che non li aveva comprati nessuno. E me li tiravano dietro». Quella volta che Jonathan Franzen e suo fratello Tom andarono in viaggio in Antartide, la più grande paura dello scrittore era di soffrire la barca. «I cerotti a base di scopolamina che Tom e io portavamo sul collo avevano dissipato le mie due ansie principali. Grazie al cerotto non soffrivo il mal di mare e, con l' aiuto della radio a tutto volume a coprire il mio russare, Tom si faceva dieci ore di sonno profondo da scopolamina ogni notte». Durante la Grande guerra in un solo corpo d' armata dell' esercito tedesco ogni mese venivano consumati in media cinquanta metri cubi di gesso e cinquanta chilometri di cerotto. Benito Mussolini fotografato il 9 aprile 1926 a bordo della corazzata Cavour in viaggio verso la Libia con un cerotto sul naso per coprire la ferita provocata dall' attentato di Violet Gibson, avvenuto due giorni prima. Alberto Brambilla che a metà degli anni Novanta chiese a Irene Pivetti di sposarlo mentre era in vacanza: «L' anello di fidanzamento fu un cerotto del kit del campeggiatore che avevamo con noi». I due divorziarono nel 2010, dodici anni e due figlie dopo essersi sposati. La vignetta di Giorgio Forattini pubblicata da Panorama con un Berlusconi neopremier tutto incerottato che strillava «Io speriamo che me la cavo» che costò la carriera a Enrico Cisnetto, all' epoca vicedirettore: «Berlusconi non gradì la vignetta e mi volle conoscere. Mi disse: "Lei sarà il direttore di Panorama". Io gli risposi che non credevo che Franco Tatò avrebbe licenziato Andrea Monti né che avrebbe assunto me. Berlusconi si incazzò: "Il padrone sono io. Questo non è un problema". Berlusconi disse che aveva trovato il nuovo direttore di Panorama, la notizia finì sui giornali e io rimasi in mutande. Rimasi vittima di Berlusconi che promette cose che poi non mantiene []. Decisi di farmi dare un po' di soldi da Panorama e di fare il freelance» (a Claudio Sabelli Fioretti). Emilio Fede che non ha mai nascosto di aver una vita molto attiva sotto alle lenzuola grazie al Viagra, dieci anni fa a Maurizio Costanzo che gli chiese se non si avvalesse anche si altri supporti rivelò: «Ho usato i cerotti all' inguine. Così, per provare». Al contrario della pillola il cerotto agisce più rapidamente. Ancora più veloce però è il francobollo sublinguale. Lo chef Claudio Sadler per sdrammatizzare nel 2017 la perdita di una delle due stelle Michelin ne incerottò una: «Siamo al pronto soccorso ma guariremo presto, prometto!». Per ora però la stellina è ancora in rianimazione.

Peppe Aquaro per corriere.it il 26 novembre 2019. Quelle particelle che semplificano la vita. Da una parte l’uomo. Dall’altra, la tecnologia. Pronti a dialogare per comprendere il futuro. È la scommessa del Centro di ricerche di “BofA ML” (la celebre banca d’investimenti newyorchese Merrill Lynch) che ha presentato nel report, “Eureka! Future Tech Primer” le 15 tecnologie che cambieranno le nostre vite nel prossimo futuro, impattando su alcuni dei principali megatrend del pianeta, e che avranno una ricaduta economica mica da ridere: si parla di qualcosa come 48 miliardi di dollari entro il 2025. Avviso per i bancari con gli occhi fissi sul loro computer: il calcolo quantistico è capace di fare fino ad un trilione di calcoli al secondo. Non lo diciamo per demoralizzarli, ma per ricordare quanto possa essere importante nel futuro il “Quantum Computing”: dalla sicurezza informatica all’economia, dall’Intelligenza artificiale al machine learning. Per non parlare della rapidità dei calcoli quantistici applicati alla riorganizzazione delle comunicazioni, dei servizi pubblici e delle infrastrutture. E poi, se lo dice Google: dalle parti di Mountain View, in California, starebbero lavorando, infatti, ad un computer quantistico che sarà 100 volte più veloce di qualsiasi computer.

Un tesoro in fondo al mare. Se l’avesse saputo il buon Jules Verne che sarebbero bastati 6 mila metri, invece di “Ventimila leghe sotto i mari”, a quest’ora sarebbe ricchissimo. Eh sì, perché moltissimi materiali utilissimi per le tecnologie del futuro, si nascondono negli abissi: a 6 mila metri di profondità. Parliamo di materie prime come manganese, nichel e cobalto e tante altre: i nuovi tesori della tecnologia. Pronti per essere estratti, e per un valore che, entro il 2030, dovrebbe raggiungere 15 miliardi di dollari. Non solo. Secondo una indagine geologica del Governo degli Stati Uniti, entro il 2050, l’esplorazione dei fondali marini potrebbe rappresentare il 15 per cento dell’offerta globale di metalli come nichel, cobalto e quelli delle terre rare.

Piccoli ma utilissimi per comunicare. Nanosatelliti. Lo dice la parola stessa: piccoli e sempre più leggeri. Importantissimi nei settori dello spazio, in quello militare e delle telecomunicazioni. Nello Spazio, entro il 2023 ne saranno lanciati almeno tremila: più della metà degli oggetti che navigano nello spazio in questo momento. I nano satelliti, poi, se si mettono insieme, possono creare delle vere e proprie “costellazioni”, cercando di far arrivare Internet là dove è impossibile: il 41 per cento della popolazione non ha una connessione. Satelliti ovunque. Ma attenzione alla sindrome di Kessler: la collisione tra detriti spaziali potrebbe creare a cascata altre collisioni. E addio collegamenti satellitari. Ma è solo una ipotesi.

5G? È fuori moda: tuffiamoci nel 6G. Non si fa in tempo a metabolizzare il presente, che è già pronto, dietro l’angolo, il futuro. Dal 5G al 6G, con una velocità di connessione di 500 Gb al secondo: tempo 10 anni e lo avremo tutti. Ma servirà davvero? Certo. Soprattutto perché trasporterà più dati, che aumenteranno nei prossimi due, tre anni. Giusto per capire: al momento stiamo immagazzinando soltanto l’1 per cento dei dati, destinati ad aumentare in maniera esponenziale. Dal momento che il 5G sarà utilizzato da più persone a livello globale, non potrà “reggere” tutto il traffico da solo. Ed è come se fosse già destinato alla durata di un decennio.

In carrozza, si vola. Più futuribile di così? Ecco l’Hyperloop, il treno che levita, pronto a rivoluzionare le leggi dei collegamenti ferroviari. Costi, sicurezza e difficoltà pratiche negli stessi test di prova hanno quasi smontato il sogno del treno che viaggia fino a 1223 chilometri all’ora. Poi, capita di leggere che, nel 2020, da Dubai ad Abu Dhabi si viaggerà in soli 12 minuti, o che anche in Italia, tratte da 150 km si potranno percorrere a velocità supersonica, ed è tutto più vicino. Quasi quasi, viene voglia di fare il biglietto.

Medicina 3D. Stampare in 3D dei tessuti del tutto simili a quelli del corpo umano. Successivamente potrebbe toccare agli organi, tollerati dall’uomo e senza rischio di rigetto. E la “Bioprinting” della medicina, il cui mercato dovrebbe raggiungere 4,3 miliardi di dollari entro il 2025. Bioprinting è ancora in fase di ricerca e sviluppo; tuttavia, alcuni bioprinte sono già stati utilizzati nell'uomo. Ad esempio, sono state utilizzate stecche tracheali biodegradabili in alcuni bambini per sostenere la trachea sottosviluppata di un neonato. Ma la stampa in 3D potrebbe avere molta fortuna anche in altri settori, come quello dell’industria alimentare: permettendo, per esempio, ai pazienti geriatrici che non possono deglutire, di ingerire del “cibo” saporito e gustoso.

Tutti in viaggio nello Spazio. Tra 10 anni mettersi in viaggio nello Spazio farà entrare nelle casse delle prime agenzie di viaggio siderali, più di un miliardo e mezzo di dollari. Con vendite in aumento del 40 per cento ogni anno. Troppo ottimismo? Secondo un recente sondaggio, il 65 per cento degli intervistati sarebbe disposto a pagare tanto pur di viaggiare nello Spazio. Il 45% comprerebbe tranquillamente un biglietto da 50 mila dollari per un viaggio orbitale. Vista la domanda crescente occorre muoversi: viaggi più brevi. Come quelli organizzati, per sei passeggeri al massimo, da Virgin Galactic: 90 minuti a 56 miglia di altitudine, provando per alcuni minuti una sorta di micro-gravita. E poi c’è sempre Marte, a portata di volo: “Space X” di Elon Musk, spera di poter entro il 2024 i primi turisti sul mare. Sperando che i vetri dell’Its di Space X, non vadano in frantumi.

Un algoritmo ci salverà dal Clima “impazzito”. La Terra è in pericolo? Ci pensa la geoingegneria a salvarlo. Ma non pensiamo che sia qualcosa di fantascientifico: si basa su pratiche realizzabili, indirizzate naturalmente verso la riduzione di emissioni di carbonio. Una di queste pratiche è il rimboschimento. Anche perché, di spazio sulla Terra ce n’è: potrebbero esserci 500 miliardi di alberi in più, aumentando l’area boschiva di più del 25 per cento. Oltre agli interventi di silvicoltura, esistono altre soluzioni per provare a “raffreddare” il Pianeta. Tra questi, immettere particelle di solfato nell’atmosfera, a temperature più basse, a 0,3° C, se ripetuto per 15 anni costerebbe 2,25 miliardi di dollari all’anno. Per capirci, solo nel 2018 sono stati spesi 330 miliardi di dollari in energia pulita.

L’agricoltura prende l’ascensore. I settori interessati sono agricoltura, trasporto e imballaggio. Le cose starebbero così: se la Terra è super sfruttata, tanto vale creare un’agricoltura in verticale, o preservarla in serra. I numeri sorprendo sempre: l’Olanda, 270 volte più piccola degli Usa, è il secondo esportatore di alimenti nel mondo. Il mercato dell’orticoltura in serra dovrebbe crescere del 7,6 per cento, per un valore di 41,8 miliardi di dollari entro il 2025.

“Lifi”, la luce intelligente. Lo spettro di luce visibile a infrarossi è 2.600 volte più ampio dello spettro di radiofrequenza a 300 GHz. In pratica, dopo il 5G, il Wifi ed il Bluetooth, “Lifi”, il sistema di trasmissione dati attraverso le lampadine a Led, potrebbe alleggerire la pressione di dati sulla rete. Il mercato (apparecchiature di telecomunicazione, di illuminazione e fabbriche intelligenti) lo sta capendo: nel 2028 dovrebbe raggiungere la cifra di 35,82 miliardi di dollari.

Piccole ma importanti: dal tennis alla scienza. Un’altra delle quindici tecnologie che ci cambieranno la vita, è rappresentata dalle Nanotecnologie. I settori applicativi sono tanti e diversi: dalla genetica all’automotive, dalla chimica alla tecnologia digitale. Ma è nella vita di tutti i giorni e negli oggetti che utilizziamo il segreto di un futuro che già circonda: dai microchip dei computer ai nano materiali delle racchette del tennis. E poi, le nanotecnologie possono costituire una miniera d’oro per le start-up, in grado di attirare finanziamenti per applicazioni in campi diversi: dalle scienza della vita all’energia, fino alle industrie in generale.

Non sfugge nulla alla prova biometrica. Iniziamo subito dai settori interessati: finanza, sicurezza, e-commerce e istruzione online. Per tutti questi campi, la Biometria è la loro salvezza. Per un mercato che, entro sei anni appena, raggiungerà i quattro miliardi di dollari. Esistono due differenti riconoscimenti biometrici: statici e comportamentali. I secondi garantirebbero più sicurezza dei primi. Ma sui primi si sta lavorando tantissimo. Prendiamo, per esempio, le impronte digitali, tipico caso di dato biometrico statico: ormai, sono crittografate e a prova di hacker. Non solo. Esiste una piattaforma, “BioCatch”, in grado di riconoscere l’identità dell’utente attraverso piccoli impercettibili particolari: dal movimento della mano sul mouse al tipo di reazioni che si hanno nel momento dell’autoidentificazione.

Forte, sottile e Grafene. E’ il materiale più sottile al mondo. Ma questo non lo intimidisce proprio, essendo anche il più forte. Il suo tallone d’Achille? Più nostro, per la verità: non si è riusciti ancora ad accedere al grafene di buona qualità, per svilupparne tutte le sue applicazioni: su tutte, quella dei semiconduttori, arrivando a sostituire il silicio.

L’energia che scalda più del sole. Sarebbe la panacea dell’energia. E’ la fusione nucleare, alla quale si arriva soltanto superando i 100 milioni di gradi Celsius: sei volte la temperatura del sole. “The International Thermonuclear”, il più grande reattore a fusione nucleare è pronto al 65 per cento, e dovrebbe essere ultimato nel 2025. Intanto, i due uomini più ricchi del Pianeta, come Bill Gates e Jeff Bezos, hanno iniziato a mettere gli occhi sopra la produzione di energia tramite fusione nucleare: i progetti sostenuti dai due, dovrebbero essere pronti entro il 2024.

L’uomo e le tecnologie intelligenti. E’ iniziata la sfida, che va sotto il nome di “Singolarità tecnologica”. La tecnologia fa progressi, ma se continuasse ad accelerare, gli umani saprebbero tenerne il passo? L’Intelligenza artificiale già sta facendo il suo: più di 20 anni fa, il mitico campione di scacchi, Kasparov, fu battuto da una macchina. Se arriveremo mai ad una situazione di “Technological Singularity”’? Per i futurologi sarebbe la fine. Per chi crede ai film di Kubrick (vi ricordate la fine che fa Hall 9000, il supercomputer di bordo nel film “2001: Odissea nello spazio”?) potrebbe andare diversamente.

Tutte le piccole grandi cose che hanno fatto la Storia. Due studiosi britannici raccontano gli oggetti a cui nessuno pensa, ma che hanno cambiato il nostro destino. Matteo Sacchi, Martedì 12/11/2019, su Il Giornale. Ci sono tanti modi di guardare la Storia. Quello di Sam Willis e James Daybell è molto particolare. Sia chiaro sono storiografi titolatissimi: Willis (1977) è uno dei massimi esperti di guerre navali dall'Invincibile Armada alla battaglia di Trafalgar, Daybell insegna all'Università di Plymouth ed è membro della Royal Historical Society. Però da anni portano avanti una serie di podcast Histories of the Unexpected. Queste audio lezioni trasmesse in rete, e seguitissime dal pubblico anglofono, sono state trasformate in un volume che è arrivato in Italia per i tipi del Saggiatore (pagg. 514, euro 35). Nei podcast come nel volume i due professoroni raccontano la storia dell'umanità sfruttando gli oggetti e le invenzioni più strane e impensabili. Qui ve ne offriamo qualche esempio. Tra le centinaia che si trovano nel volume.

GUANTI. I guanti hanno fatto la Storia? Sì. Vedete un quadro di una dama del tardo Cinquecento o del primo Seicento che porta un guanto sì e uno no? Significa che la dama era di facili costumi. O che voleva fare una proposta esplicita all'uomo a cui il quadro veniva donato. Cosa si regala ad un monarca? Spesso dei guanti visti come simbolo di potere. Però alla fine, scusate il gioco di parole, il guanto era un regalo da maneggiare coi guanti. Sir William Cecil (1520-1598) sconsigliava alla regina Elisabetta I di accettare in dono guanti. Potevano essere avvelenati durante la concia. Oddio spesso li lavoravano con sostanze che noi considereremmo tossiche e quindi l'avvelenamento poteva essere anche involontario.

BARBA. Segno di civiltà o di barbarie? Salubre o sporca? Virile o da debosciati? La guerra tra pogonofili (pro barba) e pogonofobi (inorriditi dalla peluria facciale) dura dal tempo dei romani. C'era chi se la faceva crescere, a imitazione dei greci e chi la deplorava in nome del mos maiorum come Catone il censore (234-149 a.C.). Per molti germani invece era un segno di debolezza. Ci si poteva radere solo dopo aver ucciso il primo nemico in battaglia. Non così per i vittoriani dopo la guerra di Crimea (1853-1856). Quando i valorosi soldati della Regina tornarono a casa con dei barboni pazzeschi tutti iniziarono ad imitarli per sentirsi virili. Insomma lo status sociale è anche questione di peli. Ma il modo di intenderli cambia di continuo.

POLVERE. Dust if you must scriveva Rose Milligan ma la polvere è una questione notevole per gli storici, quasi più che per le casalinghe. Ad esempio l'inizio dell'era industriale è l'inizio di un'era piena di polveri... Raccoglierle nelle città divenne un vero e proprio affare. Non si trattava solo di salute pubblica, venivano reimpiegate per fabbricare i classici mattoni delle casette vittoriane. E nelle fabbriche la polvere era un vero incubo per gli operai tanto da aver gettato le basi per la nascita della medicina del lavoro. Nei primi dell'Ottocento Greta Thunberg sì che avrebbe avuto motivi di gridare allo scempio ecologico. E anche la polvere dei deserti conta. Le tempeste passate alla storia sotto il nome di Dust Bowl hanno contribuito alla Grande depressione quanto la borsa anche se non se lo ricorda quasi nessuno.

PRURITO. La storia è fatta anche di pulci. In epoca di peste sentire un prurito poteva essere anche questione di vita o di morte. C'è tutta una storia fatta di metodi per catturare le pulci. Quello a cui Willis e Daybell dedicano più spazio? Una fiala d'avorio conservata al Louth Museum nel Lincolnshire. La si riempiva di sangue o lardo e la si metteva al collo sperando che attirasse le pulci.

CICATRICI. Una foto dello schiavo Gordon fuggito dalle piantagioni della Louisiana nel 1863 raccontò senza nemmeno una parola la crudeltà dello schiavismo. Bastarono le cicatrici sulla sua schiena. Quella fotografia pubblicata dai giornali nordisti divenne un potentissimo strumento di propaganda nordista. Per Otto von Bismarck (1815-1898), l'artefice della riunificazione tedesca, invece le cicatrici erano un biglietto da visita. Sostenne 25 duelli nel primo anno di università. Considerava l'enorme cicatrice che portava in viso una sorta di garanzia delle sue qualità guerriere. Per gli Junker erano un vero e proprio status. Oggi i politici preferiscono i selfie. Ma le cicatrici che più hanno fatto storia sono quelle prodotte dal vaiolo. Nel libro di Willis e Daybell però troverete anche molto altro: l'importanza degli orologi rotti, la lunga vicenda delle bolle di sapone, una cronologia del pianto, l'importanza delle scatole nelle vicende umane, l'utilizzo dei sogni da parte di politici, re e regine per fare scelte politiche, l'utilizzo delle nuvole che facevano gli esploratori...

Insomma farete un viaggio alternativo nel passato a partire dal dettaglio che nei manuali di storia non entra. Ma attenzione è tutt'altro che un gioco. Il capitoletto sulla graffetta conta in bibliografia ventinove testi consigliati. Ci sono saggi interi che ne contano meno.

·         Scoperti in Calabria due nuovi minerali: la Linarite e la Connellite.

Scoperti in Calabria due nuovi minerali: la Linarite e la Connellite. Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 da Corriere.it. Si chiamano Linarite e Connellite. E sono due nuovi minerali scoperti da un team dell’Università della Calabria, dell’Università di Bari e dell’Arpacal di Cosenza nella miniera dei Barite, a Catanzaro, dove un anno fa gli stessi ricercatori avevano scoperto un altro nuovo minerale: la Wulfenite. A distanza di poco più di un anno i ricercatori Andrea Bloise e Domenico Miriello (Unical), Luigi Dattola (Arpacal Cosenza), e Ignazio Allegretta e Roberto Terzano (Università di Bari), firmano un nuovo articolo (pubblicato sulla rivista Data in Brief), in cui si annuncia la scoperta di altri due minerali. Si tratta della Linarite, un solfato di rame e piombo e la Connellite, un solfato idrato di rame: di dimensioni millimetriche e sub-millimetriche, sono entrambi di colore blu acceso. Il rettore dell’Università della Calabria, Gino Mirocle Crisci, ha manifestato la sua soddisfazione per l’importanza della scoperta. «Queste scoperte sono la dimostrazione di come lo studio delle Scienze della Terra possa restituire alle nostre risorse naturali l’importanza che meritano nel panorama internazionale e rappresentano la naturale conseguenza delle ricadute che la terza missione può avere sul contesto socio-economico, mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze dall’Università al territorio». Domenico Miriello e Andrea Bloise, in occasione della prima scoperta, avevano dichiarato che «negli ultimi anni sono state sviluppate tecnologie innovative che consentono di esplorare il mondo delle micro-mineralizzazioni senza distruggere i preziosi minerali; si tratta di un filone di ricerca totalmente inesplorato in Calabria che, in un futuro assai prossimo, offrirà altre interessanti scoperte».

·         L'ultimo giorno dei dinosauri.

L'ultimo giorno dei dinosauri. Un meteorite 10 miliardi di volte più potente della bomba di Hiroshima, il cielo oscurato dalla CO2 e un gigantesco tsunami. Un nuovo studio sulle 24 ore finali dei grandi rettili. Emanuela Fontana, Mercoledì 11/09/2019, su Il Giornale. Un enorme tsunami si sollevò e inondò il centro America fino ai laghi del nord degli Stati Uniti. Bruciarono alberi a oltre mille chilometri di distanza e nel cielo si sollevò una nube di zolfo che bloccò il passaggio dei raggi del sole per un periodo di trent'anni, condannando la Terra a un interminabile inverno. Creature che avevano popolato i continenti fino a quel momento sparirono per sempre, e il giorno in cui il mondo si oscurò fu l'ultimo dell'impero dei dinosauri: da quel momento iniziarono a morire, fino alla completa estinzione. La cronaca della più grande apocalisse della storia del nostro pianeta è raccontata ora per ora dall'analisi delle rocce dello spaventoso cratere che si creò dopo l'impatto della Terra con un asteroide che, piombando sul Golfo del Messico, provocò un foro di 28 chilometri di profondità e 100 di diametro. I sedimenti rocciosi dicono che cosa avvenne nelle prime 24 ore di quell'inferno di 66 milioni di anni fa, l'ultimo giorno dei dinosauri, spartiacque tra l'era del Mesozoico e quella del Cenozoico. Lo studio, pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, ha analizzato un campione di roccia di circa mille metri estratto dal margine del cratere di Chicxulub, a poca distanza dalla penisola dello Yucatan, attraverso trivellazioni durate tre anni. Come gli anelli del tronco di un albero, il campione racconta attraverso la sequenza dei sedimenti i dettagli del giorno che cambiò la storia della terra, dopo che una mostruosa palla di fuoco così doveva apparire a un osservatore che si trovasse in quel momento a osservare il cielo - piombò sul Messico. Spiega quali materiali si depositarono per primi e a quale velocità. L'urto del meteorite avrebbe generato un'energia dieci miliardi di volte più potente di quella sprigionata dalla bomba di Hiroshima. Avrebbe quindi liberato 425 miliardi di tonnellate di anidride carbonica e 325 di zolfo. Il gigantesco tsunami che seguì l'impatto trascinò acqua fino a 2500 chilometri di distanza. In appena 24 ore il cratere si riempì di 130 metri di sedimenti. Gli strati più inferiori, di circa 40-50 metri, formati da rocce fuse, si depositarono secondo i ricercatori nei primi minuti dopo il collasso. Un'ora dopo si sarebbe formato un successivo strato di suevite, una breccia composta da frammenti vetrosi e cristalli. La montagna creata dai residui dell'esplosione si elevò poi di un altro strato di circa 80 metri di sedimenti fini, con materiale organico trasportato dall'acqua, oltre a carbone vegetale, generato dagli incendi e alla ricaduta di rocce incandescenti. Inizialmente si sprigionò dunque un grande calore, che potrebbe addirittura aver incendiato alberi «a 1500 chilometri di distanza», secondo quanto afferma il coordinatore dello studio, Sean Gulick, professore dell'Istituto di Geofisica dell'Università del Texas. Ciò che ha colpito i ricercatori è l'assenza di solfuri. La tesi è che l'impatto dell'asteroide avrebbe provocato l'espulsione nell'atmosfera di enormi quantità di zolfo. La nube avrebbe oscurato il sole. «Modelli climatici che hanno stimato soltanto cento miliardi di tonnellate metriche di zolfo - prosegue Gulick - suggeriscono una caduta globale della temperatura di 25 gradi». Il gelo durò almeno trent'anni, e sarebbe stata questa la causa della rivoluzione della vita sulla terra, con la morte della maggior parte delle creature e la nascita di una nuova era. «Ci troviamo di fronte all'evidenza empirica della correlazione tra l'impatto e la grande estinzione», sostiene un altro dei ricercatori, Jaime Urrutia, dell'Università Nazionale Autonoma del Messico. Alcuni dinosauri «furono bruciati» dalla ricaduta di materiale incandescente. Altri «congelarono», spiega Gulick. Il giorno dell'impatto con l'asteroide si creò quindi «un inferno breve e localizzato», seguito da un «raffreddamento globale».

·         Loch Ness, svelato il mistero (forse):  il mostro è un’anguilla gigante.

Loch Ness, svelato il mistero:  il mostro è un’anguilla gigante. Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Corriere.it. Svelato il mistero del mostro di Loch Ness: non si tratterebbe di una fantastica creatura preistorica, ma molto più semplicemente di una … gigantesca anguilla. È il risultato della più grande ricerca mai compiuta nelle acque del lago scozzese, condotta analizzando il Dna di 250 campioni d’acqua prelevati in diversi punti: ebbene, non c’è traccia di rettili, né viventi né estinti, il che fa giustizia della teoria che nel Loch Ness possa vivere un dinosauro sopravvissuto all’estinzione. Così come è stata scartata l’ipotesi che si possa trattare di un gigantesco storione o di uno squalo della Groenlandia, finito nel lago per sbaglio. Invece, c’è abbondante presenza di Dna di anguille: e dunque gli scienziati non escludono che gli avvistamenti del mostro siano dovuti a qualche gigantesca anguillona, che può crescere fino a tre metri di lunghezza. Dal VI secolo, quando la leggenda ha cominciato a prendere corpo, ci sono stati un migliaio di avvistamenti della misteriosa creatura: anche se la foto più celebre è stata smascherata come un falso. E’ una storia che continua ad attrarre visitatori sulle sponde del lago e che genera introiti turistici per quasi 50 milioni di euro l’anno: anguilla o non anguilla, gli abitanti della zona sperano comunque che la leggenda non si estingua.

Erica Orsini per Il Giornale il 7 settembre 2019. Il mostro di Loch Ness potrebbe essere un'anguilla gigante. Dopo decenni di avvistamenti che hanno contribuito alla nascita di un mito dal fascino ancora intatto, uno dei più grandi studi sul Dna delle specie animali che vivono nelle acque di Loch Ness sarebbe vicino a svelare il mistero. La creatura acquatica che ha ispirato decine di libri e film e che ancora attira migliaia di turisti in Scozia, alla fine sarebbe soltanto un anguilla più grande delle altre. Lo ha rivelato un team di scienziati neozelandesi della Otago University che hanno esaminato e studiato la presenza di più di 3mila specie animali che per un periodo più o meno lungo hanno avuto un contatto con le acque del lago. Molte di queste specie sono estremamente piccole e sebbene gli studiosi siano riusciti a trovare elementi dei Dna più diversi, dai maiali ai cervi, dagli spinarelli agli esseri umani, non hanno mai trovato tracce di qualche mostro. Tuttavia, il professor Neil Gemmell, che ha coordinato lo studio, ha detto di non poter escludere che in quest' area non possano essersi sviluppate anguille di dimensioni molto grandi. Ma anche in questo caso, tutto dipende da che cosa s' intende per molto grandi. Difficilmente le anguille a cui allude il professor Gemmell potrebbero raggiungere le dimensioni di creature preistoriche come il pleasiodauro che alcuni dicono di aver avvistato. Non sono state trovati nemmeno prove del Dna di otarie o balene. Ad ogni modo il nuovo studio riporta alla ribalta la leggenda di questa creatura fantastica che avrebbe popolato le acque di Loch Ness e che sarebbe stata vista per la prima volta nel 1930. A dare la notizia era stato il Corriere di Inverness che raccontò di «uno strano spettacolo a Loch Ness». Nel 1933, il corrispondente del quotidiano Fort Augustus, Alec Campbell, raccontò l'avvistamento di Nessie, da parte della signora Aldie Mackay. Gary Cambell, curatore del registro degli avvistamenti del mostro, ne riceve annualmente, in media almeno dieci e più di 400mila turisti visitano il luogo ogni anno. Numeri che rivelano un interesse mai sopito. Negli ultimi decenni ci sono stati moltissimi tentativi di provare l' esistenza del mostro. Nel 2003 persino la Bbc finanziò una ricerca che prevedeva l' utilizzo di 600 ecoscandagli e che si concluse con un nulla di fatto. Gemmell ha spiegato chela presenza sostanziosa di Dna di anguilla ha lasciato sorpresi sia lui che la sua squadra. Con uno sguardo impassibile ha aggiunto: «Al momento non sappiamo se questo Dna appartenga ad un anguilla gigante oppure riveli la presenza di molte anguille più piccole. Quello che sapevamo fin ad ora è che questi animali normalmente migrano qui per riprodursi, invece, non si sa per quale ragione, non lo fanno. Anziché riprodursi continuano a crescere». Ciononostante a Loch Ness non è mai stata pescata un' anguilla gigante. Quella più grande pesava circa 5 chili e mezzo. «Non proprio un mostro, non è vero? ha commentato il docente però, basandoci sulle prove che abbiamo accumulato, non possiamo escludere la possibilità dell' esistenza di un' anguilla enorme». Mostruosamente enorme, sperano i fan della leggenda. Una delle teorie preferite sul mostro di Loch Ness è che si tratti di un animale preistorico, sopravvissuto all' estinzione dei dinosauri, ipotesi che Gemmell ha subito escluso. «Esiste un plesiosauro in queste acque? No, non abbiamo trovato alcuna prova in merito a questa possibilità ha detto Gemmell quindi escluderei la presenza di un rettile gigante da queste parti».

Loch Ness, svelato il mistero: "È veramente esistito, ecco cosa era". In una conferenza stampa che si è tenuta a Drumnadrochit, paese che si affaccia sul leggendario lago scozzese, un'equipe di scienziati neozelanesi ha rivelato una nuova scoperta. Davide Bartoccini, Giovedì 05/09/2019 su Il Giornale. Per l'equipe di scienziati non c'è dubbio: il mostro di Loch Ness è esisto, ma non si è mai trattato di un rettile marino preistorico gigante come la leggenda ha sempre voluto far credere. Il team guidato dall’esperto di genetica Neil Gemmell, dell’Università di Otago in Nuova Zelanda, ha rivelato oggi di aver trovato tracce di Dna di una specie di anguilla che può raggiungere considerevoli dimensioni e che abitualmente abita il Mare dei Sargassi vicino alle esotiche isole Bahamas. Lì l'animale è solito generarsi e deporre di anno in anno le uova, prima di intraprendere lunghissime migrazioni che posso portarlo anche a una distanza di 5mila chilometri. Nessun Pleisosauro dunque, nessuno squalo gigante della Groenlandia o creatura mitologica sconosciuta e sopravvissuta per chissà quanto tempo nelle profondità del lago fino a diventare leggenda in tutto il mondo; ma delle grandi anguille che secondo gli scienziati, dal mare delle Bahamas sarebbe migrate e avrebbe risalito fiumi e "loch", e che passando per quello che oggi è il canale di Caledonia, avrebbero raggiunto il lago di Loch Ness, dove gli abitanti l'avrebbero "avvistate" nei secoli, credendo che si trattasse sempre del medesimo esemplare poi battezzato come il nome di Nessie. Questa è la spiegazione "biologica” e "scientifica" presentata oggi da una squadra internazionale di esperti all'attenzione degli inviati della stampa che hanno partecipato alla conferenza che si è tenuta a Drumnadrochit, paesino che affaccia sul lago e che ha sempre vantato il maggior numero di avvistamenti del "mostro". "Non possiamo escludere la possibilità che a Loch Ness ci siano anguille giganti e che la gente le abbia viste e descritte come il mostro del lago" ha affermato il capo del team che ha condotto la ricerca nel tentativo di sfatare definitivamente un mito perdurato per secoli e secoli. "Abbiamo usato la scienza per aggiungere un altro capitolo alla storia di Loch Ness" ha proseguito il capo del team, spiegando come in questi anni gli scienziati abbiano raccolto e analizzato oltre 250 campioni dell'acqua del lago gelido che raggiunge una profondità di oltre 200 metri, per estrarre 500 milioni di sequenze del Dna e avvicinarsi alla risoluzione nel mistero. Questa minuziosa ricerca ha rivelato come l'esistenza di una grande creatura marina nel lago sia quindi da considerarsi "plausibile", precisando però al contempo che non è stata rinvenuta alcuna traccia di creature quali balene, pesci gatto, squali preistorici e tantomeno dinosauri. Possiamo dunque apporre, forse, la parola fine ad una leggenda che perdura dal 565 dopo cristo; quando una missionaria irlandese avrebbe raccontato di essersi imbattuta - per la prima volta - in animale gigantesco che abitava il fiume Ness. Da allora oltre mille casi hanno reclamato l'avvistamento della creatura; otto solo nell'ultimo anno, quando i più accaniti sostenitori della leggenda - che ha fatto accorrere turisti dai quattro angoli del mondo - hanno spiegato che surriscaldamento globale era certamente un complice nel far rivelare più frequentemente il mostro, abituato a nascondersi e nutrirsi nelle profonde e gelide acque dove si specchia il diroccato e affascinate castello di Urquhart.

Il mostro di Loch Ness era in realtà un'enorme anguilla? I ricercatori dell’università di Otago, in Nuova Zelanda, hanno provato a catalogare tutte le specie animali esistenti nel lago scozzese estraendone il DNA dai campioni di acqua. E sono giunti ad una conclusione su Nessie. Sonia Montrella il 5 settembre 2019 su La Repubblica. Nessie, il celebre mostro di Loch Ness, potrebbe essere una gigantesca anguilla. Mostruosa - se così fosse - ma non irreale. È l’ultima tesi sulla leggenda di Nessie formulata dai ricercatori dell’università di Otago, in Nuova Zelanda. Gli studiosi hanno provato a catalogare tutte le specie animali esistenti nel lago scozzese estraendone il DNA dai campioni di acqua. Lo scopo non era quello di appurare l’esistenza della creatura leggendaria ma di ampliare la conoscenza sulla fauna e flora che popolano lo specchio d’acqua. Dai test è emerso che nel lago "c'è una quantità molto significativa di DNA di anguille”, ha spiegato alla BBC Neil Gemmell. “Il loro DNA si trova praticamente in ogni luogo campionato”. Ma come sappiamo che sono giganti? “I nostri dati non rivelano le loro dimensioni, ma la quantità di materiale suggerisce che non possiamo scartare la possibilità che ci siano anguille giganti a Loch Ness. Pertanto non possiamo scartare la possibilità che ciò che la gente vede e credo che il mostro di Loch Ness potrebbe essere un'anguilla gigante”. Gli studiosi hanno anche escluso la presenza di quegli animali indicati come possibili Nessie: plesiosauro o  elasmosauro, rettili marini preistorici sopravvissuti in qualche modo all'estinzione. “Sulla base dei dati che abbiamo ottenuto, non credo che l’ipotesi relativa al plesiosauro regga”, ha commentato ancora Gemmell. “E non c'è nemmeno DNA di squalo su tutto il nostro campionamento. O di pesce gatto. O di storione”. Il mostro di Loch Ness è uno dei miti più antichi e duri a morire della Scozia. Ispira libri, programmi TV e film e alimenta una grande industria turistica. La storia del mostro può essere fatta risalire a 1.500 anni fa, quando, stando a quanto si narra, il missionario irlandese St Columba incontrò una bestia nel fiume Ness nel 565 d.C. Più tardi, negli anni '30, The Inverness Courier riferì il primo avvistamento moderno di Nessie. Nel 1933, la corrispondente del quotidiano Fort Augustus, Alec Campbell, scrisse di un avvistamento su ciò che si credeva fosse Nessie: una creatura simile a una balena che si agitava e precipitava nell’acqua.  L'editore all'epoca, Evan Barron, suggerì che la bestia fosse descritta come un "mostro", dando vita al moderno mito del mostro di Loch Ness​. Nel 1934, un chirurgo britannico molto rispettato, il colonnello Robert Wilson, affermò di aver scattato una fotografia del mostro mentre guidava lungo la costa settentrionale di Loch Ness. Conosciuta come "Surgeon's Photograph” (La foto del chirurgo), è stata dichiarata una bufala confezionata ad arte 60 anni dopo. Il "mostro" catturato dalla telecamera era apparentemente un sottomarino giocattolo acquistato da Woolworths, con una testa modellata con stucco di legno. Nella sua ricerca su Nessie, il paleontologo di Glasgow, Neil Clark,  ha scoperto che fiere e circhi erano un evento comune nell'area di Inverness ll'inizio degli anni ’30. E sulla base di questa scoperta, ha teorizzato che Nessie altro non fosse che un elefante che nuotava nel lago mentre le carovane del circo si fermavano per far riposare gli animali. Un'altra teoria è che i grandi rami caduti che galleggiano nel lago sono la causa di avvistamenti di mostri.

MISTERO RISOLTO (FORSE). Il mostro di Loch Ness è un’anguilla gigante. Parola di scienziati. In una conferenza stampa a Drumnadrochit, paese sul celebre lago, il team di scienziati, guidati dall’esperto di genetica Neil Gemmell dell’Università di Otago in Nuova Zelanda, ha rivelato di avere trovato nell’acqua tracce del Dna di anguille. Nicol Degli Innocenti su Il sole 24 ore il 5 settembre 2019. Il mistero millenario di di Loch Ness è risolto: parola degli scienziati. Il mitico mostro nel lago scozzese è in realtà un’anguilla gigante. Questa la “spiegazione biologica” presentata oggi da una squadra internazionale di esperti. In una conferenza stampa a Drumnadrochit, paese sul celebre lago, il team di scienziati, guidati dall’esperto di genetica Neil Gemmell dell’Università di Otago in Nuova Zelanda, ha rivelato di avere trovato nell’acqua tracce del Dna di anguille. «Non possiamo escludere la possibilità che a Loch Ness ci siano anguille giganti e che la gente le abbia viste e descritte come il mostro del lago», ha detto Gemmell.

La ricerca sulle tracce di Dna. Gli scienziati nell’ultimo anno hanno raccolto oltre 250 campioni di acqua del lago a diverse profondità. I campioni – 500 milioni di sequenze del Dna - sono stati poi analizzati per estrarre e identificare il Dna ambientale e catalogare ogni forma di vita presente in Loch Ness, dalle piante agli insetti e dai pesci ai mammiferi. «Abbiamo usato la scienza per aggiungere un altro capitolo alla storia di Loch Ness», ha detto Gemmell, precisando che non hanno trovato alcuna traccia di Dna di altre creature come storioni, balene, pesci gatto, squali o tantomeno dinosauri. Le loro ricerche e analisi dimostrano che la teoria dell’esistenza di una creatura vivente nel lago scozzese è plausibile e non solo frutto di fantasia. Le anguille migrano dal mar dei Sargassi vicino alle isole Bahamas e percorrono cinquemila chilometri per raggiungere i fiumi e i laghi della Scozia.

Una leggenda che viene da lontano. Il mito del mostro, affettuosamente chiamato “Nessie”, ha origini molto antiche. Secondo la leggenda San Colombano, un missionario irlandese, nel 565 dC avrebbe incontrato un animale gigantesco nel lago Ness. Più di recente la storia è tornata sui giornali nel 1933, quando il giornale locale, l’Inverness Courier, aveva scritto di un avvistamento di un mostro «simile a un dinosauro o ad un animale preistorico» da parte dei coniugi Mackay.

Oltre mille avvistamenti totali. Da allora oltre mille avvistamenti del mostro sono stati registrati dal Centro apposito, l’Official Loch Ness Monster Sighting Register, e continuano a un ritmo di circa dieci all’anno. Quest’anno potrebbe essere battuto il record storico: nei primi otto mesi dell’anno sono stati già segnalati 12 avvistamenti perché, secondo un esperto locale, le temperature calde hanno portato il mostro a emergere in superficie più spesso abbandonando il suo nascondiglio nelle parti più profonde del lago.

Ambiente freddo e inospitale. La squadra di Gemmell ha utilizzato le ultime tecnologie per studiare il fenomeno e lo ha soprattutto preso sul serio. Finora gli scienziati hanno considerato assurda l’idea che un essere vivente potesse vivere nelle acque gelide del lago, che ha un profondità di oltre 230 metri. Il mito del mostro era considerato solo sintomo di credulità popolare e frutto di beffe e messinscena. Il mostro di Loch Ness ha ispirato numerosi libri, film e documentari e continua ad attrarre centinaia di migliaia di turisti da tutto il mondo che ogni anno visitano il lago e il vicino paese di Drumnadrochit nella speranza di avvistare Nessie.

·         I Topi che guidano una macchina.

Nuovo studio rivela: i topi possono guidare una macchina. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 da Corriere.it. I topi possono imparare a guidare l’auto. E lo trovano anche piuttosto rilassante. Non si tratta soltanto di una curiosità legata al mondo dei roditori, ma anche e soprattutto di una scoperta che potrebbe contribuire al progresso della nostra scienza. Lo documenta uno studio compiuto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Richmond, in Virginia, secondo i quali i «modelli comportamentali che includono abilità motorie addestrate [...] sono rilevanti per la ricerca traslazionale relativa alle malattie neurodegenerative e alle malattie psichiatriche». Le cellule celebrali dei topi sono tra le più simili in assoluto a quelle umane. Di qui la volontà degli scienziati di approfondirne le reazioni conseguenti all’apprendimento di nuove competenze. Ai 17 roditori coinvolti nell’esperimento è stato insegnato a muoversi a bordo di una speciale automobilina elettrica - una sorta di barattolo di plastica a quattro ruote - manovrabile appoggiando le zampine su appositi fili di rame. Nello specifico, il loro scopo consisteva nel raggiungere il punto in cui, di volta in volta, i ricercatori sceglievano di piazzare il cibo-ricompensa (cereali da colazione). Si è quindi visto come i ratti non solo riuscissero a coprire distanze sempre più ampie senza difficoltà, ma diventassero anche più abili “al volante”. «Hanno imparato a guidare l’automobilina in modi originali — ha raccontato la scienziata Kelly Lambert — e si impegnavano in percorsi che non avevano mai provato prima». Ma se sorprese non erano finite. Dalle successive analisi è infatti emerso che gli esemplari che erano stati alla guida presentavano livelli di deidroepiandrosterone - ormone che neutralizza lo stress - significativamente superiori a quelli degli animali che erano stati trasportati da remoto. In altri termini, i roditori erano più rilassati quando governavano il veicolo rispetto a quando fungevano da semplici passeggeri. Apprezzavano di essere padroni del proprio movimento e di darsi da fare per raggiungere gli obiettivi prestabiliti. «È la stessa, piacevole sensazione di autorealizzazione che provano gli esseri umani quando imparano a fare qualcosa di nuovo — ha spiegato ancora Lambert —. Sono convinta che i ratti sono più intelligenti di quanto si pensi». L’inaspettata «neuroplasticità» del cervello dei topi potrebbe ora condurre a nuove sperimentazioni. Per esempio, come riferisce la rivista New Scientist, simili test di guida potrebbero essere utilizzati per sondare gli effetti della malattia di Parkinson sulle capacità motorie e sulla consapevolezza spaziale, oppure gli effetti della depressione sull’umore e la motivazione. Quello raggiunto dal team dell’Università di Richmond è quindi un incoraggiante punto di partenza. «Se usassimo modelli più realistici e stimolanti — ha concluso Lambert — potremmo ottenere dati maggiormente significativi».

·         La Scoperta della carta igienica.

NON SOTTOVALUTATE LA CARTA IGIENICA. DAGONEWS il 25 agosto 2019. Ogni epoca ha le sue storie, la sua cultura, i suoi miti. Ma sempre e da sempre, quando arriva il momento, l’uomo ha dovuto trovare il modo di espletare i propri bisogni fisici. Accade oggi, nonostante la tecnologia e l’intelligenza artificiale, accadeva durante il medioevo e nell’antica Roma. In quanto italiani sottovalutiamo spesso il piacere di un bidet, un piacere negato alla gran parte dei nostri predecessori e alla maggioranza delle popolazioni del mondo che preferiscono la pulitura “a secco”. Ma che succede se manca la carta igienica? E’ questo il punto di partenza di Stephen Nash, che su sapiens.org ha fatto un’analisi antropologica e storica di come fosse andare in bagno  - e pulirsi - per un antico romano. La carta igienica - e il bidet - sono una routine che diamo per scontata, tanto da non farci pensare quanto sia indispensabile. Finché non proviamo a farne a meno. Dell’antica Roma tendiamo a incensare le istituzioni, a vedere quell’epoca come un mondo ideale. Se conoscessimo le abitudini igieniche dell’epoca però, forse saremmo più inclini a cambiare idea. I bagni all’epoca dei romani innanzitutto erano pubblici e comuni.  Alcuni di questi luoghi erano molto belli, affrescati e pieni di opere d’arte. I bagni romani avevano una caratteristica che li rendeva molto diversi dai nostri: non avevano lo sciacquone. Spesso c’era soltanto un rivolo d’acqua che scorreva a getto continuo sotto i posti a sedere. Una volta fatto quello che doveva fare, un romano non poteva afferrare un rotolo di carta igienica, ma doveva ricorrere a un tersorium una specie di spazzolone artigianale costruito attaccando una spugna a un bastone di legno. Con quello ci si dava una passata e via. A quel punto l’utensile veniva sciacquato sotto l’acqua e lasciato a disposizione del “cliente” successivo. La tesi però non è condivisa, secondo alcuni storici infatti lo Xylospongium (altro nome del Tersorium) veniva utilizzato per pulire le latrine e anzi, il suo uso era consigliato dall’amministrazione pubblica. La pipì invece veniva accumulata in delle pentole che si tenevano a disposizione a casa e nei luoghi pubblici. Quando si riempivano, venivano svuotati in dei vasi più grandi nelle strade, e poi venivano riutilizzati per lavare i vestiti. L’urina, con il suo alto contenuto di ammoniaca, era infatti considerato un detergente naturale eccellente. Nonostante tutto, ai Romani andava meglio rispetto ai greci, che ricorrevano a sassi, ciottoli o cocci di ceramica. I Romani hanno continuato a usare il tersorium e a lavare i loro vestiti nella pipì per secoli. Un periodo molto più lungo rispetto a quello che l’umanità ha passato utilizzando carta igienica, inventata soltanto nel 1857 da Joseph Gayetty. Nel frattempo, però, nel 1700, era comparso anche il primo bidet. Senza rimpianti per il tersorium. I greci usavano sassi come carta igienica.

·         La Musica che guarisce.

Musica a 432Hz. La particolare frequenza che Guarisce corpo e mente. Lo diceva anche Nikola Tesla. Terrarealtime3.blogspot.com l'8 agosto 2017. Da tempo sappiamo quanto sia benefica l’azione della musica nel nostro corpo, essa può trasmetterci emozioni contrastanti e svariate che penetrano fino al nostro inconscio! Basta pensare alla musicoterapia. Viaggiando e lasciandosi cullare dalla musica, possiamo riceve diverse emozioni: allegria, tristezza, malinconia, energia, benessere, tranquillità ecc. Già questo deve farci riflettere. Tutto ciò che noi possiamo udire (e non solo) è generato da vibrazioni, le quali si misurano in Hertz (Hz), ovvero le oscillazioni al secondo. Lo standard della maggior parte della musica che siamo abituati a sentire è 440 Hz. Ci sono studi che dimostrano che l’universo vibra ad una frequenza diversa, ovvero 432 Hz. Proprio questa sarebbe la frequenza che è in grado di ristabilire in noi un’armonia ed un benessere che arriva fino alla guarigione. Gli studi rivelano che 432Hz è una frequenza interconnessa ai processi fisiologici del DNA del cervello. Attualmente, di norma, tutti gli strumenti vengono accordati considerando il “LA” a 440 Hz. Alla cosiddetta frequenza dell’universo, vengono associati numerosi benefici psicofisici... Essi nono sono benefici finti o ipotetici bensì REALI E TANGIBILI. La sua azione può essere considerata dal “potere curativo“. Le onde sonore, infatti, modificano le caratteristiche corporee quali:

– la respirazione,

– il battito del cuore,

– la sudorazione,

– le onde cerebrali e la risposta neuro-endocrina,

– stimolando l’equilibrio ed il rilassamento della mente e del corpo.

Persino il grande scienziato Nikola Tesla, affermava che se vogliamo conoscere i segreti dell’universo è necessario pensare in termini di energia, frequenza e vibrazioni. Dunque anche il nostro corpo, è costituito da energia che vibra a frequenze diverse. Questo significa che ogni determinato suono emanato ad una certa frequenza agisce in maniera positiva o negativa all’ interno del nostro organismo. Oggi come oggi, grazie alle conoscenze che sono state incamerate è stato possibile unire le informazioni relative alla teoria musicale dei Frattali con il tuning a 432 Hz, per cominciare a comporre la loro musica in modo coerente e in armonia con:

1. il cuore umano (battiti cardiaci)

2. la doppia elica del DNA (frequenza di replicazione)

3. l’intuizione della sincronizzazione bi-emisferica del cervello

4. la Frequenza fondamentale della risonanza di Schumann

5. la geometria musicale della creazione.

Tutto questo è dimostrabile scientificamente. E’ conosciuta come scienza Cimatica, o scienza delle onde. Quest’ultima per chi non lo sapesse, esiste da millenni, tant’è che ne parlavano già i Veda nei loro testi. In pratica secondo la Cimatica, tutto l’universo è una sinfonia di suoni e vibrazioni, quindi questa scienza studia le forme prodotte dalle onde, ossia le frequenze vibratorie, sonore, elettromagnetiche, e cosi via. La musica è prima di tutto un evento corporeo. Qualcosa di reale che noi viviamo sulla nostra pelle. È il senso del tatto a essere totalmente coinvolto dal suono, proprio attraverso la pelle.

·         Mai dire Wi.Fi.

Da 01net.it il 2 ottobre 2019. Sono passati 20 anni dalla introduzione del primo protocollo commerciale WiFi,lo standard 802.11b. Nonostante già all'epoca fosse alta l'attenzione da parte degli appassionati, difficilmente sarebbe stato prevedibile un successo e una diffusione così planetaria delle reti senza fili. La marcia inarrestabile del WiFi ha fatto raggiungere alle connessioni wireless prestazioni incredibili: basti pensare che 802.11b permetteva una velocità massima di 11 megabit, mentre WiFi 6 ha un limite di ben 6 gigabit. Un percorso altrettanto virtuoso è stato fatto (in questi 20 anni di WiFi) nel migliorare la copertura di rete, e la capacità di gestire un numero sempre crescente di utenti contemporanei. Questo aumento esponenziale di prestazioni e diffusione di dispositivi compatibili (erano addirittura 13 miliardi nel 2018) ha creato un mercato di dimensioni impressionanti: nel 2018 si aggirava infatti sui 2000 miliardi di dollari. Al crescere dei device, non poteva certo non seguire un aumento altrettanto vigoroso degli hotspot: secondo le stime Cisco, il numero di hotspot globali supererà i 500 milioni. Ovvero 500 volte di più di dieci anni fa. Sempre secondo la società di networking, Le velocità medie continueranno a crescere: Si prevede che entro il 2022 la velocità media globale di connessione Wi-Fi sarà di 54,2 Mbps, rispetto ai 24,4 Mbps del 2017. Sempre entro lo stesso anno, il Wi-Fi sarà il driver dell'Internet del futuro: il Wi-Fi sarà la fonte principale di accesso a Internet. Lo studio VNI di Cisco prevede che il 59% del traffico Internet passerà attraverso il Wi-Fi. Cisco ha dichiarato: «Oggi il Wi-Fi è una delle tecnologie di rete in più rapida crescita e grazie a essa, Internet è ora disponibile in moltissimi luoghi, spesso dove prima era non era possibile, offrendo un nuovo livello di mobilità, praticità e produttività. Le reti Wi-Fi hanno trasformato il nostro modo di vivere, lavorare, imparare e giocare. Sia che si utilizzi il Wi-Fi per connettersi ai social network, guardare video, giocare, lavorare o digitalizzare la propria attività, la nuova generazione di Wi-Fi 6, insieme alle reti 5G, aprirà una serie di nuove opportunità.»

Telefonia, in 1200 comuni niente campo per i cellulari. Lo studio Uncem: quasi 5 milioni di italiani senza copertura per le reti mobili. E intanto il governo ammette i ritardi sul piano banda ultralarga. Alessandro Longo il 13 Ottobre 2019 su La Repubblica. Ci sono 5 milioni di italiani che hanno difficoltà a telefonare con il cellulare, perché abitano o entrano in zone senza copertura di rete mobile. Sono 1200 i comuni, perlopiù montani ma non solo, a non essere proprio raggiunti dalla rete. Sei milioni di italiani invece hanno difficoltà a vedere i canali Rai e tutto il bouquet televisivo. È quanto risulta da una prima indagine di Uncem, Unione nazionale dei Comuni, delle Comunità e degli Enti montani, che quindi ora lancia l’allarme e un appello, a operatori e alla politica, perché si intervenga. “Ci sono fette della popolazione tagliate fuori dalla modernità e chi potrebbe rimediare finora se n’è interessato pochissimo”, dice Marco Bussone, presidente di Uncem.  “È andata così: abbiamo detto agli operatori, ‘vedete, ci sono tante persone in Italia senza rete cellulare’. Ci hanno risposto di dirci dove. Abbiamo ribattuto: ‘dovreste sapere voi dove: è la vostra rete’. Ma quelli insistevano. Allora abbiamo raccolto 1450 segnalazioni per arrivare a una prima mappa delle zone dimenticate dagli operatori”, dice Bussone. “Ora sta a loro rimediare. Ed è apprezzabile che la loro associazione Asstel abbia subito riconosciuto che il problema esiste e vada affrontata”. Le segnalazioni sono arrivate soprattutto da zone vicine alle alpi e gli appennini; ma anche dalla Sardegna. Come rimediare? Secondo Uncem, lo Stato deve obbligare gli operatori privati ad ampliare le aree coperte. La copertura oggi misurata sul 95 per cento della popolazione (o superiore), non considera infatti che il 5 per cento restante vive nel 15 per cento del territorio del Paese. “Uncem è consapevole che il limite emissivo, tra i più contenuti in Europa, obbliga di fatto gli operatori a installare più impianti per coprire il territorio. Ma tutta l'Italia deve essere coperta”. In secondo luogo, propone Uncem, “AgCom deve permettere ai Comuni (o ai privati, imprese) che vogliono di acquistare ripetitori, installarli e inserirli sulla rete, cosa al momento possibile solo per le antenne tv e non per la telefonia. E che ci possano essere impianti (Bts) mobili anche in base a picchi di flusso turistico. Uncem ritiene questo fronte vada urgentemente percorso, proprio come avvenuto per la banda ultralarga: valutato che in molte aree gli operatori privati non investono, Bruxelles ha autorizzato l'uso di fondi comunitari per il Piano nazionale Bul”.

I ritardi sul piano banda ultralarga. Proprio nei giorni scorsi, il ministero allo Sviluppo economico ha riconosciuto che il piano banda ultralarga è in ritardo nell’attuazione – soprattutto per via delle lungaggini burocratiche dei permessi – e quindi non centreremo l’obiettivo 2020 (fissato nell’Agenda digitale italiana) di coprire l’85 per cento della popolazione con fibra ottica completa. In ritardo anche la fase due del piano (per coprire le aree grigie, dove gli operatori hanno fatto investimenti parziali): non è ancora partito il processo di notifica a Bruxelles e i fondi disponibili sono insufficienti per il fabbisogno delle aree. Secondo Uncem, il piano va ripreso con forza dal Governo e ampliato, sfruttando la nuova programmazione 2021-2027: individuare sui Por Fesr delle Regioni (come già fatto dall'Emilia-Romagna) delle risorse economiche per i ripetitori telefonici. "Si tratta di azioni che vorremmo Governo e Parlamentari condividessero con il sistema di Enti locali - precisa Bussone - La mappatura verrà aggiornata ogni sei mesi, ma a oggi è una solida e unica base per accorciare distanze, ridurre disuguaglianze, limitare sperequazioni territoriali. Le infrastrutture per rendere più moderno e digitale il Paese sono decisive per la competitività dei territori, tutti. La montagna le chiede con urgenza". L’avvio del 5G può essere un’opportunità ma le frequenze adatte per coprire le zone periferiche (700 MHz) saranno disponibili solo dopo il 2022.

I consigli. Nel frattempo, che possono fare i cittadini “dimenticati” dagli operatori? Tante lettere di questo tenore arrivano alla sezione Esperto telefonia di Repubblica.it. Un consiglio generale che si può dare a questi utenti è dotarsi di una buona rete internet fissa, così almeno si chiama da casa via Whatsapp, Skype eccetera. Ci si può dotare di un numero fisso VoIP (per esempio con Messagenet) da usare sulla rete internet fissa e su quello attivare un inoltro delle chiamate che arrivano sul numero mobile (scatterà quando questo non è raggiungibile, cosa che temo succederà abbastanza spesso lì). Bisogna poi sperare che ci sia una copertura Wi-Fi nel Comune, a cui appoggiarsi, basata su rete fissa. Certo non è una soluzione ottimale. Almeno se gli operatori italiani attivassero il WiFi Calling (le chiamate Wi-Fi), da anni disponibili in altri Paesi, sarebbe un grosso passo avanti. Ma i nostri operatori non si sono mai distinti per innovatività a livello europeo (nonostante i proclami e le pubblicità che decantano i servizi innovativi del 5G). Con le chiamate wifi, possiamo fare e ricevere chiamate con il numero della sim anche in assenza di segnale mobile, utilizzando la rete internet fissa. Al momento risulta solo un operatore, business, che dia questo servizio, comune all’estero: Welcome Italia. Alternative? Installare un piccolo ripetitore domestico (come quelli di StellaDoradus), che però in teoria richiederebbe un’autorizzazione per l’uso. Oppure installare un amplificatore di segnale come il Vodafone Booster di Vodafone (n abbinamento a rete banda fissa).

 “5G? CAMPAGNA DI ALLARMISMO INSUSSISTENTE”. Da Radio Cusano Campus il 4 ottobre 2019. L’Avv. Gioacchino Genchi, esperto di informatica, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sul 5g. “La sicurezza delle telecomunicazioni deve essere punto fermo per qualunque governo democratico, in quanto lì transitano i dati più importanti e sensibili. Cosa diversa è la campagna di allarmismo insussistente che si sta facendo sui pericoli della rete 5g. Se le reti sono vulnerabili, ce ne sono già 4, non capisco perché la quinta più avanzata dovrebbe essere più vulnerabili. Se Huawei può controllare gli apparati che produce e commercializza lo può fare anche Apple con IPhone, però che lo facciano gli Usa ci va bene perché siamo abituati. Io sono convinto che non spiano né gli americani con la Apple, né i cinesi con Huawei. Parlo con un’esperienza che non nasce in una facoltà accademica dell’Università, questa cosa a me l’ha insegnata l’università del marciapiede. Per monitorare un solo soggetto, come un mafioso o un pedofilo, occorrono tantissime risorse. Per ciascuno di noi servirebbero 4-5 spioni in servizio permanente che spiassero ogni nostra attività. Il rischio di spionaggio non attiene alla rete nella quale si veicola, la rete è il mezzo di trasporto. Il problema è il device, cioè lo smartphone che produce e genera i dati. L’allarme lanciato dagli Usa? Il problema sostanziale è di mercato. Huawei ha investito in tecnologia e fa dei prodotti che ha superato la Apple. L’antitrust farebbe bene a intervenire perché in Italia è in atto una truffa colossale sul 5g, le compagnie telefoniche hanno annunciato, fanno gli abbonamenti, e poi non c’è la rete. Ho girato tutta Roma e non prende questa rete 5g, non sta neanche davanti al Quirinale. Noi non siamo spiati in tempo reale. Il problema si pone nella produzione dei dati che andiamo a fare: messaggi, email, accessi a determinati siti. Sono cose che hanno un valore. L’accesso alla cronologia web di un soggetto ha un valore pari ad almeno un Euro a click. Se io vado a vedere di acquistare un aspirapolvere su internet che posso anche acquistare da remoto, chiunque gestisca il mio provider e il browser con cui io faccio una ricerca già ha un patrimonio di informazioni. Loro riescono a stilare un profilo di ognuno di noi. Oggi con il big data si governa il mondo perché quando io capisco cosa vogliono le persone, sono in grado di somministrargli i prodotti che vogliono e indirizzare anche le scelte politiche. Oggi i dati sono il vero potere”.

·         Come funziona Starship, l’astronave di Musk che porterà l’uomo su Marte.

Come funziona Starship, l’astronave di Musk che porterà l’uomo su Marte. Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 su Corriere.it da Davide Urietti. Ad ottobre partiranno i primi test di lancio, ma intanto la NASA polemizza sui ritardi relativi a Crew Dragon, la navicella che in futuro riporterà gli astronauti sulla Luna. Alto 50 metri, in acciaio inossidabile e pesante 1.270 tonnellate a pieno carico con il carburante: sono queste alcune delle caratteristiche del prototipo Starship, il veicolo spaziale che dovrà portare l’uomo su Marte e nello spazio profondo. Ne ha parlato, in una lunga presentazione, il Ceo di SpaceX, Elon Musk, che ha anche spiegato i prossimi obiettivi nello sviluppo del razzo. «Proveremo a raggiungere l’orbita entro sei mesi - ha dichiarato il miliardario sudafricano -. Se i miglioramenti nella progettazione e nella costruzione continueranno a essere esponenziali, penso sia possibile». I piani di SpaceX, quindi, procedono velocemente: tra luglio e agosto, infatti, Starhopper, la versione ridotta di Starship, ha concluso positivamente due lanci e due atterraggi. In particolare, nel secondo tentativo, il prototipo ha raggiunto i 150 metri di altezza, stando in aria per circa un minuto prima di atterrare. Adesso toccherà al fratello maggiore, i cui permessi per il primo lancio sono già stati concessi dalle autorità americane. Dal 13 ottobre, quindi, l’obiettivo sarà compiere la stessa manovra anche se le distanze da percorrere saranno diverse: nei test suborbitali, Starship dovrà raggiungere i 65.000 piedi, pari a circa 20 km, e in seguito atterrare in sicurezza. Nei piani di SpaceX, infatti, è previsto il riutilizzo, per più missioni, del veicolo e del razzo di lancio. A proposito di quest’ultimo, si chiamerà Super Heavy e sarà alto 68 metri. Potrà essere alimentato fino a 37 motori Raptor, ma secondo Musk il numero potrà variare a seconda dell’utilizzo e della missione, a patto che il minimo sia 24. Avranno un ruolo decisivo nel portare in orbita il pesante Starship: non potrà essere fatto con un’unica mossa, per questo motivo il veicolo non sarà lanciato a pieno carico e, dopo un primo stadio, stazionerà in attesa che venga rifornito del propellente necessario a compiere viaggi più lunghi nello spazio. A livello teorico è ben chiaro il funzionamento, resta da capire se nella pratica avverrà tutto senza problemi.

·         Il Sabotaggio dei razzi spaziali.

Un razzo italiano cade nell’Atlantico: i servizi temono un sabotaggio. Paolo Mauri su it.insideover.com/guerra il 25 agosto 2019. Lo scorso 11 luglio il razzo Vega 15 avrebbe dovuto mettere in orbita il primo satellite spia degli Emirati Arabi Uniti, il Falcon Eye 1, ma il vettore, poco dopo il lancio dal poligono di Kourou nella Guyana francese, perde quota e si inabissa nell’Oceano Atlantico. L’incidente è stato il primo che ha coinvolto il razzo Vega, progettato per il 70% dalla Avio Spa di Colleferro: dopo circa due minuti di volo, all’accensione del secondo stadio (chiamato Zefiro 23), un’anomalia diffusa dei sistemi ha provocato una drastica diminuzione della spinta che ne ha causato lo schianto in mare. I precedenti 14 lanci dei razzi tipo Vega, effettuati per conto della francese Arianespace, sono sempre stati coronati da successo facendone uno dei vettori più sicuri al mondo. Questo, unito all’improvvisa e catastrofica catena di malfunzionamenti, ha fatto pensare che la perdita sia da imputare ad un atto di sabotaggio.

L’occhio indiscreto degli Emirati nello spazio. Il satellite Falcon Eye 1 fa parte di una coppia di satelliti spia costruiti dalla Francia per conto degli Emirati Arabi Uniti, i primi in assoluto per Abu Dhabi. Il contratto di produzione e messa in orbita ha un valore complessivo di un miliardo di euro ed in particolare Falcon Eye 1 è stato assicurato per 416 milioni di dollari. Il satellite, secondo fonti specializzate, era dotato della più avanzata ottica che la Francia avesse mai messo a disposizione ad un Paese straniero. Falcon Eye 1 sarebbe stato in grado, infatti, di spazzare un’area di venti chilometri quadrati con una risoluzione di 70 centimetri. Costruito da un consorzio costituto dalla Airbus Defence and Space e dalla Thales Alenia Space pesava 1197 chilogrammi avrebbe dovuto essere messo in orbita a 611 chilometri di altezza dalla superficie terrestre. Il direttore generale dell’agenzia spaziale degli Emirati Arabi, il dottor Mohammed al-Ahbabi, ha spiegato, in occasione dell’incidente, che “il sistema Falcon Eye include 2 satelliti (Falcon Eye 1 e 2). Lo scopo del secondo è quello di essere un’alternativa rispetto al primo in caso di perdita o malfunzionamenti”. Ha infine aggiunto che il secondo satellite sarà lanciato, sempre dalla Guyana francese, entro la fine di quest’anno.

I sospetti di sabotaggio. La serie improvvisa di anomalie ha destato sospetti immediati di un possibile sabotaggio: ad affiancare la commissione di inchiesta congiunta dell’Esa e di Arianespace, infatti, è arrivato un esperto della Dga, la direzione generale degli armamenti francese, seguito da uno del Ministero della Difesa italiano. Come riporta anche Repubblica, a Palazzo Chigi i dubbi sull’incidente sono arrivati poche ore dopo lo schianto, determinando la mobilitazione della nostra intelligence per un'istruttoria altamente riservata. Il Falcon Eye 1, infatti, rappresentava uno strumento molto delicato in mano a un Paese che, in questo periodo storico, è tra i protagonisti di una crisi internazionale dove sono coinvolti attori regionali e mondiali: quella del Golfo Persico. Una cortina di silenzio è scesa sull’incidente e sull’ipotesi del sabotaggio, allo stesso modo il lancio di Vega 15 è avvenuto in sordina, ma i sospetti che il fallimento della missione possa essere stata causato da un intervento esterno è forte proprio per le attuali congiunture internazionali. Gli Emirati Arabi Uniti sono infatti uno dei diretti avversari dell’Iran e sono attivi nella lotta alle milizie sciite in Yemen: uno strumento sofisticato come il Falcon Eye 1 avrebbe potuto dare un vantaggio diretto ad Abu Dhabi rispetto a Teheran anche in considerazione delle evidenti difficoltà incontrate dall’Iran nel suo programma missilistico. Il rateo di incidenti dei vettori iraniani è infatti molto alto (circa il 70% rispetto al 5% del resto dell’industria spaziale) ed i tentativi di mettere satelliti in orbita si è trasformato sempre in un fallimento. Si apre quindi la possibilità che dietro l’incidente a Vega 15 ci possa essere lo zampino dell’Iran e della sua cyber warfare, divenuta sempre più attiva e pericolosa negli ultimi anni. Sebbene sia difficile credere che Teheran possa avere le risorse e le capacità di penetrare le difese telematiche dei computer del poligono francese di Kourou oppure di mettere in atto attacchi elettronici di disturbo (jamming) delle comunicazioni spaziali, non è da escludere che possa essere stato coadiuvato in questo dai suoi “alleati”: la Cina e la Russia. Analisti del Royal Institute of International Affairs avvisano che “Cina e Russia stanno dando impulso alla guerra elettronica, ai cyber attacchi e agli strumenti per ottenere la superiorità sul campo di battaglia elettromagnetico” ed entrambe le nazioni “pongono particolare attenzione a “disturbare le comunicazioni satellitari dell’avversario inibendone l’efficacia operativa” quindi sia la Cina sia la Russia stanno cercando mezzi per compromettere la rete satellitare degli Stati Uniti e dei suoi alleati, come gli Eau. A rafforzare questa tesi c’è l’esponenziale aumento dei cyber attacchi provenienti da Russia, Cina, Corea del Nord e Iran che aprono ad un’ipotesi affatto campata in aria: Teheran potrebbe essere stata usata da Pechino o da Mosca come proxy per un cyber attacco di questo tipo. Il confronto in Medio Oriente, via via sempre più caldo, non si sta svolgendo solo con la contrapposizione di assetti navali e aerei, bensì anche con attacchi cibernetici che vedono protagonisti gli Stati Uniti – con al loro fianco Israele, Arabia Saudita e Eau – e l’Iran, affiancato dai suoi proxy. In questo scenario Russia e Cina restano ai margini ma sono entrambe coinvolte, quindi è ragionevole pensare che la perdita di Vega 15 possa essere stata causata da un intervento iraniano sotto controllo di Mosca o Pechino. Sicuramente il prossimo lancio ci fornirà più elementi per capire cosa realmente possa essere successo: al di là di un possibile secondo “incidente” – il virgolettato ora è d’obbligo – sarà interessante vedere che tipo di misure di sicurezza prenderanno Esa ed Arianespace, e, qualora siano di tipo diverso, avremo la prova indiretta di un precedente sabotaggio.

·         L’Uomo Volante.

Impresa riuscita: l’uomo volante ha attraversato la Manica. Pubblicato domenica, 04 agosto 2019 da Alessandra Coppola, inviata a Parigi, su Corriere.it. Anni di preparativi, l’ultima settimana quasi senza respiro, concentrazione, determinazione, e alla fine Franky Zapata si scioglie in lacrime per la telefonata di Mat, 10 anni, il figlio: «Ce l’hai fatta, ti voglio bene, sei il migliore». Voce rotta dalla commozione: «Ha persino inventato per me un nome da supereroe…». Signore e signori, ecco a voi «Red rocket». È Krystel la moglie, a rivelarlo al Corriere: agli occhi di un bambino il papà che ha appena compiuto l’impresa di attraversare la Manica a bordo della sua pedana volante è un «razzo rosso». Applausi, flash, telecamere, questa domenica è sua: al secondo tentativo l’uomo volante ha preso quota dalla spiaggia di Sangatte, Nord della Francia, e in 22 minuti è atterrato a St.Margaret’s Bay, Sud della Gran Bretagna, mantenendo una velocità di crociera di 160-170 chilometri orari, a una media di 15-20 metri sul livello del mare. Stringendo i denti: «Vedevo l’Inghilterra che si avvicinava — ha raccontato Zapata — e cercavo di trarne piacere per non pensare al dolore: avevo le gambe che mi bruciavano!». L’operazione di rifornimento che al primo tentativo, il 25 luglio scorso, l’aveva fatto cadere in acqua, è stata anche in questo caso complessa. «La barca si muoveva, ho tentato un primo approccio, fallito, ho riprovato e ci sono riuscito. A quel punto sapevo che il più era fatto». L’ha aiutato anche la piattaforma d’atterraggio che questa volta era più larga. Cambio di zaino-serbatoio (contiene cherosene solo per una decina di minuti di volo), rapida ripartenza, primo grido di gioia: «E’ fatta!»E adesso? Krystel s’affretta a parlare di vacanze: «Un po’ di conferenze stampa, strette di mano, autografi e partiamo. Avevamo programmato gli Stati Uniti, vedremo». Passaggi in Italia? «Il mio compagno è per metà sardo, ci piacerebbe, ma non so quando». Messaggi dal presidente Emmanuel Macron? «Forse lo incontreremo». Ha avuto paura per Franky, racconta, «è stato stressante, ma ora posso tirare un sospiro di sollievo». Non deve essere facile vivere accanto a un uomo così, lui stesso ha raccontato di aver dovuto salvare più volte il matrimonio… «E’ vero — ride ancora al telefono Krystel —, può essere stancante, ma è anche una vita appassionante, tutti i giorni diversa…».Una nuova avventura è già all’orizzonte: la macchina volante entro la fine dell’anno. Zapata l’ha annunciata: «Manca la verniciatura e dei ritocchi di carrozzeria, ma ha volato». Bisogna ora testarla con tutti e dieci i mini-turboreattori in funzione. E non è detto che anche in questo caso le Forze armate francesi non siano interessate. Come è noto dall’apparizione dell’uomo volante alla parata del 14 luglio, la Difesa ha investito 1,3 milioni di euro nel Flyboard. L’idea, a quanto ricostruito finora, è di utilizzarlo nelle operazioni speciali in zone urbane (attentati, per esempio, prese d’ostaggi): «Evacuare i feriti — spiega a Libération Emmanuel Chiva, direttore dell’Agenzia militare di Innovazione — trasportare munizioni o viveri. O anche farne una piattaforma d’assalto per i commando». È così che il primo tweet istituzionale viene dalla ministra della Difesa, Florence Parly: «Non è il ritorno degli Avengers, è proprio la realtà. Bravo Franky Zapata (…) Fiera del sostegno delle nostre Forze Armate all’innovazione».

I “super soldati”.

Gli Stati Uniti pensano ai “super soldati”. Marco Pizzorno su it.insideover.com il 25 ottobre 2019. Secondo il direttore dell’Agenzia per i progetti di ricerca avanzata della difesa americana, Darpa, la bioscienza è attualmente il settore di maggior interesse per il presente e il futuro. A tal punto che i progressi nello sviluppo della genomica mostrano infatti un interesse addirittura maggiore rispetto a quello dell’intelligenza artificiale, specialmente per quanto riguarda il controllo dell’editing genetico, ovvero la capacità di monitorare le modifiche sui geni per curare malattie in maniera rivoluzionaria. Gli obiettivi della Darpa sono estremamente rilevanti poiché vertono nell’intento di proteggere i soldati da nuove patologie e rendere i loro corpi in grado di resistere all’attacco con armi chimiche e batteriologiche. La guerra chimica è uno dei nuovi fronti di combattimento: e questo comporta inevitabilmente delle problematiche connesse all’incapacità di poter fornire le cure farmacologiche a tutti. Per questo motivo lo scopo della ricerca è la totale eliminazione dei farmaci, facendo in modo che il genoma produca proteine utili alla protezione autonoma del soldato dall’interno.

Test Genomici, Rapporto Jason e Super Humans. Da oltre dieci anni gli Stati Uniti sono impegnati su test genomici con risultati sbalorditivi. Il rapporto “Jason”, infatti, illustra le risposte positive a questa nuova rivoluzione scientifica sulle fratture ossee, sanguinamenti e ripristino delle ferite. Una mappatura genica aggiornata per “prestazioni e idoneità sanitaria”, “fenotipi”, contenenti oltre 214 voci, fu pubblicata già nel 2009. A causa delle problematiche psichiatriche in battaglia ed i suicidi, gli studi sono stati indirizzati specialmente ai collaudi genomici per i tratti mentali e fisici. Gli obiettivi si concentrano sulle mutazioni che possano tutelare i combattenti dal disturbo post-traumatico da stress, detto anche Ptsd e identificato in diversi geni. Gli esperimenti in tale direzione hanno avuto risposte più che soddisfacenti. Sull’uomo è stato identificato un gene chiamato Dysbindin, sul cromosoma 6 e un altro denominato SNAP-25, sul cromosoma 20, associato all’abilità cognitiva. Questi studi hanno dimostrato alcuni risultati molto convincenti anche sull’aumento delle capacità mentali: in particolare riguardo alle capacità di eliminazione della paura o di un forte abbassamento del suo livello. Il National Institute of Health riferisce che individui dotati di una certa variante del gene catecolamina-O-metiltransferasi, mediante l’uso di un farmaco chiamato tolcapone , hanno riscontrato miglioramento della memoria, (la super memoria). Inoltre sono stati testati con successo farmaci esogeni che colpiscono la variazione genetica che può essere riferita a una ridotta neurotrasmissione della dopamina per compromettere l’apprendimento e prestazioni cognitive. Inutile pensare che questa realtà sia frutto di racconti di fantascienza. L’industria scientifica è pronta ad esempio alla commercializzazione del test genetico per la creazione dei Super Humans e, sebbene la storia sembri di fantasia, il mondo dei Super Eroi potrebbe essere divenuto già una realtà. Nella genetica esso è identificato in una variante del gene ACTN3 (uomo), chiamato R577X, che codifica una proteina chiamata α-actinin-3. I test dotati di tale variazione presentano una massa muscolare voluminosa a contrazione lenta che sono così predisposti allo sforzo fisico prolungato e ad una super resistenza. Mentre chi non ha variante del gene ACTN3 è dotato di muscoli a contrazione veloce, che sono associati ad attività di ipervelocità e super forza, riscontata, per esempio, nel sollevamento dei pesi.

Etica, Bioscienza e Fantascienza. Alla base di un Paese democratico vi è quasi sempre un consolidato sistema di principi di bioetica. Un postulato che vale anche peer gli Stati Uniti, sebbene la ricerca militare scientifica Usa tenda a rivolgere le scoperte ed innovazioni per la cura e salvaguardia del proprio personale coinvolto nelle ostilità ed esposto alle nuove minacce di guerre batteriologiche. Il ministero della Difesa vorrebbe avere una maggiore libertà di condurre ricerche ed ottenere informazioni, creando geno-fenobanks e fornendo nuove terapie. Tuttavia, i vincoli bioetici sembrano al momento frenare, anche se in parte, questa corsa all’armamento umano. L’universo fantascientifico letto sui fumetti, i super eroi dotati di poteri fisici straordinari è più vicino di quanto si possa pensare. Le complicazioni tra etica e morale non mancano e la comunità scientifica si divide su questioni in merito alla destinazione civile di alcune terapie piuttosto che a quello di carattere militare. Di qui una domanda sorge spontanea: saranno i nuovi “supersoldati” capaci a garantire la Pace ed i diritti umani, oppure sarà esclusivamente un’evoluzione del livello dell’a scienza bellica nel prossimo futuro?

·         Le Radium Girls: le ragazze fantasma.

LA STORIA DIMENTICATA DELLE “RADIUM GIRLS”, LE “RAGAZZE FANTASMA”.  Andrea Cionci per La Stampa il 30 luglio 2019. E’ una delle pagine più oscure del capitalismo americano: negli Usa le hanno appena dedicato un film presentato al Florida Film Festival, ma in Europa è quasi sconosciuta. Risale a circa un secolo fa la triste vicenda delle «Radium Girls» - anche note come «Ragazze fantasma» - che segnò un punto di svolta nel diritto del lavoro e nella fisica della salute. Coprotagonista della tragedia fu l’ultima e più terribile «panacea» della storia della medicina. Dalla Theriaca, al corno dell’unicorno, alla polvere di mummia, alla mandragola, sono stati tanti i «rimedi universali» con i quali l’uomo si è illuso di potersi curare, evitare i veleni o aumentare le proprie prestazioni fisiche e sessuali. Alcuni presunti toccasana erano perfettamente inutili, molti altri del tutto dannosi per la salute, tuttavia nessuno raggiunse  la nocività del Radio (Ra), un elemento capace di far letteralmente disgregare l’apparato osseo.

Il raggio verde. Questo metallo radioattivo, il cui nome viene dal latino «radius» - raggio, fu scoperto dai coniugi Pierre e Marie Curie nel 1898 nel minerale di Uraninite/Pechblenda. Venne isolato come elemento puro nel 1902 nella sua forma metallica, attraverso l'elettrolisi. La particolarità più evidente era la luminescenza verdognola e il calore che emanavano i suoi sali, caratteristiche che avrebbero presto sancito il suo successo industriale. Eppure, Pierre Curie aveva compreso fin da subito la tossicità del materiale: sua moglie si era procurata delle ustioni e lui stesso dichiarò che «non poteva sopportare il pensiero di condividere una stanza con nemmeno un kg di radio perché aveva paura che lo avrebbe accecato o bruciato la sua pelle». Tuttavia, secondo la mentalità dell’epoca, una sostanza tossica, se assunta in minime quantità, risultava innocua, o addirittura benefica. Basti pensare all’utilizzo dell’arsenico che, almeno fino alla scoperta degli antibiotici, veniva utilizzato in varie formule chimiche per la malaria, la sifilide o per cure odontoiatriche, sortendo persino alcuni risultati positivi. Con gli elementi radioattivi, come sappiamo oggi, è tutta un’altra faccenda.

Benefico perché «radioattivo». Fu  l’inventore e aviatore americano William J. Hammer (assistente di Edison) che portò con sé in patria, da Parigi, alcuni cristalli di sale di radio fornitigli dai Curie. Affascinato dalla luce e dal calore emessi dall’elemento, tenne conferenze sulle sue proprietà,  discutendo dei suoi presunti poteri curativi. Fu, tra l’altro, il primo a proporre il radio come trattamento per il cancro pubblicando i risultati dei suoi esperimenti in un volume del 1903:  «Radium e altre sostanze radioattive». Sull’onda dell’entusiasmo, tra gli Anni 10 e 20, l’industria americana si appropriò del nuovo affascinante elemento e cominciò a inserirlo in una quantità di prodotti: burro, acqua minerale, sigarette, bevande, dentifrici, cosmetici, lozioni per capelli, lana per neonati, giocattoli. Anche in Francia, il Dottor Alfred Curie (che non aveva alcuna relazione con i coniugi scienziati) creò una linea di cosmetici chiamata Tho-Radia, le cui ciprie contenevano torio e radio. In Italia il fenomeno fu molto ridotto, limitato al consumo di acque minerali naturalmente radioattive. Il paradosso è che la parola «radioattivo», che oggi in tutti noi provoca timore e repulsione, era considerata, all’epoca, sinonimo di corroborante, salutare e benefico. Il bagliore che emanavano la pelle, i denti o i capelli trattati con prodotti al radio riempiva di meraviglia donne e ragazze, mentre gli uomini si sentivano più vigorosi dato che uno dei primi effetti sul corpo era quello di stimolare i globuli rossi. Sensazioni fugaci di salute, bellezza e vitalità, che poi sarebbero state pagate a carissimo prezzo da una moltitudine di persone. Hammer fu anche il primo a inventare una vernice luminescente, combinando i sali di radio con colla e solfuro di zinco. Una delle applicazioni più immediate fu quella per i quadranti degli orologi e di altri strumenti, come ad esempio i contachilometri, che divenivano, così, ben visibili al buio. Tra i primi a sfruttare la vernice al radio vi fu  il medico di origine ucraina Sabin Arnold von Sochocky che nel 1914, insieme al collega George Willis, fondò nel New Jersey la Us Radium Corporation. L’entrata in guerra degli Stati Uniti, nel 1917, rese richiestissimi gli orologi militari con i quadranti luminosi e questo produsse enormi introiti per la società. 

Lip- pointing. L’operazione di stendere la vernice luminescente sulle lancette degli orologi richiedeva piccole mani precise. Per questo furono assunte una settantina di giovanissime ragazze (alcune anche 14enni) che rimasero letteralmente entusiaste del nuovo lavoro. Era poco faticoso e «artistico»; patriottico, perché aiutava i soldati americani che combattevano in Europa; aveva a che fare con un prodotto costoso e affascinante e in più era pagato tre volte tanto lo stipendio di un operaio normale. Vi era solo una strana richiesta da parte dei capi: ai sottili pennelli di cammello con cui si dipingevano gli orologi  doveva essere fatta la punta con le labbra, (lip- pointing) in modo da ottenere un punto preciso senza sprecare il prodotto: il radio era, infatti, un metallo costosissimo. Qualcuna delle ragazze chiese se la vernice non potesse essere nociva, ma i dirigenti dell’azienda tranquillizzarono tutte sostenendo che, in quelle minime quantità, il radio non avrebbe fatto loro nulla di male, anzi: dopotutto, erano tanti i prodotti in commercio a base di quell’elemento. Così, per alcuni anni, le ragazze continuarono a ingerire ogni giorno piccole quantità di vernice radioattiva e nei momenti di pausa si divertivano anche a laccare con essa le proprie unghie o i denti, per stupire i loro fidanzati al buio apparendo luminescenti come leggiadri fantasmi.

Un avvelenamento di massa. Eppure, nelle alte sfere dell’azienda e nelle società mediche si sapeva benissimo che il radio faceva male. I familiari di von Shochocky, i dirigenti e gli operai che trattavano le vernici in maggiori quantità erano soliti schermarsi dietro lastre e indumenti di piombo, utilizzando pinze con le punte d’avorio. La cosa più terribile è che solo dopo circa cinque anni alcune ragazze cominciarono ad accusare i primi malesseri. Una di loro si preoccupò quando i suoi denti iniziarono ad allentarsi e cadere senza apparente motivo. Si recò dal dentista che, nel toglierle un dente ormai guasto, rimase di sasso: con esso era venuto via un intero pezzo di mandibola. Quando la giovane Grace Fryer vide che la sua era divenuta gonfia ed infiammata, cercò l’aiuto di un medico per una diagnosi sugli inspiegabili sintomi. Utilizzando un primitivo macchinario a raggi X (che la espose a ulteriore radiazioni, purtroppo)  il medico scoprì un grave deterioramento delle ossa, come se fossero state rose dai tarli. Poco a poco, si comprese che il trait d’union che legava quelle inspiegabili patologie era il fatto che tutte le pazienti avevano lavorato per un certo periodo alla Us Radium Corporation. Il radio, infatti, essendo molto simile al calcio, viene trasportato dall’organismo direttamente nelle ossa dove ne disgregava le cellule.

L’azione legale. Ci vollero almeno due anni prima che Quinta e Albina Maggie, Katherine Schaub, Edna Hussman, capitanate da Grace Fryer, potessero trovare un avvocato disposto a mettersi contro la potente compagnia. Quando iniziò il processo, nel 1927, le ragazze stavano talmente male da non riuscire nemmeno ad alzare il braccio per prestare giuramento. Quella legale fu una guerra sporca: alcuni medici che avevano visitato le ragazze testimoniarono che le avevano trovate in buona salute. Poi si scoprì che uno era a libro paga della Us Radium e l’altro ne era addirittura il vicepresidente. Altre perizie mediche vollero imputare i cancri alle ossa che colpivano le ex pittrici alla sifilide, malattia venerea ritenuta, all’epoca, infamante per una donna. Il processo ebbe un’ampia copertura mediatica e dovunque i lavoratori che maneggiavano il radio cominciarono a prendere precauzioni o a sollevare altri contenziosi con le aziende che si protrassero fino al 1939. Alla Waterbury Clock Company sospesero subito il lip-pointing - grazie alla denuncia di una pittrice di quadranti, Margaret Carlough - salvando la vita a centinaia di operai. Considerato che lo stesso dottor von Shochocky morì nel 1928 per un’anemia causata dalla sua vernice, le Radium girls vinsero il processo e ottennero dalla Us Radium Corporation risarcimenti in danaro e vitalizi. Purtroppo, poterono usufruirne per poco tempo ancora.

La “mascella da radio” e il caso Beyers. Oltre a provocare cancri alle ossa e malattie del sangue, l’intossicazione da radio aveva lo spaventoso effetto di disintegrare la mandibola. Rimase famoso il caso del campione di golf, playboy e rampollo dell’alta società americana Eben Byers. Nel 1927, durante un viaggio in treno, cadde dalla cuccetta facendosi male a un braccio. Dato che il dolore non passava, il suo medico gli consigliò il Radithor, una soluzione di radio e acqua distillata che all’epoca veniva commercializzata da un sedicente medico, tale William J. A. Bailey. Byers si trovò così bene che cominciò a bere almeno tre flaconi al giorno di Radithor, lo consigliò come un vero elisir ad amici e amanti e lo somministrò perfino ai suoi cavalli da corsa. Dopo qualche anno cominciò ad accusare problemi ai denti e nel giro di poco gli dovette essere asportata completamente la mandibola, come si vede da una drammatica fotografia. Nel settembre del 1931, la Federal Trade Commission aprì un’indagine e mandò l’avvocato Robert H. Wynn a intervistarlo nella sua tenuta di Southampton, dato che non poteva più muoversi poiché il suo scheletro si stava letteralmente disgregando. Byers morì a 52 anni d’età dopo atroci sofferenze, ma grazie alla sua testimonianza, la Food & Drugs Administration mise al bando il Radithor e ottenne un maggiore controllo su medicinali stabilendo il principio che ognuno di essi è dannoso fino a prova contraria.

Un tragico bilancio. E’ difficile quantificare quante persone siano state contaminate dalla folle moda del radio e dalle sue applicazioni industriali. Molte di loro decisero di sottoporsi ad esami fino agli anni ’50, tanto che quelle indagini costituiscono ancor oggi la principale fonte di dati su questo genere di avvelenamento.  La vernice al radio fu messa al bando nel 1968, sostituita da quella al trizio, meno pericoloso. Dagli anni ’90 si usano prodotti ancora più sicuri, racchiusi in mini-capsule stagne, peraltro. Tuttavia, gli appassionati di modernariato stiano in guardia: un vecchio orologio trattato con vernice al radio può essere nocivo ancora oggi e deve essere maneggiato con la dovuta cautela: l’emivita (tempo richiesto per dimezzare l’efficacia) dell’elemento è, infatti, di 1602 anni. Non a caso, se qualcuno passasse con un contatore Geiger vicino alle tombe delle Radium Girls, vedrebbe la lancetta della scala radioattiva schizzare in avanti. Grace, Quinta, Albina, Katherine, Edna: la loro triste fine sancì il diritto dei singoli lavoratori di citare in giudizio per danni le società datrici di lavoro e, sulla scia di quel caso giudiziario, gli standard di sicurezza industriale furono molto migliorati. La loro eredità, quindi, splende tutt’oggi, così come brillano ancora, nel buio delle sepolture, le loro povere ossa.

·         Zichichi ed il Supermondo.

Da “Un giorno da pecora” l'11 ottobre 2019. Antonino Zichichi festeggia i 90 a "Un Giorno da Pecora", su Rai Radio1. La trasmissione condotta Geppi Cucciari e Giorgio Lauro ha fatto trovare allo scienziato una torta per celebrare, in anticipo di qualche giorno (è nato il 15 ottobre) l'importante traguardo. “Sono contento – ha esordito Zichichi - , mi fa piacere anche se non amo molto i compleanni”. Qual è il segreto per arrivare a 90 anni? “Bisogna fare come me: essere una macchina pensante, io penso sempre. Magari ci farò un libro sopra...” Quanti anni si sente? “Me ne sento 19”. A quanti anni vorrebbe arrivare? “A 300 anni, ho tante cose da risolvere, tante cose su cui riflettere..." Forse la sua longevità è aiutata da una buona alimentazione? “Non so. A pranzo non mangio mai, altrimenti non riesco a pensare al lavoro. Mangio molto bene la mattina: oggi ho preso 4 cappuccini, 3 yogurt, dei cereali, una macedonia”. E la sera cosa mangia per cena? “Carne, pasta e vino. Ieri ne ho bevuto uno talmente leggero che sembrava acqua...” Si è mai ubriacato con del vino? “Mai, nemmeno da ragazzino”. Uno scienziato come lei nella vita ha avuto successo con le donne? “Si, sempre. E mi ricordo ancora il primo amore: Laura, lei aveva 10 anni e io 12, era vero amore ”. Fu lei a darle il primo bacio? “I baci non è che mi attraggano molto. Mica si può stare tutta la vita a baciare. E' 'totally irrilevant'”. Le dispiace non aver mai ricevuto il Nobel? “No, e se Nobel fosse vivo non approverebbe. Ma non c'è nessun dubbio che lo avrei meritato”. Condivide il Nobel per la Fisica assegnato quest'anno? “Non mi interessa, non ne parlo”. Si dice che lei non abbia in simpatia gli oroscopi.... “No, perché sono una presa in giro”. E come definirebbe chi crede nell'oroscopo? “una persona che non ha seguito l'evolversi della scienza”. Chi si fida degli oroscopi è un ignorante? “Un superignorante...” Lei è sempre stato molto imitato: la cosa la infastidisce o la diverte? “Mi fa piacere, anche quella di Crozza mi diverte molto”, ha concluso a Un Giorno da Pecora.

 “L’ESAME DI MATURITÀ? TROPPO SEMPLICE”. Da “Un Giorno da Pecora – Radio1” il 20 giugno 2019. La domanda sul condensatore nella prova di Fisica? “Una cosa banale, banalissima, confonde le idee e basta”. A Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, lo scienziato Antonino Zichichi boccia in toto i quesiti proposti oggi agli studenti per la seconda prova della maturità 2019. Tra le domande di fisica dell'esame ce ne era anche una sulle probabilità numeriche legate al lancio di quattro dadi.

Come l'ha trovata?

“Una domanda di una tale banalità che anche un ragazzo di 5° elementare avrebbe potrebbe rispondere. Ahi ahi ahi - ha aggiunto il professore a Rai Radio1 - questi quesiti sono troppo semplici e troppo banali”.

Lei, invece, quanto ha preso alla maturità?

“Il massimo dei voti, sono sempre stato il primo della classe. E facevo sempre copiare i miei compagni: una volta mi beccò il professore e mi mise zero”.

Zichichi: «Così ho fatto diventare amici Pertini e papa Wojtyla». Pubblicato domenica, 16 giugno 2019 da Roberta Scorranese, inviata a Ginevra, su Corriere.it. Se esiste un universo parallelo non può che trovarsi tra via Marie Curie e via Democrito. È più o meno qui infatti che, in un piovoso pomeriggio ginevrino, i cancelli del Cern si aprono eccezionalmente di domenica e la cittadella europea della ricerca nucleare ci si consegna insolitamente spoglia, semideserta. Poi però si arriva a un edificio cinerino, dove sin dal piano ammezzato tutto preannuncia un personale olimpo terrestre: attestati di merito alle pareti, targhe di cittadinanza onoraria conferite da Castrocielo o Trinitapoli, foto di medaglie al merito. È seguendo queste tracce di gloria incorniciata che si giunge a una stanza dominata da due scrivanie completamente sommerse da carte, formule, lettere, libri e appunti.

Professor Zichichi, che caos.

«È il minimo: sto cercando il Supermondo».

È da tanto che lo cerca?

«È la mia scommessa. Quando e se riuscirò a trovarlo dimostrerò che il mondo ha molte più dimensioni di quelle a noi familiari. E renderò l’estremo omaggio a Galileo Galilei».

Che lei considera l’anello di congiunzione (molto discusso) tra scienza e fede.

«Galilei era convinto che noi non siamo figli del caos, che esiste una logica rigorosa sottesa a tutte le cose del mondo. La sua umiltà lo portava a pensare che le leggi della natura sono le impronte di chi ha creato tutto questo. Perciò scienza e fede non sono contrapposte».

Sempre stato credente?

«Sempre. E nemmeno quando mi sono avvicinato ai più rigorosi processi scientifici, per esempio quando ho portato la prova sperimentale dell’antimateria nucleare, ho avuto cedimenti. Sono convinto che ci sia qualcuno di più intelligente di noi che ha fatto tutto».

Siciliano di Trapani, novant’anni il prossimo ottobre. Che infanzia ha avuto?

«Avevo un padre antifascista che mi aprì gli occhi quando i professori, a scuola, ci cantavano le meraviglie del duce. Un giorno tornai a casa, raccontai quello che ci diceva la maestra e papà mi disse: “Nino, non è vero niente”».

Poi la guerra, lo sbarco degli alleati in Sicilia. Lei dov’era?

«Nel fuoco dell’azione. Papà però ascoltava Radio Londra e così conoscemmo in anticipo le mosse degli alleati. Ci rifugiammo in campagna, mi ricordo benissimo la visione dei carri armati tedeschi che prendevano la ritirata. Maturava in me l’antifascismo che poi mi porterà, molti anni dopo, a coltivare una grande amicizia con Sandro Pertini».

Quando lui era già capo dello Stato?

«No, prima, a metà degli anni Settanta. Durante una conferenza, a Genova, dissi che per me il vero antifascista era stato lui, che durante il fascismo era in galera, non quelli che si improvvisano antifascisti dopo. Pertini mi telefonò e fu colpo di fulmine. Poi arrivò il ‘78».

Quando Pertini divenne presidente della Repubblica e Karol Wojtyla fu eletto Papa. La notte e il giorno, il socialista ateo e l’anticomunista viscerale.

«Esatto, e sa chi li fece diventare amici?»

Mi lasci indovinare: Antonino Zichichi.

«Io all’epoca stavo riabilitando Galilei. Pertini mi telefonò e disse: “Ma il nuovo Papa lo sa che lei ha un amico ateo?”. Io riferii al Pontefice, che rispose: “Pertini la fede ce l’ha negli occhi”. E tra di loro nacque un legame fatto di lealtà, discussione, reciproca comprensione».

Non era la prima volta che lei faceva da ponte tra i due blocchi della Guerra Fredda.

«E secondo lei chi fece incontrare i rispettivi consiglieri scientifici di Reagan e Gorbaciov per scongiurare un’escalation nucleare?»

Ancora Zichichi. E come ci riuscì?

«Tra scienziati veri ci si conosce, ci si stima, altro che quelli che blaterano di scienza senza aver scoperto nulla. Alzai il telefono e chiamai il sovietico Yevgeni Velikov, poi feci lo stesso con l’americano Edward Teller. Ma vuole che le racconti di quella volta che lo stesso Gorbaciov mi mandò un aereo a Ginevra?»

Per rapirla?

«Mi portò a Mosca in gran segreto e mi chiese di fare da tramite con la comunità scientifica americana per prepararla a un importante discorso che avrebbe tenuto e per smussare le controversie e le diffidenze. Da Mosca volai in California, incontrai Teller e gli dissi: “Quando parlerà Gorbaciov tu non dirai bau”. Fu così».

Erano anni difficili.

«Eravamo seduti su una polveriera, ma ci rendiamo conto? L’Unione Sovietica dava i numeri ufficiali delle bombe nucleari in suo possesso ma Teller mi diceva: “Nino, secondo me ne hanno il doppio”. Così, a Erice, nell’Ettore Majorana Foundation and International Centre for Scientific Culture che ho fondato, li presi tutti e due, Teller e Velikov, e dissi loro: “Ma siete matti? Qui saltiamo tutti”. Velikov fece allora delle dichiarazioni distensive importanti e se ne andò dicendo: “Nino, speriamo che non mi mandino in Siberia per causa tua”».

Non mi dica che lei era presente al momento della sparizione di Ettore Majorana.

«No, però ho avuto un ruolo nel libro che ne ricavò Leonardo Sciascia. Lo scrittore venne da noi, a Erice, perché voleva indagare i rapporti tra Fermi e Majorana. Poi, dopo aver assistito alle nostre conferenze, decise di scrivere La scomparsa di Majorana. E andandosene mi disse: “Lui era un genio, se ha deciso di far perdere le sue tracce nessuno lo troverà mai”».

Secondo lei che fine ha fatto il fisico scomparso alla fine degli anni Trenta?

«Secondo me si è rifugiato in un convento. Io ho conosciuto il suo confessore, il vescovo Ricceri, il quale mi confermò che aveva avuto delle crisi mistiche. Altro che Argentina».

Professore ma lei è come Zelig, si trova sempre nel posto dove passa la Storia.

«Ripeto: tra scienziati veri ci si capisce e ci si cerca. Del resto se in Italia in tanti mi hanno sempre osteggiato è perché io la carriera l’ho fatta praticamente sempre e solo all’estero».

Però ha fatto l’assessore in Sicilia nella giunta di Crocetta. Esperienza breve.

«Tutti dicono che mi hanno cacciato: in realtà me ne sono andato io. Ho detto di sì solo perché Crocetta al telefono mi giurò che davvero voleva voltare pagina nella mia Sicilia. Io però ho presentato numerosi progetti, tra i quali quello dedicato ad Archimede».

E in che cosa consisteva?

«Doveva far conoscere a tutto il mondo il genio siracusano. Prevedeva borse di studio per giovani, un piano per dedicare strade, piazze e parchi ad Archimede, un museo».

Forse però era difficile lavorare da qui, dal suo ufficio al Cern di Ginevra.

«Ma questi erano gli accordi! Comunque, acqua passata. Del resto, dico sempre no: nel 2005 il centrodestra mi voleva candidare a sindaco di Roma e rifiutai, così come rifiutai una grande candidatura nel Nord Est. Io dico no alla politica ma dico sì alla società civile. Giro il mondo con le mie conferenze, ricevo attestati e cittadinanze onorarie, ho fatto decine di scoperte. Qui al Cern dirigo un progetto importante, il LAA, che adesso, appunto, lavora sugli esperimenti del Supermondo. Il resto non mi interessa, sono soltanto chiacchiere».

Due figli, Lorenzo e Fabrizio. Di sua moglie, Maria Ludovica, si sa pochissimo.

«Bellissima e molto intelligente. Biologa, lavorava in un importante gruppo di ricerca a Ginevra quando l’ho conosciuta. Poi ci siamo sposati e lei ha deciso di lasciare il lavoro. Pensi che quel gruppo poi ha vinto il Nobel». Be’, lei deve molto a sua moglie, non crede?

«A mia moglie devo tutto: mi sono occupato poco della famiglia, lei ha pensato a ogni cosa. Io non so nemmeno scegliermi una cintura. Pensi che cerco il Supermondo ma non ho ancora imparato come si abbina una cravatta».

Però negli anni ha affinato le provocazioni: un suo articolo sul «Giornale» nel quale metteva in dubbio l’emergenza climatica ha scatenato un finimondo.

«Io non dico che il clima non sia un’emergenza, anzi. Ma dico che i modelli matematici con decine di parametri liberi ai quali si affidano i climatologi sono una perdita di tempo e soldi. Non è una questione ideologica, ma è una questione matematica: vorrei che queste ricerche fossero più accurate e per questo ci vogliono esperimenti, attività di laboratorio».

Oggi, a novant’anni, di che cosa ha paura?

«Dell’istinto dell’umanità verso l’autodistruzione. Vede, non è detto che quelle famose bombe nucleari della Guerra Fredda non possano tornare. La Nord Corea non mi spaventa, mi spaventa il nostro Occidente».

Professore, dopo tanti anni ha voglia di fare lei un gesto di distensione nei confronti di Piergiorgio Odifreddi che nel 2003 scrisse «Zichicche», facendo dell’ironia nei suoi confronti, cosa che lei non ha mai perdonato?

«No, perché io ho fatto delle scoperte, non mi sono limitato a parlare di scienza per dire qualcosa. E prometta: se lei in questa conversazione non ha capito qualcosa, non la scriva».

Promessa mantenuta: il Supermondo resterà un mistero anche dopo questa intervista.

·         L’Ignoranza saccente.

L'ignoranza? Grazie al web è diventata saccenza. Il web ha distrutto il concetto di autorità: liberi tutti…di sparare pericolose idiozie, scrive Massimiliano Parente, Mercoledì 20/06/2018, su "Il Giornale". Cosa significa essere ignoranti? In teoria l'ignorante è chi dice «non so», in realtà oggi l'ignorante è quello che non sa una cosa e la spiega a chi la sa. Insomma, chiunque sa qualcosa per sentito dire, e la tragedia è che anche colui dal quale l'ha sentita dire lo sa per sentito dire. D'altra parte basta andare cinque minuti su Google e si capisce cosa intendeva Doctor House quando disse a una paziente che contestava una sua diagnosi perché aveva letto un parere diverso su internet: «Già, perché prendere una laurea in Medicina quando c'è il wi-fi?». Attenzione, non si tratta dell'impossibilità di sapere tutto, ciascuno di noi è ignorante, e perfino gli scienziati. Un biologo è ignorante in astrofisica, un astrofisico è ignorante in chimica, la differenza è che ciascuno di loro sa cosa non sa. Non è tanto il discorso di opporre all'ignoranza l'enciclopedismo ingenuo, il vano tentativo di Bouvard e Pécuchet, o quello dell'autodidatta di Sartre. Tanto meno lo spaesamento di fronte al «mare dell'oggettività» di cui parlava Italo Calvino. Casomai il problema è il mare della soggettività. Ciascuno dice la sua, su tutto, e le opinioni si rispettano. Colpa di internet? Forse. A proposito, Il Saggiatore ha organizzato un incontro sull'ignoranza alla Triennale di Milano, domani. Il punto di partenza è il libro di Antonio Sgobba Il paradosso dell'ignoranza da Socrate a Google (Il Saggiatore), dove si arriva proprio alle aspettative disattese da internet. O meglio, più che da internet, da chi utilizza internet. Negli anni Novanta si vedeva internet come una formidabile risorsa di cultura globale, e al massimo si temeva solo che si creasse «una fascia di esclusi, troppo poveri o troppo pigri per accedere alle nuove tecnologie disponibili». Non è avvenuta nessuna delle due cose: oggi chiunque ha accesso a qualsiasi informazione, perfino un immigrato appena sbarcato ha già uno smartphone in mano, e non è cresciuta la qualità della conoscenza media. È aumentato vertiginosamente l'accesso alle fonti, certo, ma quali fonti? Questo è il punto. L'ignorante odierno ha sempre delle fonti da citare, fonti di ignoranza, ma le ha. E ecco quindi il moltiplicarsi di No-vax, di rimedi alternativi alla medicina ufficiale, di santoni e influencer che vendono sostanze bruciagrassi (come un tempo Wanna Marchi) «scientificamente provate», di bufale e fake news in ogni campo, e la scomparsa di qualsiasi autorevolezza. L'ignorante di oggi non sa di non sapere, sa tutto perché ha sempre un link disponibile dove ha letto qualcosa. Il Sessantotto voleva l'immaginazione al potere, grazie alla tecnologia c'è arrivata l'ignoranza, motivo per cui non si leggono più neppure i giornali. Perché mai devo spendere un euro e mezzo per leggere un pensiero di Angelo Panebianco sulla politica internazionale, quando ne ho già uno mio per conto mio, e già che ci sono lo metto su Facebook? È la democrazia dell'ignoranza, sarà per questo che la scienza per fortuna non è democratica, altrimenti il Sole girerebbe ancora intorno alla Terra (eppure, dopo millenni, grazie a internet sono tornati perfino i Terrapiattisti). Non per altro il chimico Dario Bressanini, che vuole smentire una serie di bufale su presunti cibi «cancerogeni» diffusi da uno youtuber che si chiama Infinito, ha centomila iscritti, mentre questo signor Infinito ne ha un milione. Se andassimo alle elezioni, Infinito sarebbe ministro. È ignoranza mista ad arroganza, come ha sintetizzato Roberto Burioni (tacciato a sua volta di arroganza da questi nuovi saccenti ignoranti): «In questo mondo incredibile chi studia trent'anni prima di parlare è un arrogante, chi consulta internet per 5 minuti è un cittadino informato». Che è poi quello che aveva detto Doctor House. Ma forse, la nuova ignoranza saccente non è solo disinformazione, o informazione sbagliata. Richard Dawkins, per esempio, era molto ottimista, ed era convinto che quella gran parte della popolazione che ancora non crede alla teoria dell'evoluzione (non c'è bisogno di crederci, è un fatto, e il più vasto programma di ricerca scientifico mai realizzato, da Darwin al Dna), fosse semplicemente ignorante. Dopo due anni di convegni e incontri con il pubblico cambiò radicalmente idea: «Non è solo ignoranza, è anche stupidità».

10 miti sull’orientamento sessuale sfatati dalla scienza. Un professore americano di sesso e psicologia, grazie a un blog di successo, demolisce pregiudizi e luoghi comuni sui diversi orientamenti sessuali, usando studi scientifici e ricerche universitarie, scrive Emma Desai il 29 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". A conclusione del mese dedicato all’apertura e al dialogo legato ai vari Gay Pride, in tutto il mondo, resta ancora una questione aperta, incompresa, e oggetto di fantasiose leggende e incredibili miti: la sessualità LGBT. Justin J. Lehmiller, professore americano di psicologia, specializzato in sessualità e docente al Kinsey Institute dell’Università dell’Indiana ha iniziato nel 2011 un blog di grande successo, chiamato semplicemente Sex & Psychology (sesso e psicologia) con queste esatte premesse: eliminare gli stereotipi legati alla sessualità, anche e soprattutto di genere. «Volevo creare uno spazio digitale dove le persone potessero imparare qualcosa sugli ultimi risultati scientifici riguardanti sesso, amore e relazioni», ci racconta il dottore Lehmiller, che in questi giorni sta per pubblicare il suo prossimo libro Tell me what you want: the science of sexual desire and how it can help you improve your sex life (Dimmi quello che vuoi: la scienza del desidero come migliorare la propria vita sessuale).

Il professore e il blog. «La ricerca in ambito sessuale è spesso mal rappresentata e oggetto di sensazionalismo sui media, per questo motivo volevo stabilire uno spazio nel quale il pubblico potesse accedere a informazioni scientifiche in modo responsabile, e mediate da un uomo di scienza» aggiunge. Le sue ricerche spaziano dalle fantasie da letto al sesso occasionale, fino al tema delle relazioni extraconiugali. «Ho capito nel tempo che i blog sono molto utili ed efficaci per tradurre la ricerca per il grande pubblico che può realmente usare per migliorare la propria vita sessuale e le proprie relazioni».

Sfatare i miti. Lo scienziato, fin dall’inizio della sua avventura digitale, ha scelto in particolare di lavorare su miti e leggende legate all’orientamento sessuale, sfatandoli a suon di ricerche scientifiche. «Basandomi sulle domande che mi sono state poste dagli studenti nel corso delle mie lezioni universitarie, ma anche sui quesiti che mi sono arrivati via email dai lettori, mi sono reso conto che quella dell’orientamento sessuale è un’area dove le persone hanno ancora in mente una serie di stereotipi straordinariamente approssimativi, oppure una serie di false credenze» ci racconta Lehmiller. «Per fortuna, d’altro canto, cresce il numero di studi scientifici legati proprio a quest’area, studi che possono essere usati per aiutare a correggere una serie di luoghi comuni e fraintendimenti che, oltretutto, possono essere pericolosi».

Ecco quindi nella nostra gallery, i 10 miti sull’orientamento sessuale sfatati dal dottor Lehmiller sul suo blog.

10 miti sull’orientamento sessuale (sfatati dalla scienza). Lo psicosessuologo americano Justin J. Lehmiller sul suo blog di successo demolisce pregiudizi e luoghi comuni sui diversi orientamenti sessuali, usando studi scientifici e ricerche universitarie di Justin J. Lehmiller

1. L’omosessualità è contagiosa. Justin J. Lehmiller, professore americano di sesso e psicologia, nel suo blog di successo Sex & Psychology cerca di demolire pregiudizi e luoghi comuni nei confronti dei diversi orientamenti sessuali usando studi scientifici e ricerche universitarie. Ecco il primo dei 10 miti che raccolto in occasione del mese del Gay Pride: Le ricerche non hanno mai avuto successo nel provare che l’attrazione per lo stesso sesso si trasmetta tramite contatto sociale. Al contrario, un recente studio condotto su larga scala ha provato che l’attrazione per lo stesso sesso non si “diffonde” all’interno di un gruppo di adolescenti coetanei. Allo stesso modo un’altra ricerca ha provato che una coppia di genitori gay non ha più probabilità di crescere figli gay di una coppia eterosessuale.

2. Si può “guarire” dall’omosessualità. Le ricerche su soggetti adulti che hanno tentato di cambiare il loro orientamento (tramite pratiche religiose o di altro tipo) hanno dimostrato che questo tipo di trattamenti non sono solo inefficaci ma, spesso, anche potenzialmente dannosi.

3. Se fai “crossdressing” sei gay. Uomini che si vestono con abiti da donna? Gli studi suggeriscono che la maggior parte di loro sono uomini eterosessuali sposati e, nonostante ci siano uomini gay che amino il cosiddetto “crossdressing”, non c’è nessuna relazione tra questa preferenza e l’essere gay.

4. Le lesbiche fanno poco sesso. Questo luogo comune gira da qualche tempo, è arrivato il momento di aggiustarne il tiro. È vero che gli studi condotti sulle coppie lesbiche dimostrano che c’è una tendenza ad avere meno rapporti sessuali rispetto ad altre tipologie di coppie, ma si tratta di un dato che può trarre in errore: è infatti provato che le coppie al femminile dedicano un lasso di tempo più lungo e il livello generale di soddisfazione sessuale, sempre secondo questi studi, non è inferiore a quello di altre coppie.

5. I bisessuali sono gay. Un altro mito da sfatare è quello che vuole i bisessuali come gay che non hanno ancora fatto il loro coming out. Non è così: in alcuni casi potrebbe trattarsi di una bisessualità di transizione, ma questo fatto non annulla l’identità sessuale della persona che si ritiene bisessuale. Inoltre un numero crescente di studi (qui e qui alcune ricerche sul tema) supporta il fatto che la bisessualità sia un orientamento sessuale distinto.

6. I bisessuali sono attratti da tutti. Essere bisessuale significa avere la capacità di sentirsi attratti da uomini e donne, ma non significa che questa attrazione sia ugualmente forte per ciascun sesso. Ad esempio una ricerca sugli uomini bisex ha scoperto che in genere dimostrano maggiore eccitazione nei confronti di un sesso, alcuni nei confronti delle donne, altri degli uomini. Allo stesso modi studi sulle donne bisessuali hanno dimostrato che non ci sono eguali livelli di eccitazione nei confronti di uomini o di donne.

7. Uno fa la moglie, l’altro il marito. Sulle coppie dello stesso sesso, vige lo stereotipo secondo il quale uno dei due partner è necessariamente il “marito”, l’altro la “moglie”. Nonostante questa sia una descrizione diffusa e riproposta dai media per descrivere le coppie dello stesso sesso, la realtà è che le coppie delle stesso sesso sono meno propense delle coppie eterosessuali ad adottare dei ruoli rigidi all’interno della coppia. Gli studi al contrario ci dicono che tendono a condividere potere e responsabilità in modo più equo.

8. I gay fanno soprattutto sesso anale. Un pregiudizio vuole che il sesso anale sia più comune tra gli uomini gay. Eppure questo non si avvicina alla realtà: una ricerca ha infatti evidenziato che sesso orale e masturbazione reciproca sono di gran lunga pratiche più comuni, viceversa gli ultimi dati ci mostrano come il sesso anale sia ormai abbastanza comune tra gli eterosessuali. 

9. Alle lesbiche piacciono le forbici. La posizione delle “forbici”, favorendo una frizione vulvare, è qualcosa che alcune coppie lesbiche praticano, ma gli studi sul tema ci dimostrano che, come in tutte le altre coppie, ci sono una varietà di comportamenti sessuali che appaiono altrettanto comuni tra lesbiche e donne bisessuali, compresi sesso orale e masturbazione reciproca.

10. I genitori gay non sono bravi come gli etero. Un’ampia produzione scientifica ha dimostrato che i bambini crescono bene indipendentemente dall’orientamento sessuale dei genitori, inoltre uno studio recente (oltre a provare che il coming out di un ragazzo adottato non abbia alcuna relazione con l’orientamento dei suoi genitori adottivi) ha evidenziato che le coppie dello stesso sesso sono più propense ad adottare anche bambini problematici e con disabilità, rispetto alle coppie etero.

Sesso, ecco le bufale più comuni. Smascherate le bufale più comuni sul sesso, che si diffondono facilmente anche grazie ai social: ecco quali sono le leggende a cui non credere, scrive Maria Rizzo, Martedì 19/06/2018, su "Il Giornale". Di bufale sul sesso, o meglio false credenze e miti da sfatare che non aiutano a vivere appieno la sessualità, ne sono nate parecchie sin dalle origini dell'uomo. Eppure negli ultimi tempi il Web, complici anche i social network, ha contribuito a diffonderle in maniera incontrollata. Il portale ISS Salute dell’Istituto Superiore di Sanità ha quindi smascherato le falsità più comuni, spiegando esattamente quali siano i fattori a cui credere e quali, invece, dimenticare. La luna, il calendario e la temperatura possono influire sul sesso del nascituro. Nulla di più sbagliato:

Non si può favorire la nascita di un maschio o di una femmina ricorrendo a tecniche non scientifiche;

La masturbazione fa diventare ciechi. Si tratta di un'informazione non veritiera, seppur molto popolare, che trae origine da un opuscolo anonimo del 1712;

L'uso degli assorbenti interni fa perdere la verginità. Il ricorso a normali tamponi igienici non equivale né a un rapporto sessuale, né a una penetrazione: non si corrono quindi rischi sul fronte della verginità;

La sterilità è un problema che interessa principalmente le donne. È una bufala fra le più diffuse, poiché può colpire tanto il genere femminile quanto quello maschile;

Le visite dall'andrologo da giovani sono inutili, se non ci sono sintomi. Dato che gran parte delle patologie che riducono la fertilità non hanno sintomi, la convinzione che non vi sia bisogno di una visita specialistica a qualsiasi età è errata;

Una pillola può porre rimedio all'impotenza in poco tempo. Non è così, occorre una visita specialistica per indagare l'origine e le cause dell'impotenza, così da avviare un trattamento mirato.

Non si può rimanere incinta durante il ciclo mestruale. Un mito fra i più diffusi, tuttavia gli spermatozoi possono sopravvivere nelle vie genitali femminili fino a una settimana dopo il rapporto, rendendo possibile la fecondazione;

Durante il primo rapporto sessuale non si può rimanere incinta. Falso: la perdita della verginità non influisce assolutamente sulla capacità di concepire;

Il coito interrotto previene la gravidanza. Anche in questo caso si tratta un falso mito, perché il liquido pre-eiaculatorio può ugualmente contenere spermatozoi capaci di fecondare l'ovulo;

Con i rapporti orali non si trasmettono le malattie sessuali. Il contatto tra sperma o liquidi vaginali e la mucosa della bocca, in realtà, può favorire il contagio;

L'HIV è un problema solo degli omosessuali e di chi si apparta con le prostitute. Il contagio da HIV può colpire tutti, senza adeguate protezioni come il condom. Secondo i dati dell'ISS, negli ultimi 25 anni i casi di infezione tra gli eterosessuali sono infatti notevolmente aumentati. Queste dunque le bufale più comuni sul sesso, a cui è bene non credere, come sottolineato dall'Istituto Superiore di Sanità.

La sterilità riguarda solo le donne: i 10 miti da sfatare sul sesso. «È vero che se ho rapporti sessuali durante il ciclo non posso restare incinta? E che il papilloma virus infetta solo le donne?». Il portale ISS Salute dell’Istituto Superiore di Sanità ha smascherato le bufale più diffuse sul web che riguardano la sessualità fornendo spiegazioni scientifiche per capire che cosa è vero e che cosa è falso, scrive Cristina Marrone il 19 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera".

La sterilità interessa principalmente le donne. FALSO - La sterilità non è un problema solo femminile, ma può colpire tanto l’uomo quanto la donna e riguarda, complessivamente, circa il 15% delle coppie. La sterilità maschile è un importante problema medico e sociale ed è alla base di circa la metà delle cause di sterilità di coppia. Secondo i dati raccolti dalla Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità, in Italia circa 1 uomo su 3 è a rischio di sterilità. Il Registro Nazionale sulla Procreazione Medicalmente Assistita dell’Istituto Superiore di Sanità riporta che, tra le coppie che si rivolgono alla procreazione assistita, nel 29,3% dei casi si tratta di sterilità maschile, nel 37,1% di sterilità o infertilità femminile, nel 17,6% di sterilità di entrambi. Bisogna distinguere tra sterilità ed infertilità; la prima indica l’incapacità di concepire, la seconda l’impossibilità di portare a termine la gravidanza. Ma quand’è che si parla di sterilità? L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di sterilità in caso di mancato concepimento dopo un periodo di almeno 12 mesi di regolari rapporti sessuali non protetti. Le cause, sia maschili che femminili, possono essere molteplici. Tra i principali fattori di rischio comportamentali per entrambi si annoverano il fumo, l’obesità o l’eccessiva magrezza, la sedentarietà o l’eccessiva attività fisica e il doping. Tra le malattie che possono impedire la procreazione, in entrambi i generi, abbiamo in primis le malattie infettive sessualmente trasmissibili. Altre cause patologiche nella donna possono essere le alterazioni tubariche, le malattie infiammatorie pelviche, i fibromi uterini, l’endometriosi e le alterazioni ormonali e ovulatorie, mentre negli uomini abbiamo condizioni che alterano la produzione ormonale e/o la struttura e la funzione del testicolo e le patologie prostatiche.

Ho il flusso mestruale, non posso rimanere incinta. FALSO - È possibile rimanere incinta, anche se non è molto probabile, se si hanno rapporti sessuali durante le mestruazioni. Infatti, gli spermatozoi possono sopravvivere nelle vie genitali femminili fino ad 1 settimana dopo il rapporto, mantenendo per tutto questo tempo la capacità di fecondare l’ovulo al momento dell’ovulazione. Molte donne sono convinte che praticare sesso durante le mestruazioni le protegga da gravidanze indesiderate. Questa credenza va sfatata. Infatti è possibile concepire anche durante o subito dopo le mestruazioni se si hanno rapporti senza l’uso di metodi anticoncezionali. Ciò è dovuto alla sopravvivenza dello sperma maschile fino a 7 giorni dopo il rapporto sessuale nelle vie genitali femminili. Questo significa che è possibile rimanere incinta se si hanno rapporti sessuali durante il ciclo mestruale e anche poco dopo la fine delle mestruazioni, soprattutto quando il ciclo è breve e l’ovulazione avviene precocemente. È, quindi, essenziale utilizzare metodi anticoncezionali in ogni fase del ciclo mestruale, in modo da scongiurare gravidanze non volute. Inoltre, durante le mestruazioni è più che mai presente il rischio di contrarre infezioni trasmesse per via sessuale per cui è fondamentale avere rapporti protetti utilizzando il preservativo.

Nei giovani la visita dall’andrologo è inutile se non ci sono sintomi. FALSO - Gran parte delle patologie che riducono la fertilità sono asintomatiche; questa assenza di segnali da parte del proprio organismo porta molti giovani ragazzi alla convinzione che non sia importante verificare la propria fertilità prima che emerga qualche problema evidente. Questo ritardo nella diagnosi può far perdere tempo prezioso durante il quale si potrebbero curare, con successo, molte delle condizioni che causano sterilità. Le malattie del testicolo sono le più frequenti cause di sterilità. In particolare, il ben noto varicocele colpisce 1 uomo su 5 nel nostro Paese ed è diagnosticato in quasi la metà degli uomini infertili. Altre problematiche che si riscontrano con frequenza crescente sono il criptorchidismo, cioè la mancata discesa del testicolo nello scroto durante lo sviluppo fetale, i tumori testicolari e le infiammazioni delle vie genitali. Visti i crescenti problemi di fertilità in Italia (circa 1 coppia su 5 ha difficoltà a concepire un figlio), è importante che i giovani uomini superino il timore di sottoporsi alla visita andrologica che permette di identificare e risolvere molte delle problematiche citate. Durante la visita, il medico andrologo approfondisce la storia della persona focalizzandosi sulle abitudini di vita, la storia familiare e le eventuali malattie già presenti; se lo ritiene opportuno procede con alcuni esami di approfondimento come lo spermiogramma (che studia la quantità e il funzionamento degli spermatozoi) o l’ecografia ed, infine, imposta un percorso di cura. La fertilità va costruita fin da giovani!

Durante il primo rapporto sessuale non si può rimanere incinta. FALSO - Anche se è alla sua prima volta una donna può rimanere incinta; infatti, la condizione di “prima volta” non influisce assolutamente sulla capacità di concepire un figlio. Una volta che una donna ha iniziato ad ovulare (mese precedente alla prima mestruazione) ogni rapporto sessuale può finire in una gravidanza. Soprattutto tra gli adolescenti è diffusa la falsa credenza che una donna non possa rimanere incinta la prima volta che ha un rapporto sessuale. Lo conferma anche il National Health Service inglese che ribadisce la possibilità per una donna, che abbia già iniziato ad avere mestruazioni, di poter concepire un bambino anche se è la prima volta che fa sesso. Se si vogliono evitare gravidanze indesiderate è importante usare, fin dal primo rapporto, metodi anticoncezionali; è fondamentale parlarne con il proprio partner ed assicurarsi di utilizzarli correttamente. Inoltre, è essenziale, fin dalla prima volta, proteggersi contro le infezioni sessualmente trasmesse, avendo sempre rapporti protetti mediante l’uso del preservativo. È fondamentale, anche, che ogni donna, prima di iniziare ad avere rapporti sessuali, si rivolga ad un ginecologo che le comunicherà tutte le informazioni di cui ha bisogno.

Il papilloma virus infetta solo le donne. FALSO - Attualmente si stima che fino al 65-70% dei maschi contrae un’infezione da papilloma virus durante la vita. Nelle donne il picco di infezioni si ha verso i 20-25 anni, mentre negli uomini non c’è un’età maggiormente colpita. Molti ragazzi pensano che l’infezione da papilloma virus (HPV) non li riguardi e che sia un problema solo delle loro coetanee. Non è così! Questo falso mito è stato alimentato dal fatto che in molti paesi l’attenzione si è focalizzata sulla popolazione femminile in quanto l’HPV causa il tumore della cervice uterina; ma l’HPV causa anche i condilomi ano-genitali, i tumori ano-genitali e i tumori della testa-collo, sia negli uomini che nelle donne, trasmettendosi generalmente attraverso rapporti sessuali non protetti. In Italia, uno dei sistemi di sorveglianza sentinella dell’Istituto Superiore di Sanità per le infezioni sessualmente trasmesse mostra la grande diffusione di condilomi ano-genitali nei maschi, soprattutto tra i giovani con meno di 25 anni, con un aumento preoccupante negli ultimi anni (il numero di casi è duplicato tra il 2004 e il 2015) . Negli uomini i condilomi ano-genitali sono la manifestazione più frequente dell’infezione da HPV; tuttavia, anche se più rari, l’80-95% dei tumori anali, almeno il 50% dei tumori del pene e il 45-90% dei tumori della testa e del collo, nell’uomo sono associati all’HPV. Spesso le persone con un’infezione da HPV non mostrano sintomi particolari ma possono trasmettere il virus HPV al proprio partner. Per questo è indispensabile proteggersi attraverso l’uso del preservativo nei rapporti sessuali con un partner che non abbia fatto il test per HPV. Nel nostro paese l’offerta pubblica gratuita della vaccinazione contro l’HPV è rivolta sia alle femmine che ai maschi di 12 anni.

Il varicocele non serve trattarlo da piccoli. FALSO - Il varicocele ha una influenza negativa sia sulla crescita che sulla futura funzione del testicolo per cui, anche quando non ci sono le indicazioni al trattamento chirurgico, è opportuno effettuare controlli andrologici periodici. Con il termine varicocele si intende la dilatazione delle vene del testicolo. Essa è una delle più frequenti patologie dell’apparato genitale maschile e si osserva, quasi esclusivamente, nel periodo prepuberale e puberale (11-19 anni). Il trattamento di questa patologia è chirurgico e viene eseguito solo in particolari condizioni quali: presenza di dolore e/o senso di peso, ridotte dimensioni del testicolo colpito, varicocele palpabile o visibile (3° e 4° grado) o quando, terminato lo sviluppo puberale, si accerta un’alterazione della fertilità. L’incidenza del varicocele varia dal 2 al 15% nei bambini in età scolare e nel 93% dei casi interessa il testicolo sinistro, per struttura anatomica del sistema venoso. Le cause del varicocele sono molteplici: nelle forme primarie, probabilmente una debolezza congenita delle pareti venose associata ad incontinenza delle valvole, mentre, più raramente come accade nel varicocele secondario, una compressione della vena renale. Questa patologia è una causa importante, ma reversibile di ipofertilità o infertilità. Probabilmente il danno cellulare è dovuto alla lunga stasi venosa a cui conseguono accumulo di sostanze tossiche, riduzione dell’ossigeno disponibile e aumento della temperatura locale.

Sono impotente...ho bisogno della «pillolina»! Le cause dell’impotenza possono essere molto diverse: di tipo fisico (malattie endocrine, vascolari, neurologiche, diabete etc.) o psicologico (ansia, depressione, stress etc.) o di ambedue i tipi. È questa la motivazione per cui l’uso dei farmaci non è sempre la soluzione migliore; va, invece, identificata la terapia giusta eliminando anche eventuali fattori di rischio. Molti uomini pensano che, facendosi prescrivere un farmaco o addirittura prendendolo senza aver consultato un medico, possano porre rimedio alla propria impotenza in poco tempo, senza modificare il proprio stile di vita e senza sottoporsi ad accertamenti ulteriori: questo mito è falso. Nell’impotenza di origine psicologica è, infatti, indicata la psicoterapia, utile a identificare ansie personali o conflitti della coppia che possono aver causato questo deficit. In questo caso l’uso dei farmaci è richiesto solo se il disturbo è associato a specifiche condizioni, per esempio in presenza di depressione. Nei casi di impotenza di origine fisica o legata a problemi endocrini, invece, è indicato l’uso di farmaci. Oltre a questo, però, è importantissimo modificare anche alcuni fattori di rischio come il fumo, l’abuso di alcol, l’uso di droghe, lo scarso esercizio fisico, il sovrappeso e l’obesità. È fondamentale, quindi, che ogni uomo con impotenza si rivolga al proprio medico prima di iniziare a prendere qualsiasi tipo di «pillolina» che, come ogni farmaco, può presentare effetti collaterali e provocare disturbi di vario tipo, soprattutto cardiaci.

Ormai non ci si ammala più di Aids. FALSO - I dati del Centro Operativo AIDS dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) mostrano come, nel 2016, si siano registrati circa 800 nuovi casi di AIDS e 4000 nuove infezioni da HIV che, aggiunti a quelli già presenti, portano a circa 130.000 il numero totale delle persone sieropositive in Italia. Da qualche anno, complici anche i media che ne parlano poco o in maniera sbagliata, si è diffusa la falsa credenza che nessuno si ammali più della Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (AIDS). L’ultimo rapporto dell’ISS demolisce questo mito: l’HIV (virus che causa l’AIDS) è molto diffuso in Italia, principalmente attraverso rapporti sessuali (sia eterosessuali che omosessuali) non protetti. Infatti, i tempi in cui l’AIDS era dovuto allo scambio di siringhe tra tossicodipendenti è finito (erano gli anni ‘80 e ‘90): oggi il vero rischio si corre quando si ha un rapporto sessuale senza usare il preservativo. Oggi ci sono dei farmaci (antiretrovirali) che fortunatamente rallentano il progredire della malattia ma non la guariscono: l’AIDS rimane una malattia letale. Per evitare di ammalarsi di AIDS, malattia che indebolisce il sistema immunitario provocando gravi infezioni, polmoniti, meningiti e tumori, è importantissimo scongiurare di infettarsi con l’HIV avendo sempre rapporti sessuali protetti ed evitando comportamenti a rischio, come lo scambio di siringhe con altre persone. Prima di sviluppare i sintomi dell’AIDS, una persona sieropositiva rimane asintomatica per molti anni e quindi non è possibile capire se è infetta. Per questo molte persone che sono sieropositive non hanno ancora scoperto d esserlo perché non hanno fatto un test per l’HIV. Ecco perché è così importante usare sempre il preservativo quando si hanno rapporti sessuali con partner di cui non conosciamo il risultato del test HIV. In caso di rapporto sessuale senza preservativo o di altri comportamenti a rischio, è indispensabile sottoporsi al test specifico per l’HIV che si effettua attraverso un normale prelievo di sangue. Per eseguire il test, nella strutture pubbliche, non serve ricetta medica. Il test è gratuito e anonimo Il Servizio Sanitario Nazionale, per le persone positive al test HIV, prevede un’assistenza medica gratuita e una tempestiva terapia farmacologica che permette, oggi, di vivere meglio e più a lungo.

Non posso rimanere incinta con il coito interrotto. FALSO - Anche con il coito interrotto è possibile rimanere incinta poiché il liquido pre-eiaculatorio, emesso prima dell’orgasmo, può ugualmente fecondare l’ovulo femminile; inoltre, è bene ricordare che questa pratica non protegge dalle infezioni sessualmente trasmesse. Ancora oggi molte coppie sono convinte che interrompere la penetrazione poco prima dell’eiaculazione sia un metodo efficace per evitare una gravidanza: questa convinzione non ha riscontri su base scientifica. In questi casi il rischio di una gravidanza è legato alla presenza di spermatozoi nelle secrezioni che precedono l’eiaculazione durante un rapporto sessuale. Questa piccola quantità di spermatozoi è in grado di fecondare un ovocita. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che la percentuale di donne che ha avuto una gravidanza indesiderata impiegando il metodo del coito interrotto durante il primo anno di utilizzo, varia dal 4 al 27% a seconda dell’attenzione che si ha nel praticarlo. Inoltre, questo tipo di pratica anticoncezionale non evita la trasmissione di batteri e virus per via sessuale che sono contenuti nel liquido pre-eiaculatorio. È, quindi, importante avere sempre rapporti protetti mediante l’uso del preservativo invece di affidarsi al coito interrotto.

Con i rapporti orali non si trasmettono le malattie sessuali. FALSO - Anche i rapporti orali presentano un rischio di trasmissione di malattie sessuali a causa del contatto tra lo sperma o i liquidi vaginali e la mucosa della bocca. Molte persone sono convinte che, avendo solo rapporti orali, siano protette dalle infezioni trasmesse per via sessuale: questo è un altro falso mito! È vero che questo tipo di rapporto presenta un rischio di contagio inferiore rispetto a quello vaginale o anale, ma l’HIV o la sifilide, per esempio, possono essere trasmessi attraverso il contatto della mucosa della bocca con lo sperma o i liquidi vaginali. Questo rischio aumenta se ci sono delle piccole ferite o lesioni (anche non visibili a occhio nudo) sui genitali o nella bocca, oppure se ci sono alterazioni gengivali o sanguinamento gengivale: in questi casi lo sperma o il liquido vaginale (infetti) entrano in contatto diretto con le ferite aperte presenti in bocca ed i microrganismi possono così infettare chi ha praticato il rapporto orale. Anche le altre infezioni sessualmente trasmesse, come la gonorrea, l’epatite B, l’herpes genitale e l’infezione da papilloma virus, possono diffondersi attraverso il sesso orale mediante gli stessi meccanismi. In particolare, se il papilloma virus infetta la bocca o la gola può causare delle lesioni che possono evolvere in cancro della bocca, del collo o della faringe. Per tutti questi motivi, tale pratica sessuale non è certamente da considerarsi sicura, soprattutto se compiuta con partner che non abbiano effettuato uno screening completo per le infezioni sessualmente trasmesse. Anche durante questa pratica è, quindi, importante utilizzare metodi di protezione, come il preservativo o i dental dam (sottilissimi fogli in lattice) che impediscono il contatto tra lo sperma, i liquidi vaginali, il sangue e la mucosa della bocca.

Mal di testa: dieci miti da sfatare, scrive Laura Cuppini il 9 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Esistono vari tipi di mal di testa, con manifestazioni e terapie diverse. La prima distinzione è tra cefalee primarie e cefalee secondarie. Nelle primarie (emicrania, cefalea tensiva e cefalea a grappolo) il dolore alla testa è esso stesso malattia; nelle secondarie, invece, è uno dei sintomi con cui si manifestano altre malattie (per esempio l’influenza o patologie gravi come le encefaliti). La forma di cefalea primaria più diffusa tra i bambini è l’emicrania, che in Italia colpisce oltre 8 bambini e ragazzi su 100. Ecco dieci leggende (false) che circolano sul mal di testa.

«Il mal di testa riguarda solo gli adulti». Falso: può presentarsi a qualsiasi età. Anche nei primi mesi di vita si possono manifestare dei sintomi - come le coliche infantili - riferibili all’emicrania. In Italia un bambino/adolescente su dieci è colpito da una qualche forma di mal di testa.

«Ha origine psicologica». Il mal di testa, quando è espressione di una cefalea primaria, è legato a una predisposizione costituzionale. I fattori psicologici devono essere presi nella dovuta considerazione, soprattutto nei casi particolarmente gravi (perché possono peggiorare i sintomi) ma le cause dell’emicrania o della cefalea tensiva, è fondamentale ricordarlo, sono di tipo organico.

«Dipende da problemi alla vista». Il mal di testa non è sintomo di difetti della vista, non ci sono legami diretti. In ogni caso la visita oculistica viene fatta per la valutazione del fondo oculare: un esame necessario per individuare un’eventuale ipertensione endocranica.

«È un effetto della sinusite». La sinusite non è un problema che riguarda i bambini più piccoli di 8 anni, perché i seni nasali non sono ancora anatomicamente sviluppati. Eventuali diagnosi di sinusite associata a mal di testa (e conseguenti cure con aerosol) prima di questa età rischiano quindi di essere errate. Anche dopo gli 8 anni, i casi di cefalea associata in maniera esclusiva alla sinusite sono pochissimi (1-2%).

«Non serve uno specialista». Il mal di testa non è una cosa “innocua”, anzi può essere un campanello di allarme per altre patologie. In molti casi il problema può essere gestito dal pediatra, ma - se è bene non allarmarsi per un singolo episodio - bisogna affrontare correttamente le cefalee che, per assiduità e intensità, interferiscono con la vita quotidiana. I bambini con mal di testa frequenti che rispondono poco alle terapie antidolorifiche devono essere visitati in un Centro specializzato.

«Bisogna abituarsi al dolore». Le cefalee si possono e si devono curare per alleviare il dolore e ridurre l’effetto disabilitante. Mal di testa non adeguatamente trattati possono comportare la sensibilizzazione delle aree del cervello deputate all’elaborazione del dolore, che in questo modo cominceranno a interpretare come dolore anche i segnali di tipo non doloroso. Di conseguenza può aumentare la frequenza degli attacchi e il disturbo rischia di diventare cronico.

«Puoi curarlo da solo». Le terapie devono essere sempre impostate e seguite sotto controllo medico. Sbagliare il dosaggio degli antidolorifici o assumerne più di 15 dosi mensili può portare alla cronicizzazione del mal di testa. È sbagliato anche dare ai bambini una quantità ridotta di farmaco rispetto a quella adeguata al peso e prescritta dal medico: il rischio è che l’antidolorifico non risulti efficace e che il genitore sia costretto, al ripresentarsi del dolore, a somministrare più dosi del dovuto.

«Bastano gli integratori». Vengono spesso prescritti al posto dei farmaci, ma ad oggi non esistono evidenze scientifiche sull’efficacia degli integratori a base di erbe per la cura del mal di testa. Ci sono invece studi che confermano l’elevata efficacia dell’effetto placebo in età pediatrica (fino al 60% tra i bambini con cefalea). Effetto placebo non significa “ingannare”, bensì stimolare con un meccanismo psicologico la produzione di sostanze con proprietà analgesiche: le endorfine. In molti casi, alla somministrazione di una sostanza inerte (senza principio attivo), il corpo dei bambini risponde producendo naturalmente sostanze antidolorifiche.

«Un farmaco vale l’altro». Gli antidolorifici hanno effetti diversi a seconda del principio attivo di cui sono composti. In Italia è molto comune l’uso del paracetamolo, tuttavia il farmaco di prima scelta per tenere sotto controllo il mal di testa è l’ibuprofene, molecola con maggiori evidenze di efficacia documentate in letteratura scientifica.

«Il mal di testa non si può prevenire». Falso: le possibilità di prevenzione esistono, sia di tipo farmacologico che non farmacologico (stili di vita). Condurre una vita regolare evitando l’esposizione a temperature estreme, sovraccarichi di stress, alterazioni del ritmo sonno-veglia e dormendo un adeguato numero di ore, tiene sotto controllo la frequenza degli attacchi di mal di testa.

Ictus, i dieci miti da sfatare, scrive Paola Arosio il 27 ottobre 2016 su "Il Corriere della Sera". Ictus è una parola latina, che significa «colpo». Perché arriva proprio così, senza preavviso. «Si tratta di un danno cerebrale che si verifica quando l’afflusso di sangue diretto al cervello si interrompe improvvisamente per la chiusura di un’arteria o quando un’arteria cerebrale si rompe determinando un’emorragia», spiega Gianfranco Parati, direttore dell’Unità operativa di Cardiologia all’ospedale San Luca - Istituto auxologico italiano di Milano, professore ordinario di Malattie cardiovascolari all’Università di Milano-Bicocca e presidente della Società italiana dell’ipertensione arteriosa (Siia). In Italia, la malattia interessa ogni anno oltre 200mila persone e costituisce la terza causa di morte dopo le patologie del cuore e i tumori. Nonostante ciò, continuano a circolare sul suo conto leggende metropolitane infondate, che hanno il nefasto effetto di ostacolare la prevenzione, il trattamento, la riabilitazione. In occasione della Giornata mondiale contro l’ictus, che si celebra il 29 ottobre ed è promossa dalla World stroke organization, ecco le dieci leggende da sfatare.

Esiste un solo tipo di ictus. Falso. Ce ne sono due tipi:

ictus ischemico: si verifica in circa l’80% dei casi. Si genera quando, all’interno di un’arteria cerebrale, si forma un coagulo di sangue, il trombo, che restringe il vaso sanguigno, limitando, e in alcuni casi impedendo, la circolazione del sangue;

ictus emorragico: è la forma più grave, potenzialmente fatale. In questo caso, si rompe la parete di un vaso sanguigno «debole» e il sangue si diffonde nelle zone del cervello circostanti.

L’ictus colpisce solo gli anziani. Falso. Pur essendo una malattia più frequente negli over 65, può colpire anche i giovani e, a volte, i bambini. Annualmente si verifica un caso di ictus giovanile (sotto i 45 anni) ogni 10mila persone e, secondo i dati più recenti, queste cifre risultano in costante aumento, soprattutto a causa di comportamenti errati come fumo, alimentazione ricca di cibi grassi e salati, scarsa attività fisica, abuso di alcol.

Le donne che assumono la pillola contraccettiva sono ad alto rischio. Questo è solo parzialmente vero. «Secondo i ricercatori della Loyola University, che hanno pubblicato un rapporto su MedLink Neurology, ogni 100mila donne in età fertile si registrano 4,4 ictus ischemici. La pillola aumenta il rischio di 1,9 volte, facendo salire l’incidenza a 8,5 ictus ogni 100mila donne: cioè una donna ogni 24mila che prendono la pillola. Si tratta dunque di un rischio abbastanza basso - chiarisce Parati -. Il rischio aumenta però in maniera significativa nelle donne con età maggiore di 35 anni, fumatrici, con ipertensione arteriosa o con emicrania, che assumono una pillola ad alto contenuto di estrogeni. Secondo gli autori dello studio, queste donne dovrebbero essere dissuase dall’utilizzo dei contraccettivi orali. La pillola non sembra, invece, in grado di aumentare il rischio di ictus emorragico».

La terapia ormonale sostitutiva dopo la menopausa protegge dall’ictus. Falso. «Contrariamente a quanto si pensava alcuni anni fa, la terapia ormonale sostitutiva post menopausale non ha un effetto protettivo sul rischio di ictus, ma può addirittura avere un effetto peggiorativo - specifica Parati -. È quindi importante che queste terapie vengano personalizzate, valutando il profilo complessivo di rischio della donna che le deve assumere».

Fare il pieno di vitamina D tiene alla larga l’ictus. Falso. Ad avere un effetto protettivo sono soprattutto omega 3, fibre, vitamine B6 e B12, calcio e potassio, che, attraverso la regolazione della pressione arteriosa, diminuiscono il rischio di ictus. Ciò che conta è comunque avere un’alimentazione varia ed equilibrata e in particolare:

1) mangiare pesce almeno due volte alla settimana, soprattutto salmone, pesce spada, pesce azzurro, trota;

2) portare in tavola almeno cinque porzioni di verdura/frutta al giorno;

3) limitare il consumo di sale;

4) ridurre l’assunzione di grassi e di condimenti di origine animale, preferendo quelli di origine vegetale, come l’olio di oliva;

5) bere non più di un paio di bicchieri di vino al giorno.

Il sintomo più comune dell’ictus è il mal di testa. Falso. Il dolore al capo contraddistingue il 30% circa degli episodi. Nel restante 70% dei casi, può succedere di non riuscire più a muovere un braccio, una gamba o entrambi gli arti dello stesso lato del corpo, avere la bocca storta, non vedere bene, far fatica a parlare e camminare, non essere in grado di coordinare i movimenti e stare in equilibrio.

In caso di sospetto ictus si può chiamare la guardia medica o il medico di famiglia. Falso, perché si perde tempo. Occorre invece contattare subito il 118, spiegando con chiarezza cosa sta accadendo. «L’ictus è un’emergenza - avverte Parati -, perciò la persona con sospetto attacco deve essere trasportata con urgenza in ospedale, precisamente nei centri organizzati per contrastare con efficacia l’evento, in quanto dotati di Unità di emergenza per ictus, chiamate anche Stroke Unit. In questi reparti è disponibile un team di professionisti (medici, infermieri, fisioterapisti) che conoscono bene il problema e sono in grado di trattare il paziente nel miglior modo possibile».

Per curare l’ictus non ci sono farmaci. Falso. Le cure, anche farmacologiche, esistono. «È importante innanzitutto verificare, tramite una Tac, se si tratta di un ictus ischemico o emorragico perché l’approccio terapeutico è diverso - spiega Parati -. Nel primo caso si somministrano, in genere per via endovenosa, farmaci trombolitici (o fibrinolitici), che permettono la dissoluzione del trombo che ostruisce l’arteria, ripristinando il circolo sanguigno. Una terapia efficace, che deve, però, essere somministrata entro quattro ore e mezza dalla comparsa dei sintomi. Da qui l’importanza della tempestività dei soccorsi. Inoltre, da circa un anno è stata introdotta una nuova procedura, la trombectomia meccanica, ovvero l’aspirazione o la rimozione del trombo dall’arteria attraverso micro-cateteri e altri piccolissimi strumenti. Il trattamento dell’ictus emorragico è più complesso: si punta innanzitutto a controllare la pressione arteriosa, l’emorragia e l’ematoma cerebrale. Solo in alcuni casi è necessario un intervento chirurgico».

Dopo il primo ictus ne arriva spesso un altro. Falso. Il secondo ictus si verifica solo nel 10% dei casi, ma ciò non significa che si può abbassare la guardia. Per evitare una recidiva è fondamentale, oltre ad adottare corretti stili di vita, effettuare almeno due volte all’anno le visite di controllo dal neurologo e da altri specialisti, come il cardiologo, ed eseguire gli esami richiesti, come ecocolordoppler dei vasi del collo, doppler transcranico, ecocardiogramma. «In caso di ipertensione arteriosa - aggiunge Parati -, occorre verificare il raggiungimento di un regolare controllo della pressione con una terapia che copra in modo omogeneo le 24 ore, riducendo anche la variabilità dei valori pressori».

Dopo tre mesi non è più possibile il recupero. Falso. Il recupero dopo un ictus è un processo lungo e impegnativo, che può dare risultati anche a distanza di sei-otto mesi. Perciò, da un lato, è importante non scoraggiarsi, dall’altro avere la consapevolezza che non sempre è possibile “tornare come prima”. «Il grado di recupero dipende da vari fattori, come l’area cerebrale colpita, la gravità del danno, l’età e lo stato di salute del malato - avverte Parati -. Alcuni pazienti arriveranno perciò a una completa guarigione, altri dovranno invece fare i conti con un deficit residuo». In ogni caso è utile effettuare con costanza la riabilitazione che, in un primo momento, si svolgerà in ospedale con il supporto di fisiatri, fisioterapisti, logopedisti, e poi dovrà continuare a casa.

Cecità: 8 falsi miti da sfatare, scrive "Il Corriere della Sera" il 13 dicembre 2017. Il 13 dicembre è la Giornata Nazionale del Cieco, un’occasione per evidenziare la difficile quotidianità che oltre 300 mila ciechi e 1,5 milioni di ipovedenti devono affrontare. L’Unione Ciechi sfata 8 falsi miti.

Il linguaggio: qual è il termine corretto? «Cieco» o «non vedente» o «privo della vista»? Meglio dire «cieco» che «non vedente». I termini utilizzati non cambiano la realtà di chi vive una situazione di minorazione sensoriale, né contribuiscono a ridurre lo svantaggio potenziale. MA può integrare. È per questo che l’associazione che riunisce le persone che convivono con questo handicap, da sempre, si chiama «Unione Italiana Ciechi (e ipovedenti)». Venne fondata a Genova il 26 ottobre 1920 da Aurelio Nicolodi, il primo ufficiale che perse la vista durante la Grande Guerra. Più che ricorrere ai giri di parole è fondamentale garantire a tutti uguali diritti e pari opportunità.

A scuola. Capita ancora oggi di leggere la celebrazione del successo di una studentessa non vedente che si è laureata. La laurea di una persona non vedente fa ancora notizia? Uno studente con disabilità visiva, se messo nelle condizioni giuste, può seguire un normale iter scolastico senza per questo essere considerato «un fenomeno».

Tecnologia. Le nuove tecnologie hanno decisamente migliorato la vita delle persone con disabilità visiva. Un cieco può facilmente leggere e inviare un sms, scrivere una mail, navigare su internet, e molto altro. E lo può fare in totale autonomia, grazie all’utilizzo di software accessibili che permettono per esempio, la riproduzione vocale dello schermo. Se il criterio per individuare un falso cieco è l'uso di uno smartphone, la strada da percorrere per riconoscere a tutti uguali diritti è ancora lunga.

Sport. L’attività sportiva è ancora più importante per una persona con disabilità visiva. È fondamentale per accrescere l’autostima e le relazioni sociali, per orientarsi e muoversi nello spazio. Oltre agli sport dedicati (torball, calcio a 5...), i ciechi praticano molte altre attività fisiche: atletica leggera, judo, nuoto, sci di fondo e talvolta anche alpino, tiro con l'arco, potendo annoverare anche atleti paralimpici in alcune di queste discipline.

L'affettività. Se l’uomo che sposa una non vedente è un santo, la donna che sposa un cieco è la sua badante. Passerà la sua vita nuziale nella paziente cura del marito non vedente. Di fronte a questi matrimoni, il gossip è alimentato dalla domanda: ma perché avrà sposato proprio un non vedente? Si amano. Quest’affermazione non è ancora fra le risposte.

La vita di tutti i giorni. Una persona non vedente può anche occuparsi, pressoché in autonomia, della cura delle persone e della casa, dei figli seguendoli nei compiti e nei giochi, cucinare e svolgere molte altre attività tra le mura domestiche. Non diciamo nulla di nuovo quando ricordiamo l’episodio di una persona non vedente che è stata tacciata come falsa invalida perché «sorpresa» a stendere i panni sul balcone. Non è un falso cieco chi tira fuori la chiave e apre la porta di casa, come non lo è chi pianta un ombrellone sulla spiaggia o stende i panni sul balcone.

Lavoro. Il lavoro come diritto e come opportunità è l’unica strada da percorrere per una vera emancipazione civile e per un’effettiva indipendenza delle persone con disabilità visiva. Ma oggi in Italia per i ciechi e gli ipovedenti il lavoro è diventato un’emergenza assoluta: sono oltre il 75 per cento le persone con disabilità visiva disoccupate o in cerca di occupazione, una percentuale che aumenta ulteriormente se si parla di giovani. Le professioni che i ciechi possono praticare non sono solo quelle di centralinista o massofisioterapista, ma se un lavoratore con disabilità visiva ha a disposizione gli strumenti necessari, può svolgere molte più professioni qualificate di quelle che ci si immagina.

L'opinione dell'Uici. «Per chi non ha contatti con persone cieche o ipovedenti risulta ancora difficile pensare a loro come soggetti che lavorano, vanno al cinema e a teatro, hanno famiglia, accudiscono casa - sottolinea Mario Barbuto, presidente Uici -. In questa ricorrenza diventa importante sottolineare che i diritti dei ciechi sono uguali a quelli di tutti, cambiano solo le modalità con cui vengono esercitate, come per esempio nello studio, che necessita della presenza di determinati ausili affinché questo diritto sia praticabile. Lo stile di vita delle persone cieche e ipovedenti è cambiato significativamente negli ultimi anni soprattutto grazie allo sviluppo della tecnologia, ma questo non è sufficiente a garantire la loro inclusione sociale; per questo è necessaria una trasformazione culturale, che renda la nostra società davvero accessibile a tutti».

Donazione di sangue. Cinque miti da sfatare, scrive Luigi Ripamonti il 14 giugno 2017 su "Il Corriere della Sera". Un buon modo per celebrare la giornata nazionale della donazione di sangue può essere quella di smentire alcune fake-news (come si dice adesso) che circolano da quando esiste questa civilissima pratica.

Mito 1: Prendono il sangue anche a chi non dovrebbero. Se qualcuno ha paura che gli vogliano “succhiare il sangue” a suo detrimento si rassicuri: diventare donatori di sangue non è facilissimo, è necessario avere precise caratteristiche corporee (età, peso, altezza), quindi nessuno viene privato di plasma e globuli rossi se il suo fisico non è in grado di sopportarlo. Senza contare che bisogna anche avere esami “a posto” e abitudini di vita adeguate. Quindi, già il fatto che ci si debba sottoporre a una specie di check-up gratuito significa che nessuno si approfitta dei donatori, e anzi, si preoccupa che siano sani e di mantenerli tali il più a lungo possibile.

Mito 2: Dopo la donazione si rimane deboli. Quanto all’indebolimento chiariamo subito che a nessuno viene tolto “troppo” sangue. Quello che viene estratto si rigenera in poco tempo: dopo la donazione la concentrazione di globuli bianchi e delle piastrine non è sostanzialmente diversa rispetto a prima. Il corpo può avvertire la perdita della parte liquida del sangue, che però è molto esigua rispetto al totale. E comunque il rimedio scatta in tempo reale. Prima ancora di sfilare l’ago, l’organismo ha già organizzato una strategia di compensazione per cui fluidi che sono fuori della circolazione vengono fatti confluire nei vasi. Intanto il calibro dei vasi si restringe per riflesso e quindi scatta un altro sistema di adattamento. Infine, dopo il prelievo si beve e si comincia a contribuire attivamente al “recupero”. Senza contare che, poco dopo, si attivano meccanismi a livello renale e del midollo osseo che fanno aumentare notevolmente la produzione di sangue e dei suoi componenti.

Mito 3: Donando sangue si mette a rischio la salute. È provato che chi compie questo gesto con regolarità gode di buona salute perché viene controllato periodicamente (e quindi avvertito in tempo di eventuali problemi senza pericolo che li trascuri). Non solo, per essere accettati tra i donatori (e “passare” l’esame rappresentato dai controlli periodici prima di stendersi sulla poltrona dei prelievi) si è invogliati a mantenere uno stile di vita sano, e anche questo “fa stare meglio”. Infine, donare sangue è un bel gesto, che accresce l’autostima.

Mito 4: Sui fa allarmismo sulla carenza. Di sangue c’è molto bisogno perché la richiesta non cessa mai, sostenuta com’è, solo per fare qualche esempio, dall’aumento dell’età media della popolazione (col relativo corredo di patologie), dall’incremento del numero di trapianti e di altri interventi chirurgici importanti (che possono facilmente richiedere trasfusioni), dagli incidenti stradali eccetera. La raccolta di sangue riveste quindi un ruolo cardinale per l’efficienza di un sistema sanitario.

Mito 5: Sarebbe meglio pagare i donatori. La raccolta di sangue salva molte vite, ma non “solo”. Pensare infatti che la donazione sia soltanto un nobile gesto che esaurisce la propria funzione subito dopo che la “sacca” è stata stoccata dal centro trasfusionale è un errore. Questa azione ha un impatto sociale che va molto al di la della già vitale importanza rappresentata dai centilitri di liquido biologico messi a disposizione di chi ne ha più bisogno. Visto che i donatori godono di un livello di benessere superiore alla media della popolazione, per la collettività avere molti donatori non significa solo poter far fronte alle emergenze e alle richieste di unità rosse, ma anche poter contare su molti cittadini dalla vita più sana. In termini sociali questo significa disporre di una massa critica di salute che fa sentire il suo peso sull’intero sistema. Anche sotto il mero profilo economico. Insomma chi dona il sangue migliora la propria esistenza e quella degli altri (e non solo di quelli che riceveranno il suo sangue). l nostro è uno dei Paesi dove il sangue non si compra: può essere dato e ricevuto solo gratuitamente (plasma compreso, a differenza di alcuni Stati europei). Si tratta di un segno e di un patrimonio di civiltà da conservare e proteggere, con un senso civico che ne sia all’altezza. In caso contrario all’orizzonte ci sarebbero ad aspettarci le “leggi del mercato”. E in questo caso sarebbe meglio, molto meglio, non invitarle a nessun vampiresco banchetto. Per prevenire questa deriva può fare molto l’impegno delle associazioni che si occupano della raccolta di sangue e della promozione della donazione. Ma quello che funziona di più è l’esempio, soprattutto per i giovani, cioè la fetta di popolazione che più manca all’appello della donazione. Conoscere un donatore conta più di mille parole. È il modo migliore per capire che donare sangue è un vero affare, che conviene a tutti.

Vino, ecco i 5 falsi miti da sfatare, scrive il 4 gennaio 2018 Luciano Ferraro su "Il Corriere della Sera". Del vino non si sa mai tutto. “Ciò che vi farà sentire a vostro agio in materia di vino è accettare il fatto che non saprete mai tutto, e come voi praticamente chiunque”. Ed Mc Carthy e Mary Ewing-Mulligan 17 anni fa elencarono in un libro le nozioni base per non sfigurare davanti a un calice (“Vino per negati”, Oscar Mondadori). Invitando a vivere il vino come fonte di piacere più che come motivo d’ansia. Esperti, enosnob, cultori duri e puri della materia sono però sempre in agguato, pronti a indignarsi per la pronuncia sbagliata di un vitigno raro della Val d’Aosta. Le certezze granitiche (“con il pesce si deve bere solo il bianco”) vanno di pari passo agli errori. Ne esistono a decine, ed è normale: perché il vino è una materia vasta, complessa e spesso incomprensibile quando divulgata da professionisti che parlano con linguaggio tecnico. I sommelier di Daniel Boulud, chef con 13 ristoranti negli Stati Uniti, hanno organizzato una cena per sfatare cinque falsi miti, servendo vini che dimostrano il contrario di quanto comunemente si pensa. A una di queste cene c’era il critico Eric Asimov, che sul New York Times ha raccontato il test. Ecco i 5 errori relativi a “convinzioni che possono aver avuto origine nel costume, magari con un atomo di verità, diventando ortodossia nel tempo”.

Mai vini dolci con piatti. Molti ritengono che i vini dolci siano da servire solo al momento del dessert. Errore, se il vino dolce è anche fresco, ovvero possiede un buon grado di acidità, può essere associato anche a cibi salati, hanno dimostrato i sommelier di Daniel. “Il risultato - scrive Asimov - è come un emozionante percorso di un funambolo mentre il vino sta in equilibrio tra dolce e secco. I vini sono indiscutibilmente dolci, ma l’acidità pulisce ogni sensazione stucchevole, lasciando una sensazione secca e rinfrescante”. Esempi: alcuni Riesling tedeschi, come quelli di Wehlener Sonnenuhr, un Dr. LooSen spätlese del 2015 e un kabinett JJ Prüm 2007. Per vincere l’avversione ai vini dolci a pasto è stato servito foie gras, tradizionalmente accostato al Sauternes. “Anche così, molti dei commensali sembravano non persuasi”, ha notato Asimov.

Bianchi gelidi, rossi caldi. Quello della temperatura di servizio è uno degli errori più comuni soprattutto nei ristoranti. Con il passare degli anni i bianchi arrivano a tavola sempre più gelidi. Per i rossi c’è un frainteso: la “temperatura ambiente” alla quale ci si riferisce, non è quella delle case e dei locali di oggi, surriscaldati. Consiglia Asimov: togliete i bianchi di qualità dal frigo mezz’ora prima di servirli, fate in modo che la bottiglia di rosso sia fresca al tatto. “La temperatura ambiente moderna può spesso far sembrare flaccido un buon rosso”. Un consiglio: se la bottiglia sembra calda, fatele fare un passaggio in frigo di 15 minuti prima di stappare o immergetela in un secchiello con il ghiaccio per 10 minuti.

Bianco con il pesce, rosso con la carne. Luigi Veronelli li chiamava “matrimoni d’amore”, perché un piatto e un vino per stare assieme devono trovare la loro armonia. Per scegliere gli abbinamenti la tecnica migliore è quella di affidarsi più al gusto che ai canoni tradizionali. Alla cena di Daniel è stato dimostrato, ad esempio, che salmone, tonno e polpo si abbinano bene con i rossi leggeri. E’ stato servito un piatto di salmone con una salsa di fichi e finocchio, assieme a due rossi californiani, dei quali si celebra più la potenza che l’agilità: un Cabernet sauvignon 2014 e un Merlot 2014 di Iconnu Wine, dalla contea di Sonoma. Sono stati convincenti. “Ma avrei preferito un Pinot nero”, ha chiosato Asimov.

Prima di tutto l’annata. Ci sono appassionati di vino che prima di acquistare una bottiglia in enoteca controllano le recensioni sulle annate. Asimov avverte che questa può essere una idea che funziona per chi vuole investire, ovvero non bere la bottiglia ma rivenderla dopo qualche tempo. Ma per chi vuole solo gustare un vino, può essere uno spreco di soldi. Un esempio: “Gli amanti di Bordeaux che si sono concentrati sulle annate 2000 e 2010 avrebbero potuto trovare vini simili anche nel 2001 e 2011. Ciò che costituisce una grande annata è spesso una questione di opinione”. La prova è stata fatta con due francesi della Côte-Rôties, Domaine Ogier 2010, super annata, e Domaine Jamet 2011, inferiore alla precedente. Sorpresa: “Il 2011 è risultato più generoso, il 2010 era rigido e reticente”.

Vino rosso con il formaggio. E’ vero, ma non sempre. I sommelier di Daniel hanno provato con due formaggi di capra, uno francese, l’altro del Vermont. Hanno scelto un bianco, l’Etoile 2013 di Domaine de Montbourgeau, nello Jura, a base di Chardonnay e Savagnin. E una birra americana, la Sakura di Carton Brewing. Asimov è un convinto sostenitore del matrimonio birra-formaggio, anche se la Sakura gli è sembrata troppo acida, mentre il bianco era perfetto. La cena degli errori e dei falsi miti sul vino si è chiusa così, ma avrebbe potuto continuare a lungo.

Pesce, otto miti da sfatare: dal prezzo alle calorie, fino all’inquinamento, scrive Carlotta Garancini il 15 maggio 2017 su "Il Corriere della Sera". Informazioni fuorvianti. Siamo una penisola e il pesce non è mai mancato sulle nostre tavole. Ci hanno sempre detto che fa bene alla salute e, con l'arrivo del caldo, lo consumiamo ancora più volentieri perché è leggero e fresco. Riguardo al pesce però non sappiamo tutto, anzi, in molti casi le informazioni che riceviamo sono sbagliate e fuorvianti. Per questo, in occasione di Slow Fish 2017 (dal 18 al 21 maggio al Porto Antico di Genova), Slow Food ha stilato, insieme a ricercatori e dietisti, una lista di otto miti da sfatare sul pesce. Scopriamo quali sono e perché essere informati correttamente aiuta a salvaguardare la nostra salute (e anche il nostro portafoglio).

Il sushi si fa con il pesce fresco. Quando mangiamo pesce crudo il rischio che corriamo è quello di ingerire l'anisakis, un parassita che provoca infiammazioni allo stomaco e all'intestino e che può causare reazioni allergiche anche gravi. Per essere mangiato crudo, come nel caso del sushi, il pesce deve essere sì fresco, ma abbattuto. I ristoranti, come prevede la legge, devono congelarlo in un abbattitore che lo porta velocemente a una temperatura di -18 gradi; in casa occorre, invece, conservarlo per almeno 96 ore in un freezer contrassegnato con tre o più stelle.

Il salmone è il re della dieta. Spesso il salmone è il pesce più consigliato nelle diete, anche quelle ipocaloriche. Niente da dire su quello selvaggio, ma secondo Slow Food, invece, ci sarebbero tante ragioni per non mangiare quello di allevamento. Qualche esempio? I salmoni di allevamento sono rosa perché nei loro mangimi è presente una sostanza colorante, inoltre i pesci vengono nutriti anche con farine derivanti da scarti di macellazione (e se pensiamo al caso "mucca pazza" non è rassicurante) o con altri pesci (per 1 chilo di salmone allevato si uccidono 5 chili di pesci pescati), un aspetto che non li rende sostenibili. In ultimo, le loro calorie: in 100 gr di salmone fresco ci sono circa 180 calorie, mentre nelle alici 96, nei calamari 70, nelle cozze 60.

Il pesce bistecca è più caro e quindi più di qualità. Per "pesce bistecca" si intende il pesce che non ha spine e si cucina e consuma al pari di una fetta di carne, come il pesce spada o il tonno. Non si tratta di un pesce più di qualità, ma di un pesce solo più comodo da mangiare. E in realtà è vero proprio il contrario: sono specie dal ciclo vitale lungo più di una stagione, che attraversano diversi mari prima di essere catturati e che, attraverso le loro carni, ci trasmettono tutto il loro carico di contaminanti e metalli pesanti. La pesca intensiva del pesce spada e del tonno, quello rosso in particolare, inoltre ha messo a dura prova gli stock ittici, non lasciando ai giovani esemplari la possibilità di crescere e diffondersi al di sopra della soglia di rischio.

Il pesce fresco è pesce locale. Il pesce fresco che troviamo sui banchi del pesce ogni giorno in Italia? Proviene da 40 Paesi, non solo da quelli affacciati sul Mediterraneo dunque, ma anche su Pacifico e Atlantico. Se vogliamo essere sicuri di acquistare pesce locale dobbiamo leggere l'etichetta che deve riportare per obbligo di legge: la denominazione commerciale della specie (es. “orata”); il metodo di produzione (che può essere “pescato”, “pescato in acque dolci”, “allevato”); la zona di cattura Fao (es. “Area 47: Atlantico, Sudest”) o il Paese in cui è stato allevato; lo stato fisico (decongelato o scongelato); la presenza di additivi (che possono essere, ad esempio, solfiti).

Non esiste una stagionalità dei pesci. Se si rispettano i tempi di riproduzione (e dunque il fermo pesca) e se si scelgono specie provenienti dai mari più vicini a noi (il Mediterraneo, il Mar Nero, l'Atlantico nord-orientale), esistono le stagioni giuste anche per i pesci. Cosa possiamo cucinare, ad esempio d'estate, di italiano e locale? Alici, gallinelle, lampughe, orate, ricciole, saraghi, sardine, spigole...

Le sogliole sono tutte uguali anche se i prezzi sono diversi. Il taglio del filetto o le dimensioni dell'esemplare non sempre giustificano il costo. Trovare prezzi molto diversi di pesci della stessa specie (sogliola, polpo, baccalà) è sempre più dovuto purtroppo al fenomeno della sostituzione di specie. A dispetto di cosa riporta l’etichetta, possiamo acquistare una lenguata senegalese (valore 4 euro/kg) al posto della sogliola, il brosme (valore 7 euro/kg) al posto di stoccafisso e baccalà, i moscardini al posto dei polpi (valore 4 euro/kg) e rimanere così vittime di frodi commerciali. Come difenderci? Non c'è altro modo che conoscere l'anatomia del pesce ed essere preparati quando andiamo a fare la spesa.

Vongole e cozze sono inquinate. Scegliere di mangiare vongole e cozze aiuta a non consumare (e stressare) sempre i soliti pesci. Questi molluschi sono inoltre gustosi e ricchi di proprietà e la mitilicoltura è una delle forme di allevamento più sostenibili. Vongole e cozze si nutrono dei microrganismi presenti nell'acqua e non hanno bisogno di mangimi, ma l'ambiente in cui vengono allevate deve essere sicuro. Per questo gli allevamenti di qualità privilegiano basse densità e favoriscono adeguati ricambi delle acque. Come per tutti i molluschi, quando le acquistate assicuratevi che siano contenute in reti sigillate con un’etichetta che ne indichi varietà, scadenza e provenienza.

Mangiare più pesce fa bene alla salute. Carni pregiate, alto contenuto di omega 3: sono tanti i motivi per cui ci hanno sempre detto di mangiare tanto pesce. Molti degli stock in commercio però, avvisa Slow Food, sono ormai al collasso. La soluzione? Scegliere fonti alternative di omega 3 (come i semi oleosi ad esempio), o quando vogliamo mangiarlo, optare per pesce stagionale e a ciclo vitale breve, magari le specie meno conosciute e meno costose. E poi anche tutto il resto che offre il mare: meduse, alghe, molluschi e crostacei.

·         Scienziate, non discriminate la filosofia.

Scienziate, non discriminate la filosofia. Senza Platone non c’è la matematica. Pubblicato lunedì, 14 ottobre 2019 su Corriere.it Eleonora Signorini, Filosofa e membro della Società Italiana di Logica e Filosofia delle Scienze. Ho partecipato all’incontro Scienziate da Nobel - Festival L’Eredità delle Donne, Firenze 4, 5 e 6 ottobre 2019. Il motivo che mi ha spinto ad assistere al dibattito fra Sandra Savaglio (astronoma ed astrofisica), Elisabetta Baracchini (ricercatrice della materia oscura), Nicole Soranzo (genetista) e Letizia Scacchi (promotrice di Scienza Coatta) riguarda in primo luogo la mia vicinanza ai temi trattati, in quanto donna e giovane logica e filosofa della scienza. A questo si accompagna la curiosità di ascoltare le storie di donne le cui ricerche hanno sconcertato e sbigottito quel mondo accademico che aveva sempre sostato su sedimentate certezze cognitive, riguardanti principalmente la supremazia intellettuale e cognitiva dell’uomo. Purtroppo, quello a cui ho assistito si è rivelato una mascherata discriminazione nei confronti di tutto ciò che esula, ma che comunque gravita, intorno al mondo scientifico: la filosofia. Come si può parlare di discriminazione delle donne scienziate, facendo discriminazione fra le scienze? Mi spiego meglio: la mia storia è un po’ la storia di tutte, che è poi la stessa storia da secoli: quella fatta di velate discriminazioni di chi non solo è donna ma guarda dal buco della serratura quel mondo scientifico, sperando di essere invitata a entrare. Siamo una generazione che millanta la multidisciplinarietà ma si chiude nello specialismo, venera la curiosità ma pretende l’affannosa conoscenza delle nozioni, celebra pluralismo e libertà, ma vive di pregiudizi. La Scienza è donna ma è anche altro: Filosofia, ad esempio. Dall’intelligenza artificiale all’informatica, dalla genetica alla farmacologia, dalla climatologia all’astrofisica: non esiste un campo di ricerca in cui la conoscenza scientifica del micromondo non richieda un’analisi filosofica del macromondo. L’aumento esponenziale della complessità delle nuove frontiere scientifiche necessita di una riflessione che è patrimonio della filosofia, che molto spesso viene considerata paralizzante ed inutile alla ricerca. Non credo che questa sia la sede adatta per fare una rassegna storica degli sforzi che i filosofi hanno compiuto per riguadagnare, dinanzi al rigido tribunale delle scienze, la stima di cui godevano un tempo. L’attività filosofica attuale, spesso negativamente definita come un vuoto «filosofeggiare», ha concepito numerosi quesiti filosofici, importanti non solo per le risposte che essi hanno fornito, quanto per il dibattito sui presupposti (anche scientifici) che essi hanno svelato. È innegabile che alcuni dilemmi dell’esistenza umana non possono essere definiti scientifici o essere analizzati come tali: le questioni morali sono un importante esempio di domande a cui la scienza non è in grado di rispondere, ma con cui deve fare i conti. A chiunque creda che tale vexata quaestio galleggi in un mondo di inutili speculazioni filosofiche, vorrei sottoporre qualche interrogativo sugli sviluppi della tecnologia: per esempio, in un futuro molto prossimo i veicoli driverless (o a guida autonoma) potrebbero essere costretti a operare una scelta morale riguardo l’uccisione di una persona per salvarne un numero maggiore, oppure a dover scegliere se investire un bambino o una coppia di anziani, un motociclista con il casco o uno privo di protezione. Dovrebbe quindi spettare agli «scienziati» produttori di veicoli a guida autonoma il gravoso e filosofico compito di definire gli algoritmi morali che guideranno tali veicoli in situazioni di danno inevitabile? Questo è solamente uno dei più attuali campi in cui il mondo scientifico di oggi adotta dottrine filosofiche, o almeno considera i problemi da un punto di vista filosofico, senza ammetterlo a se stesso, quasi come se questa riflessione “infettasse” la ricerca. Forse non tutti sanno che l’intera tecnologia di cui oggi non manchiamo di circondarci (computer, smartphone e tablet) nasce da una brillante idea di un logico britannico, Alan Turing, vittima proprio delle discriminazioni di una società conservatrice. La sua tendenza a unire il teorico al pratico era molto insolita e perciò disprezzata, in un clima in cui le principali Università segregavano l’ambito della logica in un paradiso incantato di numeri e di astrazioni, incontaminato dalla profana materialità di una disciplina come la fisica. Turing, nella sua genialità e stravaganza, sosteneva già nel 1936 che la contemplazione teoretica e la pratica materiale, l’osservazione naturalistica e l’elaborazione creativa, dovessero essere intrinsecamente interconnesse. Perché ancora oggi la prospettiva strumentalista considera la riflessione filosofica quasi come una pseudo-scienza? Perché il mondo scientifico discrimina la Filosofia e non le riconosce i meriti e i contributi in campi come l’etica, la logica, l’epistemologia, l’intelligenza artificiale e le scienze cognitive? Pur avendo una formazione umanistica (e una laurea in Scienze Filosofiche), ho deciso di provare ad entrare a dottorati in Computer Science e Big Data, finanziati da dipartimenti di Scienze Pure e Applicate. Dopo aver assistito a quello che si è rivelato un palcoscenico di cliché e di imperialismo disciplinare, ho avuto la conferma di essere il «prodotto imperfetto» di un’università costretta all’interno delle singole discipline, ancorata allo specialismo, insensibile alla complessità e alle numerose situazioni di frontiera. Questa chiusura disciplinare della scienza distingue, privilegia, conserva e discrimina; l’apertura multidisciplinare ad altre forme di sapere chiarisce, crea, sviluppa e dialoga. Come è possibile battersi contro la discriminazione delle donne in un mondo, come quello scientifico, che respinge le diversità culturali? In conclusione, volevo ricordare che tutti gli scienziati che affermano la realtà degli oggetti matematici dei propri modelli (siano fisici, chimici o informatici) stanno implicitamente accettando la metafisica platonista, che postula la corrispondenza diretta fra le teorie fisiche e la natura della realtà. Inoltre, anche gli scienziati che affermano che l’osservazione dei dati e dei fenomeni sia l’unica nostra fonte di conoscenza stanno praticando una riflessione epistemologica. L’unica conclusione che posso trarre, da giovane logica, è che la multidisciplinarietà è il primo passo per la lotta contro la discriminazione delle donne nel mondo scientifico, perché se così non fosse allora cadremmo vittime di una contraddizione, non solo assurda ma anche pericolosa. Combattere la discriminazione di genere nella scienza, discriminando tutto ciò che non appartiene rigorosamente a quel mondo, è simile all’atteggiamento di chi lotta contro l’inquinamento delle acque e scarica in mare rifiuti tossici. Non si può parlare di discriminazione delle donne scienziate, facendo discriminazione fra le scienze.

·         I licantropi esistono davvero?

I licantropi esistono davvero? Pubblicato mercoledì, 05 giugno 2019 da Luigi Ripamonti su Corriere.it. I licantropi esistono o saranno soltanto persone prodigiosamente pelose? Possiamo optare per la seconda ipotesi con una certa tranquillità. Perché i cosiddetti licantropi non solo non esistono in quanto tali, ma sono semplicemente individui che esprimono sintomi (soggettivi per definizione) e segni (oggettivi per definizione) di una o più malattie che possono far pensare a questa bizzarra e improbabile trasformazione. Affronta il tema in modo molto brillante il medico inglese Gavin Francis nel suo ultimo libro: “Mutanti” (Edt), appena pubblicato in Italia. Francis per spiegare il fenomeno parte da un caso accaduto a lui in Pronto Soccorso in una notte di luna piena, proprio quella dei licantropi insomma. «Da qualche giorno Joanne aveva un brutto raffreddore con mal di testa, si sentiva debole e giù di corda,(…) aveva dolori addominali e sentiva la pelle andare a fuoco. (…) Sembrava fosse posseduta da una specie di inquietudine corporea, che si manifestava soprattutto a livello del tronco e degli arti. (…) Erano iniziate delle allucinazioni di lucertole giganti sulle pareti». Joanne aveva un impiego amministrativo che svolgeva in seminterrato e quel lavoro le piaceva perché le consentiva di non esporsi al sole. «Si scotta molto facilmente» riferì la sua coinquilina, «dovrebbe vederla in estate, le viene addirittura l’eritema». La pelle di Joanne era screziata di pigmenti marroni, soprattutto sulla faccia e sulle mani, come se vi fossero stati versati sopra minuscoli grani di caffè. «Dobbiamo controllare le porfirine», disse il primario. 

Le porfirine sono molecole fondamentali per la struttura dell’emoglobina (il «taxista» dell’ossigeno nel sangue) e sono sintetizzate da una serie di enzimi che operano di concerto. Se il gruppo di lavoro non è ben coordinato il risultato può essere una malattia chiamata (appunto) porfiria: anelli di porfirina formati solo in parte si accumulano nel sangue e nei tessuti. Le crisi in questo genere di patologia possono essere scatenate da farmaci, da alimenti e talvolta da qualche notte insonne. Alcune porfirine reagiscono alla luce e taluni tipi di porfiria causano cospicue infiammazioni sulla pelle, che possono peggiorare parecchio se esposte alla luce. Non bastasse, se le porfirine si accumulano nei nervi e nel cervello possono innescare anche episodi psicotici. «Un altro effetto, ancora inspiegato, dell’accumulo di porfirine nella pelle» sottolinea Francis, «è la crescita di peli sulla fronte e sulle guance». Infine, nelle sue forme più gravi questa malattia può dare luogo a coliche addominali. Ed è accaduto che le vittime, in preda al dolore siano state portate in sala operatoria per interventi non necessari. Nel caso di Joanne riferito da Francis il risultato degli esami confermò altissimi livelli di porfirine. «Era probabile che avesse una rara variante della porfiria denominata “variegata”» specifica l’autore.

Se fosse vissuta in tempi precedenti alla luce elettrica avrebbe probabilmente preferito uscire di notte, quando l’illuminazione lunare fosse sufficiente per non andare a sbattere da qualche parte. Magari sarebbe stata semi-delirante e avrebbe ululato per il dolore, con un bel po’ di peli sulle guance. Ecco servita una perfetta donna-lupo. 

Qualcuno ci crede davvero ai lupi mannari? Nella storia pare che, a dispetto del successo favolistico (anche recente, viste alcune serie Tv) dell’ipotesi, uomini di scienza o anche ricchi di curiosità abbiano opposto non da oggi un franco scetticismo. Se si dovesse pensare che, per esempio, si sia dubitato dell’esistenza dei licantropi soltanto da un secolo o giù di lì, si potrebbe essere smentiti da Plinio, che già «qualche anno prima» interpretava il fenomeno come qualcosa che avesse a che fare con la psiche e non con qualche genere di maledizione o magia. Per venire a tempi relativamente più recenti Giacomo I d’Inghilterra — riferisce Gavin Francis nel suo libro — sebbene parecchio interessato all’occulto ebbe a scrivere che cose del genere, casomai fossero realmente accadute, erano probabilmente dovute a «una sovrabbondanza di malinconia». Nient’altro che un problema psichiatrico insomma. Francis racconta anche che il medico greco Marcello di Sida la pensava allo stesso modo: secondo la sua opinione i lupi mannari che si sarebbero aggirati per Atene di notte non erano versipellis – termine latino per indicare chi poteva mutare forma in lupo – bensì persone in preda a un delirio. Infine il bizantino Paolo di Egina lasciò traccia della sua esperienza di cura dei licantropi sì con gli immancabili salassi, ma anche e forse soprattutto, con riposo e sedativi». 

Infine una precisazione etimologica: la parola licantropia viene ormai utilizzata in riferimento alla trasformazione di un essere umano non soltanto in lupo o in qualsiasi altro animale, ma, come fa notare ancora l’autore di Mutazioni, in quest’ultimo caso il termine più esatto sarebbe Theriantropia, che potrebbe indicare anche altre «bestie» e non solo il lupo. Che poi, ormai lo sappiamo, così cattivo non è.

·         Mala Marijuana.

Cannabis, svelato il mistero: i primi a fumarla 2.500 anni fa furono i cinesi. Un gruppo di ricercatori tedeschi e cinesi ha scoperto in antiche tombe i resti di piante selezionate per avere potenti capacità psicoattive. "L'uso come stupefacente, dalle aree montuose dell'Asia centrale orientale si è poi diffuso nelle altre regioni del mondo". Giovanni Gagliardi il 12 giugno 2019 su la Repubblica.  In Cina 2mila e cinquecento anni fa si fumava la cannabis. Questa pianta, spesso al centro di polemiche politiche, basta vedere cosa sta accadendo in Italia per la versione 'light', da anni tiene impegnati storici e archeologi, che cercano di capire quando e come è stata usata, in agricoltura, non solo per ricavarne cibo, tessuti e corde ma, in particolare, per sapere quando è iniziato il suo uso come sostanza psicoattiva. Ora, finalmente, un gruppo di ricercatori tedeschi e cinesi, guidati da Nicole Boivin, del Max Planck Institute per la scienza della storia umana di Jena, è riuscito a fare chiarezza stabilendo una data. Già in passato, in antiche tombe cinesi risalenti a circa siemila anni fa, sono state trovate tracce di canapa: secondo gli archeologi, i decori su alcuni vasi di terracotta furono effettuati premendo delle corde di canapa sull'argilla fresca. Altre importanti informazioni sull'importanza della canapa in Cina, sono poi arrivate da sepolture più recenti scoperte negli anni '70 e risalenti al mille avanti cristo: gli abitanti dell'antica Cina avevano imparato a tessere e filare la canapa, affrancandosi dalla dipendenza di pelli animali, ricavando vestiti e calzature, questo anche grazie all'aver imparato a riconoscere che le piante maschili producevano una fibra migliore, mentre le femmine producevano semi alimentari. Si è infatti scoperto che le prime comunità neolitiche di coltivatori che stanziavano sul Fiume Giallo e sul Wei, erano soliti seminare cannabis, insieme a miglio, grano, fagioli e riso. A testimonianza di ciò, c'è anche uno dei primi trattati su l’agricoltura cinese, risalente a circa 2500 anni fa, che nomina la canapa come la più grande e antica coltura tradizionale dell’antica Cina. Nei dintorni dei fiumi sopraccitati vennero ritrovati anche rimasugli di fibra e di semenze di cannabis. Insomma, nel Paese le tecniche di semina, coltivazione e trasformazione della canapa erano all’avanguardia: basti pensare che da questa pianta si ricavarono i primi fogli di carta (che avrà un ruolo fondamentale per il progresso umano fino ad oggi). Ma sull'uso psicoattivo della sostanza, ancora non era stata fatta luce. La svolta è ora arrivata dalle analisi svolte sulle ceramiche rinvenute in otto tombe del cimitero zoroastriano di Jirzankal, nell'area orientale del Paese, come spiegano i ricercatori sulla rivista Science Advances. Le analisi delle pietre dei diversi bracieri di legno ritrovate nelle antiche sepolture, hanno mostrato che le piante di cannabis usate avevano alti di livelli di tetracannabinolo (thc, il suo composto psicoattivo più potente). Ciò indicherebbe, secondo gli studiosi, che le genti di quel tempo erano a conoscenza delle proprietà psicoattive della pianta e che sapevano lavorare le diverse varietà di piante, selezionando quelle con più thc. Per capire se i bracieri avessero una specifica funzione rituale, gli studiosi hanno estratto del materiale organico dai frammenti di legno e pietre bruciate, analizzandoli con la spettrografia di massa. Con grande sorpresa i risultati hanno mostrato la miscela esatta della cannabis, con un'alta quantità di tetracannabinolo. Probabilmente, ipotizzano i ricercatori veniva fumata durante le cerimonie di sepoltura, forse per comunicare con le divinità o il defunto. "Questi risultati corroborano l'ipotesi che le piante di cannabis siano state prima usate per le loro sostanze psicoattive nelle regioni montuose dell'Asia centrale orientale, e da lì si siano poi diffuse nelle altre regioni del mondo", commenta Boivin. La regione in cui sono stati trovati, quella del Pamir, oggi così remota, a quel tempo si trovava lungo la prima Via della seta. Secondo l'archebotanico Robert Spengler, le rotte di scambio della Via della Seta hanno funzionato come i raggi di una ruota di bicicletta, dove al centro del mondo c'era l'Asia centrale.

ALESSANDRA DAL MONTE per il Corriere della Sera il 30 settembre 2019. «Sono uno chef piccolo, non milionario, non stellato, non ho un ristorante. Non capisco questo accanimento: io sperimentavo la cannabis in cucina per me, soltanto per me. Per curare una depressione che mi affligge da due anni, da quando io e la mia compagna abbiamo vissuto un gravissimo lutto». Carmelo Chiaramonte, 50 anni, siciliano di Trecastagni (Catania), cuoco freelance - anzi «cuciniere errante», come si definisce nel suo sito - e in passato comparso in diversi programmi tv, è stato arrestato dai carabinieri e poi rimesso in libertà in attesa di processo perché nella sua casa-studio di Pedara, sempre nel Catanese, deteneva due piante di cannabis alte due metri e mezzo, mezzo chilo di infiorescenze di canapa indiana e alcuni barattoli di cibi trattati alla marijuana. «Due di olive, due di tonno - precisa lo chef - uno di liquore e uno di caffè, che ho consegnato spontaneamente ai militari: loro si erano concentrati sulle piante». Sull' etichetta c' era scritto «Santa Caterina SballOlives» e «Kannamang». «Sì, erano piccoli campioni per me. Sapevo di operare al di fuori della legge coltivando cannabis ma avevo bisogno di curarmi. E lo volevo fare in modo naturale, senza antidepressivi. All' inizio fumavo, poi ho provato con il cibo: diluivo i principi attivi nell' olio, e in effetti ho placato insonnia e ansia». Le accuse sono di coltivazione di stupefacenti e commercio di alimenti alterati. «Ma, come ha scritto il giudice nell' ordinanza, non ci sono indizi relativi alla vendita», dice l' avvocato difensore Rita Faro. Che in una nota spiega come «lo chef abbia di recente approfondito, in linea con un filone di ricerca internazionale, gli aspetti relativi all' effetto della cannabis nella terapia del dolore e, in particolare, quelli legati alla somministrazione alimentare». «Sì - aggiunge lui -. Ho partecipato a numerosi convegni scientifici sulla terapia del dolore, parlando di cucina della gioia per i malati oncologici. Studio la cucina mediterranea dal terzo secolo avanti Cristo e so che i grandi filosofi hanno sempre usato sostanze naturali per entrare nel "momento magico". Oggi non si può non considerare il lato medicamentoso di queste piante». Il processo si terrà in febbraio. Chiaramonte è amareggiato: «Sono incensurato, mi avevano garantito che non sarebbero uscite le mie generalità e mi spiace leggere di spaccio o vendita. Non è vero. In Sicilia si monta tutto, vivo in una terra teatrale».

Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 31 agosto 2019. La dose letale per l'essere umano è di soli 2 milligrammi, l' equivalente di un granello di polvere. Basta toccarlo o inalarlo per caso e arriva la morte per arresto cardiaco. È l' oppioide sintetico tra i più potenti che esista, cento volte più potente della morfina, uno straordinario analgesico usato, sotto strettissimo controllo medico, per la gestione del dolore nei malati oncologici terminali, inserito nella lista dei farmaci essenziali per il trattamento dei tumori in stato avanzato, mentre, in combinazione con altre sostanze, viene impiegato in micro dosi nella anestesia generale profonda. Sto parlando del Fentanyl, sintetizzato per la prima volta nel 1960 dal farmacologo Paul Janssen per contrastare il dolore incoercibile, una molecola il cui sovradosaggio anche di 1 milligrammo provoca depressione respiratoria, allucinazioni, coma, shock anafilattico, arresto cardiaco e morte. Persino il solo contatto accidentale può essere letale, al punto che le forze dell' ordine, nel caso debbano intervenire nel tentativo di salvare qualcuno in overdose, o in caso di sequestro di dosi, hanno l' obbligo di indossare maschere, guanti e tute ermetiche durante le operazioni. È il farmaco che una settimana fa ha stecchito in pochi minuti un italiano di oltre 90 chili, lo chef 39enne Andrea Zamperoni, a New York, perché, a meno che non si lavori in ambito medico, pochi conoscono e sanno maneggiare questa molecola eccezionale per efficienza e pericolosa in mani inesperte, che negli Stati Uniti sta creando più morti che gli incidenti stradali, ed è balzata in pochi anni al primo posto fra le cause di morte tra i giovani, al punto che lo stesso Donald Trump ha parlato di emergenza nazionale e obbligato medici, poliziotti, pompieri e personale di soccorso a girare muniti di Naxolone, il farmaco antagonista degli effetti del Fentanyl e altri stupefacenti. L' uso medicale del Fentanyl è approvato solo sotto supervisione, sotto prescrizione medica e rigido controllo sanitario, e il suo impiego abituale è giustificato solo in caso di grave patologia oncologica incurabile: in questi casi la via di somministrazione più comune per ottenere l' effetto antalgico è quella transdermica, tramite cioè un cerotto da applicare sulla pelle, denominato Durogesic, il cui dosaggio è stabilito dalle dimensioni del cerotto, anche se gli effetti e l'efficacia possono variare da individuo a individuo in base alle caratteristiche corporee e al sito di applicazione. Ultimamente è stato introdotto un primo lecca-lecca a base di Fentanyl, una formulazione oro-mucosale chiamata Actiq, e successivamente compresse oro-solubili da sciogliere in bocca denominate Fentora, tutti farmaci sintetizzati per aiutare e facilitare con diverse modalità di assunzione i malati terminali di cancro. Purtroppo questo potente oppiaceo è stato intercettato dalla produzione e dal commercio illegale, utilizzato come sostituto economico dell' eroina, e più di recente ha fatto il suo ingresso nel giro della cocaina, mischiato, all' insaputa degli acquirenti, per tagliare le partite di altri stupefacenti, aumentandone la pericolosità e le complicanze letali. Il mercato illegale, inoltre, offre altri prodotti di sintesi derivati dal Fentanyl, alcuni dei quali più temibili e potenti, come il Carfenantil (nome commerciale Wildnil), che si stima cento volte più potente del Fentanyl e quindi 10mila volte più potente della morfina (questo farmaco ha trovato largo impiego nella pratica veterinaria per immobilizzare in pochi secondi animali di grandi dimensioni come gli elefanti). Secondo le autorità internazionali il principale produttore illegale di tali molecole sintetiche è la Cina, e il principale mercato di riferimento gli Stati Uniti. In Italia il problema ancora non esiste, nel Dipartimento Antidroga non c' è traccia di sequestri di questo farmaco, e i tossicodipendenti italiani non cercano il Fentanyl in quanto tale, anche se è possibile trovarlo coniugato illegalmente con altre sostanze stupefacenti, per esempio per potenziare l' eroina, un segnale di pericolo da non sottovalutare. L'uso illecito più comune e più praticato del Fentanyl consiste nello schiacciare le compresse e poi sniffarle, e più alto è il dosaggio, anche di pochi granelli di polvere, più alto è il rischio di overdose e di arresto cardiaco. L' effetto analgesico della molecola di Fentanyl è immediato, sale rapidissimamente nel sangue, e il farmaco fornisce anche la maggior parte degli effetti tipici degli oppiacei, perché oltre all' analgesia provoca immediata ansiolisi, euforia, sensazione di benessere totale, poiché raggiunge rapidamente il sistema nervoso centrale, dove si lega fino a provocare sonnolenza, depressione respiratoria e coma, a secondo delle dosi. Infatti il Fentanyl è utilizzato comunemente in micro-grammi nell' induzione dell' anestesia associato ad un agente ipnotico come il Propofol, e se ne sfrutta la azione analgesica anche in molte procedure diagnostiche o terapeutiche, quali ad esempio l' endoscopia, il cateterismo cardiaco, la chirurgia maxillo-facciale eccetera, anche se il suo utilizzo principale resta il dolore ingovernabile delle metastasi del cancro terminale. Il Fentanyl è diventato però in pochi anni una delle droghe più ricercate ed acquistate nel mercato clandestino nel dark web, viene recapitata a domicilio in una normale busta da lettere, e le autorità stimano un aumento del 74% degli acquisti online rispetto al 2015, con un numero di morti negli Stati Uniti che ha superato le 140mila unità nel 2018, una strage silenziosa ed incredibile. Una dose di 800 micro-grammi di Fentanyl equivale a 200 milligrammi di morfina pura, e raggiunge il suo effetto in 30 secondi, contro i 25/30 minuti della morfina in compresse, e se somministrato rapidamente per via endovenosa in pochi secondi raggiunge il massimo effetto analgesico e depressivo respiratorio, provoca rigidità dei muscoli bronchiali e laringei causando il blocco della respirazione. La cosa più assurda è che il Fentanyl arriva dal mondo della farmaceutica per essere usato in micro dosi dagli specialisti come anestetico ed antidolorifico, come cura palliativa per alleviare le sofferenze di persone destinate a morire, che ne farebbero volentieri a meno, non è facilmente reperibile senza rigida, certificata e nominativa prescrizione medica, mentre negli Usa le più facili prescrizioni hanno fatto sì che arrivasse nel mondo dello spaccio, ed è notizia di questi giorni che la ditta Johnson & Johnson, storica produttrice di oppioidi, è stata condannata per aver spinto i medici a prescrivere stupefacenti, sottovalutando e minimizzando i gravi rischi. In Italia i controlli delle prescrizioni di tali farmaci sono rigorosi e vigilati, ma se poi queste droghe vengono trovate e reperite in vendita online, i controlli possono fare ben poco e diventano inutili, e soprattutto chi le acquista ignora che sono medicine estreme per accompagnare alla morte pazienti irrecuperabili senza farli soffrire. E chi le ordina allegramente online non ha evidentemente alcuna nozione chimica, medica o scientifica, e non sa che quei pochi granelli di polvere provocheranno uno sballo rapido e letale, con arresto cardiaco e morte improvvisa ed immediata senza nemmeno avere il cancro, come accaduto appunto, una notte qualunque di agosto, allo chef italiano Andrea Zamperoni.

(LaPresse il 31 agosto 2019) - "In queste ore di tensione nella discussione tra M5S e Pd sul programma, inserirei un punto da realizzare subito che potrebbe giovare alla distensione del dibattito e ad un approccio più cordiale tra le parti: la legalizzazione della Cannabis". Lo scrive ironicamente il senatore M5S Alberto Airola.

La cannabis "light" vince in tribunale. I negozi delle polemiche restano aperti. Nadia Ferrigo per “la Stampa” il 31 agosto 2019. «Farò la guerra ai negozi di cannabis light. Uno a uno, li chiederò tutti». Ma l' ormai ex ministro dell' Interno Matteo Salvini non è riuscito a mantenere la sua promessa. Conclusa la corsa ai sequestri, i tribunali di tutta Italia continuano a dar ragione a produttori e commercianti di infiorescenze della cosiddetta «erba light», cioè con un contenuto di Thc tra lo 0,2 e lo 0,5 per cento. Al di sotto dei limiti di legge sulla canapa industriale, e per questo da non considerarsi uno stupefacente. Dopo la sentenza della Corte di Cassazione dello scorso maggio, che vietò «la vendita o la cessione a qualunque titolo dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis», come l' olio, le foglie, le infiorescenze e la resina, le questure di mezza Italia diedero il via ai controlli. Ma il copione è sempre lo stesso. A Padova le analisi di laboratorio hanno accertato che le centinaia di confezioni sequestrate dai carabinieri in undici negozi avevano una percentuale di Thc inferiore allo 0,5 per cento. La Cassazione ne ha vietato il commercio, ma «salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante». «Si è stabilito che senza un effetto psicotropo, non c' è una rilevanza penale - spiega l' avvocato Lorenzo Simonetti, che con il collega Claudio Miglio ha creato un "pronto intervento" per i negozianti coinvolti in procedimenti simili -. E' una conclusione pacifica nella dottrina della tossicologia forense. Lo stesso è accaduto a Caserta, Mantova e Perugia, dove sono stati avviati dei procedimenti per ritirare la licenza commerciale. Dopo i ricorsi, tutto si è risolto: questi commercianti hanno seguito la legge». A Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, lo scorso 31 maggio, il giorno stesso della pubblicazione della sentenza della Cassazione, erano stati sequestrati quattro negozi. A metà giugno, lo stesso tribunale ha ordinato il dissequestro. Così Virgilio Gesmundo, 27 anni, titolare del negozio Green Planet Grow Shop, che per protesta si era incatenato davanti al suo negozio, ha potuto rimettersi dietro al bancone. Anche il tribunale di Genova si è pronunciato sulla questione. La vicenda anche in questo caso nasce dal sequestro in un negozio di Rapallo, lo scorso 3 giugno, di infiorescenze, flaconcini di oli, confezioni di tisane e foglie a base di canapa sativa. I giudici del Riesame ancora una volta hanno dato ragione al commerciante: manca una norma che stabilisca quale sia la percentuale di principio attivo che rende un prodotto «psicotropo», e l' unico riferimento resta quello dello 0,5 per cento di Thc. «Le favole di Salvini sono arrivate all' epilogo. Spero che il prossimo governo non avrà interesse a montare una campagna ideologica, ma ad affrontare il fenomeno della cannabis light. Non come un problema, ma come una grande opportunità. Non si può trattare come uno spacciatore chi lavora alla luce del sole, nella legge e paga anche le tasse» commenta Luca Marola, attivista e patron di EasyJoint, pioniere della canapa legale made in Italy. Secondo lo studio commissionato da EasyJoint a Davide Fortin, ricercatore della Sorbona di Parigi e del centro studi "Marijuana Policy Group di Denver", il business della cannabis light potrebbe valere in Italia 44 milioni di euro l' anno. Ma, aggiunge la ricerca, solo con una legislazione capace di spiegare con chiarezza che cosa si può fare e che cosa no. I nuovi negozi inaugurati sono 2.800, i posti di lavoro 10mila. Il settore delle infiorescenze e derivati è riuscito nell' impresa di rilanciare anche il settore agricolo: in cinque anni sono aumentati di dieci volte i terreni coltivati a cannabis, passati dai 400 ettari del 2013 ai quasi 4mila stimati per il 2018. Anche se il mercato della cannabis light ha retto, l' ondata di controlli qualche danno l' ha fatto. Intanto le bustine verdi sono sparite dalle tabaccherie, con un danno per i produttori e per i brand, che si sono trovati a fare i conti con una significativa diminuzione dei punti vendita. E qualcuno tra chiusure forzate, spese legali e incertezza, non è riuscito a far quadrare i conti. «Ho aperti tre anni fa, le cose giravano bene e avevo la mia clientela - commenta amaro Marco Mirabelli, titolare di uno smart shop torinese tra i primi in Italia a essere controllati -. Ma a giugno e luglio non ho guadagnato nulla, dovendo comunque pagare tutte le spese del negozio, oltre agli avvocati. Finirà tutto bene, ma non mi posso più permettere questa incertezza. Hanno ammazzato un' attività che funzionava. Anche se ho ragione, nessuno me la ridarà indietro».

I negozi di cannabis light sono a rischio chiusura. Basta un "no" del ministero della Salute per mandare in crisi un settore in pieno boom. E oggi arriva la promessa di Salvini: "Li chiuderemo tutti". Giorgio Sturlese Tosi l'8 maggio 2019 su Panorama. Una spada di Damocle pende sulle centinaia di negozi cannabis light che hanno aperto in tutta Italia. Dal dicembre 2016 è stata legalizzata la vendita di prodotti ricavati dalla marijuana (del tipo cannabis sativa) che abbiano un principio attivo stupefacente di Thc (delta -9-tetraidrocannabinolo) inferiore a 0,2. Prodotti che non sono considerati droghe. E si possono vendere, comprare, bere, mangiare e fumare. I negozi dove si trovano cosmetici alla canapa, oli essenziali, biscotti, tisane e infiorescenze, persino hashish da fumare si sono moltiplicati. Oltre che legali, queste sostanze sarebbero anche innocue; e, anche se è ammessa una soglia di tolleranza fino allo 0,6 per cento di Thc, non dovrebbero comportare alterazioni psichiche. Il condizionale però è d’obbligo. L’estate scorsa il Consiglio superiore di sanità, organo del ministero della Salute, ha infatti espresso un parere negativo sulle infiorescenze vendute come se fossero caramelle ai banconi dei negozi di smart drug, sostenendo che la concentrazione di Thc «può penetrare nel cervello e nei grassi corporei anche a basse percentuali». Il ministro della Salute Giulia Grillo aveva annunciato provvedimenti non appena avesse avuto a disposizione dati certi. Quasi un anno dopo, lo stesso ministero, interpellato da Panorama, non ha sciolto il dubbio, parla ancora di «possibili rischi per la salute» e rivela di aver proposto alla Commissione europea un regolamento attuativo, che preveda limiti e controlli più stringenti, già al vaglio del Parlamento italiano. A questo va aggiunta la promessa di Matteo Salvini che ha annunciato la loro chiusura. Mentre politici e scienziati decidono, il 30 maggio le sezioni riunite della Corte di Cassazione dovranno esprimersi sui sequestri effettuati dal Nas dei carabinieri e dalla polizia in negozi che vendevano questi prodotti. Se i loro ricorsi dovessero essere respinti, le saracinesche dovrebbero abbassarsi per tutti. Ornella Paladino, che ha convertito alla canapa industriale centinaia di ettari in Piemonte, ha appena presentato alla Camera dei deputati il neonato Consorzio nazionale tutela della canapa: «In Italia, solo nel 2018, sono sorte 700 aziende agricole legate al boom della canapa light» dice Palladino. «Della canapa non si butta nulla: può diventare stoffa, laterizi ecologici, oli terapeutici; anche cibi e bevande, ma non si può demonizzare un intero settore, in crescita, dicendo “non è escluso che faccia male”. Il nostro consorzio si propone di certificare ogni passaggio della filiera produttiva per garantire che Thc non superi i limiti di legge. Pur se non è vietato, non vendiamo ai minori. Noi non siamo spacciatori, rispettiamo le regole». Esperto degli aspetti legali intorno alla produzione della cannabis è l’avvocato Giacomo Bulleri, a cui si rivolgono agricoltori di canapa e negozianti di erba light: «Il volume di affari intorno alla canapa sativa, in Italia, supera i 7 miliardi di euro» stima Bulleri. «Oltre 700 i negozi che vendono estratti e infiorescenze. Gli agricoltori sono finanziati con fondi europei. Un pronunciamento negativo della Corte di Cassazione comporterebbe un grave danno economico e una crisi del settore». Oggi chi compra un grammo di marijuana per «uso ricreativo» rischia grosso. Se venisse fermato alla guida di un veicolo avendo con sé dell’erba potrebbe passare seri guai. Alessandro Abruzzini, vice questore aggiunto del Servizio di Polizia stradale spiega perché: «C’è un vuoto normativo che può essere colmato solo con il Testo unico sugli stupefacenti. Se fermato dalle forze dell’ordine, un automobilista in possesso di cannabis, o che l’abbia fumata, deve essere sottoposto al test che rivela la presenza di Tch nell’organismo. Se è positivo e il guidatore appare “in stato di alterazione” vengono disposti esami più approfonditi e può scattare la sospensione della patente». Per questo i negozianti raccomandano di tenere sempre con sé lo scontrino dell’erba acquistata legalmente. «Che per me è carta straccia» confida un esperto poliziotto dell’antidroga di Milano. «Non mi basta sapere se l’erba o il fumo che hai addosso è davvero legale e l’hai comprata in un negozio autorizzato. Intanto io ti porto in commissariato».

Tutte le bugie sulla cannabis: "È pericolosa anche se light". L'allarme dell'esperto: "È una droga, ditelo ai giovani". Salvini rilancia: la lotta agli stupefacenti è una priorità. Serena Coppetti, sabato 11/05/2019, su Il Giornale. «La lotta alla droga è una priorità. La droga arricchisce la malavita e brucia i cervelli. Lo dicono i medici, non lo dice il ministro dell'Interno». Non è per niente «fumoso» Matteo Salvini e da Platì, in Calabria risponde al vice premier Luigi Di Maio. «Il Consiglio superiore della Sanità - incalza Salvini - ha messo per iscritto che non ci sono droghe più o meno leggere che fanno più o meno male, la droga fa male, brucia il cervello, brucia il fegato, fa male alla salute. Tutte sono priorità, non c'è una droga meno priorità degli altri». Dubbi? Nessuno. Così la questione-cannabis (anche se light) riaccende la polemica. «Combattere la droga facendo chiudere i negozi è come combattere l'alcolismo vietando la birra analcolica», aveva polemizzato senatore M5s, Matteo Mantero, firmatario della proposta di liberalizzazione della cannabis. «Io non ci sto. Per gli adolescenti la cannabis è una droga. Spiegatelo ai vostri figli e ai studenti». Il medico psicoterapeuta Alberto Pellai, autore tra l'altro del libro L'età dello tsunami è categorico. Entra nel merito della questione e segna un confine. Netto. «Non esistono droghe pesanti o leggere. Per il cervello degli adolescenti tutte le droghe sono pesantissime». A Milano si è appena conclusa la fiera della cannabis, pubblicizzata da un manifesto dove accanto a una grande piantina c'era la scritta Io non sono una droga. «È la bugia più grande su cui fanno un sacco di soldi - tuona Pellai - Chi ha creato questa comunicazione aveva come primo obiettivo normalizzare l'uso di una sostanza psicotropa, già diffusissima tra gli adolescenti, contribuendo a rinforzare la credenza che non si tratti di nulla di pericoloso. E invece: la cannabis è pericolosissima, soprattutto in età evolutiva. Muove interessi enormi e ha molto a che fare con la criminalità». E parla da medico. «Il suo principio attivo, il THC, interferisce con recettori del sistema nervoso centrale, andando ad alterare la costruzione di reti neuronali che in età evolutiva sono in formazione, con pesanti ricadute sulle capacità di studio e motivazione degli adolescenti e con lo sviluppo di una predisposizione ad un tono dell'umore depresso». Tutto questo succede in momento delicatissimo, in cui la tendenza a sviluppare la dipendenza è maggiore. Non solo. «Nell'età della crescita un ragazzo deve mettersi alla prova per trovare la propria via personale per il raggiungimento della realizzazione e del senso di sé. Questa sostanza agisce chimicamente su parti del sistema nervoso centrale, fornendo una sensazione di benessere psicologico solo artificiale, slegata dalle esperienze della vita». E dunque, vuol dire, a che serve parlare di leggera o pesante? «In soggetti vulnerabili, l'uso di sostanze psicotrope in età evolutiva porta a slatentizzare (tirare fuori, ndr) patologie psichiatriche che rischiano di cronicizzarsi e che non si sarebbero manifestate in assenza di tale consumo. Non è un caso che l'età dei pazienti dei reparti di psichiatria negli ospedali si sia abbassata in modo drastico». Dunque? Nessun atteggiamento «collusivo e ammiccante». «Il cervello è l'organo più importante di tutti. Trattatelo bene, perché non ha la capacità di riparare i neuroni rovinati». E a chi contesta: «Indicatemi le fonti scientifiche che affermano i vantaggi dell'uso di questa sostanza in età evolutiva. Se non le avete, per favore tacete».

Mala Marijuana. La storia di copertina di Panorama in edicola dal 1 maggio 2019 è dedicata ad una maxi inchiesta sulla droga definita leggera. Cronache dal paese che ha appena legalizzato ma dove già si moltiplicano i problemi. "Voglio legalizzarla, regolarla e tassarla" aveva detto il premier Justin Trudeau davanti ad un traffico valutabile in 3 miliardi di dollari l'anno. Tutto bene? Siamo stati in Canada ed abbiamo scoperto che, tra aumento dei consumatori, ambiguità delle norme, coltivazioni riconvertite all'erba e serre casalinghe i dubbi ed i problemi aumentano. A questo si legano gli ultimi studi medici secondo cui è un errore chiamarla "droga leggera". Il principio psicoattivo infatti negli ultimi anni è più che triplicato causando danni comprovati sul cervello degli adolescenti.

Marijuana, non chiamatela droga leggera. Nella cannabis oggi il principio psicoattivo è più che triplicato, con danni al cervello comprovati, soprattutto sui giovani. Daniela Mattalia 6 maggio 2019 su Panorama. Facile da trovare, fa sentire leggeri e imperturbabili, costa poco e poi, «uno spinello, che sarà mai». Non stupisce che la cannabis sia, fra i ragazzi, al primo posto nel consumo di stupefacenti. Nella fascia d’età 15-19 anni, il 32,4 per cento l’ha utilizzata almeno una volta nella vita, il 25,8 ne ha fatto uso nell’ultimo anno. E i dati (quelli 2018 del rapporto Espad Italia) sono probabilmente sottostimati. Così come sottostimate sono le conseguenze dell’uso prolungato della cannabis su un cervello in divenire come quello di un teenager. Il principio attivo della cannabis di oggi raggiunge concentrazioni molto più elevate del classico spinello «peace and love» degli anni Settanta. I figli dei fiori si passavano canne dove il Thc (tetraidrocannabinolo) era intorno al 2 per cento, oggi come minimo si aggira sul 7 per cento. «Negli ultimi vent’anni il Thc della marijuana è via via aumentato, in alcune partite sequestrate arriva al 27 per cento» conferma Gaetano Di Chiara, professore emerito di farmacologia all’Università di Cagliari. Non solo. La cannabis attuale è stata selezionata per contenere più Thc e meno cannabidiolo, altra sostanza della pianta che, se ad alte dosi, attenua gli effetti psicoattivi del Thc; quando è in concentrazioni basse, invece, li potenzia. Da qualche tempo, poi, negli Usa (e in modo meno diffuso anche da noi) si è sviluppata una tecnica chiamata «bho», butane hashish oil, un concentrato di cannabis ottenuto tramite estrazione con butano. E qui il Thc raggiunge concentrazioni del 70-90 per cento. A questo punto, definire la cannabis una «droga leggera» non ha senso. Esistono, puntualizzano gli esperti, solo droghe più o meno ricche di principio attivo, e soggetti più o meno predisposti a sviluppare dipendenza. «Il picco del consumo di marijuana è tra 15 e 16 anni. E un adolescente è difficile che si limiti a uno spinello al giorno, spesso l’assunzione continua per 4-5 anni» riflette Di Chiara. «I recettori dei cannabinoidi intervengono proprio durante la maturazione sinaptica. I ragazzini che iniziano con la cannabis sono in genere i più curiosi e intraprendenti: hanno un buon rendimento scolastico che presto crolla perché il fumo ne abbassa le performance». Qualche anno fa un’ampia indagine prospettica, condotta in Nuova Zelanda su ragazzi seguiti nel corso degli anni, ha dimostrato che gli adolescenti che avevano avuto un consumo giornaliero di marijuana, mantenuto per 3-4 anni, una volta adulti mostravano una riduzione marcata delle capacità cognitive. Non bastasse, c’è poi il legame, nei giovanissimi, tra cannabis e schizofrenia. La marijuana non causa direttamente la psicosi, però il suo consumo elevato la innesca in chi è predisposto. Uno studio apparso il 19 marzo su Lancet, condotto in 10 città europee e coordinato dalla psichiatra Marta di Forti, mostra che assumere marijuana con Thc sopra il 10 per cento raddoppia il rischio di psicosi rispetto a chi fuma Thc sotto quella soglia. «L’altro grosso problema, oltre all’uso sempre più precoce della cannabis, persino a 12-13 anni, è poi il policonsumo: cannabis e alcol, sostanza che non manca mai in quella fase, perché è legale e si trova con facilità» avverte Lorenzo Sartini, psicologo bolognese che ha lavorato a lungo nei Sert e nei servizi di strada. «E l’abbinamento alcol-spinello dà uno sballo difficilmente controllabile, molto più alto di quello che ci si può aspettare. Da quasi tre anni (dal 2016) è legale in Italia la canapa light, la cui concentrazione di Thc va dallo 0,2 allo 0,6 per cento. E quasi ovunque si trovano negozi che vendono prodotti con cannabis light (dai cosmetici ai dolci, dalle gomme da masticare alle tisane). Se il Thc è così basso, che male farà? «Nelle preparazioni light, il contenuto di Thc dichiarato è effettivamente molto basso» dice Giuseppe Remuzzi, medico e direttore dell’Istituto farmacologico Mario Negri di Milano. «A parte una forte variabilità individuale nella risposta alla sostanza, molto dipende da quanta se ne assume e in quanto tempo. E non abbiamo modo di sapere che rapporto ci sia tra quanto è dichiarato e quanto c’è davvero in quella preparazione». Proprio Remuzzi, nei giorni scorsi, riferendosi a uno studio apparso su Annals of Internal Medicine, avvertiva dei rischi legati all’assunzione di alimenti alla cannabis. «In Colorado, nei pronto soccorso si sono presentate persone che, dopo aver assunto cannabis commestibile, riportavano sintomi di intossicazione, ansia, psicosi, schizofrenia, peggioramento di malattie croniche: episodi più frequenti rispetto a chi la marijuana l’aveva fumata. Questo perché, a parità di Thc, l’assorbimento è più lento, chi la usa non nota subito gli effetti collaterali e tende a consumarne altra. Inoltre i grassi contenuti nel cioccolato e nelle caramelle ne aumentano l’assorbimento». In Colorado, dove la cannabis è legale da anni, le concentrazioni di Thc sono maggiori che da noi. In Italia, però, lo 0,2 per cento non ha rassicurato il Consiglio superiore di Sanità (vedi servizio nella pagina a fianco), il cui parere è stato lapidario: «La loro pericolosità non può essere esclusa».

Libera canna in libero Stato: l'appello di Roberto Saviano. Cari politici, basta. Basta ignoranza e ipocrisie da talk show. Leggete le ricerche, i dati, le statistiche. Un manifesto-appello per la legalizzazione. Roberto Saviano il 30 settembre 2016 su L'Espresso. L’Italia ha da poco una legge sulle unioni civili, una legge incompleta e arrivata fuori tempo massimo. Qualcuno dirà «eppure, finalmente, è arrivata» invitandomi magari a considerare il bicchiere mezzo pieno. Io però con questa maggioranza al governo non riesco a pensare che si possa osare molto più di così e mi riferisco soprattutto alla proposta di legge sulla legalizzazione della cannabis avanzata dall’intergruppo parlamentare guidato da Benedetto Della Vedova e sostenuto da tutte le forze politiche, ma osteggiato da molti, moltissimi parlamentari. Stilare l’identikit di coloro che ostracizzano leggi che portano progresso e che renderebbero la nostra società più evoluta non è cosa difficile. Si tratta mediamente di politici che fanno della propria vita privata fonte di inesauribili aneddoti che portano a ritenere questa legge o quell’altra inadatta per il nostro Paese. Non vorrei mai per mio figlio, per i miei nipoti, per i miei genitori… I nostri ragazzi non dovrebbero poter accedere… Quando ero ragazzo ricordo i miei coetanei…Non è così che si sta in Parlamento e che si ricoprono cariche politiche, non è l’esperienza familiare che può portarci a ritenere la cannabis una sostanza da legalizzare o da lasciare nelle mani delle organizzazioni criminali. Quello che dovrebbe guidare i politici nelle loro dichiarazioni pubbliche e nelle loro decisioni in Parlamento dovrebbe essere approfondimento e studio, le consulenze di esperti e le statistiche. E invece sentiamo Beatrice Lorenzin parlare dei “nostri ragazzi” che a undici anni, se si legalizzasse la cannabis, potrebbero liberamente avervi accesso. Lorenzin ignora che oggi non i “suoi ragazzi”, ma i figli di altre madri e ad altre latitudini la cannabis la spacciano, manovali dei clan. E Binetti dire «penso che uno Stato democratico non si possa permettere il lusso di liberalizzare ciò che provoca danni alla salute dei cittadini» fingendo di non sapere che la legalizzazione e la tossicodipendenza sono prima di tutto un problema di salute pubblica che pesa sulle casse dello Stato. Fingendo di ignorare che i danni provocati da alcol e tabacco sono di gran lunga superiori a quelli che crea oggi e che creerebbe la cannabis se legalizzata. E questi stessi politici (con Binetti e Lorenzin ci sono Gasparri, Lupi, Giovanardi) sono contrari alla regolamentazione del fine vita (qui posso forse annoverare anche la ministra Madia che, in una memorabile ospitata da Daria Bignardi alle Invasioni Barbariche, disse che preferiva alla regolamentazione la “zona grigia” in cui sono i familiari a decidere senza troppo clamore); sono contrari alle stepchild adoption, erano fautori della legge 40 sulla procreazione assistita, legge tremenda smontata dal lavoro di avvocati e giudici che hanno a cuore il progresso del nostro Paese più di molti politici. Sono anche quelli che parlano di divorzio e aborto come di conquiste che se fossero perse tutto sommato sarebbe un bene per la società e la famiglia. E qui torno alle prime righe di questo scritto: un Paese che ha partorito una legge sulle unioni civili dopo tanto dibattere, una legge ostracizzata a lungo e monca, una legge da cui sono state eliminate le stepchild adoption è un Paese in cui manca una politica progressista, che in teoria sarebbe appannaggio della sinistra, ma che accompagnata da un’attitudine responsabile potrebbe appartenere a ogni parte politica. Ecco, l’invito è a mostrare responsabilità e a fare per una volta quello che è davvero meglio per il Paese e non quello che conviene al calcolo elettorale.

La Cannabis fa male o no? Ecco tutto quello che può dirci la scienza sulle droghe leggere. Il dibattito sulla marijuana è tornato di attualità, alimentando lo scontro tra chi vorrebbe legalizzarla e i proibizionisti. Vediamo cosa è emerso fino a oggi dai diversi studi e cosa c'è di vero e di falso sui pericoli per la salute. Rita Pisardi il 17 febbraio 2017 su L'Espresso. Quasi quattro adolescenti italiani su dieci l’hanno provata almeno una volta nella vita, è il cuore di uno dei più grandi traffici illegali al mondo e le sue proprietà portano beneficio a migliaia di pazienti. La cannabis resta una materia ambivalente, accesa a intermittenza senza una vera discussione. Non solo la recente discussione alla Camera, subito ricacciata nel cassetto , ha portato al centro del dibattito la sua legalizzazione, ma anche il fatto di cronaca che ha visto al centro il suicidio di un sedicenne di Lavagna, dopo che la Guardia di finanza ha perquisito la sua abitazione perché in possesso di una decina di grammi di marijuana. Per quella che è la sostanza illecita più consumata d’Europa e con la maggiore probabilità di essere utilizzata da tutte le fasce di età, ancora oggi dopo decenni le idee non sono chiare. Studi discordanti e opinioni diffuse, spesso fasulle, non aiutano. La cannabis crea dipendenza? Si può morire? È assimilabile alle cosiddette droghe pesanti? Quali danni alla salute? È il primo passo verso il consumo di cocaina, eroina o pasticche? Umberto Veronesi, proprio dalle pagine dell’Espresso , lanciò un appello per la legalizzazione chiedendosi se avesse senso criminalizzare la sostanza. Nel 2000 come ministro della Sanità aprì alla possibilità di oppiacei e cannabinoidi contro il dolore. Scontrandosi però contro un muro ideologico, lo stesso che oggi frena il ddl firmato da oltre 200 deputati. "Siamo un Paese che vieta inorridito la marijuana (che non ha mai ucciso nessuno) ma che lucra senza vergogna su una droga che causa 50.000 morti l’anno: il fumo di sigaretta", spiegò l’oncologo. Già, perché fumando cannabis non si va in overdose, la mortalità di cui parlano alcuni studi si riferisce infatti agli incidenti stradali che possono essere provocati. Le ricerche seguite da Veronesi, che nominò una commissione scientifica a riguardo, conclusero che i "danni da spinello" sono inesistenti. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha invitato più volte i governi a depenalizzare, magari non tout-court, ma almeno l’uso personale. Considerato che droghe legali come alcol e tabacco uccidono invece ogni anno milioni di persone. Per questo molti credono che il proibizionismo non sia la risposta e demonizzare non serva. Ma il primo passo è una buona informazione. Tra l’altro i dati dimostrano che nei paesi che hanno liberalizzato, il consumo è progressivamente diminuito. Come confermano studi condotti negli Stati Uniti e che riguardano in particolare i giovani.

COSA SUCCEDE IN ITALIA. In Italia secondo un’indagine di Espad Italia (The European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs), contenuto nella Relazione annuale del Dipartimento politiche antidroga , il 34 per cento degli studenti italiani di 15-19 anni(maschi 38 per cento, femmine 28 per cento) ha provato la "maria" almeno una volta nella vita. Piemonte, Emilia Romagna, Marche, Lazio e Sardegna sono le regioni in cui è stata più consumata. Se si allarga lo spettro all’Europa si sale a 16,6 milioni di giovani (15-34 anni), pari al 13,3 per cento, che hanno consumato cannabis nell’ultimo anno. Dalla parte del proibizionismo convinto c’è la Comunità di San Patrignano che proprio in questi giorni ha ricordato le proprie linee guida: la prevenzione prima di tutto, contro ogni legge a favore e contro quella che definiscono la cultura dello sballo . Il centro non ha risparmiato poi ricerche in merito. Fece discutere una del 2001 condotta da Eurispes in cui si affermava che le droghe leggere sono un ponte di passaggio per quelle pesanti e nel 23 per cento dei casi provocano episodi psicotici. Uno studio giudicato "scientificamente indecente" da uno dei massimi esperti sul tema, Gian Luigi Gessa, psichiatra e farmacologo, responsabile del gruppo italiano sullo studio delle dipendenze da droghe e farmaci, in passato alla direzione del Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Cagliari e nel Consiglio Nazionale delle Ricerche. Se è vero che i dati dimostrano che gran parte degli eroinomani ha fumato spinelli, non è certo invece che la correlazione sia automatica. "Se così fosse, le statistiche non mostrerebbero circa 200.000 dipendenti da droghe pesanti in Italia, più o meno come 10 anni fa", affermò Veronesi. Gessa, ammettendo l’agire della sostanza sul cervello, esclude un danneggiamento alla sua normale attività, e anche su chi ne ha fatto uso per decenni in modo costante, non si forma una sindrome di astinenza. Un appunto va fatto per adolescenti e preadolescenti, nei quali l’uso di droghe, anche leggere, potrebbe causare deficit cognitivi soprattutto per quanto riguarda la memoria.

LA CANNABIS FA MALE O NO? La stessa Oms nella sua ultima pubblicazione sull’argomento - che non ha riguardato i casi di utilizzo di cannabis a scopi medici - ha specificato che con un consumo a lungo termine possono esserci effetti su memoria, pianificazione, processo decisionale, velocità di risposta, coordinazione motoria, umore e cognizione. Lo studio ha poi cercato di rispondere anche alla questione della dipendenza. Perché se gli studiosi sono d’accordo su quella da cocaina o crack, i pareri divergono sulla cannabis, difficile da "misurare". Una dipendenza cosiddetta psicologica, legata all’abitudine o alla gestualità, assimilabile anche alle sigarette, è ben diversa da una fisica, dettata quindi dalla sostanza. In generale l’Oms ha evidenziato che il rischio c’è ed è pari al 10 per cento, che varia da 1 su 6 tra gli adolescenti, a 1 su 3 tra chi consuma cannabis giornalmente. In ogni caso, se si vuole stilare una classifica, Gessa non ha dubbi: prima della cannabis vincono in quanto a pericolosità e grado di tossicità le droghe legali come alcol e nicotina, ma anche eroina, cocaina, morfina e altre sostanze. Solo in Europa nel 2014 si contano 6.800 decessi per overdose, soprattutto di eroina e i suoi metaboliti, e la tendenza è in aumento. Altra questione è quella dei tumori. Qui la risposta si gioca in realtà sulla presenza del tabacco, visto che è la canna il modo più diffuso per consumare la ganja, il termine hindi per cannabis. A riguardo l’Oms conclude: "Fumare un mix di cannabis e tabacco può aumentare il rischio di cancro e di altre malattie respiratorie, ma è stato difficile capire se i fumatori di cannabis hanno un rischio più elevato, al di là di quella di fumatori di tabacco". Anche se uno studio dell’Università della California ha negato del tutto la connessione tra i due, anzi affermando che la marijuana uccide le cellule che invecchiano impedendo loro di diventare cancerose. L’ultima "Relazione europea sulla droga" condotta dall’Osservatorio europeo delle droghe e tossicodipendenze (EMCDDA) dedica un paragrafo sui danni fisici prodotti dalla marijuana, non chiarendo però se esiste un rapporto causa effetto: "pur essendo difficile dimostrare un nesso causale tra il consumo di cannabis e le sue conseguenze a livello socio-sanitario, gli studi osservazionali consentono di individuare alcune associazioni". Per associazioni s’intendono disturbi psicotici e un più elevato rischio di avere problemi respiratori per i consumatori a lungo termine. Mentre durante l’adolescenza crescerebbe il rischio di schizofrenia, anche se in questi casi, è specificato, la genetica ha un ruolo cruciale. Queste incertezze invece scompaiono quando si parla di uso terapeutico. Della cannabis si riconoscono i benefici sul dolore cronico, artrite, tremori del Parkinson, malattie come la Sla, gli effetti collaterali della chemioterapia e nei malati terminali. Oltre che per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress e dell’ansia. I rischi per la salute, evidenzia la ricerca, sono per lo più da collegarsi ai cannabinoidi sintetici decisamente più tossici, droghe che si legano agli stessi recettori cerebrali su cui agisce il THC, uno dei principali composti attivi presenti nella cannabis naturale, ma che nella cannabis trattata può raggiungere percentuali molto elevate. "Tanto che a loro carico sono stati segnalati avvelenamenti di massa e addirittura decessi", conclude lo studio.

IL PERICOLO DELL'ILLEGALITA'. Nel mercato illegale la cannabis trattata chimicamente circola senza controlli. Un pericolo soprattutto per la salute dei consumatori, che in Italia sono almeno quattro milioni. Lacannabis contaminata può contenere ogni tipo di sostanza: piombo, alluminio, ferro, cromo, cobalto ed altri metalli pesanti altamente nocivi. Secondo i favorevoli alla liberalizzazione è togliendo il controllo alla criminalità organizzata che si potrebbe risolvere il problema. A riguardo si è espressa anche la Direzione Nazionale Antimafia che ha evidenziato come si cancellerebbe un monopolio che regala alle mafie fino a 9,5 miliardi di euro l’anno solo dalla vendita di cannabis.

LA LEGGE IGNORATA. Certo è che a incidere sulla percezione della marijuana non ha aiutato la Fini-Giovanardi, che ha legiferato in tema dal 2006 fino al 2014 quando è stata giudicata incostituzionale dalla Consulta , causa della comparazione tra droghe pesanti e leggere (le seconde non classificate a rischio dipendenza). Secondo i critici questo non ha fatto altro che riempire le carceri di semplici consumatori non intaccando il grande traffico criminale. Basti pensare che in Europa il consumo o possesso per uso personale rappresenta circa i tre quarti di tutti i reati connessi alla droga. Ma dal 25 luglio 2016, da molti indicata come giornata storica, in cui per la prima volta il disegno di legge per la liberalizzazione è approdato alla Camera, non c’è stato nessun passo avanti. Rispedita in commissione senza alcuna discussione e con trenta parlamentari in aula, il ddl spera almeno in un ok ai suoi emendamenti , tra cui un’unica legislazione per l’uso terapeutico, oggi diversa da regione a regione.

Io, scienziato, dico: basta proibizionismo. Negli Usa, Trump o non Trump, cresce la legalizzazione. Perché l'esperimento del Colorado sta andando bene. E non è l'unico. In Italia, poi, la fine dei divieti avrebbe altri vantaggi: basta marijuana avvelenata dai mafiosi, meno profitti alla criminalità organizzata, rilancio dell'agricoltura. Maurizio Bifulco il 15 novembre 2016 su L'Espresso. Maurizio Bifulco, Presidente Facoltà di Farmacia e Medicina Università degli Studi di Salerno. L’8 novembre negli Stati Uniti in ben nove Stati non si è votato solo per eleggere il presidente ma anche per la legalizzazione della cannabis a scopo medico o ricreativo. In otto di questi la legge è stata approvata, solo in Arizona è stata invece respinta. Quattro stati - California, Nevada, Maine e Massachusetts - in cui era già consentito l’uso della cannabis per scopi medici, si sono espressi favorevolmente per la sua legalizzazione anche a scopi “ricreativi”, gli altri quattro – Florida, Arkansas, Montana e North Dakota - solo per finalità mediche. In particolare in California, primo Stato nel lontano 1966 a legalizzarne l’uso terapeutico, la misura approvata prevede l’uso libero per tutti i cittadini che abbiano compiuto 21 anni, il possesso di un’oncia (circa 28 grammi) di marijuana e la coltivazione fino a sei piante di cannabis per uso personale. Adesso, con l'elezione di Trump, non è chiaro che cosa succederà, anche se lui in campagna elettorale ha sostenuto che si tratta di una questione che dovrebbe essere lasciata agli Stati. È questo, comunque, un importante risultato che ci dice che negli Stati Uniti più della metà degli stati hanno un'ampia legislazione in materia di cannabis medica e quasi 68 milioni di americani, circa un quinto della popolazione, vive in un luogo dove i cittadini al di sopra dei 21 anni possono legalmente consumare marijuana per divertimento. Gli esperti sostengono che tale risultato si rivelerà un punto di non ritorno verso la fine del proibizionismo, incoraggiando altri Stati e il Congresso a perseguire simili riforme e potrebbero esserci ripercussioni anche su altri Paesi, come l’Italia. Il nostro paese infatti è tra i primi al mondo a valutare la proposta di legalizzazione della cannabis a scopo ricreativo oltre che terapeutico, con una proposta di legge, firmata da un intergruppo trasversale di 220 parlamentari, bipartisan, coordinato dal sottosegretario Benedetto Della Vedova, che è stata portata lo scorso luglio presso la Camera dei Deputati sull’abolizione dello storico proibizionismo sulle droghe leggere che da sempre caratterizza il nostro Paese. Le disposizioni avanzate col provvedimento mirano a disciplinare la massima quantità di cannabis detenibile per uso personale in pubblico o nel domicilio privato, la coltivazione, in proprio o mediante l’istituzione dei cosiddetti “cannabis social club”, come già accade in Spagna e Olanda, e la vendita al dettaglio, in negozi autorizzati dal Monopolio di Stato. Una vera rivoluzione, che non manca di sollevare polemiche, in linea con la proverbiale demonizzazione dei cannabinoidi in Italia, esemplificata anche dal lento iter burocratico che ne ha disciplinato piuttosto tardi, solo nel 2014, il loro impiego a scopo medico, con le singole Regioni che tardano ad introdurne l'applicazione con gli appositi decreti attuativi e tanti pazienti che vedono negato il loro diritto alla cura. La discussione è stata però rimandata da luglio all’autunno, per valutare con maggiore lucidità i punti chiave della proposta e i numerosi emendamenti ostruzionistici presentati in particolare da Area Popolare e dal ministro della Salute, Beatrice Lorenzin che sostiene che la cannabis è pericolosa per la salute e si dice convinta che questa proposta alla fine non avrà i numeri in Parlamento, affiancata in questa posizione dal ministro dell'interno Alfano. La dilazione nella discussione della proposta di legge, invece di essere considerata come un inevitabile fallimento del provvedimento, va vista invece come un'opportunità per informarsi sulla materia e prendere decisioni consapevoli e opportunamente ragionate. E proprio in quest'ottica l'incitamento di Roberto Saviano sulle pagine de L'Espresso ad informarsi prima di legiferare. Al di là di ogni strumentalizzazione, le ragioni del proibizionismo stanno, davvero, solo in motivazioni psicologiche e culturali, come sostengono alcuni, o anche in ragioni mediche e scientifiche? La politica di tolleranza che si propone di intraprendere potrebbe davvero avere risvolti positivi? Stando al modello olandese, sembra di sì: dagli anni ’80 ad oggi, la legalizzazione della cannabis, contrariamente alle aspettative, non ha aumentato il consumo di droghe, che, tra l’altro, si attesta tra i più bassi in Europa, anzi potrebbe aver ridotto il mercato clandestino, pur esistente, e tenuto alla larga giovani adolescenti da pericolose dinamiche delinquenziali. Incoraggiante anche l'esperienza del Colorado, dove a fronte dei vantaggi finanziari ricavati dalla legalizzazione (con cifre a nove zeri), non si è avuto un aumento significativo della spesa sanitaria e al contempo si è potuta registrare una significativa riduzione dei reati di microcriminalità, proprio quelli che più minano la sicurezza dei cittadini. Indubbiamente, il mercato della cannabis rappresenterebbe per l'Italia un vantaggio finanziario enorme per molteplici ragioni e l'occasione di lavoro per migliaia di persone in campo agricolo, dove l'Italia ha peraltro una tradizione e una competenza secolare nella coltivazione della canapa ad uso industriale. L'applicazione di un'imposta da parte del Monopolio di Stato sulla cannabis anche solo pari a quella che grava sul tabacco porterebbe a delle entrate di svariati miliardi di euro annui, come previsto nelle proiezioni finanziarie da diversi economisti. Non solo, tali guadagni verrebbero sottratti alle organizzazioni criminali e alle mafie, bloccandone di fatto un prezioso carburante in liquidità fondamentale per il loro sostentamento. Lo stesso Raffaele Cantone si è schierato apertamente a favore di una legalizzazione come viatico per la lotta alla criminalità organizzata e alle mafie. Inoltre bisogna considerare il risparmio in termini di costi di polizia e magistratura per tutti i reati di micro e macro-criminalità legati al traffico, allo spaccio e al possesso di droghe leggere. Come medico ed esperto di uso terapeutico di cannabinoidi, l'argomento che più mi convince ad una posizione più laica e possibilista verso la legalizzazione delle droghe leggere è sicuramente la possibilità di avere maggiormente sotto controllo la qualità della droga stessa. A partire dagli operatori della criminalità organizzata, fino al più piccolo spacciatore, molto spesso ragazzini di poco maggiori di dieci anni, interessa solo ed esclusivamente il guadagno. Il prezzo di una dose di droga dipende dal suo peso...e allora niente di più semplice che aumentare il peso di una partita di erba pura 'tagliandola' chimicamente, come si dice in gergo non solo con altre sostanze chimiche che aumentino il senso di assuefazione e inducano all'abuso e al maggiore consumo delle stesse, ma con qualunque trattamento chimico che la renda più pesante come paraffina, sabbia, vetro, fino ai residui chimici delle pile usate, delle batterie d'auto, le lacche e numerose sostanze tossiche. Le politiche di proibizionismo al momento sono risultate fallimentari e non solo non hanno ridotto il consumo di droghe, nè leggere nè pesanti, ma hanno di fatto alimentato i canali criminali mettendo a rischio la salute e la vita di tanti. E come detto ultimamente dall’ex ministro della Giustizia Giovanni Maria Flick forse è arrivato davvero il momento di “chiudere il secolo proibizionista”.

Effetto Fentanyl. Sono migliaia i morti causati da questa nuova droga che sta arrivando anche in Italia. Medici e forze dell'ordine lanciano l'allarme. Giorgio Sturlese Tosi il 12 settembre 2019 su Panorama. La telefonata dal Canada era urgente. Il pacco era già in viaggio. A verbali e scartoffie burocratiche avrebbero pensato in seguito. Per prima cosa occorreva intercettare quella busta in transito all’aeroporto di Malpensa. Lo scorso febbraio gli uomini della Direzione centrale dei servizi antidroga, del Nas dei carabinieri e della polizia aeroportuale sono entrati in azione a tempo di record. Nel deposito dello scalo varesino hanno sequestrato la busta, si sono finti corrieri e l’hanno recapitata a destinazione, a casa di un 53enne pregiudicato di Alba. Le manette sono scattate mentre l’uomo, sulla porta, stava firmando la ricevuta di avvenuta consegna. Il pacchetto conteneva poco più di mezzo grammo di una sostanza, una nuova droga, che avrebbe potuto provocare decine di morti. Quello di Alba è stato il primo sequestro in Italia di un derivato del fentanyl, l’oppioide sintetico che negli Stati Uniti ha già provocato decine di migliaia di morti tra i tossicodipendenti. Altri sequestri sono stati eseguiti dai carabinieri nel 2019: la droga proveniva dal Canada e dalla Polonia. Ma gli investigatori sono preoccupati per l’interesse al mercato illegale degli oppioidi delle famiglie ’ndranghetiste canadesi, in stretto contatto con quelle italiane. Il fentanyl e i suoi derivati sono potenti antidolorifici di sintesi chimica. Oppioidi artificiali utilizzati in medicina per le terapie del dolore nei pazienti oncologici terminali o come anestetici in operazioni chirurgiche. Potenti fino a cento volte più della morfina e mille volte più dell’eroina, hanno invaso il mercato illegale del Nord America diventando un’emergenza nazionale. Il presidente Donald Trump, lo scorso 23 agosto, ha scritto su Twitter che il fentanyl proveniente dalla Cina (il principale produttore mondiale della sostanza) causa negli Usa 100 mila morti all’anno. Tra loro il cantante Prince, l’attore Philip Seymour Hoffman e, il 18 agosto scorso, il cuoco italiano di Cipriani Dolci a New York, Andrea Zamperoni. Negli Usa, dove l’approccio alla terapia del dolore prevede l’impiego massiccio di oppioidi (in Europa invece ricorriamo agli antinfiammatori), migliaia di pazienti si sono trasformati in tossicodipendenti. Il Tribunale dell’Oklahoma ha condannato Johnson & Johnson al pagamento di 572 milioni di dollari. Un precedente che potrebbe influenzare le altre 2 mila cause intentate contro i colossi farmaceutici e che, secondo stime americane, potrebbe costare a Big Pharma 100 miliardi di dollari in risarcimenti. Il «paziente zero», in Italia, è stato un 39enne di Desenzano, morto nel 2017. C’è voluto oltre un anno per accertare la presenza del fentanyl nel suo sangue: le analisi sono costose e i laboratori attrezzati in Italia solo una trentina. L’ultima relazione al Parlamento della Dcsa cita solo due morti accertate per overdose da fentanyl. Ma le statistiche non dicono la verità. La dottoressa Simona Pichini, ricercatore responsabile del laboratorio del Centro nazionale dipendenze e doping dell’Istituto Superiore di Sanità ne è certa: «Esiste un mercato illegale di almeno 30 derivati del fentanyl, sintetizzati nei laboratori clandestini da “drug designer” che modificano continuamente la molecola della sostanza. L’istituto invia gli aggiornamenti che riesce a scoprire a forze dell’ordine, pronto soccorsi, comunità terapeutiche e agli istituti di medicina legale ma in Italia mancano i dati sulla diffusione reale di queste sostanze e una conoscenza del fenomeno». Panorama ha interpellato esponenti delle forze di polizia che lavorano da anni in contesti di degrado e spaccio in alcune città italiane. Tutti hanno dichiarato, in effetti, di non aver mai sequestrato fentanyl né di aver mai chiesto ai rispettivi laboratori di cercarlo tra le sostanze sequestrate. Nemmeno in caso di overdose. Il fentanyl, insomma, già circola nelle nostre piazze, come dimostrano i sequestri più recenti, ma nessuno lo cerca. Spesso mixato all’eroina, è molto più potente e costa meno. Pochi granelli bastano a provocare un’overdose: la paralisi dei muscoli respiratori e collasso cardiaco. Oppioidi come il fentanyl non sono poi così complicati da reperire. Lo ha dimostrato un’operazione dei carabinieri di Cosenza dello scorso anno. La segnalazione era partita da una madre che aveva scoperto la dipendenza da antidolorifici del figlio. Un’organizzazione criminale utilizzava ricettari rubati negli ospedali o in studi medici per acquistare in farmacia cerotti antidolorifici a base di fentanyl, che venivano poi spacciati, a frazioni o interi, al prezzo di 50 euro. Sempre nel Cosentino, già nel 2016, i carabinieri avevano denunciato sei medici di base che prescrivevano a clienti tossicodipendenti farmaci contro il dolore a base di fentanyl per malati terminali di cancro, tra l’altro a carico del Sistema sanitario nazionale, pur essendo a conoscenza che quelle compresse venivano assunte come succedanee dell’eroina. Il maggiore canale di approvvigionamento dei derivati del fentanyl, però, è il dark web, la parte oscura di internet. E proprio sul mercato illegale della rete si concentrano gli sforzi della Direzione centrale per i servizi antidroga, del Dipartimento della pubblica sicurezza. Il colonnello della Guardia di finanza Alessandro Cavalli, a capo della divisione che si occupa di sostanze psicoattive e droghe sintetiche, parla di una realtà sfuggevole ai controlli e ammette che in Italia non ne abbiamo una percezione reale. Anche perché, al momento, il traffico internazionale di queste sostanze non è gestito dalle vecchie mafie, ancorate al monopolio delle droghe tradizionali, ma da associazioni criminali fluide che collaborano tra loro, dai chimici indiani alla mafia cinese ai cartelli messicani. «Noi però non siamo impreparati» afferma Cavalli. «Addestriamo il personale a trattare farmaci pericolosi come i derivati del fentanyl, abbiamo una sezione dedicata alle investigazioni sul web che collabora con i Paesi stranieri e abbiamo varato un progetto con corrieri e spedizionieri privati. In Italia, ogni mese, transitano 2 milioni di pacchi, impossibile controllarli tutti. Col nostro protocollo però possiamo intercettare quelli sospetti e sottoporli a esame con uno scanner o ispezionarlo con gli sniffer, piccole fibre ottiche che sbirciano il contenuto senza alterare la confezione. Per fare tutto questo puntiamo anche sulla collaborazione del settore privato delle spedizioni». Il problema è anche culturale. Per Pichini il fenomeno è sottovalutato dalle autorità giudiziarie: «Le procure dovrebbero essere più attente e richiedere esami dettagliati in laboratori attrezzati, che sono solo una trentina in tutta Italia. Invece in genere l’autopsia per una morte da overdose si accontenta di concludere che è stata provocata da eroina». Che però potrebbe essere stata confezionata con altri oppioidi più potenti. «In Italia non c’è ancora un’emergenza» conclude la dottoressa «ma le notizi che arrivano dall’estero, Europa compresa, sono allarmanti».

Funghi allucinogeni a Denver. Cosa c’è dietro? Orlando Sacchelli 9 maggio 2019 su Il Giornale. Con uno scarto di neanche duemila voti i cittadini di Denver (Colorado) hanno votato per depenalizzare il possesso dei funghi allucinogeni. Promosso dal gruppo “Decriminalize Denver” il referendum puntava a depenalizzare uso, possesso e coltivazione personale dei “funghetti magici” contenenti psilocibina. La “Initiated Ordinance 301” (il nome della proposta) invita le autorità a consentire l’uso esclusivamente in ambito privato e personale per chi abbia almeno 21 anni. Di fatto i funghetti non vengono legalizzati, ma è comunque un primo passo in tal senso, che dà uno scossone al Controlled Substances Act voluto da Richard Nixon nel 1971. L’ordinanza “proibisce alla città di spendere risorse per imporre sanzioni penali” a coloro che ne fanno uso. Se il risultato del voto verrà confermato (la prossima settimana saranno conteggiati anche i voti per posta) la legge non cambierà: possedere o vendere allucinogeni continuerà ad essere vietato, ma i reati legati a queste sostanze di fatto saranno considerati meno prioritari. Nota negli anni Sessanta come stupefacente, la psilocibina produce effetti sul sistema nervoso centrale inducendo esperienze psichedeliche, che alterano la sfera senso-percettiva e lo stato di coscienza. Proibita da tutti gli stati, nel 2018 la Food and drug Administration l’ha inclusa come possibile cura sperimentale alla depressione. Tesi ancora controversa a livello scientifico. L’unica certezza è che il movimento per la legalizzazione degli allucinogeni è molto attivo a livello mediatico, sia sui mezzi di comunicazione tradizionali sia sui social. L’obiettivo non è quello antiproibizionista classico della “riduzione del danno”, si punta invece ad allargare l’uso dei funghetti, rivolgendosi a chi ancora non li ha presi in considerazione. E si veicolano nomi rassicuranti (re-branding, effetti enteogeni), cercando accuratamente di evitare l’uso del termine allucinogeno. Le persone che provano i funghetti non sono “drogate”. I loro problemi esistenziali sono, per così dire, “resettati”. Su alcuni siti si leggono frasi di questo tipo: “Ci sono diverse ricerche in merito che dimostrano gli effetti “buoni” degli psichedelici per la salute mentale: una microdose di Lsd rende le persone più brillanti, mentre i funghi allucinogeni avrebbero il potere di aiutare dalla depressione e dall’ansia i pazienti affetti da tumore…”. Ma che senso può avere tutto questo? “C‘è un grande progetto per cambiare il senso di realtà delle persone: è l’anti-politica”. E’ l’opinione di uno psichiatra con cui ha parlato, che vanta diverse esperienze in campo internazionale: “Ti diamo più libertà interiore (chimica, virtuale) ma tu rinunci sempre più a quella esteriore (politica, reale). Più che un movimento si può parlare di più realtà, coordinate tra loro, con la volontà di depoliticizzare e desovranizzare ciascuno da sé e dalla realtà”. Quello che più conta è “il tuo senso (soggettivo) di controllo. Il potere fa sempre più appello a una oggettività indiscutibile (tecnocrazia, dittatura scientifica) mentre le persone comuni devono dubitare sempre più della propria percezione della realtà”. Ma fino a dove si spinge questo ragionamento? L’obiettivo potrebbe essere “governare più facilmente e in modo più efficiente (a basso costo), creando una dittatura tecnico-scientifica da cui dovrà essere difficilissimo sottrarsi, una sorta di via a senso unico. Basti pensare a quanto siamo più efficienti oggi con computer e telefonini. Rinunciarvi o diminuirne l’uso è difficile, sia perché siamo “addicted”, ovvero dipendenti alla maniera di un drogato, sia perché  siamo molto più competitivi usandone sempre di più”. Un altro fattore di cui non si può non tenere conto è che “l’automazione toglierà tantissimo lavoro, quindi si dovrà risolvere il problema rappresentato dal numero crescente di disoccupati. Proprio per questo digitale e web, droghe e reddito minimo per tutti procedono di pari passo…”. Se fosse davvero così sarebbe a dir poco inquietante. Ma forse è una visione un po’ troppo “complottista”. Voi come la vedete?

Fentanyl, il nuovo business dei narcos. Marijuana e cocaina sono superate. Sul mercato della droga spopolano nuovi prodotti, potenti antidolorifici tagliati con topicidi. Paolo Manzo il 12 giugno 2019 su Panorama. Il primo arresto in Lombardia è avvenuto lo scorso aprile. A Desenzano, addosso a un pusher è stato trovato del Fentanyl, un oppioide sintetico che negli Stati Uniti e in Canada sta falcidiando un’intera generazione. Dopo la cocaina e l’eroina, dunque, il mercato delle droghe si arricchisce di una nuova sostanza il cui viaggio comincia anch’esso molto lontano: in Sudamerica. Del resto, «il narcotraffico è la bomba atomica dell’America Latina». A dirlo, qualche decennio fa, è stato uno dei grandi zar colombiani della droga, tra i primi a essere estradati negli Stati Uniti: Carlos Lehder, tra i fondatori del cartello di Medellín. Oggi la bomba è esplosa, il potere dei narcos è più grande che mai e intelligence e investigatori di mezzo mondo difficilmente riescono a venirne a capo. La ragione della sua inarrestabile espansione è semplice: il crimine non solo è sempre più veloce nel comprendere le dinamiche del mercato, ma è esso stesso a orientarle. Prima ancora che una droga «muoia», se ne fabbrica un’altra, così il narcotraffico non si estingue mai. Lo capì prestissimo Pablo Escobar, che alla locale «marimba», come si chiamava nel gergo di strada la marijuana, le cui piantagioni riempivano all’epoca la Colombia, preferì sostituire, con un intuito più da imprenditore che da criminale, l’allora nuovissimo business della cocaina. «Inonderemo gli Stati Uniti di polvere bianca» profetizzava a metà degli anni Settanta, e la sua visione si rivelò corretta. Ancora oggi la cocaina è la droga che garantisce i maggiori profitti e da tempo i narcos sudamericani non considerano più la marijuana il «core business». La lasciano a più semplici fazioni alleate, come il PCC, il Primeiro Comando da Capital brasiliano, che gestisce quasi tutto il business della marijuana in Paraguay. I narcos, quelli veri e potenti, hanno cominciato piuttosto a dedicarsi con successo alla creazione di nuove droghe sintetiche che stanno devastando milioni di giovani americani e canadesi; in Europa si stanno affacciando timidamente, per adesso, con il pericolo però di un’ecatombe nei prossimi anni.

Il Fentanyl, in particolare, è diventata la nuova tendenza del florido business delle droghe. Questo oppioide sintetico è esploso sul mercato grazie alla facilità con cui i medici nordamericani somministrano pesanti antidolorifici per i mali più comuni (anche tra gli anziani). Peccato però che tra gli effetti collaterali ci siano assuefazione e dipendenza, tanto che sono ormai parecchie le class action contro le case farmaceutiche che li hanno prodotti. I cartelli messicani hanno subodorato il business e, facendo leva su un mercato già assuefatto, hanno messo in circolazione il Fentanyl prodotto da loro stessi, mescolato con eroina e persino con topicidi, trenta volte più potente di questa droga tradizionale. Risultato: una generazione di «zombie» le cui overdose sono  spesso mortali, con un costo sociale e sanitario immenso. All’inizio i cartelli si limitavano a comprare il Fentanyl dalla Cina. Poi, acquisendo un know-how chimico, si sono messi in proprio. I precursori continuano ad arrivare dall’Oriente (soprattutto India e Cina) e dall’Argentina, ma la sostanza la producono loro. I più forti nel settore sono i cartelli messicani di Sinaloa e Jalisco Nueva Generacíon che forniscono anche l’eroina per mescolarla al Fentanyl. In Europa, appunto, non sono ancora entrati in modo massiccio: qui continuano ad avere la meglio cocaina ed eroina. Ma alcuni casi recenti hanno messo in allerta le autorità sanitarie. Se il Fentanyl arriverà massicciamente sui mercati europei sarà un disastro, e la legalizzazione della marijuana non aiuterà certo ad arginare la curiosità del consumatore. In questo Stati Uniti e Canada dovrebbero servire da lezione: laddove la marijuana è stata legalizzata, il mercato del Fentanyl è prospero come non mai. Dal 2013 al 2016, secondo il Rapporto dell’ottobre 2018 della Dea, l’Agenzia antidroga statunitense, le morti per eroina e Fentanyl sono raddoppiate: queste nuove droghe si comprano senza difficoltà su internet, quando non le distribuiscono, quasi porta a porta, gruppi installati negli Stati Uniti e legati alle Maras, le organizzazioni criminali centroamericane. La media stimata dalla Dea è di 174 morti per overdose al giorno, una strage. Al Fentanyl vanno sommate poi le metanfetamine. Se alla frontiera tra Messico e Stati Uniti nel 2010 ne sono state sequestrate 4 tonnellate, nel 2018 si è arrivati a quota 37. L’anno scorso la Dea e il Dipartimento di Giustizia americano hanno varato un piano d’emergenza nazionale, l’Operation Synthetic Opioid Surge, con l’obiettivo di dichiarare guerra agli oppioidi. Un business potenziale che ha interessato, peraltro, anche la ’ndrangheta italiana. Nel 2017 a Gioia Tauro e a Genova sono state sequestrate rispettivamente 24 milioni di compresse e 37 tonnellate di Tramadol, un potente oppiaceo sintetico (come il Fentanyl) che, mescolato con stimolanti, diventa la  cosiddetta «droga del combattente»: una super amfetamina che annulla la paura in chi la assume. Con un dettaglio inquietante. Il carico di Tramadol proveniente dall’India era diretto in Libia, all’Isis. Pronto a essere usato, probabilmente, dai terroristi nelle loro azioni.

·         Pelle, occhi, malattie rare: le nuove frontiere delle cellule staminali.

Pelle, occhi, malattie rare: le nuove frontiere delle cellule staminali. Pubblicato sabato, 14 settembre 2019 su Corriere.it da Adriana Bazzi. Le eccellenze della ricerca italiana. Oltre ai trattamenti di avanguardia queste cellule sono usate per affrontare migliaia di casi di tumori. L’ Italia ha un primato, anzi tre. Parliamo di cellule staminali. Il primo ci riporta alla memoria Hassan, il bambino-farfalla con la pelle così fragile, proprio come le ali dell’insetto, da sfaldarsi in continuazione. Lui, siriano di origine, vive in Germania e un’équipe di medici italiani, guidati da Michele De Luca, lo ha curato, su invito dei colleghi tedeschi, nel 2015, salvandogli la vita. Primo caso al mondo. La sua malattia si chiama epidermolisi bollosa, provoca bolle cutanee che si rompono in continuazione e soltanto il trapianto di cellule staminali della pelle, geneticamente modificate per correggere il difetto causa della malattia, è riuscito a controllare. «È un intervento ancora sperimentale — precisa De Luca che dirige il Centro di Medicina Rigenerativa “Stefano Ferrari” all’Università di Modena-Reggio Emilia e ha messo a punto la metodica — ma adesso Hassan, dopo quattro anni dall’intervento , sta bene». Il secondo e terzo fiore all’occhiello del made in Italy delle staminali riguardano, invece, terapie già approvate e disponibili per i pazienti. Una si chiama Strimvelis: è un «farmaco» (se così si può definire, ma più specificamente i tecnici parlano di «prodotto medicinale per terapie avanzate»), messo a punto e brevettato dai ricercatori dell’Istituto Telethon all’Ospedale San Raffaele di Milano, diretto da Luigi Naldini, che ha ricevuto l’approvazione dall’Ema, l’Agenzia europea per i farmaci, nel 2016. È la prima terapia che cura una rara malattia genetica, chiamata Ada-Scid (ogni anno colpisce in Europa 15 bambini): si tratta di una mancanza di difese immunitarie che lascia i piccoli in balia delle infezioni e li costringe all’isolamento. Anche in questo caso si usano staminali modificate geneticamente in modo da veicolare il gene sano. Per il terzo primato si torna a Modena. Questa volta si parla di cornea (il rivestimento esterno dell’occhio) e della possibilità di ripararla quando ha subito un’ustione chimica, non curabile con i tradizionali trapianti di cornea da cadavere. La terapia, messa a punto da De Luca in collaborazione con Graziella Pellegrini di Modena e ricercatori del San Raffaele di Milano, sfrutta staminali della cornea, senza modificazioni genetiche. Il nuovo farmaco, approvato nel 2015, si chiama Holoclar. Questi brillanti risultati della ricerca italiana aiutano a cancellare la vergogna di Stamina, quella società che, alcuni anni fa, prometteva guarigioni «miracolose» con le staminali somministrate a pazienti affetti da ogni tipo di malattia, senza alcuna prova scientifica. Sollevando inutili speranze. Ma a parte i nuovi trattamenti d’avanguardia, non dobbiamo dimenticare che le staminali, soprattutto quelle del sangue, sono già utilizzate da anni nella cura di alcuni tumori. «Sono ormai decine di migliaia i casi trattati nel mondo con le staminali del sangue — precisa Paolo Corradini, Presidente della Società Italiana di Ematologia —. Dobbiamo, però, distinguere due situazioni. La prima riguarda certe neoplasie, come quelle del testicolo, i sarcomi e i tumori neurologici dei bambini, curabili con alte dosi di chemioterapici che distruggono il midollo osseo. Ecco allora che si ricorre al trapianto autologo, utilizzando, cioè, cellule staminali del paziente stesso per ricostituire il midollo. Le staminali non sono, dunque, la vera cura, ma servono come supporto». Costituiscono, invece, un vero e proprio trattamento per tumori come leucemie, linfomi e mielomi. «L’obiettivo, qui, è sostituire le cellule malate del midollo con staminali sane, provenienti da donatori — continua Corradini —. Queste ultime non soltanto produrranno gli elementi del sangue, ma ricostruiranno anche il sistema immunitario del paziente. L’utilizzo di staminali del cordone ombelicale, che ha sollevato molte aspettative in passato, non si è, invece, rivelato veramente utile». Fin qui, dunque, si è parlato di trattamenti già disponibili per i pazienti che utilizzano staminali adulte: quelle, cioè, che si trovano nei tessuti umani e, normalmente, ne assicurano la rigenerazione. Poi c’è tutto il mondo delle sperimentazioni, più o meno avanzate, riportato alla ribalta dalle cronache con il caso Schumacher, il campione di Formula Uno appena ricoverato all’Ospedale Pompidou di Parigi, nel reparto di Philippe Menasché, per sottoporsi a cure con staminali definite «top secret» che forse riguardano la funzionalità del cuore. Molte di queste sperimentazioni sfruttano, invece, staminali embrionali. «Le ricerche più promettenti con le embrionali, che sono cellule totipotenti, davvero capaci, a differenza di quelle adulte, di dare origine a moltissimi tessuti dell’organismo, riguardano le malattie della retina e il morbo di Parkinson» spiega De Luca. Gli studi sono in corso soprattutto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dove i limiti all’uso delle staminali embrionali non sono stretti come da noi. Queste cellule, d’altra parte, sono utili proprio quando si tenta di riparare organi come la retina e il cervello che, a differenza della pelle o del midollo, non si rigenerano e non hanno staminali proprie. Ci sono poi altre ipotetiche indicazioni all’uso delle staminali: per esempio la cura delle malattie cardiovascolari, come l’insufficienza cardiaca, o quelle muscolari, come la distrofia di Duchenne, ma gli studi sono molto preliminari e spesso controversi. E controverso è anche il fatto di usare «estratti di staminali» per presunte proprietà anti-infiammatorie. «La “magic bullett”, la pallottola magica a base di staminali che cura tutto non esiste» conclude De Luca. Perché la ricerca è ricerca, mentre il business (enorme in questo settore) è un’altra cosa.

·         Tumore e cancro: il vero, il falso, l'improbabile.

Tumore e cancro: il vero, il falso, l'improbabile. Timori ingiustificati, allarmi, leggende su "cosa fa venire il cancro". Queste le conclusioni degli scienziati, scrive Daniela Mattalia il 15 marzo 2019 su Panorama. L’ultimo caso controverso è quello del borotalco, accusato di provocare il tumore all’ovaio se usato in grandi quantità e in modo prolungato. Il sospetto è che il minerale, formato da magnesio e silicio, possa esporre al rischio perché contaminato (durante l’estrazione dalle miniere) da particelle di amianto. Secondo lo Iarc di Lione, l’agenzia internazionale per la ricerca sul cancro che stila l’elenco delle sostanze pericolose per la salute, il prodotto è «potenzialmente cancerogeno»: interpellata da Panorama, l’autorità chiarisce, però, che non ci sono raccomandazioni, rimandando eventuali indicazioni al ministero italiano. Intanto, negli Stati Uniti, da dove l’allarme è partito, è boom di richieste di risarcimento danni, e online ormai circolano così tante informazioni che diventa difficile individuare quelle corrette. E la confusione su che cosa «fa venire il tumore» non fa che crescere. Non compriamo più il talco? Evitiamo l’aspartame? Addio carne rossa? Rinunciamo al vino? «Per quanto riguarda il borotalco, vari studi epidemiologici riportano un aumento di rischio del 20-30 per cento» dice Maurizio D’Incalci, capo dipartimento di oncologia dell’Istituto Mario Negri di Milano. «I dati raccolti, però, non sono del tutto coerenti e possibili errori nelle indagini possono motivare, in parte, questa debole associazione». Un esempio. È possibile che le donne colpite dal tumore all’ovaio, e considerate negli studi, abbiano riferito un utilizzo più frequente del prodotto perché sensibili al problema e influenzate dalle notizie apparse sui giornali. «Senza evidenti spiegazioni biologiche, sebbene un rischio limitato non possa essere escluso, i risultati non sono ancora completamente convincenti per stabilire un nesso causa-effetto» conclude l’esperto. Nell’attesa di distinguere tra studi poco conclusivi e pareri spesso discordi degli esperti, che si fa? Pubblicata nei giorni scorsi sul New Scientist, una tabella riassume le conoscenze e il grado di rischio di sostanze, prodotti di uso comune, alimenti, comportamenti (in alto). Una bussola per non perdere l’orientamento. Tenendo presente, in ogni caso, che il cancro è una patologia legata a più fattori. Su alcuni, come la predisposizione o i geni, non è dato agire. Su altri è possibile. Uno dei fattori «evitabili», per esempio nel tumore al seno, è l’obesità. Così come le ustioni solari lo sono per i tumori alla pelle, soprattutto nell’infanzia. Aumentano il rischio altri elementi controllabili, come l’epatite e il papilloma virus (per le quali esiste il vaccino.

La separazione tra ciò che si pensa e le scoperte scientifiche ha profonde radici, e lo dimostra un sondaggio realizzato nel 2018 dalla University College London e dalla University of Leeds, su 1.330 persone: solo il 60 per cento ritiene che le ustioni solari possano incidere, appena il 30 per cento è consapevole del legame tra papilloma virus e tumore alla cervice. All’opposto, una persona su tre è convinta che il cellulare provochi sicuramente il cancro al cervello, mentre lo Iarc classifica i campi elettromagnetici a radiofrequenza (inclusi i segnali wi-fi e di telefonia mobile) come «potenzialmente cancerogeni». Spiega l’agenzia a Panorama: «La valutazione si basa su un aumentato rischio di glioma, un tumore al cervello associato all’uso del wireless». Il gruppo di lavoro non ha, però, quantificato il pericolo. Resta valido quanto riportato in uno studio precedente (condotto fino al 2004) che ha mostrato un «più 40 per cento» di rischio nella categoria di utilizzatori cosiddetti pesanti. Un capitolo a parte va dedicato all’aspartame, che è fuori dalla lista Iarc, nonostante i ripetuti allarmi. «In realtà il dolcificante in commercio è sicuro, come ha stabilito un documento dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare della Commissione europea» riassume Cristina Bosetti, responsabile dell’unità epidemiologia dei tumori al Mario Negri. Non c’è da preoccuparsi nemmeno per il caffè: «Il nesso con il cancro si può tranquillamente escludere» aggiunge Bosetti. Gli alcolici, invece, incidono sulle probabilità di tumori del fegato, della testa e del collo e della mammella, per citarne alcuni. Il tabacco, infine, è collegato al 22 per cento di decessi di tumore nel mondo. «Anche se abbiamo assistito a un calo del vizio del fumo negli uomini, cui è seguita una diminuzione sostanziale di incidenza di tumori polmonari e di morti per questa malattia, nelle donne si è osservata una riduzione nel consumo solo più di recente, e tra loro la mortalità per questo tumore è ancora in crescita» avverte D’Incalci, caldeggiando campagne di sensibilizzazione più decise. Un altro modo efficace, e fuori da ogni ragionevole dubbio, per evitare irreparabili guai.

La conferma:  non ci si ammala  di cancro per caso  o per sfortuna. Pubblicato lunedì, 20 maggio 2019 da Silvia Turin su Corriere.it. Non ci si ammala di cancro per caso o per sfortuna: lo confermano i risultati dello studio di un gruppo di scienziati dell’Istituto Europeo di Oncologia, appena pubblicato sulla rivista scientifica Nature Genetics e finanziato dallo European Research Council (ERC). I ricercatori, guidati da Piergiuseppe Pelicci, Direttore della Ricerca IEO e Professore di Patologia Generale all’Università di Milano, e Gaetano Ivan Dellino, ricercatore IEO e di Patologia Generale dell’Università di Milano, in collaborazione con il gruppo diretto da Mario Nicodemi, Professore all’Università di Napoli Federico II, hanno scoperto che una delle alterazioni geniche più frequenti e importanti per lo sviluppo del cancro, le “traslocazioni cromosomiche”, non avvengono casualmente nel genoma, ma sono prevedibili e sono provocate dall’ambiente esterno alla cellula. «Nel corso della vita, un uomo su 2 e una donna su 3 si ammalano di cancro - spiega Pelicci - Perché? Un tumore si sviluppa quando una singola cellula accumula 6 o 7 alterazioni del DNA a carico di particolari geni: i geni del cancro. La domanda diventa quindi: che cosa determina quelle alterazioni? La ricerca di una risposta ha creato due scuole di pensiero: una che identifica la causa principale nell’ambiente in cui viviamo e nel nostro stile di vita, e l’altra che ne attribuisce l’origine alla casualità e dunque, in ultima analisi, alla sfortuna». Secondo tre precedenti studi pubblicati su Science, a firma da Bert Vogelstein, uno degli scienziati contemporanei più autorevoli, due terzi delle mutazioni trovate nei tumori si formano durante la normale vita dei nostri tessuti, quando le cellule duplicano il proprio Dna per moltiplicarsi. Siccome queste mutazioni sono considerate inevitabili, perché dovute ad errori casuali, Vogelstein aveva concluso che le stesse avverrebbero in ogni caso, anche se il nostro fosse un pianeta perfetto e i nostri stili di vita irreprensibili. I lavori pubblicati hanno stimolato un grande dibattito nella comunità scientifica. «Oggi pubblichiamo un lavoro che mette in discussione la casualità delle traslocazioni cromosomiche - spiega Dellino in un comunicato - , uno dei due tipi di alterazioni geniche trovate nei tumori. Le traslocazioni sono la conseguenza di un particolare tipo di danno a carico del Dna, ossia la rottura della doppia elica. Come per le mutazioni, pensavamo che questo tipo di danno avvenisse casualmente nel genoma, ad esempio durante la divisione cellulare, come ipotizzato da Vogelstein. Al contrario, studiando le cellule normali e tumorali del seno, abbiamo scoperto che né il danno al Dna né le traslocazioni avvengono casualmente nel genoma. Il danno si verifica all’interno di geni con particolari caratteristiche e in momenti precisi della loro attività. Si tratta di geni più lunghi della media e che, pur essendo “spenti”, sono perfettamente attrezzati per “accendersi”. La rottura del Dna avviene nel momento in cui arriva un segnale che li fa accendere. Studiando queste caratteristiche, possiamo prevedere quali geni si romperanno e quali no, con una precisione superiore all’85 per cento». «La questione centrale, che cambia la prospettiva della casualità del cancro, è che l’attività di quei geni è controllata da segnali specifici che provengono dall’ambiente nel quale si trovano le nostre cellule, e che a sua volta è influenzato dall’ambiente in cui viviamo e dai nostri comportamenti. Questa scoperta– continua Pelicci - ci insegna che la sfortuna non svolge alcun ruolo nella genesi delle traslocazioni e che abbiamo ora un motivo scientifico in più per non allentare la presa sulla prevenzione dei tumori. Per ora non abbiamo capito quale sia esattamente il segnale che induce la formazione delle traslocazioni, ma abbiamo capito che proviene dall’ambiente, pur ignorando ancora luoghi e circostanze. È possibile, infine, che il medesimo meccanismo, o uno simile, possa essere anche alla base delle mutazioni studiate da Vogelstein. Ci stiamo lavorando», conclude il ricercatore. A oggi conosciamo con certezza alcuni dei fattori ambientali che causano il cancro: fumo, alcool, obesità, inattività fisica, eccessiva esposizione al sole, una dieta ad alto contenuto in zuccheri e carni rosse o processate, e a basso contenuto di frutta, legumi e vegetali. La comunità scientifica concorda sul fatto che se tutti questi fattori fossero eliminati - e ciascuno è eliminabile - potremmo prevenire il 40 per cento dei tumori. Conosciamo inoltre alcuni virus e batteri che causano cancro: il virus Hpv favorisce il cancro della cervice e della faringe, il virus Hbv quello del fegato, il batterio Helicobacter pylori quello dello stomaco. Le vaccinazioni contro quei virus hanno il potenziale di evitare, da soli, il 15 per cento dei tumori nel mondo. Anche l’esposizione ad agenti inquinanti ambientali, occupazionali o industriali è causa di una frazione dei tumori. Purtroppo, però, a parte alcune eccezioni, come ad esempio l’amianto, non abbiamo ancora ben capito quali siano esattamente e quanto incidano. «Per quanto oggi sappiamo, ciascuno di noi può scegliere se prevenire il 40 per cento dei tumori, con pochi e precisi cambiamenti del modo in cui viviamo. La comunità scientifica lavorerà sul restante 60 per cento. A patto che ci siano fondi sufficienti per la ricerca», ricorda Pellicci.

Il cancro non è dovuto al caso o alla sfortuna: dipende dall'ambiente. La conferma in uno studio ad opera di ricercatori italiani. Francesca Bernasconi, Martedì 21/05/2019, su Il Giornale. "Non ci si ammala di cancro per caso o sfortuna". A confermarlo è uno studio scientifico, opera di un team di ricercatori italiani e pubblicato su Nature Genetics, che mostra come sia possibile rintracciare le cause della malattia nell'ambiente e nelle traslocazioni cromosomiche. Queste, spiegano gli scienziati, sono alterazioni geniche che portano allo sviluppo dei tumori. Ma le alterazioni non avvengono casualmente, per predestinazione o sfortuna, come sostenevano studi precedenti, come quello del 2015, opera di un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins School of Medicine. Secondo gli studiosi italiani, guidati da Piergiuseppe Pelicci, direttore della Ricerca Ieo e professore di Patologia generale all'università degli Studi di Milano, e Gaetano Ivan Dellino, ricercatore Ieo e di Patologia generale della Statale, in collaborazione col gruppo diretto da Mario Nicodemi, docente dell'ateneo di Napoli Federico II, le traslocazioni cromosomiche sono prevedibili e causate dall'ambiente esternoalla cellula. "Un tumore si sviluppa quando una cellula accumula 6 o 7 alterazioni del Dna a carico di particolari geni: i geni del cancro", spiegano gli scienziati. Le alterazioni possono consistere piccoli cambiamenti strutturali o arrivare anche alla fusione di due geni. Uno studio dello scienziato Bert Vogelstein ha dimostrato che le alterazioni si formano, quando le cellule duplicano il proprio Dna e, dato che queste mutazioni sono inevitabili, lo studioso ha concluso che avverrebbero a prescindere dagli stili di vita. Il lavoro dei ricercatori italiani, invece "mette in discussione la casualità delle traslocazioni cromosomiche", causate dalla rottura della doppia elica. "Pensavamo che questo tipo di danno avvenisse casualmente nel genoma, ad esempio durante la divisione cellulare come ipotizzato da Vogelstein- spiegano gli autori dello studio- Al contrario, però, studiando le cellule normali e tumorali del seno, abbiamo scoperto che né il danno al Dna né le traslocazioni avvengono casualmente nel genoma". Il danno, infatti, "avviene all'interno di geni con particolari caratteristiche e in momenti precisi della loro attività", che permettono di "prevedere quali geni si romperanno e quali no". Quindi, conclude il team tricolore, "l'attività di quei geni è controllata da segnali specifici che provengono dall'ambiente nel quale si trovano le cellule, che a sua volta è influenzato dall'ambiente in cui viviamo e dai nostri comportamenti". Viene così ribadita l'importanza della prevenzione dei tumori, adottando uno stile di vita sano, evitando i fattori ambientali che favoriscono la formazione del cancro: fumo, alcol, obesità, inattività fisica, eccessiva esposizione al sole, una dieta ad alto contenuto in zuccheri e carni rosse o processate, e a basso contenuto di frutta, legumi e vegetali. Inoltre, è bene effettuare i vaccini contro i virus e i batteri che causano i tumori.

Con i nuovi risultati è stata aperta "una finestra sul meccanismo molecolare alla base delle traslocazioni, che forse potremo usare in futuro come marcatore per identificare il rischio di sviluppare la malattia, o come bersaglio per disegnare farmaci che aiutino a prevenire il cancro". Per il momento, non è ancora chiaro quale sia il segnale che porta alle traslocazioni, ma la cosa importante è aver capito che "proviene dall'ambiente".

Se la salute è un lusso: curare un tumore costa 40mila euro l'anno. Terapie, visite non coperte da ticket, trasporti e ricadute sui familiari: «Servono più risorse». Maria Sorbi, Giovedì 16/05/2019, su Il Giornale. Non tutti i pazienti oncologici si possono permettere le cure allo stesso modo. Quasi fosse un lusso ammalarsi. Uno degli effetti collaterali sociali del cancro è nascosto nelle pieghe dei costi a carico del malato: 40mila euro a testa nei cinque anni successivi alla diagnosi. Significa una spesa complessiva di 5,3 miliardi di euro. Da qui le scelte drastiche di molte famiglie: limitarsi allo stretto indispensabile, lasciar perdere riabilitazioni, protesi e assistenza psicologica, tirare il più possibile la cinghia, aspettare mesi e mesi per una ricostruzione al seno, lasciar perdere le diete anti cancro, troppo care. In sintesi: curarsi male. A scattare la triste fotografia italiana è l'undicesimo rapporto sulla condizione assistenziale dei malati oncologici che la Favo (federazione delle associazioni di volontariato in oncologia) presenterà oggi in Senato. È vero che il sistema sanitario spende 16 miliardi all'anno per i 3,3 milioni di pazienti oncologici, ed è altrettanto vero che si tratta pur sempre del 15% della spesa sanitaria, non poco. Ma evidentemente non è sufficiente. Per far fronte alle liste d'attesa troppo lunghe i pazienti si rivolgono alle strutture private e pagano di tasca propria interventi ricostruttivi (con una spesa media all'anno di 2.600 euro), colf e badanti (1.400 euro), trasposti (800 euro), visite non coperte dal ticket (400 euro). E soprattutto perdono più di sei mesi di lavoro e di guadagno. Aspetto che non rappresenta un problema per chi ha un contratto a tempo indeterminato ma che è un guaio per chi lavoro con partita Iva o con contratti senza garanzie. La malattia manda all'aria l'intero bilancio famigliare: anche i caregiver, cioè i parenti che assistono il malato, sono costretti a rinunciare al lavoro per affiancare la badante o per prendere il suo posto. Dall'indagine Favo emerge che in media hanno perso 20 giorni di lavoro in un mese e il 26% di loro ha subito una riduzione del reddito attorno al 30%. «Il nostro sistema sanitario - spiega Giordano Beretta, presidente Aiom (associazione di oncologia medica) - permette a tutti di accedere a trattamenti per la diagnosi e la cura dei tumori. Malgrado ciò, esistono problematiche legate alla necessità di effettuare accertamenti al di fuori del pubblico a causa delle lunghe liste d'attesa». Francesco De Lorenzo, presidente Favo, sprona ad analizzare «i costi reali del cancro per programmare le politiche sanitarie e perché la politica destini in modo corretto le risorse». Come fare per alleggerire le incombenze di una famiglia che si trova a combattere contro la malattia? La Favo presenta in Senato un mini decalogo in cui suggerisce interventi fiscali e affini. Urge, ad esempio, informare con chiarezza le famiglie su quali esenzioni possono ottenere in caso di una patologia oncologica. E ancora, vanno ridiscussi i parametri e le regole per detrarre i costi associati alla malattia in sede di regime fiscale. «Dobbiamo affrontare al più presto il tema dei caregiver» sostiene De Lorenzo, che propone come primo passo di informarli su come accedere ai benefici previsti dalla legge in campo lavorativo, previdenziale e assistenziale. Altro tema caldo è quello delle partite Iva a cui, in qualche modo, vanno garantite delle agevolazioni, che potrebbero essere una rateizzazione dei contributi, un rimborso per le spese domiciliari, l'equivalente di un'indennità. Se davvero entro il 2020 i malati oncologici saranno un popolo di 4,5 milioni, sempre più cronicizzati, allora vanno studiate delle misure di tutela fin da adesso. Per garantire un po' di tranquillità.

·         Alla ricerca dell’anima.

Vittorio Feltri 4 Maggio 2019 su Libero Quotidiano: la scienza sa tutto ma non trova l'anima e fallisce. Un amico medico, non uno stregone, mi ha proposto un libro uscito undici anni fa: Una scienza senz' anima, autore Giuseppe Sermonti, Lindau, p 135, 14,50. Leggilo, mi ha detto: ti stupirà, è pure breve. Nel titolo si combattono un paio di parole che nella mia mente, ma - sono certo - anche in quella di gran parte dei lettori, si negano a vicenda. Scienza e anima? Il mio riflesso istantaneo è stato di ovvia ripulsa: logico che la scienza non abbia un' anima, se ce l' avesse non sarebbe scienza, perché dovrebbe ammettere l' esistenza di qualcosa che non può misurare, e se non è misurabile non esiste. A sua volta: semmai l' anima esista, si accontenti di stare al posto suo, senza invadere i terreni aridi degli esperimenti che non sopportano quesiti esistenziali. Due campi diversi. Ciascuno dei due elementi non invada il recinto altrui. Che poi ci siano scienziati che credano nell' anima immortale, e preti che siano astronomi, pazienza: affari privati. La mescolanza di essenze agli antipodi aumenterebbe la confusione. Non esito ad affermare che questo volume ha sconvolto il luogo comune in cui ero immerso. Devo per prima cosa ragguagliarvi sulla figura dell' autore. Giuseppe Sermonti è scomparso pochi mesi fa, a novant' anni suonati. È stato uno dei più insigni biologi italiani, ha fondato - per citare uno dei suoi meriti - la «genetica dei microrganismi produttori di antibiotici». Ad un certo momento della sua vita, dopo trent' anni di ricerche e successi, con una carriera favolosa, ha fatto una scoperta, la vera scoperta. Che la ragione non può essere misura della realtà, come pretende di essere secondo il credo scientista. Essa, la realtà, sfugge. Conserva un punto profondo che non si può imbottigliare con una legge. La scienza non è così stupida. Quella che oggi invece si autodefinisce scienza, con le sue gerarchie di scienziati, è un tradimento della vera scienza. È un processo innescato nell' età moderna e oggi al diapason, per la presunzione susseguente alle avventure conoscitive nel campo del Dna (semplifico da ignorante). Essa insomma ha rinnegato la sua anima.

UOMO RIDICOLIZZATO - Con l' adesione universale all' evoluzionismo, la scienza ha ridicolizzato l' uomo comune e la sua percezione delle cose. L' albero, la montagna, i capelli non sono quello che gli occhi ci dicono e la tradizione conferma. Questi conglomerati di molecole sono semplici passaggi casuali nel corso dell' evoluzione. La capacità di conoscenza autentica è prerogativa di chi sa le leggi dello sviluppo. La conseguenza è che la scienza nella presunzione di impadronirsene, ci allontana dalla realtà, e pretende di sostituire alle cose quotidiane, al tramonto, alla luna, alle rondini, una rappresentazione senza mistero. Poi di sera ci rifilano trasmissioni sui buchi neri, che sarebbero la realtà vera, rispetto al nostro banale micro-mondo. Una menzogna, perché secondo Sermonti conosce di più la vecchina con i suoi riti antichi e contadini, e la sua nostalgia per una origine misteriosa ma pacificante. Vero o no? I quesiti in me restano aperti. Certo le tesi del professore eretico impressionano per la forza argomentativa e la passione con cui denuncia il dominio post-moderno di questa religione totalitaria degli algoritmi, che ci ha privato del gusto della scoperta, riducendo qualsiasi ente alle sue componenti chimico-fisiche, a una somma di geni, una catena di eventi casuali, studiati secondo un metodo che ha rinnegato la bellezza. Ho detto eretico. Sbaglio. È la cupola degli scienziati ad aver scelto l' apostasia dalla vera «scienza con l' anima». Da quando maturò questa certezza, Sermonti, con una penna folgorante, si batte per recuperare la scienza alla sua vera natura, che non ha per compito l' efficienza, ma lo stupore dinanzi ai segreti che disvela, senza pretesa di impossessarsene.

AUTENTICHE SORPRESE - Il libro è insieme polemico e molto dolce. A me ha riservato delle autentiche sorprese. Ad esempio la dimostrazione empirica (e se sbaglio qualcuno mi corregga) che la tecnologia viene prima della scienza. La tecnica è l' arte senza troppe teorizzazioni con cui si risponde a dei problemi pratici. Dalla meccanica alla medicina è andata così. Riferendosi a quest' ultima, scrive Sermonti «che quei reali sollievi che la Medicina ha portato alla sofferenza umana non hanno avuto di regola nulla a che fare con il Progresso della scienza». Non sono merito di leggi nuove poi applicate alle malattie da curare. Infatti, assicura l' autore, «le grandi scoperte della Medicina sono, per maggior parte, di origine umilissima. Per lo più siamo tributari dell' empirismo e malvolentieri ci si rassegna ad ammetterlo». Viceversa la scienza, ed in particolare oggi soprattutto la medicina (con annesse biologia, farmacologia ecc), si è trasformata in una religione totalitaria, dotata di «colossale organizzazione», con i suoi vescovi e cardinali (non stiamo parlando qui di grandi medici) a cui tutti ci inchiniamo, e che ci impongono il dogma nella fiducia assoluta nel Progresso, i cui ingredienti sono conosciuti e conoscibili solo dalla casta che si accredita come l' unica sapiente e in fondo degna di essere considerata umana. In alcune pagine, molto amare, Sermonti si mostra consapevole di essere parte di una minoranza, la cui voce è tacitata. Non so se abbia in tutto o solo in parte ragione. Confesso: mi è simpatico anche perché si è messo a polemizzare contro premi Nobel, ai quali la scoperta di una sottospecie di moscerino ha fatto credere di essere Mosè con le tavole della (nuova) legge. So di certo che il suo invito a guardare la sera il firmamento, a osservare i movimenti del gatto per quello che sono, a percepire come gratuito, somigliante agli «archetipi» primordiali e non prodotto della chimica, l' affetto che mi porta mia moglie o un amico, mi ha fatto respirare con calma. Vittorio Feltri

·         Albert Einstein: indagine sui segreti dell’universo.

Albert Einstein: indagine sui segreti dell’universo. Il libro in edicola. Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 da Corriere.it. Nel sottolineare l’impegno «pacifista e internazionalista» di Albert Einstein, nella sua biografia del grande fisico in edicola dal 14 marzo con il «Corriere», Vincenzo Barone mostra come esso s’intrecciasse con le istanze scientifiche. Il cammino era stato lungo, e non sempre facile. Una prima teoria della relatività (il termine è di Max Planck), detta ristretta o speciale, era stata formulata da Einstein nel 1905 basandosi su due «postulati». Il primo, il suo principio di relatività (che generalizzava un’idea abbozzata da Galileo Galilei), enunciava che «le leggi della fisica hanno la stessa forma per tutti gli osservatori in moto uniforme (o, se si preferisce, per tutti i sistemi di riferimento)». Il secondo principio diceva «che la velocità della luce nel vuoto, tradizionalmente indicata con c, è la stessa per tutti gli osservatori in moto uniforme». Nota Barone che, «anche se non sembra, il secondo postulato della relatività ristretta riguarda il tempo. (Infatti) se due osservatori vogliono misurare un certo intervallo di tempo e confrontare i risultati, devono disporre di orologi sincronizzati. Ciò richiede una procedura universale di sincronizzazione. Il secondo postulato (...) fornisce appunto tale procedura; dal momento che la luce viaggia sempre alla stessa velocità, i due osservatori, qualunque sia il loro stato di moto, possono sincronizzare i rispettivi orologi scambiandosi un segnale luminoso». Ciò comporta un rilevante mutamento concettuale, sottolinea Barone: «Siamo generalmente portati a pensare che il tempo scorra allo stesso modo per tutti gli osservatori, che cioè sia unico, assoluto (questa è la concezione del tempo sottesa alla fisica classica). La teoria einsteiniana mostra che le cose non stanno così: i tempi, misurati da osservatori in moto l’uno rispetto all’altro sono diversi — il tempo è relativo. Anche la simultaneità tra gli eventi è relativa: due eventi che si verificano contemporaneamente per un osservatore, si verificano in tempi diversi per un altro osservatore». Nel corso del 1905 Einstein pubblicò un lavoro di appena tre pagine, L’inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto di energia?. Spiega Barone: «Col termine inerzia si indica in fisica la resistenza che un corpo oppone a una variazione di velocità, cioè a un’accelerazione. Nella meccanica newtoniana l’inerzia è legata alla massa: maggiore è l’energia di un corpo, più è difficile imprimergli un’accelerazione. Inoltre, la massa stessa è una forma di energia. Anche quando è a riposo (...) un corpo possiede un’energia (E) che è data dalla sua massa (m) per la velocità della luce (c) al quadrato: in simboli, E = mc²». Il pensiero scientifico è capace di «vedere» sotto la superficie delle apparenze. «C’era voluto il genio di Einstein per capire che la massa è energia: ma perché fino al 1905 nessuno si era accorto sperimentalmente di un fatto così clamoroso? Il motivo è semplice: se le masse dei corpi non cambiano (o non cambiano apprezzabilmente), come succede nei fenomeni fisici più familiari e nelle reazioni chimiche, l’energia di massa è, per così dire, un’energia latente, che non si manifesta. È solo quando le masse cambiano, anche di poco, come succede nelle reazioni nucleari, che l’energia di massa può trasformarsi in energia di moto ed essere direttamente osservata». Opportunamente Barone richiama qui un breve scritto divulgativo (1923) di Enrico Fermi: «Non appare possibile che, almeno in un prossimo avvenire, si trovi il modo di mettere in libertà queste spaventose quantità di energia». Ma, osserva Barone, «fu proprio Fermi, due decenni dopo, a trovare il modo di produrre quell’energia, con il primo reattore nucleare, e poi, in forma esplosiva, con le bombe di Hiroshima e Nagasaki». Vincenzo Barone (Ancona, 1952) autore della biografia di Einstein, insegna Fisica teorica Questo non vuol dire che sia lecito definire Einstein il «padre» dell’arma atomica. Giustamente Barone nota che «quanto alla legge di equivalenza di massa ed energia, attribuire al suo scopritore la responsabilità della bomba atomica è come attribuire a Galileo (e alla sua legge del moto parabolico) la responsabilità dei missili balistici». E al livello politico va rilevato che l’intervento di Einstein presso Franklin D. Roosevelt, allora presidente degli Stati Uniti, nell’estate del 1939, non fu decisivo: «L’impegno americano nelle ricerche atomiche», nota Barone, «ebbe realmente inizio due anni dopo, per impulso soprattutto di Vannevar Bush». Einstein si era deciso a rivolgersi alla presidenza Usa solo nel timore che i nazisti stessero lavorando a un progetto del genere con probabilità di riuscita: «Non avrei potuto agire altrimenti, sebbene io sia sempre stato un pacifista convinto». Quel non poter agire altrimenti mi ricorda un carattere saldo e coraggioso come quello di Lutero di fronte alle minacce alla Dieta di Worms o quello di Darwin, che nell’Autobiografia aveva dichiarato di cercare invariabilmente nuove ipotesi ogni volta che quelle precedenti fallivano alla prova dei fatti. Nel dicembre 1945 Einstein dichiarò che «la guerra è stata vinta, non così la pace». L’unica speranza era in «un governo mondiale (...) in grado di risolvere i contrasti fra le nazioni con delle decisioni vincolanti». Come vediamo oggi, la strada pare ancora lunga. Il volume di Barone fa emergere alcune analogie con il percorso scientifico. Nelle intenzioni di Einstein la relatività generale non era l’acquisizione finale: aveva sempre più vagheggiato una teoria che unificasse il campo elettromagnetico (relatività ristretta) e quello gravitazionale (relatività generale). Vincenzo Barone si accomiata dai lettori così: «Il grande sogno di Einstein — una teoria che unificasse la gravità e l’elettromagnetismo, e che facesse scaturire le particelle dai campi, senza bisogno di ricorrere alle leggi quantistiche — non si realizzò. Dobbiamo (...) concludere che gli ultimi trent’anni della sua vita furono, sul piano scientifico, fallimentari e inutili? Se la scienza fosse fatta solo di risultati e scoperte da inserire nei manuali, la risposta dovrebbe essere sì (...). Ma la scienza è fatta anche di problemi, di idee, di metodi: da questo punto di vista, gli sforzi di Einstein non furono vani, perché il programma di ricerca che egli avviò è ancora attuale». Le forze fondamentali sono diventate quattro, perché se ne sono aggiunte due del mondo subatomico, la forza nucleare forte e la forza debole. E oggi, nota Barone, «nessuno ritiene più che si possa fare a meno della meccanica quantistica» (peraltro nel 1905 Einstein aveva dato un fondamentale contributo alla fisica quantistica, introducendo i «quanti di luce», detti poi «fotoni», per spiegare l’effetto fotoelettrico, e non è irrilevante che l’assegnazione del Nobel a Einstein sia stata motivata da questo risultato, e non dalla relatività). Resta di Einstein l’aspirazione a nuove teorie sempre più «razionali», cioè capaci di ridurre l’arbitrario nella descrizione delle morfologie osservate.

L'Einstein privato dei manoscritti perduti: "Non sei battezzato? Non andrai all'inferno". L'università di Gerusalemme pubblica gli scritti inediti del genio tedesco, scrive Manila Alfano, Giovedì 07/03/2019, su Il Giornale. Un genio ma anche un ottimista. Nel 1935 Albert Einstein fiutava l'aria e aveva timore. Sentiva che qualcosa stava per accadere, anche se rimaneva un ottimista: «ho letto con un po' di apprensione di un movimento in Svizzera, incitato dai banditi tedeschi», scriveva al figlio Hans che viveva in Svizzera. Lui che era emigrato negli Stati Uniti, dove gli venne offerta una cattedra presso l'Institute for Advanced Study di Princeton, nel New Jersey. «Ma ritengo- scriveva dunque al figlio- che anche in Germania, le cose stanno lentamente cominciando a cambiare. Speriamo solo che non ci sia una guerra in Europa prima». Si preoccupa Einstein, come un qualsiasi padre. Mette in guardia pur senza allarmare, si aggrappa all'idea dell'Europa, al buon senso degli altri Stati, si interroga e si risponde che in fondo qualcuno dovrà pur intervenire. Non può sapere quello che di lì a poco accadrà. «Il riarmo della Germania- continua la lettera- è certamente molto pericoloso, ma il resto dell'Europa sta finalmente iniziando a prenderlo seriamente, in particolare la Gran Bretagna. Sarebbe stato meglio e più facile se avesse agito con mano più pesante un anno e mezzo fa». Sono fogli, riflessioni sulla vita, la morte e la religione e studi scientifici rimasti finora inediti del famoso pensatore. Sono i temi affrontati nelle 110 pagine manoscritte, svelate per la prima volta dall'Università ebraica di Gerusalemme in occasione del 140esimo anniversario della nascita del fisico e filosofo tedesco. Un tesoro prezioso che comprende anche una pagina, finora mancante e che si riteneva fosse andata perduta, di un allegato a una teoria scientifica presentata nel 1930. «Questo articolo è stato uno dei tanti tentativi di Einstein di unificare le forze della natura in un'unica, singola teoria, uno sforzo al quale dedicò gli ultimi 30 anni della sua vita», ha spiegato l'ateneo, che ha recentemente acquisito i manoscritti da un collezionista privato della North Carolina per conservarle negli archivi dedicati al celebre fisico. Tra le lettere ce n'è anche una indirizzata al caro amico Michele Besso, ebreo convertito al cristianesimo, nella quale lo rassicurava, sostenendo che non sarebbe «andato all'inferno», anche se era stato «battezzato». Già nel marzo del 2012 c'era stata la messa in rete di materiale del fisico rimasto fino ad allora segreto. Erano lettere alle amanti, i quaderni di appunti con gli studi rivoluzionari che porteranno alla teoria della relatività, una messe di materiali che ricostruiscono l'uomo dietro al genio che fu Albert Einstein. E per la prima volta era tutto stato messo online. Un grande tesoro fruibile per tutti, un'occasione nuova per gli studiosi del genio che da allora hanno potuto consultare tutto il materiale ricomposto. Oggi la storia si ripete, esattamente come avrebbe voluto il genio. «La conoscenza non deve essere nascosta ma aperta a tutti», aveva detto nel 2012 Menachem Ben Sasson, presidente della Hebrew University, di cui lo stesso Einstein è stato uno dei fondatori nel 1925. Quattro anni dopo aver vinto il Nobel per la fisica.

·         Il Genio Folle.

C’è proprio del genio in questa follia. Il saggio di due psichiatri pisani indaga nelle relazioni tra patologie mentali, competenze eccezionali, e doti artistiche sovrumane. Con una particolare attenzione all’autismo, scrive Maurizio Tortorella il 2 febbraio 2019 su Panorama. Genio e follia: l’espressione nasce dal titolo di un sottovalutato saggio sulla creatività dei pazienti psichiatrici pubblicato nel 1872 da Cesare Lombroso, lo psichiatra ottocentesco passato poi ingenerosamente alla storia per la sua contestatissima “antropologia criminale”, basata sull’osservazione della fisiognomica dell’individuo. Oggi quel titolo torna in libreria con un’edizione aggiornata ai giorni nostri: Genio e follia 2.0 (Franco Angeli editore, 150 pagine, 20 euro) è l’ultima fatica di una nota psichiatra pisana, Liliana Dell’Osso, che insieme con il collega Primo Lorenzi ha voluto indagare nell’eccezionalità umana. Non nuova a esplorazioni intriganti (nel 2016 e pochi mesi fa ha dato alle stampe due deliziosi saggi su Marilyn Monroe e su Coco Chanel), stavolta Dell’Osso va alla ricerca di casi celebri di geni, eroi, santi e artisti passati alla storia per una creatività affiancata all’eccentricità. La galleria di personaggi, e l’aneddotica che esce dallo studio è lunga e fascinosa: da Mozart a Pontormo, dal Sodoma a Giorgio Morandi, da Van Gogh a Isaac Newton… Ma il vero plus di questo saggio sta nell’approfondimento particolare dedicato all’autismo, definito dai due autori “sottosoglia tra genio e follia”: è la statistica, del resto, a indicare che le doti di una particolare creatività, in questa psicopatologia, siano particolarmente frequenti. Tra gli autistici, il fenomeno della cosiddetta “competenza eccezionale” s’impenna, non rispetta più gli standard medi della popolazione: arriva a superarle da cinque a dieci volte tanto. Da questo punto di vista, indubitabilmente, nasce la nuova concatenazione tra genio e follia, che è proprio il mare inesplorato in cui s’immerge il saggio. Alla ricerca di una nuova frontiera: la percezione che ciò che finora abbiamo considerato “pensiero divergente”, cioè la capacità (o la patologia) di chi vede il mondo in un modo del tutto differente da quello comune, possa essere sì una tara ma in effetti è anche un dono. Chiude il libro una breve, gustosa intervista impossibile, e “tra colleghi”, che i due autori impongono a un riottoso Sigmund Freud, immerso nel fumo del sigaro nella sua casa viennese. Il dialogo, suggestivo, si conclude quando lo spettro del geniale padre della psicoanalisi si dissolve, pronunciando la mezza (auto)diagnosi di “una leggera forma di autismo”. E così si chiude il cerchio di Genio e follia 2.0. Ma si apre il dibattito. Dell’Osso è professore ordinario e direttore della Clinica psichiatrica dell’Università di Pisa. Lorenzi è docente a contratto presso lo stesso ateneo.

Jaime D’Alessandro per “la Repubblica” il 24 novembre 2019. Qualcosa è andato storto mentre Elon Musk, a capo di Tesla e di Space X, presentava a Los Angeles il Cybertruck. Pick-up elettrico, futuribile, costruito con i materiali dell' industria aerospaziale, doveva essere indistruttibile. Sul palco, per dimostrarne la solidità, lo hanno preso a martellate e la carrozzeria non ha fatto una piega. Poi hanno tirato una sfera di ferro sul finestrino blindato, che invece ha ceduto nello sconcerto generale. Musk se l' è cavata con una battuta: «Quantomeno non è entrata». Gli era andata meglio la volta scorsa, a febbraio del 2018, quando aveva mandato nello spazio una Tesla cabrio a bordo del vettore Falcon Heavy. «La prima automobile di serie ad aver lasciato l' atmosfera terrestre», si legge su Wikipedia. Al rientro però uno dei razzi riutilizzabili, l' asso nella manica di Space X, si disintegrò all' atterraggio. La diretta ad alto contenuto emotivo e firmata dall' amico regista e sceneggiatore Jonathan Nolan, sulle note di Space Oddity di David Bowie e con citazioni da Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams, ebbe un tale impatto che nessuno ci badò sul momento. Accendere l' immaginazione è una dote che a Musk proprio non manca. «L'uomo ragionevole adatta se stesso al mondo. L' uomo non ragionevole persiste nel voler adattare il mondo a se stesso. Sicché il progresso dipende dall'uomo non ragionevole », scriveva il premio Nobel per la letteratura George Bernard Shaw. Nel saggio Musk Mania, appena pubblicato in Italia, Hans Van Der Loo e Patrick Davidson sostengono che l' imprenditore nato in Sudafrica nel 1971 abbia voluto fare esattamente questo: cambiare il mondo. E fra progetti per treni ultraveloci come Hyperloop, la conquista di Marte o tunnel sotterranei per evitare il traffico, non si fa problemi a mandare a quel paese analisti finanziari o ad usare Twitter senza freno quanto Donald Trump. Con una differenza: Musk ne ha pagato le conseguenze. È stato commissariato dopo un tweet costato a lui e alla sua azienda una multa della Securities and Exchange Commission (Sec) da 40 milioni di dollari. Ma si cadrebbe in errore a pensare che dietro non ci sia sostanza. Il potere di Musk sta nell' equilibrio fra successi, visioni, errori da dilettante. Ben più umano di qualsiasi altro amministratore delegato della Silicon Valley. «Ti assicuro, è come lo vedi», confessò qualche tempo fa Nolan a questo giornale. «È il suo bello. Non simula, lui è così». Ha imparato da Steve Jobs che l' immaginazione è un' arma preziosa così come la sregolatezza. Indimenticabili le sue sparate contro il potere dell' intelligenza artificiale e operazioni strampalate come il lanciafiamme della Boring Company: messo sul mercato a 500 dollari e andato a ruba, ora vale sei volte tanto su eBay.

Nessuno ha mai davvero capito perché lo abbia prodotto. Patrimonio netto di 24,4 miliardi di dollari, raccolti anche grazie alla vendita di PayPal, tre matrimoni alle spalle, è attento più ai colpi di scena che ai piani industriali. Ashlee Vance, che ha scritto la sua biografia autorizzata, ne parla come di una persona complessa e irrequieta che scatta quando si tocca l' infanzia infelice passata con i fratelli all' ombra di un padre collerico e buio. C' è chi lo paragona a Thomas Edison, chi a Henry Ford o Howard Hughes. Di sicuro sa come far sognare in un mondo in preda alla paura.

·         I Geni.

Matt Weinberger per “Business Insider Italia” il 19 dicembre 2019. Nel libro "Business @lla velocità del pensiero", pubblicato nel 1999 Gates faceva 15 audaci previsioni che all’epoca potevano apparire azzardate. Ma come già sottolineato dallo studente di economia Markus Kirjonen sul suo blog, esse si sono dimostrate inquietantemente premonitrici. Ecco le 15 previsioni di Gates fatte quasi 20 anni fa — e quanto si sono avvicinate alla realtà.

Profezia n. 1: Siti di confronto dei prezzi. Previsione di Gates: “Si svilupperanno servizi per confrontare automaticamente i prezzi per consultare i prezzi di molti siti, in modo che le persone troveranno senza sforzo i prodotti più economici per ogni settore”.

Adesso: Si può cercare comodamente un prodotto su Google o Amazon e vedere i diversi prezzi. Siti quali NexTag, PriceGrabber e addirittura Bing Shopping di Microsoft, sono pensati proprio per paragonare i prezzi.

Profezia n. 2: Dispositivi mobili. Previsione di Gates: “Porteremo con noi dispositivi elettronici che ci permetteranno di restare continuamente collegati e di fare fate acquisti ovunque ci troviamo. Potremo leggere le ultime notizie, vedere i voli che abbiamo prenotato, controllare i mercati finanziari e fare praticamente qualsiasi altra cosa”.

Adesso: Smartphone, smartwatch, altoparlanti come Amazon Echo, e addirittura set per la realtà aumentata come Microsoft HoloLens ci permettono di avere sempre ogni informazione a portata di mano.

Profezia n. 3: Pagamento istantaneo e finanziamenti online, e assistenza medica migliore attraverso la rete. Previsione di Gates: “Le persone eseguiranno pagamenti, seguiranno le proprie finanze e comunicheranno con i dottori tramite Internet“.

Adesso: L’informatica non è riuscita a cambiare l’assistenza sanitaria come Uber ha cambiato il settore dei trasporti, ma siti come ZocDoc cercano di fare in modo che sia più semplice trovare un dottore e fissare un appuntamento. Startup come One Medical e Forward stanno cercando di cambiare lo studio medico proponendo iscrizioni mensili per programmi di assistenza online e basata sui dati. Inoltre, grandi assicurazioni sanitarie come Kaiser Permanente stanno offrendo consulenze mediche tramite smartphone. Si può anche contrarre un prestito online tramite siti come Lending Club ed effettuare facilmente dei pagamenti con siti come PayPal e Venmo.

Profezia n. 4: Smart assistant e internet delle cose. Previsione di Gates: “Si svilupperanno ‘assistenti personali’. Collegheranno e sincronizzeranno tutti i vostri dispositivi in maniera intelligente, che siano a casa o in ufficio, permettendo loro lo scambio di dati. Il dispositivo controllerà la vostra posta elettronica e le notifiche, dandovi le informazioni utili. Quando andate in un negozio, potete comunicargli che ricetta che volete preparare, e farà un elenco di ingredienti che dovete prendere. Informerà i dispositivi che usate dei vostri acquisti e dei vostri orari, permettendo loro di regolarsi automaticamente su quello che state facendo”.

Adesso: Assistenti vocali come Google Assistant e Alexa di Amazon si stanno muovendo in questa direzione, offrendo un modo personalizzato di avere informazioni solo chiedendole ad alta voce. Intanto, strumenti intelligenti come Nest registrano le vostre abitudini giornaliere e regolano automaticamente la temperatura di casa vostra.

Profezia n. 5: Monitoraggio remoto dell’appartamento. Previsione di Gates: “Sarà normale ricevere continui video feed da casa che vi informano se qualcuno viene a trovarvi quando non ci siete”.

Adesso: La cosa è sempre più diffusa — aziende come Canary, Ring, Netgear, e la società cugina di Google, Nest, producono telecamere che vi permettono di vedere i feed dallo smartphone e vi inviano una notifica push se inquadrano una persona.

Profezia n. 6: Social media. Previsione di Gates: “Si diffonderanno siti privati per i vostri amici e famigliari che vi permetteranno di chiacchierare e organizzare eventi”.

Adesso: “Non è nato praticamente nessun sito privato. Ma Facebook, WhatsApp, Instagram, Snapchat, Line, Slack e un sacco di altre app consentono di comunicare facilmente con gruppi di persone grandi o piccoli.

Profezia n. 7: Promozioni automatiche. Previsione di Gates: “Un software che sa quando avete prenotato un viaggio e usa questa informazione per proporvi attività nel luogo di destinazione. Suggerisce attività, sconti, offerte e prezzi più economici per tutte le cose che vi interessano”.

Adesso: Siti di viaggio come Expedia e Kayak fanno offerte basandosi sui dati di acquisto degli utenti. Google e Facebook possono pubblicare offerte basate sulla posizione e sugli interessi dell’utente. Airbnb, che permette alle persone di andare in case private piuttosto che negli alberghi, propone viaggi specializzati nelle mete scelte in modo che possiate vivere come la gente del posto.

Profezia n. 8: Siti di discussione sportiva dal vivo. Previsione di Gates: “Mentre state guardando un evento sportivo in televisione, dei servizi vi permettono di discutere in diretta quello che sta succedendo e di partecipare a un concorso dove potete votare chi pensate che vincerà”.

Adesso: Siti di social media permettono queste attività, con Twitter primo con distacco; hanno anche provato a trasmettere alcuni appuntamenti in streaming. È inoltre possibile fare commenti in tempo reale su siti sportivi come Espn.

Profezia n. 9: Smart advertising. Previsione di Gares: “I dispositivi avranno pubblicità smart. Conosceranno le vostre preferenze di acquisto e mostreranno pubblicità su misura delle vostre preferenze”.

Adesso: Baste che guardiate le pubblicità su Facebook o Google: la maggior parte dei servizi di pubblicità in rete ha questa caratteristica, che permette agli inserzionisti di raggiungere gli utenti in base ai siti visitati, agli interessi e a modelli di acquisto.

Profezia n. 10: Link a siti durante trasmissioni televisive. Previsione di Gates: “Le trasmissioni televisive includeranno link a siti pertinenti e a contenuti che integrano quello che state guardando”.

Adesso: Oggi, quasi tutte le pubblicità hanno estensioni callout per indirizzare il visitatore ad un sito, fargli seguire l’impresa su Twitter o scansire un codice QR per aggiungerlo su Snapchat. Ormai sono rare le trasmissioni sprovviste di link.

Profezia n. 11: Forum di discussioni online. Previsione di Gates: “Chi abita in città o in campagna potrà partecipare a discussioni in rete su problemi che li riguardano, come le politiche locali, pianificazioni cittadine o sicurezza”.

Adesso: La maggior parte dei siti di informazione hanno sezioni in cui le persone possono discutere in tempo reale, e molti siti hanno forum in cui le persone possono domandare e rispondere su determinati argomenti. Twitter e Facebook hanno avuto un ruolo nelle rivoluzioni politiche in Libia, Egitto e Tunisia, come anche nel movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti. Per non parlare di Nextdoor, un social network pensato esplicitamente per persone che vivono nella stesso quartiere.

Profezia n. 12: Siti basati sugli interessi. Previsione di Gates: “Le comunità online non saranno influenzate dalla vostra posizione, piuttosto da cosa vi interessa“.

Adesso: Ogni genere di siti di notizie e di comunità online si concentra su argomenti singoli. Molti siti di informazioni si sono ampliati per proporre vertical search particolari, offrendo una copertura più approfondita a un dato argomento. L’esempio migliore di un sito diviso in sotto-gruppi, o “subreddits”, che si concentrano su interessi piuttosto che su chi conoscete o su dove vi trovate, è dato da Reddit.

Profezia n. 13: Software per il project-management. Previsione di Gates: “I project manager che cercheranno di mettere insieme una squadra potranno andare in rete, descrivere il loro progetto e ricevere consigli sulle persone disponibili adatte alle loro esigenze”.

Adesso: Tantissimi software per organizzare il processo di lavoro nelle imprese, come Slack, Asana e Trello, stanno rivoluzionando il modo di assumere, formare un gruppo di lavoro e assegnare lavori agli altri. Intanto le società come Fiverr e Gigster aiutano le imprese a entrare in contato con i talenti creativi di cui hanno bisogno per realizzare un progetto.

Profezia n. 14: Assunzioni online. Previsione di Gates: “Nello stesso modo, le persone che cercano lavoro potranno consultare annunci in rete descrivendo i propri interessi, esigenze e specializzazioni”.

Adesso: Siti come LinkedIn consentono agli utenti di caricare curricula e trovare impieghi in base a interessi ed esigenze, e i selezionatori possono cercare in base alla specializzazione.

Profezia n. 15: Business community software. Previsione di Gates: “Le imprese potranno proporre offerte per dei lavori, sia che stiano cercando un progetto di costruzione, una produzione cinematografica o una campagna pubblicitaria. La cosa sarà vantaggiosa per le grandi società che vogliono subappaltare lavori che di solito non realizzano, per le imprese che cercano nuovi clienti e per gruppi societari che non dispongono di fornitori a cui rivolgersi per un determinato servizio”.

Adesso: In pratica, nel complesso non esiste un singolo mercato in cui le società possono trovare un lavoro. Però, un sacco di cosiddetti servizi “di prestazioni on demand” come Upwork e Fiverr, permettono a freelance e a piccole imprese di trovare clienti. Nel frattempo, Craigslist resta il posto preferito dalle piccole imprese per collegarsi tra loro e trovare lavori.

Il giallo di Federico Caffè. «Genio anche nell’addio, come lui solo Majorana». Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. Daniele Archibugi, direttore al Cnr, fu allievo dell’economista scomparso nel 1987: «Voleva essere aiutato a suicidarsi, e riuscì a non lasciare traccia» «Io c’ero». Volti da prima pagina Altre storie. «È stato un genio. Per il contributo che ha dato con le sue teorie e con l’insegnamento, ma anche per come si è tolto di mezzo…» Un grande uomo. Alto un metro e 50. Un economista famoso. Un docente universitario amatissimo. La scomparsa di Federico Caffè, professore nella facoltà di Economia e commercio della «Sapienza», è rimasta uno dei misteri dell’ultimo scorcio del Novecento. All’alba del 15 aprile 1987 quell’omino piccolo piccolo, stimato da ministri, banchieri e intellettuali controcorrente come Valentino Parlato, si vestì e uscì dall’appartamento che divideva con suo fratello Alfonso, a Monte Mario, avendo un’idea chiara in testa: a 73 anni, aveva deciso che non aveva altro da dire al mondo. Sul comodino della sua stanza lasciò gli occhiali, le chiavi, il libretto degli assegni, il passaporto. Non gli servivano più. All’alba, si ritrovò sul marciapiede di via Cadlolo e sparì. Daniele Archibugi, economista, fu allievo e amico del professor Caffè. Inghiottito dalla città. Evaporato nella foschia del primo mattino. La polizia lo cercò ovunque. Anche i suoi studenti si mobilitarono, organizzando battute per settimane. Tra questi Daniele Archibugi, il fratello di Francesca, la regista, che è diventato economista anche lui, e oggi è direttore di un istituto del Cnr, saggista, docente.

Caffè, per gli Archibugi, era uno di famiglia.

«Aveva conosciuto mio padre al ministero della Ricostruzione, nel lontano 1946. Aveva fatto da testimone di nozze ai miei. Ogni 6 gennaio, giorno del suo compleanno, andavo a trovarlo per gli auguri...»

Un secondo padre, per lei.

«Sì, oggi avrebbe 105 anni e lo penso spesso. Sono profondamente grato a Caffè per l’interesse che manifestava per le mie idee, anche se ero solo un ragazzo. Lui era curioso, ha sempre avuto il desiderio di capire. Se un giovane trova un autorevole professore disposto a dargli fiducia, inizia a credere in se stesso. Senza un mentore come lui, non sarei mai riuscito a fare quel poco che ho fatto».

Lei si laureò con Caffè. Che ricordo ha?

Federico Caffè«Era il 27 gennaio 1983, tesi sull’economia keynesiana. Grande gioia, ebbi la lode. In borsa portai un dono per lui. Federico indossava solo vestiti blu. Finita la discussione, mi chiusi nella sua stanza e tirai fuori una cravatta. Sapevo che non potevo osare troppo: quella che gli diedi era ovviamente blu, ma con minuscoli puntini rossi. Caffè non voleva accettarla e provò a ricacciarla nella mia borsa. Gli storsi il braccio, rimisi il pacchetto sulla scrivania e gli dissi: “Non sono più uno studente”. Fu stupito dalla mia audacia e mi abbracciò».

Veniamo al 15 aprile 1987: esce di casa e non torna. Voi quando lo venite a sapere?

«Era un mercoledì. Mi chiamò prima delle 8 di mattina suo fratello Alfonso. Presi l’auto e corsi a casa sua. Vi trovai suo nipote Enzo con la moglie e l’allievo cui aveva lasciato la cattedra, Nicola Acocella».

Dove lo cercaste? Con che stato d’animo?

«Si creò un’improvvisata unità di crisi, composta dai suoi nipoti Enzo e Giovanna e da una decina di allievi. Sapevamo che Federico era in preda ad una brutta depressione e iniziammo a cercarlo a Monte Mario, lungo il Tevere, nei paraggi della facoltà. Parlammo con la polizia, ma per ben sei giorni fu deciso di non rendere pubblico il fatto: si voleva evitare di creare uno scandalo che gli avrebbe reso impossibile uscire dalla depressione. Fu un errore: se c’era qualche speranza di ritrovarlo, era rendendo pubblica la sua scomparsa. Solo il lunedì fui incaricato di portare un comunicato all’Ansa. Mi trovai a negare l’ovvio: se era sparito, ci doveva essere una ragione. Ma della sua depressione bisognava non parlare».

Pochi giorni prima si era tolto la vita Primo Levi, precipitando nella tromba delle scale. Caffè ne fu molto turbato, e appresa la notizia esclamò: «Perché cosi? Perché straziare i parenti?» Fu in quel momento che scelse di andarsene in punta di piedi?

«Possibile, è una delle ipotesi. Era da lui, uomo delicato, attento. Negli ultimi mesi mi diceva che l’unico modo in cui avrei potuto aiutarlo era facilitandogli il suicidio. Ma parlavamo anche di sparizione. Federico ed io avevamo l’abitudine di scambiarci romanzi. Nel 1978 gli prestai “Dissipatio H.G.”, di Guido Morselli. Narra la storia di un uomo che vuole uccidersi buttandosi in una sorgente dentro una grotta. Ma cambia idea, torna indietro e trova che a scomparire è stata tutta l’umanità. Morselli poi si era suicidato. A Caffè era piaciuto. Me lo restituì prestandomi “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello, con il solito rimbrotto: “Si inizia leggendo i classici!”».

Che idea s’è fatto?

Nicola Cavaliere nel 2002, ai tempi della nomina a questore di Roma«Suicidio, appunto, o convento. Il capo della Squadra mobile di Roma, Nicola Cavaliere, ci fece sapere che in caso di suicidio la maggior parte dei corpi si ritrova al massimo in un paio di settimane. In quei giorni mi recai in Vaticano, grazie ai buoni uffici di un mio zio monsignore, per capire se fosse stato possibile rinchiudersi in un convento senza avvisare la famiglia. Un autorevole prelato mi disse che ufficialmente era impossibile perché c’erano specifiche procedure da rispettare. Chiesi: “E in realtà?” Il prete allargò le braccia: “Come possiamo sapere quel che succede in tutti i conventi d’Italia?”».

Il vostro ultimo incontro?

«Due giorni prima, nel suo studiolo. A seguito della depressione, noi allievi andavamo a trovarlo spesso, per fargli sentire che gli volevamo bene. Era stremato dalle notti insonni. Lo convinsi ad appoggiarsi sul lettino e si mise a dormire. Presi dalla libreria un suo vecchio opuscolo e mi misi a leggerlo in poltrona accanto a lui. A sera tornai a casa e non me lo sono perdonato. Conoscevo il fratello e i nipoti, avrei potuto restare lì da lui».

Le forze dell’ordine fecero il possibile per trovarlo?

«Sì, francamente sì. Nicola Cavaliere si dimostrò un uomo estremamente sensibile. La verità è che Federico ha fatto un colpo da maestro, si è dimostrato più furbo di tutti noi nello scegliere come uscire di scena. Una delle poche persone che è riuscita a sparire senza lasciare traccia. Abbiamo tutti provato almeno una volta nella via il desiderio di sparire descritto da Morselli e Pirandello, ma ben pochi, oltre a Ettore Majorana e lui, ci sono riusciti così bene».

Quanto ha inciso nella sua vita un evento tanto tragico e insieme sfuggente?

«Federico Caffè continua a venirmi a trovare nei sogni. È ancora una presenza benevola nella mia vita. Anch’io, ogni volta che ricevo uno studente, provo a chiedermi: cosa di nuovo può dire questo giovane? Allora ero pieno di capelli, e quando obiettavo ai suoi consigli mi ripeteva spazientito: “A lavar la testa all’asino, si perde la corda e il sapone”. Oggi ripeto lo stesso detto ai miei ragazzi».

Caffè non apprezzava il liberismo selvaggio degli anni ‘80. Il suo sentirsi keynesiano portava con sé l’aspirazione a una società più solidale e giusta. Come si sarebbe trovato nella società di oggi?

«Federico era un intellettuale malinconico, ma non pessimista. Ha sempre criticato la “strategia dell’allarmismo economico” perché aveva fiducia in quella che chiamava l’Italia operosa, capace di lavorare anche nelle avversità. È la persona più generosa che abbia conosciuto e aveva difficoltà a capire come si potesse essere egoisti e avidi».

Sua sorella avrebbe potuto farci un film…

«Gliel’hanno proposto ma ha rifiutato. Un personaggio simile, rigoroso, impegnato nelle istituzioni pubbliche, Francesca l’aveva già raccontato: lo psichiatra de “Il grande cocomero”. Comunque poi un film è uscito, “L’ultima lezione”, e gli ha fatto un gran regalo…»

Vale a dire?

«Venti 20 centimetri d’altezza. Era il suo cruccio. Lo diceva prima a mio padre e poi a me, che superiamo di parecchio il metro e 80: “Voi che siete così alti, mi potreste regalare qualche centimetro?”» 

Laurent Simons, il piccolo genio che sta per laurearsi in Ingegneria a soli 9 anni. Pubblicato venerdì, 15 novembre 2019 su Corriere.it da Irene Soave. Il bambino prodigio viene dal Belgio. Ha un quoziente intellettivo di 145 ed è velocissimo nel risolvere i proble. Come molti coetanei Laurent protesta se deve andare a letto presto: «Ma alla fine vinco io», sospira il padre (che sembra sollevato di spuntarla su qualcosa). Come molti suoi coetanei, il suo sogno è diventare un eroe dell’umanità. E sembra sulla buona strada. Ha scelto ingegneria, perché vuole progettare e costruire arti artificiali; prenderà una seconda laurea, in Medicina; le università di tutto il mondo se lo contendono e lui è indeciso «fra la California e Oxford». Il preside della facoltà, Sjoerd Hulshof, lo definisce «il più svelto studente che abbiamo mai avuto. E ha un bel carattere». L’università, continua Hulshof, «non lo facilita. Fa le cose degli altri studenti, solo al suo ritmo». Ha un mentore, il professor Peter Baltus, che va in brodo di giuggiole a parlarne: «È tre volte più intelligente del miglior studente che abbia mai avuto. Vede soluzioni che molti adulti non trovano in una vita». Sono tratti della sua personalità che i nonni hanno capito per primi, racconta il padre, Alexander. «È cresciuto con loro: io e sua madre Lydia - 37 e 29 anni rispettivamente - lavoravamo sempre, ad Amsterdam, per ritirarci presto. Così ci siamo persi un sacco di cose, un sacco di prime volte. Sono i nonni che hanno scoperto il suo genio». Alla notorietà «siamo abituati, sin dal diploma superiore (l’anno scorso, ndr). Ma teniamo a che faccia una vita normale, anche un po’ assieme a noi». Nel volgere di un giorno il suo profilo Instagram è diventato @laurent_simons_official, ed è comparsa una dicitura: account gestito da mamma e papà. «Non somiglia a Greta Thunberg», chiarisce il padre. Niente sovraesposizione, niente campagne; condividono «l’afflato a salvare il mondo, ma non è un fatto generazionale. Laurent è cresciuto coi nonni, in un ambiente vecchio stile. Non è un’icona pop». Non ancora.

Belgio, Laurent Simons: il bambino genio (simpatico) laureato in ingegneria a 9 anni.  Già conteso dagli atenei di tutto il mondo, dovrebbe prendere la laurea in ingegneria elettronica all'Eindhoven University of Technology (TUE) a dicembre, e diventare così il più giovane laureato della storia. Lo aspetta un dottorato di ricerca e in contemporanea una laurea in medicina. Katia Riccardi il 15 novembre 2019 su La Repubblica. Dopo il bambino indiano campione di scacchi a 9 anni (Shreyas Royal), il bambino di 10, pianista considerato l'erede di Chopin (Alasdair Howell) e la bambina iscritta al college di matematica a dieci anni (Esther Okade), ora è il turno del bambino prodigio belga di 9 anni quasi laureato in ingegneria. Laurent Simons sta studiando ingegneria elettronica presso la Eindhoven University of Technology (TUE), nei Paesi Bassi, un corso difficile anche per studenti di età media e dovrebbe prendere la laurea a dicembre diventando il più giovane laureato del mondo. Record. Ha quindi in programma di intraprendere un dottorato di ricerca sempre in ingegneria elettronica e di studiare contemporaneamente medicina. Così ha chiarito suo padre alla Cnn. Il piano è fatto. I genitori, Lydia e Alexander Simons, hanno raccontato che all'inizio non avevano notato niente, e ritenevano anzi esagerati i commenti dei nonni quando dicevano che Laurent "avesse un dono". E invece. Perché poi anche gli insegnanti hanno confermato, Laurent il dono ce l'ha. "Ci hanno detto che è come una spugna" ha continuato fiero il padre Alexander. Lui e la moglie sono medici e la madre, Lydia, ha la sua teoria sull'intelligenza del figliol prodigio: "Ho mangiato molti pesci durante la gravidanza", ha detto (scherzando?). E così, con il consenso e l'orgoglio familiare, Laurent è stato testato, risultato IQ oltre 145. Poi via con la valigetta all'università. Ora il piccolo genio è conteso da prestigiosi atenei di tutto il mondo, ma la famiglia di Laurent non vuole dire quale stia prendendo in considerazione per il dottorato di ricerca. "L'assorbimento delle informazioni non è un problema per Laurent", ha detto suo padre. "Penso si concentrerà sulla ricerca e la scoperta". Sempre che non fugga. L'Università di ingegneria ha permesso a Laurent di completare il corso più velocemente degli altri studenti. "Non è inusuale", ha dichiarato in una nota Sjoerd Hulshof, direttore della facoltà del TUE. "Gli studenti speciali che hanno buone ragioni per farlo, possono organizzare un programma adeguato. Succede anche agli studenti con impegni sportivi". Hulshof ha ribadito che Laurent è "semplicemente straordinario". "È lo studente più veloce che abbiamo mai avuto", ha detto il direttore. "Non solo è iper intelligente ma anche molto simpatico". Quel 'ma'. Come a dire, a nove anni, genio, pure antipatico sarebbe stato un inferno. In ogni caso, al momento Laurent non ha ancora deciso cosa fare da grande: è indeciso tra il medico, in particolare il chirurgo, e l'astronauta. Come tutti i bambini del mondo. 

·         I misteri dell’Area 51 (e 52).

C’è un buco nero «impossibile» nella Via Lattea: troppo grande per esistere. Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 su Corriere.it da Paolo Virtuani. Si trova a 15 mila anni luce e non emette raggi X. Per le teorie fisiche non potrebbe formarsi nella nostra galassia. Scoperto il buco nero più lontano mai osservato. Ha una massa pari a 70 volte quella del Sole, si trova a 15 mila anni luce dalla Terra, ma soprattutto non dovrebbe trovarsi lì e non dovrebbe essere così grande. In pratica: non dovrebbe esistere in base alle teorie dell’evoluzione della vita delle stelle. Si tratta di un enorme buco nero, che è stato denominato LB-1, rinvenuto nella nostra galassia, la Via Lattea, la cui esistenza è stata riportata in uno studio apparso sulla rivista Nature. La ricerca è stata guidata da Liu Jifeng e coordinata dall’Accademia cinese delle scienze, alla quale ha preso parte anche lo scienziato italiano Mario Lattanzi dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf). Si stima che la Via Lattea contenga circa 250 miliardi di stelle e 100 milioni di buchi neri. LB-1 ha una massa di oltre tre volte maggiore di quella che gli scienziati ritenevano finora possibile per una galassia come la nostra. Ci sono due tipi di buchi neri: i primi hanno una massa massima di 20 volte il Sole e si formano quando stelle gigantesche esplodono come supernove. I secondi hanno massa enorme, pari a miliardi di volte quella del Sole, si trovano al centro delle galassie e la loro origine è ancora fonte di dibattito. LB-1 sta nel mezzo ma, secondo le teorie fisiche, nella nostra galassia non potrebbe formarsi. Probabilmente, dice Liu, non si erano mai trovati buchi neri di questo tipo perché non erano disponibili strumenti adatti per osservarli. Finora venivano scoperti tramite i raggi X che emettono. Ma solo una piccolissima frazione di buchi neri, circa 4 mila sui 100 milioni nella Via Lattea, ha una stella molto vicina che gli orbita intorno e la loro interazione produce raggi X. LB-1 ha una stella compagna che orbita in 79 giorni e non emette raggi X. È stato scoperto con il sofisticato telescopio cinese Lamost, terminato nel 2008 e in grado di tenere sotto osservazione il movimento simultaneo di 4 mila stelle. Confrontando i movimenti di molti astri, gli scienziati hanno scoperto il «buco nero impossibile».

Maurizio Costanzo per La Nazione.it l'1 ottobre 2019. È di appena qualche giorno fa l’ultimo “avvistamento”. È accaduto a Marciola, Scandicci, ma sono già 10 quelli segnalati dall’inizio dell’anno nella nostra regione. A fare il punto della situazione Pietro Marchetti, presidente del Gruppo Accademico Ufologico Scandicci, nell’ambito della ventesima edizione del convegno internazionale di ufologia patrocinato dalla Regione dal titolo «Ufo: are you ready?», promosso come ogni anno dal Gaus. Che nell’auditorium di Sant’Apollonia gremito di esperti, studiosi e appassionati, ha visto la partecipazione di relatori illustri. Un nome su tutti, il capitano dell’US Air Force, ora in congedo, Robert Salas, testimone del famoso incidente di Malmstrom, base militare americana degli Stati Uniti, che vide coinvolti missili nucleari e oggetti volanti non identificati. Per la prima volta in Italia, ha parlato di rapimenti alieni e cerchi nel grano, davanti a una platea particolarmente attenta, soprattutto in questo periodo, che di Ufo si fa un gran parlare dopo che la Marina militare Usa ha confermato che i video che mostrano Ufo sono autentici.

Presidente Marchetti, ci parli dell’ultimo episodio di ‘avvistamento’ che vi è stato segnalato.

 “Si tratta di una persona di circa 67 anni, che fa il contadino per passione, mentre stava sistemando degli arbusti. Ci ha raccontato che era nel bosco, quando a un tratto si è trovato di fronte una sfera molto luminosa, enorme, che dopo essere rimasta immobile per qualche secondo, senza produrre alcun rumore è volata via. Si è molto spaventato, è venuto a riferircelo ma poi è andato via, senza voler lasciare nulla di scritto. Altri tacciono, ed è questo il problema. Le statistiche a livello mondiale ci dicono che viene segnalato appena 1 caso su 7. Infatti, quando al termine di un convegno chiediamo alle persone del pubblico se hanno visto fenomeni alieni, di alzare la mano, rispondono positivamente cinque su dieci, in media. Ma quando chiediamo quanti di loro hanno segnalato la cosa ad associazioni oppure alle forze dell’ordine, la mano non la alza quasi nessuno”.

Quanti sono gli avvistamenti a Firenze e in Toscana?

“Parlando di segnalazioni, dopo anni in cui sono state in forte calo, dal 2000 in poi, dal 2018 c’è stato un incremento, si parla di un migliaio in tutta Italia. La Toscana è tra le Regioni dove sono stati segnalati più casi: circa una ventina nel 2018, e in questi mesi siamo già a una decina. Soprattutto in determinate zone come il pratese, monte Morello, l’Appennino tosco emiliano, la zona di Barberino, le Apuane, le montagne pistoiesi, la Calvana”.

Su Firenze, l’anno scorso sono stati avvistati anche dal Piazzale Michelangelo e sopra il Duomo.

“Lo stesso fenomeno è stato fotografato verso Ponte Vecchio e per un’ora circa. Se si escludono i droni per uso militare, improbabili che stazionino su Firenze, e se si escludono i droni d’uso comune, dal momento che questo fenomeno è durato per circa un’ora, si deve per forza pensare a qualcos’altro”.

Sempre rimanendo a Firenze, una data su tutte: il 27 ottobre del 1954.

“Quel giorno sulla città si registrò il passaggio di una serie di oggetti non identificati, anche sullo stadio durante l’amichevole Fiorentina-Pistoiese. Questo fenomeno è passato ala storia come il maggiore avvistamento di massa d’Italia. Tutt’ora però, fior di scettici italiani sostengono che erano stati dei ragni ad aver lasciato quelle ragnatele, portate là dal vento, mentre altri ritengono che l’origine è da rintracciare nel passaggio dei bombardieri inglesi, anche se la guerra mi risulta finita già da qualche anno”. 

La Marina militare Usa ha recentemente confermato che i video che mostrano Ufo sono autentici. Sta davvero cambiando qualcosa?

“Nel caso dei piloti è sempre stato un problema parlare di questi avvistamenti. Teniamo presente la loro condizione, gli obblighi di visite mediche a cui avrebbero dovuto sottoporsi ecc. Perciò da sempre i piloti tendono a dichiarare poco o nulla. Questa nuova presa di posizione è perciò molto importante, perchè se i piloti potessero dire tutto, ce ne sarebbe da raccontare. Io ho tante storie che mi sono state riferite da colonnelli dell’Aeronautica italiana riguardo ad avvistamenti avvenuti anni 80, mai raccontati, per riserbo”.

Perché questi "oggetti" si rendono visibili così spesso? Che idea si è fatto?

“Se si esclude l’ipotesi terrestre, considerate le capacità e particolarità di manifestarsi di questo fenomeno, soprattutto in volo, l’unica cosa che logicamente può portare a una spiegazione è qualcosa che viene da fuori, dunque di extra-terrestre. Su cosa poi nello specifico ‘venga da fuori’ possiamo parlare quanto vogliamo. Comprendo chi è scettico, basta però nel sostenere che si tratta di oggetti militari o di aerei segreti”.

Perché gli Ufo sono così interessati alla Terra?

“Il fenomeno esiste da almeno 60 anni, anche se potrei citare casi risalenti addirittura al Medioevo. Bisogna capire chi c’è dietro questo fenomeno. Dietro il fenomeno Ufo l’ipotesi extraterrestre è una delle tante ipotesi, quella cioè di un’eventuale specie vivente ‘altra’ che governa questo fenomeno. Allora bisogna chiedersi: perché sono qui? Per alcuni, sono qui come noi potremmo essere a studiare una specie animale. Ci stanno osservando con curiosità, ci stanno "studiando", essendoci tra noi e loro troppa differenza di evoluzione. Altri ritengono che sono qui da sempre e che addirittura convivono con noi. Secondo altre teorie più estreme, questi presunti alieni provengono dal futuro: in pratica siamo noi stessi, che possedendo nel futuro delle macchine in grado di percorrere lo spazio temporale, riusciremmo ad andare indietro nel tempo, rendendoci visibili in quello che per noi oggi è il presente. Nell’ambito teorico si può dire di tutto e di più”.

Lei che idea si è fatto?

“Io sono per l’ipotesi extraterrestre e che, plausibilmente, ci stanno “studiando”. La presenza extraterrestre è ormai un’ipotesi non più contestabile, e le ultime notizie confermano le nostre teorie. E rivolgo un appello ai potenziali futuri testimoni di fenomeni alieni: se vedete qualcosa di strano, segnalatecelo”.

Il convegno ha fatto il punto sulla situazione sui venticinque anni dell’associazione, e Marco Baldini, vicepresidente del Gaus, ha presentato la prima collezione di libri di Ufo alla biblioteca delle Oblate. Tra gli altri relatori del convegno, Sabrina Pieragostini è intervenuta sul tema "Piloti d’aereo testimoni di avvistamenti Ufo", l’ingegnere aerospaziale Coen Vermeeren sui più importanti casi ufologici dell’Olanda e del Belgio, Nicola Tosi sulle indagini sui fenomeni aerei anomali degli Appennini, e infine il dibattito con Roberto Pinotti, presidente del Centro Ufologico Nazionale. E poi gli interventi di due esperti di culture sudamericane, la dottoressa Sara Rolando su “I crani allungati del Perù, deformazione artificiale, nuova specie Homo o qualcosa di più?”, e Filippo Sarpa in collegamento Skype dal deserto di Atacama con il famoso contattista Ricardo González.

"Vi svelo la verità su extraterrestri e dischi volanti". Feltri, la storica intervista con l'ufologo Chiumento. Libero Quotidiano il 20 Ottobre 2019. È difficile credere in Dio, figuriamoci negli Ufo. Ma un fatto è sicuro: in cielo, da queste parti, c' è un traffico fitto di cose strane. Ormai sono troppi, per sospettare che siano tutti cretini, quelli che hanno visto, descritto, testimoniato, giurato: insomma sopra le nostre teste, anche se molti si rifiutano di ammetterlo, volano parecchi misteri. Dischi volanti? Extraterrestri? Adagio con le parole impegnative, ma vale la pena di andare a fondo, sebbene l' esercizio costi qualche imbarazzo: il rischio è di coprirsi di ridicolo. L' indagine si rivela subito ardua. Le autorità militari di queste faccende non ne vogliono sapere, hanno altro a cui pensare. Ci sono gli scienziati: ma come si fa a disturbare uno che studia tutto il giorno: «Scusi, lei che ne sa dei marziani?». Restano i filosofi, che dato il mestiere, forse hanno più tempo: in fondo, che c' entra la filosofia coi dischi volanti? Su questi argomenti, pure con la gente comune non è facile discorrere, ha l' impressione della presa in giro e preferisce non esporsi. Eppure a Pordenone, da anni ormai, ma soprattutto recentemente, l' Ufo è di casa; stando alle segnalazioni, circolano più alieni che Panda. L' ultimo episodio clamoroso, non c' è stato giornale che non l' abbia riportato: marito, moglie e figlio pordenonesi sono stati addirittura inseguiti, per tre ore, da un velivolo quanto meno originale. I tre erano in macchina sull' autostrada. A Mestre hanno notato un cono luminoso, un «affare» mai visto che, pur zigzagando a una quota di circa 250 metri, manteneva la loro stessa rotta. Vicino a Padova si sono fermati per il pieno di carburante, e hanno detto al benzinaio: «Guardi lassù, che le pare?». L' uomo ha strabuzzato gli occhi e ha dovuto constatare: un Ufo. La famiglia rimonta in macchina e quel coso era sempre sopra: così per altri 200 km, finché, al casello di Bergamo, si è stufato di curiosare nell' utilitaria e, con uno schizzo verticale, è scomparso dietro le stelle. Coincidenza non banale: altre persone, la stessa notte, sulla medesima autostrada, hanno incontrato la «pera luminosa». La scorsa settimana, un camionista di Vicenza di passaggio a Valdagno, non solo ha veduto un disco volante, lo ha fotografato. E chi ha esaminato i negativi esclude il trucco. Qualche giorno prima, in provincia di Brescia, presso Rezzato, in un campo di granturco i contadini hanno trovato sul terreno una traccia mostruosa: le impronte, profonde una decina di centimetri, di pattini enormi. Un elicottero? Impossibile. Non risulta in alcun registro aeronautico un atterraggio in quel posto. Attorno al solco provocato dalla fantomatica macchina, c' era del terriccio affumicato che è stato portato in laboratorio per una perizia. Ma il responso non si conosce ancora. Queste le cronache degli ultimi giorni. Se si risale fino a un paio di anni fa, ci si rende conto che gli avvistamenti sono stati centinaia, e quasi tutti nella parte orientale del Nord Italia, cioè da Brescia a Trieste. Perché proprio qui? Qualcuno interpreta il fenomeno in chiave, per così dire, positivista: nel Triveneto esistono un paio di basi della Nato e una dell' aviazione militare: ovvio che il traffico in cielo sia più intenso che altrove. Può darsi che ogni tanto si svolgano voli di jet sperimentali, inusuali, che l' inesperto scambi per extraterrestri. Obiezione: se l' arcano è tutto qui, perché non spiegarlo una buona volta, almeno la smettiamo con le fantastiche ipotesi spaziali. Risposta: da quando in qua i segreti militari vengono spifferati ai quattro venti? Cerchiamo di essere razionali. Ma c' è anche chi, pur non avendo le caratteristiche culturali e psicologiche del credulone, è propenso a interpretare il fenomeno come un segno inequivocabile che nell' universo - direbbero Quelli della notte - l' uomo non è solo. La tesi non è nuova, ed è suggestiva. E il fatto che sia alimentata da incessanti apparizioni contribuisce a irrobustirla; e i credenti aumentano. A Pordenone e dintorni sono una moltitudine, capeggiata dal vice presidente del Centro Ufologico nazionale, professor Antonio Chiumento, insegnante di matematica, il quale ha trasformato casa sua in una specie di "telefono amico" per coloro che, intravisto un marziano e non avendo il coraggio di raccontarlo al bar, desiderano sfogarsi ed avere conforto.

Professore, quotidianamente di qua passano gli Ufo, un bel lavoro per lei.

«È dal 1974 che m' interesso e le assicuro che non ho mai avuto un momento di requie: almeno un paio di chiamate al giorno».

Cosa le dicono?

«Le loro esperienze. Spesso sono persone traumatizzate, spaventate».

Paura di che?

«Si metta nei loro panni. La materia è inquietante, e imbattersi nell' ignoto emoziona sempre».

Generalmente come sono le descrizioni?

«Dischi volanti, oggetti piatti e tondeggianti che emettono fasci di luce, il più delle volte bluastra. Ma non mancano le varianti, il "sigaro" non è raro».

Perché telefonano a lei e non che so, ai carabinieri?

«Sono conosciuto. E si sa che sono una persona seria, non mi sogno mai di sfottere.

Talvolta però si rivolgono ai carabinieri che con me collaborano, e io con loro. Qualche anno fa in caserma ho tenuto una conferenza per insegnare come si fanno i rilevamenti ufologici».

Di cui lei è un tecnico, allora. Quando li fa?

«Quando ne vale la pena».

E la decisione su che cosa si basa?

«Sull' attendibilità delle segnalazioni».

Come distingue le valide dalle fasulle?

«Anzitutto, tramite amici che ho negli aeroporti, verifico, sulla scorta dell' ora e della zona, se anziché un Ufo era magari un elicottero, e di frequente è così. Una seconda selezione si fa sul racconto: se non è contraddittorio, nell' 80 per cento dei casi non è inventato. Ho i miei metodi per interrogare. Gli episodi autentici hanno delle costanti: oltre alla forma dell' oggetto, anche il modo di navigare e altri dettagli che è meglio non diffondere per non agevolare i burloni».

Come avvengono i sopralluoghi?

«Sondaggi: la molteplicità delle testimonianze dà la certezza che non è stato un abbaglio. Se c' è stato atterraggio, e capita di frequente, sono necessari anche dei prelievi».

Prelievi?

«Dove s' è posato l' Ufo restano elementi non trascurabili: rami d' albero piegati, erba inaridita dai carburanti combusti; è bene non disperdere le tracce».

Quante inchieste ha concluso?

«In 9 anni, almeno 750. E 150 volte mi sono imbattuto in fatti inspiegabili».

Cioè?

«Incomprensibili con i mezzi della scienza e con le conoscenze, sia pure teoriche, che abbiamo. Di conseguenza è lecito parlare di presenze che coinvolgono in pieno l' ufologia».

Extraterrestri?

«Che altro, se no?».

Spero che non se la prenda, la domanda ha della rozzezza, ma la risposta mi sta a cuore: agli extraterrestri che gli frega di venir qui di nascosto?

«La loro logica è diversa dalla nostra, impostato così il ragionamento non fila».

Avranno uno scopo?

«Valutare il nostro grado di civiltà, per citarne uno».

Non pensa che valuterebbero meglio se si presentassero educatamente? Suppongo che chiunque di noi sarebbe disponibile a scambiare quattro chiacchiere col marziano.

«Non sarei così schematico. Il fatto che gli alieni siano in grado di raggiungerci da un' altra galassia, dimostra che sono talmente più avanti dell' uomo da incutergli terrore. Interpreterei la discrezione come una sorta di rispetto per le nostre coronarie».

Non mi sembra rispettoso che ci spiino dal buco della serratura. Inoltre, sarebbero più utili illustrandoci le loro conquiste tecnologiche che non con le sbirciatine villane.

«Il mondo è diviso, gli uomini sono schierati in gruppi perennemente in guerra. È assurdo pretendere che gli extra diano una mano a una fazione in danno di un' altra; e non sarebbe bello neppure che contribuissero ad accrescere le tensioni esistenti, che bastano e avanzano. Evidentemente sono ragionevoli e si tengono fuori dalla mischia».

Qual è l' avvistamento che in questi anni l' ha impressionata maggiormente?

«Quello del maresciallo dell' aviazione Giancarlo Cecconi. Era in volo su Treviso e ha intercettato un Ufo, si è accostato e lo ha fotografato alla perfezione. Somigliava a una cisterna. Fece scalpore, ma le gerarchie militari per mettere a tacere la storia dichiararono che era un pallone; e un settimanale pubblicò delle immagini che volevano essere una conferma. Ma attenzione: le foto non erano quelle scattate dal sottoufficiale e che io avevo esaminato, erano diverse. Altro che pallone: fosse stato quello, tra l' altro, all' avvicinarsi dell' aereo sarebbe schizzato via per lo spostamento d' aria. Invece, il maresciallo che lo aveva affiancato per tre o quattro minuti sostiene che l' oggetto ha sempre mantenuto un assetto regolare. Dimenticavo: l' Ufo era stato registrato anche dal radar che, come si sa, è sensibile ai metalli, non alla gomma».

Ogni tanto qualcuno afferma di aver incontrato dei marziani in carne e ossa.Lei se n' è occupato?

«Sicuramente. Il più elettrizzante dei contatti lo ha avuto Angelo D' Ambros il 24 novembre 1978 sull' Altipiano di Asiago, in provincia di Vicenza. Era andato nel bosco a tagliare la legna: si volta, e vede due umanoidi sospesi dal terreno una ventina di centimetri. Alti poco più di un metro, magrissimi, naso e orecchie lunghi, indossano una tuta, ma le mani e i piedi, eccessivamente grandi, sono nudi e coperti di peli giallastri. Il contadino, agghiacciato, riesce ugualmente a domandare cosa vogliono, però parlano un linguaggio indecifrabile, una specie di borbottio. Poi, uno cerca di strappargli la roncola, chissà, forse temeva che gliela desse in testa. Scoppia la rissa: l' umanoide che tira da una parte, l' altro che non molla. Finché D' Ambros raccoglie un bastone e li costringe a scappare.

Sempre sospesi, come per levitazione, praticamente volano.

E lui, dietro di corsa; ma li perde di vista. Seguita a cercare, ed ecco su una radura un disco blu con la cupola rossa scoperchiata, e i due esseri che si infilano dentro. Il boscaiolo assiste al decollo: il razzo, con una fiammata, si alza silenzioso e taglia le nuvole come una sciabola di fuoco.

Sull' erba, un' ombra di caligine. Lo stesso giorno, altri testimoniano concordemente la presenza in cielo di un coso strano. C' è da riflettere».

Non sarà che in determinate zone il consumo di alcol etilico è proporzionato al numero e alla frequenza delle apparizioni?

«Comprendo il suo stupore, tuttavia liquidare un problema di tale importanza con mezzo litro di vino, non soltanto è riduttivo, ma anche sciocco. Molte persone hanno avuto rapporti del terzo tipo, non è onesto sostenere che fossero tutte sbronze. Sono proprio quelli come lei che ostacolano gli studi seri: perché la gente, per non passare da ubriacona, parla malvolentieri di queste cose».

Perdoni, professore, ma gli omini con le orecchie a sventola che pilotano a piedi nudi i razzi interplanetari non indeboliscono lo scettico?

«Già, e lei magari è uno di quelli che se un gatto nero attraversa la strada, infila svelto le mani in tasca per toccare le chiavi. Per fare una risata, non c' è bisogno di scomodare gli Ufo». Vittorio Feltri

La Marina Usa conferma alcuni fenomeni aerei non identificati: «Ma non chiamateli Ufo». Pubblicato giovedì, 19 settembre 2019 da Corriere.it. Unidentified Aerial Phenomena ovvero «fenomeni aerei non identificati». Questa la definizione utilizzata dalla Marina militare degli Stati Uniti nel comunicare ufficialmente gli avvistamenti nei cieli americani di tre misteriosi oggetti volanti. Gli “incontri” ad alta quota sono stati registrati durante alcune esercitazione militari (tra 2004 e 2015) e sono testimoniati da tre video diventati di pubblico dominio. Registrazioni che hanno portato alla diffusione delle più svariate ipotesi tra gli appassionati della materia. La parte interessante di questa vicenda per gli esperti è che l’espressione usata della Marina altro non è che una conferma dell’esistenza di questi oggetti volanti. I militari, però, invitano a non usare la parola Ufo, termine diventato troppo fantascientifico per non scatenare facili entusiasmi tra i «cacciatori di alieni» come accaduto recentemente a causa di un post su Facebook. Il primo avvistamento risale al 14 novembre 2004, mentre gli altri due sono datati 21 gennaio 2015. I video sono stati nominati Flir1, Gimbal e GoFast e registrati durante dei voli di addestramento di alcuni piloti americani. In uno di questi si nota un oggetto sferico effettuare una strana rotazione, mentre negli altri esegue manovre molto rapide prima di sparire dalla loro visuale. In sottofondo gli scambi di battute degli sbalorditi militari. Ancora non è chiaro quanti siano gli oggetti ripresi. La pubblicazione quasi in contemporanea di Gimbal e GoFast lasciano pensare che il fenomeno aereo non identificato possa essere lo stesso. Così come non è chiaro se i video siano stati desecretati ufficialmente e come siano finiti online tra dicembre 2017 e marzo 2018. Le prime versioni delle registrazioni sono state attribuite al New York Times e all’Academy of Arts and Science, un’organizzazione nata con l’obiettivo di coinvolgere le persone a «indagare oltre i confini della scienza e applicare ragionamenti non convenzionali» e fondata dal cantante e chitarrista dei Blink 182 Tom DeLonge. Nonostante l’alta qualità del sensore con cui sono state effettuate le riprese aeree, la definizione delle immagini non consente di capire la natura degli oggetti individuati. Non potendo smentire l’originalità delle registrazioni, né identificare in maniera certa gli oggetti come droni, la Marina militare americana si è rifugiata dietro la definizione di «fenomeno aereo non identificato», di solito usata per i veicoli non autorizzati in volo nello spazio aereo in cui avvengono le operazioni militari, come confermato dal portavoce del vice capo delle Operazioni navali per la guerra dell’informazione Joseph Gradisher in risposta alle domande di Black Vault, sito che raccoglie documenti pubblici ottenuti dalle istituzioni. Al Washington Post Gradisher ha spiegato inoltre che la definizione usata ha ormai sostituito da tempo Ufo, acronimo di Unidentified flying object («Oggetto volante non identificato») utilizzato dall’Aeronautica militare deli Stati Uniti all’inizio degli anni Cinquanta per classificare gli oggetti volanti non riconosciuti. Questo perché il termine è entrato in troppe teorie complottiste e di rapimenti alieni più diffusi ed è diventato sempre più sinonimo di "disco volante".

Area 51, perché tutti ne stanno parlando? Il 20 settembre 400 mila persone entreranno nella base, oggetto di mistero sugli UFO da sempre: verità o scherzo? Lo scopriremo presto. Antonino Caffo il 15 luglio 2019 su Panorama. L'Area 51 non manca mai di essere un tema caldo su Internet. E questa volta, è più caldo che mai. La misteriosa base governativa del Nevada è stata a lungo oggetto di teorie cospirative, legate agli extraterrestri. E il 2019 potrebbe essere l'anno della verità. Il 20 settembre prossimo infatti una marea umana potrebbe dirigersi dentro la base, infrangendone ogni possibile divieto.

Perché l'area 51 è di tendenza? Le teorie del complotto sull'Area 51 affermano che dentro i laboratori americani vi siano corpi di alieni e astronavi usate per raggiungere la Terra. Il vero scopo della base, ufficialmente chiamata Homey Airport o Groom Lake dall'Aeronautica militare, non è però materia pubblica. Oggi l'Area è tornata di moda a causa di una pagina su Facebook. Un evento intitolato "Storm Area 51, They Can't Stop All of Us", sta invitando a far saltare via il grande segreto una volta per tutte.

Qual è l'area 51 Raid? La descrizione dell'appuntamento recita: "Ci incontreremo il 20 settembre presso l'attrazione turistica Alien Centre e da qui coordineremo la nostra entrata. Se ci mettiamo a correre come Naruto, potremmo muoverci più velocemente e schivare i loro proiettili". Per chi non lo sapesse, la "corsa di Naruto" è l'insolito e caratteristico stile di movenze del popolare personaggio anime e manga giapponese, Naruto appunto. Lo stile consiste nel correre mentre si appoggia la parte superiore del corpo in avanti e tenendo le braccia dritte dietro il busto. Ci sono stati alcuni studi circa l'effettivo beneficio nel procedere, ad alta velocità, in questo modo anche se nutriamo più di un dubbio sul fatto che possa essere sufficiente per evitare di essere impallettati. Ciononostante, l'evento ha richiamato oltre 400.000 di iscritti, che hanno confermato di essere interessati a questa sorta di flash mob.

C'è davvero un tale evento? Il post è sicuramente uno scherzo: non ci sarà alcun raid il prossimo 20 settembre presso l'Area 51. Considerando quanto sarebbe illegale e pericoloso tentare di intrufolarsi un'installazione militare, pensiamo che il pubblico dei social sia sicuramente sciroccato ma non fino a questo punto. Peraltro i committenti sotto il post sono tutti scherzosi. Il migliore è di chi invita a travestirsi da alieni: "In questo modo saranno loro a portarci dentro, senza che noi dovremo far nulla".

Test atomici, armi chimiche e incontri del terzo tipo: i misteri dell’ Area 51 (e 52). Fino al 2014 il governo Usa negava persino l’esistenza dell’area. Storia delle zone militari più segrete del pianeta. Gustavo Ottolenghi il 12 Maggio 2019 su Il Dubbio. Numerosi sono, al mondo, i luoghi misteriosi o segreti, preclusi generalmente al pubblico, che rivestono tuttavia una importanza spesso non di poco conto per tutta l’umanità, a causa di ciò che contengono, nascondono o rappresentano. Fra questi possiamo ricordarne alcuni in ambito civile, quali, ad esempio, gli Archivi dello Stato del Vaticano; il Bohemian Grove in California ( U. S. A.); le grotte di Lascaux nel sud- est della Francia; i caveaux della Chiesa mormone nello Utah ( U. S. A.) e quelli di Fort Knox nel Kentucky ( U. S. A.) e della Federal Reserve a Manhattan New York ed altri, ancor più segreti, in ambito militare, quali il Fine Gap a sud ovest di Alice Springs in Australia ( dove vengono testati droni spia); il Menwith Hill della R. A. F. ( Royal Air Force, Aviazione militare inglese) a 20 km dalla città di Harrogate nello Yorkshire britannico ( che ospita strutture telematiche per le comunicazioni segrete tra U. S. A. e Gran Bretagna). E poi il sito per test missilistici di Mezhgorye e la Metro 2 di Mosca ( linea segreta di collegamento sotterraneo fra il Cremlino, il Ministero della Difesa e l’aeroporto di Bykovo) in Russia; e il poligono per test nucleari di Punggye nella Corea del Nord. Fra questi spiccano per la grande curiosità che hanno sempre stimolato, due fra i più misteriosi le Aree 51 e 52 degli U. S. A., sui quali si sono sempre intrecciate notizie vere con altre invero fantascientifiche, che meritano di essere raccontate, sia pur per sommi capi. L’Area 51 ( ne è ignoto il significato del numero) è una base sperimentale della U. S. A. F. ( United States Air Force) che si trova nello Stato del Nevada, nella Contea a 150 km a nord- est di Las Vegas, a 1.360 m slm, nei pressi del Groom Lake, antico lago salato a fondo asciutto. L’Area 51 ( nota anche come Dreamland, Home Base, Groom Lake, Homey Airport, The Box e Nevada Test Site) è raggiungibile seguendo la Statale SR 375 sino a un punto ove si incontra una grande cassetta bianca con scritte nere per la posta, punto in cui si deve deviare per la cosiddetta ‘ Extraterrestrial Highway” sino ai cancelli invalicabili dell’Area. Essa è costituita da un complesso di dodici edifici monopiano che, complessivamente, coprono una area di circa 9 km2, in parte collegati fra di loro mediante corridoi sotterranei; da venti grandi hangar per velivoli e da sei piste per decollo e atterraggio aerei, di cui la più corta è pari a 1.600 m e la più lunga oltre 7.000. Tutta l’area è vietata agli estranei eccetto gli autorizzati scortati ed è controllata da guardie pubbliche e private, sensori di movimento terrestre e telecamere. Venne istituita dal U. S. A. army nel 1945, durante la Seconda guerra mondiale come Census Designated Place, base militare destinata alle Scuole per artiglieri e mitraglieri, e tale rimase sino al 1955, anno in cui fu ceduta alla U. S. A. F, che necessitava di una zona protetta, defilata, adatta al decollo di aerei prototipi supersonici, lontana dalle normali vie di comunicazione. In breve fu dotata di tutte le strutture necessarie agli esperimenti aerei. Qui furono costruiti e sperimentati i prototipi degli aerei stealth ( invisibili ai radar) quali i ricognitori ad alta quota Lockheed U- 2 (Dragon Lady – 1956), Lockheed SR- 71 (Blackbird – 1962), Lockheed A- 2 (Oxcart – 1962), Lockheed D- 21 a pilotaggio remoto (1969), Lokheed SR- 91 (ipersonico a MACH 6), e General Atomics RQ- 1 ( Predator- 1955); i caccia d’attacco Grumman F- 14 (Tomcat- 1974), Lockheed F117 (‘ Night- hawk’ – 1981), Lockheed X- ST (‘ Have Blue’ sperimentale – 1976) e Martin Boeing- LOckheed- F22 (‘ Raptor’ – 1990); e il bombardiere strategico Northrop Grumman B- 52 (Spirit – 1989). Questo tipo di sperimentazione cessò all’inizio degli anni 2000, ma un’altra attività – di ricerca, analisi e studio – vi era continuata sino al 1980 su materiale altamente ‘ top secret’ che vi era stato portato segretamente nel 1947.

L’esistenza di una zona così segreta e protetta fu sempre negata dal Governo sino al 2003, allorché il Presidente George W. Bush ne ammise pubblicamente la presenza come semplice località operativa della U. S. A. F.; più tardi Barak Obama ( 2011) e la Candidata alla Presidenza Hillary Clinton ( 2016) dichiararono che avrebbero reso pubblico il segreto sulla base, ma entrambi non mantennero la promessa. Il silenzio cadde quindi sull’attività del Nevada Test Site 51 e questa ne è la storia ufficiale: ma ne esiste anche una diversa che, come vedremo, incrocia quella dell’altra Area segreta, la numero 52, assai più misteriosa e intrigante. Si tratta di un’altra base della U. S. A. F., ancor più segreta della 51. Nota come Tomopah Test Range and Training si trova nel deserto dello Utah, al confine con quello del Nevada, nella Contea di Toole, a 1.200 m slm , a 140 km a sud- est di Lake City, estesa su una area di 13,5 km2; circa 100 km a nord dell’Area 51 (con la quale è collegata da una serie di strade top secret) e fa parte del Dugway Proving Ground, la più estesa zona di esperimenti militari degli U. S. A. Fu scelta una zona arida in prossimità del Gran Lago Salato, nella quale fu costruito un complesso di laboratori, edifici, stanze e corridoi sotterranei la cui parte centrale era sormontata da una cupola appiattita in un luogo roccioso. All’inizio del 1942, iniziarono i primi test di prodotti chimici e biologici e di componenti radioattivi fra i più pericolosi per l’uomo, allo scopo di controllarne e contenerne gli effetti e di trovare validi sistemi di difesa contro di essi, in previsione di possibili guerre chimiche, batteriologiche o nucleari. Questi test riguardarono studi su diffusori di agenti tossici mediante spray, fucili a pallottole chimiche, bombe tattiche contenenti sostanze letali solide, liquide e gassose e, parallelamente, studi su antidoti, sistemi di decontaminazione e tute protettive verso di questi. Il tutto avveniva ovviamente sotto stretto controllo militare e questa attività durò sino al 1944 allorché venne sospesa e sostituita con una di tipo civile, per conto del Dipartimento Trasporti dell’Aviazione civile, consistente in test di nuove apparecchiature radar e telematiche. Tutta l’Area venne chiusa nel 1946, per essere poi riattivata nel 1951 per altri test chimici militari in concomitanza con la guerra di Corea. Nel 1958 l’A. T. E. C. vi trasferì anche, dal Maryland, la Scuola Superiore di Armamenti Chimici e Nucleari e sino al 1974 vi furono migliaia di esperimenti con sostanze letali su animali e piante agricole: drammatici furono i test condotti con la tetrodotossina, gas nervino che paralizza all’istante. A causa di tali esperimenti nella vicina Skull Valley oltre 6.000 pecore morirono nel marzo 1968 per intossicazione d pesticidi organofosfati, e nel 1970 si dovettero decapitare 1.700 cavalli infettati con spore di antrace usati nell’Area; e anche uomini che lavoravano nella base furono esposti ( ad esempio il 25 gennaio 2011) a intossicazioni dovute alla perdita di un flacone del gas nervino VX, peraltro senza vittime. Successivamente, dal 1985 e sino al 1996 l’Area divenne sede di addestramento del 7° Battaglione Ranger come Scuola di sopravvivenza e di decontaminazione. Nel 2004 essa subì una evoluzione drastica. Nella zona intervenne la N. A. S. A. per effettuare alcuni test aerospaziali, sfruttando la struttura sabbiosa e rocciosa della base, simile a quella, lunare (Progetto Genesis rendere abitabili pianeti trasferendovi microorganismi terrestri). Da allora tutta la zona fu sottoposta a un rigidissimo isolamento e controllo e, recentemente ( 2017), vi venne costruito un nuovo complesso sotterraneo (il Brauch) formato da vecchi containers navali assemblati fra di loro in tunnel per effettuarvi esperimenti in assenza di gravità. E questa è la storia ufficiale della ‘ Tonopah Test Range and Training 52’, ma ne esiste un’altra, parallela, che – come già accennato – incrocia quella altra Area segreta, la 51. Per illustrare questo incrocio, occorre rifarsi all’anno 1947, allorchè, il 2 luglio, un ‘ qualcosa’ cadde negli U. S. A. in un campo situato a circa 100 km a nord ovest dalla cittadina di Roswell, nella Contea di Chavez ( Nuovo Messico). Il padrone del campo, William Marc Mac Brazel, la mattina dopo affermò di avervi trovato strani oggetti metallici, lignei, di plastica, di stagnola e di lattice e ne informò lo sceriffo della Contea, George Wilcox, che a sua volta riferì lo strano fatto al Comando del 509° Bomb Group Roswell dell’VIII Corp Air Force. L’insolito accaduto fu subito messo in relazione a fenomeni extraterrestri del tipo di quelli successi, nello stesso anno, in alcune località (Maury Island, Monte Rainier) dello Stato di Washington, nelle quali erano state avvistate sfere volanti verdi di natura sconosciuta riferite a strutture aliene giunte nel nostro cielo e poi scomparse. L’ipotesi che gli strani oggetti rinvenuti a Roswell potessero quindi appartenere ai resti di una sfera ( o di un disco) volante accidentalmente schiantatasi in quel luogo fu subito oggetto di estremo interesse da parte degli organi di stampa locale intervenuti immediatamente sul posto, affascinati anche da talune voci che riferivano della presenza, nel luogo, addirittura del corpo di un alieno. Alcuni giornali ipotizzarono che i resti rinvenuti nel campo ( immediatamente dichiarati offlimits dallo sceriffo Wilson che non vennero mostrati alla stampa) fossero stati rapidamente sequestrati da agenti dell’intelligence dell’U. S. A. F. e portati in luogo segreto ( Area 51) per essere analizzati. La notizia fece in breve il giro degli States e per questo motivo, dal 1950, l’Area divenne oggetto di grande curiosità da parte degli ufologi di ogni continente che, nel tempo, tentarono variamente di violarne i recinti. Ogni anno si verificano raduni di tali appassionati che, seguendo la “extraterrestrial Highway” dalla famosa cassetta postale bianca, raggiungono le colline di Tikaboo e di Reveille, unici punti dai quali i civili possono intravedere le strutture e le lunghe piste di Groom Lake, nella speranza di poter vedere anche l’alieno. Un corpo con fattezze umanoidi – che sarebbe stato anche sottoposto ad autopsia – ripetutamente mostrato in pubblico e anche in alcune trasmissioni televisive, contrabbandato come appartenente all’alieno rinvenuto a Roswell si trova ancor oggi sotto una teca di vetro nei locali del Museo Internazionale della città, sollevando molti dubbi nei visitatori. L’ipotesi che strani oggetti extraterrestri e individui umanoidi fossero presenti a Roswell aveva portato a ipotesi del tutto fantasiose sulla loro natura e sui motivi della loro venuta sulla terra: si era addirittura parlato di un patto tra il Governo U. S. A. e alcuni degli alieni  grigi trattenuti nell’Area 51, in base al quale questi ultimi avrebbero fornito agli americani principi di tecnologia spaziale sconosciuti ai terrestri in cambio di basi nell’Area 51 atte a preparare il loro arrivo in forze sulla terra. Il patto non sarebbe stato rispettato dagli alieni che non avrebbero fornito alla controparte alcun dato tecnologico di rilievo, per cui gli U. S. A. li avrebbero sterminati nei locali dell’area, somministrando loro la tetradotossina che stavano testando conservando alcuni corpi: ma qui si è entrati in un campo che va ben oltre rispetto a quello della più sfrenata fantascienza. Il Governo a questo punto reagì a tale accozzaglia di ipotesi, illazioni, fantasie e notizie incontrollate di ogni tipo prendendo più volte posizione anche se spesso in modo contradditorio. Un primo Rapporto ufficiale della R. A. A. F ( Roswell Army Air Field, organo della base aerea del 509° Bomb Group) del 19 luglio 1947 stabilì che a Roswell si era schianta una sonda metereologica ray wind di quelle per le rilevazioni dei venti ad alta quota; e su tale versione le fonti governative si mantennero sino al 1994, anno in cui la U. S. A. F. pubblicò un primo Rapporto definitivo ( seguito poi da un altro nel 1995 e da un terzo ancor più definitivo del 1997) The Roswell Report nel quale veniva certificato che a Roswell era accidentalmente caduto un modulo, costituito da un pallone aerostatico che trainava un riflettore radar, facente parte del Progetto Mogul ( spionaggio ad alta quota delle installazioni nucleari dell’U. R. S. S.), L’interesse del pubblico sulla Area 51, sempre più misteriosa, si fece tuttavia costante e addirittura morboso per cui il Governo decise di trasportare nottetempo e nella massima segretezza, tutto il materiale riferibile allo schianto del 2 luglio ( eccetto il presunto corpo umanoide) nei sotterranei dell’Area 52, più defilata e di maggior difficoltà ad essere raggiunta: e tutto il materiale vi sarebbe tuttora conservato sotto strettissima sorveglianza. L’interesse sulle due Aree si risveglia periodicamente nell’opinione pubblica, alternando periodi di oblio ad altri di curiosità frenetica: ma a tutt’oggi tra U. F O. (Unidentified Flying Obiects “oggetti volanti non identificati”), esperimenti chimici, test letali, scuole militari e operazioni di intelligence, che cosa veramente siano, che cosa contengano e che cosa vi si faccia costituisce il mistero che continua ad avvolgerle. 

·         Vaccini e 5G: Stupidi o Cavie da Laboratorio.

Vaccini e vaccinazioni. Epicentro.iss.it: Il portale dell'epidemiologia per la sanità pubblica l'1/8/2019 a cura dell'Istituto superiore di sanità.

Quali sono le leggende – e le verità – sulle vaccinazioni?

1° leggenda: Un miglioramento delle misure igieniche e sanitarie eradicherà le malattie – i vaccini non sono necessari. FALSO

Verità/Dati di fatto: Nel caso in cui si fermassero i programmi vaccinali, le malattie prevenibili con i vaccini tornerebbero. Anche se un’igiene migliore, il lavaggio delle mani e l’acqua pulita contribuiscono a proteggere dalle malattie infettive, queste malattie si possono diffondere indipendentemente dal livello di igiene. Se le persone non si vaccinassero, in breve tempo comparirebbero di nuovo malattie diventate poco frequenti, come la poliomielite e il morbillo.

2° leggenda: I vaccini si associano a parecchi effetti dannosi a lungo termine ancora sconosciuti. Le vaccinazioni possono essere anche fatali. FALSO

Verità/Dati di fatto: I vaccini in uso sono molto sicuri. La maggior parte delle reazioni avverse alle vaccinazioni, per esempio un braccio dolorante o un modesto rialzo febbrile, è in genere lieve e transitoria. Gli eventi gravi sono molto rari e sono attentamente controllati e valutati. È molto più probabile che la salute venga gravemente compromessa da una malattia prevenibile da vaccinazione che dalla vaccinazione stessa. Per esempio, la poliomielite può determinare una paralisi, il morbillo può causare encefalite o cecità, molte malattie prevenibili con i vaccini possono essere fatali. Mentre qualsiasi danno grave o decesso causato dai vaccini riguarda un caso su moltissimi vaccinati, i benefici delle vaccinazioni superano di gran lunga il rischio e in assenza dei vaccini i danni o i decessi causate dalle malattie prevenibili sarebbero molti di più.

3° leggenda: Il vaccino combinato contro difterite, tetano e pertosse e il vaccino contro la poliomielite sono responsabili della Sids (Sudden infant death syndrome, sindrome della morte in culla). FALSO

Verità/Dati di fatto: Non esiste alcun nesso di causalità tra la somministrazione dei vaccini e la Sids. Peraltro queste vaccinazioni vengono praticate in un momento della vita in cui i [alcuni] bambini possono andare incontro alla Sids. In altre parole, esiste una coincidenza temporale tra vaccinazioni e Sids, che si sarebbe verificata anche se non fossero state somministrate le vaccinazioni. È importante ricordare che queste quattro malattie sono potenzialmente rischiose per la vita e i bambini non vaccinati corrono un rischio grave di morte o di grave disabilità.

4° leggenda: Nel mio Paese, le malattie prevenibili con i vaccini son quasi eradicate, per cui non c’è motivo per sottoporsi alle vaccinazioni. FALSO

Verità/Dati di fatto: Anche se le malattie prevenibili con i vaccini sono diventate poco frequenti in molti Paesi, gli agenti infettivi che le causano continuano a circolare in alcune parti del mondo. In un mondo globalizzato, questi agenti possono attraversare i confini geografici e infettare chiunque non sia protetto. Nell’Europa occidentale, per esempio, a partire dal 2005 si sono verificati focolai di morbillo in popolazioni non vaccinate in Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Spagna e Svizzera. Quindi, le due ragioni fondamentali per sottoporsi alle vaccinazioni sono la protezione individuale e quella collettiva. Il successo dei programmi vaccinali, così come il successo della società, dipende dalla cooperazione di ogni individuo al fine di assicurare il bene di tutti. Per fermare il contagio di una malattia, non ci si deve affidare solamente alle persone che si hanno intorno, ma si deve fare in prima persona quanto è possibile.

5° leggenda: Le malattie infantili prevenibili con i vaccini sono solo un fatto negativo che fa parte della vita. FALSO

Verità/Dati di fatto: Le malattie prevenibili con i vaccini non devono essere “fatti della vita”. Malattie come il morbillo, la parotite e la rosolia sono gravi e possono causare, in adulti e bambini, complicazioni serie come polmonite, encefalite, cecità, diarrea, infezioni dell’orecchio, sindrome da rosolia congenita (se una donna contrae la rosolia nelle prime fasi della gravidanza) e morte. Tutte queste malattie e le conseguenze negative possono essere evitate con i vaccini. La mancata vaccinazione contro queste malattie mette i bambini in uno stato di vulnerabilità evitabile.

6° leggenda: Somministrare a un bambino più di un vaccino alla volta può aumentare il rischio di eventi avversi pericolosi, che possono sovraccaricare il suo sistema immunitario. FALSO

Verità/Dati di fatto: Le prove scientifiche mostrano che somministrare più vaccini nello stesso momento non determina effetti negativi per il sistema immunitario del bambino. Ogni giorno i bambini sono esposti a parecchie centinaia di sostanze estranee che suscitano una risposta immunitaria. Il semplice fatto di mangiare gli alimenti introduce nell’organismo nuovi antigeni, e numerosi batteri vivono nella bocca e nel naso. Un bambino è esposto a molti più antigeni quando contrae un comune raffreddore o mal di gola che da parte dei vaccini. I principali vantaggi del ricevere più vaccini in una volta sola stanno nella riduzione degli accessi ai servizi di vaccinazione, con risparmio di tempo e di denaro, e con una maggiore probabilità che venga completato il ciclo vaccinale raccomandato. Inoltre, la disponibilità di vaccini combinati, come nel caso di morbillo, parotite, rosolia, implica anche meno iniezioni.

7° leggenda: L’influenza è solo un disturbo e il vaccino non è molto efficace. FALSO

Verità/Dati di fatto: L’influenza è molto più che un disagio. È una malattia talvolta grave responsabile di 300.000-500.000 morti ogni anno nel mondo. Hanno un rischio più elevato di infezione grave o di decesso le donne in gravidanza, i bambini piccoli, gli anziani già debilitati e tutte le persone con una malattia cronica come l’asma o una cardiopatia. Vaccinare le donne in gravidanza fornisce il beneficio aggiuntivo di proteggere i neonati (al momento non è disponibile alcun vaccino per bambini sotto i 6 mesi). La vaccinazione antinfluenzale conferisce un’immunità contro i tre ceppi più diffusi circolanti in ogni singola stagione. Rappresenta il modo migliore per ridurre la probabilità di malattia grave e di contagio. Prevenire l’influenza significa evitare costi sanitari aggiuntivi e mancati guadagni dovuti a giorni perduti a scuola o sul lavoro.

8° leggenda: È meglio essere immunizzati dalla malattia che dai vaccini. FALSO

Verità/Dati di fatto: I vaccini interagiscono con il sistema immunitario in modo da produrre una risposta immune simile a quella evocate dalle infezioni naturali, ma non determinano la malattia né espongono le persone al rischio di potenziali complicazioni. D’altra parte il prezzo pagato per acquisire l’immunità attraverso l’infezione naturale può consistere in ritardo mentale nel caso dell’infezione da Haemophilus influenzae di tipo b, in difetti congeniti per quanto riguarda la rosolia, in cancro del fegato per il virus dell’epatite B, nel decesso nel caso del morbillo.

9° leggenda: I vaccini contengono mercurio che è pericoloso. FALSO

Verità/Dati di fatto: Il tiomersale è un composto organico contenente mercurio, aggiunto ad alcuni vaccini come conservante. È il conservante di più largo impiego per i vaccini forniti in contenitori multi-dose. Non ci sono prove che la quantità di tiomersale utilizzata nei vaccini comporti rischi per la salute. In Italia nei programmi estesi di vaccinazione routinaria sono utilizzati vaccini che non contengono tiomersale.

10° leggenda: I vaccini sono responsabili dell’autismo. FALSO

Verità/Dati di fatto: Lo studio del 1998 che ha lanciato l’allarme su una possibile associazione tra il vaccino contro morbillo-parotite-rosolia MPR (measles-mumps-rubella, MMR) e autismo è stato giudicato a posteriori gravemente fallace, tanto che l’articolo è stato ritirato dalla rivista che l’aveva pubblicato. Purtroppo, la sua pubblicazione aveva generato un tale panico da condurre a un calo delle coperture vaccinali e di conseguenza a epidemie di queste malattie. Non c’è comunque prova di un legame tra vaccino MPR e autismo o disturbi dello spettro autistico.

5G: “NON SIAMO CAVIE DA LABORATORIO!” Filippo Femia per “la Stampa” il 5/8/2019. Un chirurgo potrà operare un paziente di Buenos Aires da Parigi. Gli elettrodomestici «parleranno» tra loro. Le auto a guida autonoma ci porteranno ovunque. La rivoluzione promessa dal 5G - navigazione fino a 100 volte più veloce rispetto a oggi - è dietro l' angolo. Il debutto è fissato entro il 2020 e da più parti arrivano allarmi sul nuovo Internet ultraveloce. Le preoccupazioni riguardano i possibili rischi per la salute dei cittadini. «Prima del via libera su larga scala, bisognerebbe studiare i possibili effetti nocivi», chiede a gran voce il comitato Stop 5G, che riunisce un migliaio di attivisti. La nuova tecnologia, denunciano, ha un lato oscuro non ancora indagato. Il fronte dei tecnoribelli, come si definiscono alcuni, si è allargato negli ultimi mesi. Da Torino a Bari, oltre 50 città hanno ospitato flashmob e convegni contro la quinta generazione della telefonia mobile. Iniziative - non affollatissime, per ora - dove lo slogan principale è «Non siamo cavie da laboratorio». E si moltiplicano le richieste ai Comuni di una moratoria da affiancare a valutazioni dei rischi ambientali e sanitari. Di recente sono arrivati i primi successi. I sindaci di alcuni dei 120 Comuni scelti per la sperimentazione si sono messi di traverso. Pompu, Segariu e Noragugume, i tre paesini-laboratorio della Sardegna hanno fermato il 5G. Poi è stata la volta di Cogne (Aosta), Ricaldone e Solonghello (Alessandria). L' ultimo a vietare le antenne è stato il sindaco di Scanzano Jonico, in Basilicata. Anche il Codacons si è unito alla rivolta e ha annunciato «una crociata contro la nuova tecnologia. Abbiamo scritto agli ottomila sindaci italiani chiedendo loro di adottare provvedimenti simili». L' associazione dei consumatori ha anche presentato un esposto a 104 procure della Repubblica per indagare sui rischi per la salute. Il guru della rivolta è Maurizio Martucci, presidente del comitato Stop 5G: «Di questa nuova tecnologia si sa poco o nulla. Qualora ci sia anche un solo dubbio deve sempre prevalere il principio di precauzione per tutelare la salute dei cittadini». Il tam tam sui social ha diffuso numerose bufale sul 5G. Una semplice ricerca su Google ne svela decine (una su tutte: «Le radiazioni porteranno all' estinzione del genere umano»). I tecnoribelli, però, presentano come prove due studi scientifici indipendenti, uno dell' istituto Ramazzini di Bologna e uno dello statunitense National Toxicology Program: «Entrambi attestano il nesso tra i campi elettromagnetici creati da 2G e 3G e il cancro», sostiene Martucci. Gli esperti dell' Istituto superiore di Sanità ribattono che quelle ricerche non sono applicabili al 5G. Intanto, il dibattito su Internet ultraveloce sta creando imbarazzo all' interno del M5S, creando una spaccatura. Cataldo Curatella, presidente della commissione «Smart cities» nel Consiglio comunale di Torino e grillino della prima ora, ricorda le battaglie del Movimento delle origini per la tutela della salute: «Fa parte del nostro Dna. Da un anno proviamo a parlare con i nostri deputati ma ci hanno detto che sul 5G si è già deciso e non si torna indietro». La deputata Mirella Liuzzi, da parte sua, liquida le polemiche: «L' implementazione del 5G è stata approvata dalla base su Rousseau». Il video pubblicato da Liuzzi («Basta fake news: facciamo chiarezza sul 5G») è stato attaccato duramente dal neo portavoce grillino al Parlamento europeo, Piernicola Pedicini: «Se il M5S ha deciso di intraprendere la strada dell' innovazione senza capire che passa per la difesa della salute, allora il Movimento non ha la risposta ai problemi del Paese». Nei mesi scorsi le deputate Veronica Giannone e Gloria Vizzini, che avevano chiesto a gran voce un' interrogazione sui rischi del 5G, sono state espulse dal Movimento. Il motivo ufficiale? «I voti in difformità di numerosi emendamenti contrari alla linea politica del Movimento».

5G e aumento tumori, le ultime ricerche parlano chiaro: il pericolo esiste ed è fondato. Maurizio Martucci, Giornalista e scrittore l'11 settembre 2018 su Il Fatto Quotidiano. Mondiale, la posta in ballo è straordinariamente alta. Non solo nel business, ma nella tutela della salute pubblica. L’ho scritto (denunciandolo) nel mio ultimo libro inchiesta. Lo scontro è tra titani. “Era da aspettarselo – scrive su Facebook, polemizzando con la Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti (Icnirp), Fiorella Belpoggi, ricercatrice dell’Istituto Ramazzini, a capo del più grosso studio al mondo sugli effetti nocivi delle radiazioni da antenne di telefonia mobile (banda 3G) – ora chi di dovere si prenderà la responsabilità di ignorare un pericolo”. Tra le polemiche, la partita è tutt’altro che chiusa e, clamorosamente, potrebbe riaprirsi: c’è attesa per le nuove linee guida sulla sicurezza per l’esposizione all’elettrosmog, depositati i risultati dell’istituto bolognese (condotto su cavie umane equivalenti, riscontrati tumori maligni su cervello, cuore e infarto) e dell’americano National Toxicology Program (cancro da cellulare),  la scorsa settimana bollati come “poco affidabili” dall’Icnirp, ma presto al vaglio dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Forse per questo, senza dar troppo nell’occhio, negli ultimi mesi stiamo assistendo a una forsennata corsa contro il tempo per implementare l’infrastruttura tecnologica di quinta generazione. Lo dimostrano i 500 milioni di euro prestati dall’Europa a Nokia, i 200mila lampioni LED/Wi-Fi appena installati a Roma e le mini-antenne accese a Torino: se l’Organizzazione Mondiale della Sanità dovesse rivalutare (al rialzo) la classificazione delle radiofrequenze, inserendole tra i “probabili” (Classe 2B) se non addirittura tra i “certi” (Classe 1) agenti cancerogeni per l’umanità, dall’oggi al domani crollerebbe l’intera impalcatura su cui – sbrigativamente – lobby dell’industria wireless e (spregiudicata) politica negazionista stanno costruendo il sogno digitale del 5G. Perché saremo tutti irradiati da una sommatoria multipla e cumulativa di nuove frequenze oggi all’asta, spingendo (presto con riforma di legge?) il campo elettrico nell’aria da 6 V/m a 61 V/m. Ovunque, uno tsunami di microonde millimetriche ci sommergerà: con quali conseguenze? Ecco: “Aumento del rischio di tumori del cervello, del nervo vestibolare e della ghiandola salivare sono associati all’uso del telefono cellulare. Nove studi (2011-2017) segnalano un aumento del rischio di cancro al cervello dovuto all’uso del telefono cellulare. Quattro studi caso-controllo (2013-2014) riportano un aumento del rischio di tumori del nervo vestibolare. Preoccupazione per altri tumori: mammella (maschio e femmina), testicolo, leucemia e tiroide. Sulla base delle prove esaminate, è nostra opinione che l’attuale classificazione delle radio frequenze come cancerogeno per l’uomo (Classe 2B) dovrebbe essere aggiornata a cancerogenico per gli esseri umani (Classe1)”. L’aggiornamento della ricerca medico-scientifica nei risultati dei nuovi studi parla chiaro. Il pericolo esiste ed è fondato. E non è uno scherzo, se si pensa all’uso compulsivo degli smartphone: le linee guida redatte nel 1998 dall’Icnirp sono vecchie, se non altro superate dall’incontrastato avanzamento tecnologico, più veloce per sfornare merce Hi-Tech priva di valutazione preliminare del rischio sanitario: l’aggiornamento è urgente! Non è procrastinabile. “Usano le parole magiche ‘incoerenti’ e ‘inaffidabili’ per minare le ultime scoperte – critici, sul blog scrivono i tecnoribelli di No Radiotion for you – accettando e promuovendo studi che mostrano un’immagine più sicura: l’Icnirp si dimostra ancora una volta inadeguato, insignificante e irrilevante”. L’appunto non è da poco: la Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni non ionizzanti è quell’organismo (privato) accreditato Iarc-Oms su cui alla fine degli anni 90 l’Unione Europea si basò nel considerare i soli effetti termici (cioè il surriscaldamento del corpo umano irradiato dall’elettrosmog, simulato con manichini riempiti di gel), ignorando le evidenze sui danni biologici. “E’ giunto il momento di aggiornare e rivedere giudiziosamente le linee guida dell’Icnirp”, afferma l’ex membro (ci lavorò 12 anni) Jim Lin, mentre – come il noto Angelo Gino Levis (ex mutagenesi ambientale Università di Padova) anche Dariusz Leszczyński (scienziato tra i massimi esperti al mondo, studiò il progetto Interphone Iarc-Oms) – sostiene l’inaffidabilità dell’Icnirp per dettare l’agenda governativa in materia di regolamentazione del rischio sulle pervadenti onde invisibili. Allora: se gli esiti Icnirp sono superati, vecchi di 20 anni, cosa succederà se la massima autorità sanitaria del mondo recepisse le più aggiornate prove scientifiche sulla cancerogenesi dell’elettrosmog? Il danno biologico evidenziato dagli studi (con finanziamenti pubblici) di National Toxicology Program e Istituto Ramazzini? Che sarà del 5G? E della conseguenze a cui, come cavie, senza informarci ci stanno esponendo?

5G – allarmiamo la popolazione. Michelangelo Coltelli maicolengel su butac il 20/06/2019. Nel giro di poche ore siete in tanti ad avermi segnalato come durante l’estate sono in programma tanti eventi pubblici per i cittadini italiani in merito al 5G. Siamo di fronte a un copione che conosciamo bene, l’abbiamo già visto in altre occasioni, ogni volta l’allarme da lanciare cambia ma il gioco è sempre lo stesso, girare la penisola per diffondere vario allarmismo. Si colpisce un pubblico di nicchia, ma a chi diffonde l’allarme basta e avanza.

Vi mostro due delle locandine che mi avete girato in queste ore:

Il primo dei due posterini è quello che impressiona meno, diciamo che è quello che rende l’idea che possa essere un dibattito serio, fatto con scienziati pro e contro il tema di cui si dibatterà. Il titolo perlomeno ci dà quell’idea: Dai campi elettromagnetici naturali a quelli artificiali.

Il secondo invece già dal titolo: Telefonia Mobile 5G, quali danni per la salute?

ci fa capire quale sarà l’impostazione della serata. Per approfondire sono andato a vedere chi sono i soggetti che interverranno ai due incontri. Lo sapete come si dice in UK? Curiosity killed the cat… la curiosità ha ucciso il gatto, beh io per fortuna non sono morto, ma il mio andare ad approfondire ha evidenziato quello che già temevo. Anche il primo incontro vede in cartellone solo soggetti con un evidente pregiudizio nei confronti del 5G. Non si tratterà quindi di serate di vero dibattito e confronto, ma solo di incontri nati esclusivamente per allarmare. Non che ci si debba sorprendere, gli organizzatori di questo tipo di eventi sono clonati da quelli che organizzano i dibattiti sui vaccini (contro l’obbligo), i dibattiti sulla Xylella, gli OGM, l’omeopatia. Non dobbiamo sorprenderci, sull’allarmismo nascono affari, a volte anche di grande valore economico. Basta spaventare quanto basta per riuscire a fare breccia nella mente e nel cuore di chi partecipa a questi incontri. La paura fa 90, e grazie a essa quei soggetti saranno più propensi ad acquistare materiale sul tema, rivolgersi ai medici sodali con questo tipo di eventi, curarsi con acqua e zucchero magari…Purtroppo solo un vero fronte unito di scienziati italiani può spazzare via allarmismi e mercanti d’olio di serpente dalla nostra penisola. Mi piacerebbe dirvi che sarà l’ormai noto Patto per la Scienza a fare qualcosa in merito, ma per ora vedo una macchina complessa, lenta a muoversi come tutte le strutture composte da troppi cervelli. Speriamo si snelliscano e diventino più incisivi con la comunicazione a livello nazionale. Sarebbe bello vedere esprimere pareri sugli studi dell’Istituto Ramazzini ad esempio, portato in palmo di mano da tantissimi sostenitori della pericolosità del 5G, senza però che abbiano portato alcuna prova della dannosità dello stesso. Se i paesi in cui si terranno questi eventi volessero fare un vero servizio ai cittadini avrebbero dovuto obbligare gli organizzatori ad avere un vero confronto con la comunità scientifica, con una seria rappresentanza a favore del 5G. Non facendo così si crea uno sbilanciamento opposto a quello che esiste nella comunità scientifica internazionale. La scienza, ad oggi, dice che il 5G non rappresenta un pericolo per l’essere umano, che le frequenze a cui opera non sono pericolose. Eventi di questo tipo, con patrocini di vario genere, non sono corretti. Chi vi assiste si convince dell’esatto opposto di quanto invece dice la comunità scientifica internazionale. Lasciatemelo dire, questo modo di fare…Allarmi scientificamente infondati possono fare comunque grossi danni, basta pensare alle tante campagne cavalcate da associazioni come quelle rappresentate agli eventi contro il 5G. Solo pensando agli ultimissimi anni abbiamo avuto la Xylella, la demonizzazione degli OGM, la messa al bando dell’olio di palma e recentemente gli attacchi contro il glifosato. Non dobbiamo fare gli ignavi, dietro queste campagne di disinformazione ci sono precisi interessi economici. Mi lascia sempre stupito che chi non si fida di BigPharma abbracci senza spirito critico tutte queste campagne, senza rendersi conto di quali precisi interessi abbiano i promotori… Qui su BUTAC abbiamo già parlato più e più volte di 5G, non credo sia necessario aggiungere altro.

Le bufale sul 5G pericoloso per la salute hanno un intento di destabilizzazione. In America la rete tv finanziata dal Cremlino scatena il panico. In Italia c’è un movimento che cresce. Eugenio Cau su Il Foglio il 14 Maggio 2019. Rt America, la filiale americana e in lingua inglese della rete tv finanziata dal Cremlino, ha cominciato da mesi una campagna antiscientifica contro i presunti pericoli per la salute delle reti 5G, le reti di nuova generazione che in Italia sono in fase di sperimentazione e che in alcuni paesi, come la Corea del sud, sono già attive su parte del territorio. Il New York Times, che ha pubblicato un’inchiesta sul tema, scrive che Rt ha mandato in onda dal maggio scorso sette servizi che parlano di “Apocalisse 5G”. In questi servizi, sedicenti esperti mettono in guardia il pubblico americano dalla possibilità che la costruzione di reti 5G sul territorio nazionale possa portare allo sviluppo di tumori tra la popolazione, e presentano dubbie testimonianze su bambini che perdono sangue dal naso vicino alle antenne o subiscono deficit dell’apprendimento a causa del 5G. Per tentare di rendere l’idea della pericolosità, i giornalisti di Rt tendono a usare la parola “radiazioni” al posto di “onde radio”. Tutti i servizi hanno titoli allarmistici: “Il 5G è un crimine per il diritto internazionale”, “Il 5G espone più bambini al rischio di tumore?”, “5G, un pericoloso ‘esperimento sul genere umano’”. Sono tutte evidenti bufale. Esattamente come non ci sono prove conclusive della pericolosità delle reti 3G e 4G per la salute umana, così non ne esistono per il 5G, anzi: secondo i ricercatori le onde ad alta frequenza del 5G hanno meno possibilità di penetrare nei tessuti umani, e dunque l’esposizione è meno ridotta. Quale interesse può avere una rete televisiva finanziata dal Cremlino a diffondere disinformazione sul 5G, un’infrastruttura che il Cremlino stesso ha definito come strategica e fondamentale per il futuro della Russia? L’ipotesi più probabile è che RT voglia ricreare in vitro un nuovo fenomeno vaccini. In occidente, il movimento no-vax non è soltanto un pericolo per la salute pubblica, che ha riportato in molti paesi malattie che si ritenevano completamente debellate come il morbillo. Il movimento no-vax è diventato un fenomeno politico che ha minato la fiducia di una parte consistente della popolazione nelle istituzioni. Ben presto i no-vax sono diventati un bacino elettorale attorno al quale sono cresciute o si sono coagulate forze politiche invariabilmente populiste: basta pensare al Movimento 5 stelle in Italia. Populismo, sfiducia no-vax e antiscientismo fanno spesso parte dello stesso cocktail di destabilizzazione e caos, e questo è indicato dagli esperti come uno degli obiettivi della Russia nelle sue operazioni all’estero. Negli anni, Rt America non soltanto ha cavalcato le proteste contro i vaccini, ma anche quelle contro il fracking e contro gli Ogm. Nella sua campagna antiscientifica contro il 5G, la rete finanziata dal Cremlino sembra aver trovato terreno fertile. Il New York Times scrive che decine di articoli online di tono complottista e allarmistico hanno ripreso i servizi contro le reti di nuova generazione. In Italia, dove ancora non c’è eco della campagna di Rt, la paura per il 5G è tuttavia già arrivata. Moltissimi siti internet, spesso gli stessi che propalano bufale contro i vaccini, e spesso con formule note (“quello che i media non vi dicono”, “ecco uno studio censurato”) da mesi fanno campagna sulla presunta pericolosità delle reti 5G per la salute dell’uomo. Lo scorso febbraio, un gruppo chiamato Alleanza Stop 5G ha consegnato in Parlamento una petizione con 11 mila firme per chiedere una moratoria della tecnologia. E quando l’Agcom ha pubblicato la lista dei 120 piccoli comuni italiani che avranno una via preferenziale nello sviluppo del 5G per colmare il loro digital divide, molte associazioni di cittadini hanno protestato scambiando la “sperimentazione” della nuova tecnologia per un “esperimento” contro di loro.

L'uso del cellulare (forse) non favorisce il cancro. Francesca Angeli, Giovedì 08/08/2019, su Il Giornale.  Cellulari sicuri? La risposta dell'Istituto superiore di sanità è un «sì» ma con riserva perché i dati di riferimento vengono ritenuti ancora incompleti. Insomma se da un lato è confermata la sicurezza dei cellulari rispetto allo sviluppo di determinate neoplasie restano ancora dubbi prima di tutto per i più piccoli, esposti sin dall'infanzia alle radiofrequenze. Il Rapporto dell'Iss «Esposizione a radiofrequenze e tumori: sintesi delle evidenze scientifiche», curato da Susanna Lagorio, Laura Anglesio, Giovanni d'Amore, Carmela Marino e Maria Rosaria Scarfì sugli eventuali effetti cancerogeni dell'esposizione a radiofrequenze non arriva a conclusioni definitive. I dati e le evidenze epidemiologiche confermano che anche un uso quotidiano del cellulare non sembra collegato ad un aumento dell'incidenza di neoplasie nelle aree più esposte alle radiofrequenze durante le chiamate vocali. La ricerca fa riferimento agli studi pubblicati dal '99 al 2017 e non si rilevano aumenti del rischio di glioma, tumore maligno o dei tumori benigni come meningioma, neuroma acustico, tumori delle ghiandole salivari collegati all'uso prolungato, ovvero dai dieci anni in poi, dei telefoni mobili. Quasi un'assoluzione rispetto allo studio del 2011 dell'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, che aveva decisamente collocato le radiofrequenze tra i possibili cancerogeni. Rispetto a quella valutazione, le stime di rischio considerate dal Rapporto, viene sottolineato, sono più numerose e più precise. Nello stesso rapporto però si sottolinea anche «un certo grado d'incertezza riguardo alle conseguenze di un uso molto intenso, in particolare dei cellulari della prima e seconda generazione caratterizzati da elevate potenze di emissione». Soprattutto si sottolinea che gli «studi finora effettuati non hanno potuto analizzare gli effetti a lungo termine dell'uso del cellulare iniziato da bambini e di un'eventuale maggiore vulnerabilità durante l'infanzia». Molto più critico infatti Paolo Maria Rossini, direttore dell'Unità di Neurologia del Policlinico Universitario Agostino Gemelli. «L'uso prolungato del cellulare fa male al cervello e potrebbe facilitare lo sviluppo di tumori», avverte il medico.

Telefoni cellulari e tumori, rapporto dell'Iss non evidenzia aumenti di rischio. Il rapporto Istisan sull'esposizione a radiofrequenze e tumori: l'uso del cellulare non risulta associato all'incidenza di neoplasie nelle aree più esposte durante le chiamate vocali. Ma servono altre indagini sui rischi legati all’utilizzo fin dall'infanzia. Irma D'Aria il 7 agosto 2019 su La Repubblica. L’utilizzo prolungato del cellulare, per oltre dieci anni, non fa incrementare il rischio di neoplasie maligne (glioma) o benigne (meningiomi, neuromi acustici, tumori dell’ipofisi o delle ghiandole salivari). Ma i dati attuali non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intracranici a più lenta crescita e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia. Sono queste le principali conclusioni del Rapporto Istisan "Esposizione a radiofrequenze e tumori: sintesi delle evidenze scientifiche" diffuso oggi dall'Istituto Superiore di Sanità.

L'aggiornamento degli studi scientifici. Utilizzare per tante ore il cellulare può far aumentare il rischio di tumore? Quante volte ci siamo fatti questa domanda temendo il peggio? La continua esposizione alle radiofrequenze (RF) ha fatto sorgere negli anni legittimi dubbi sui rischi per la salute. La Iarc nel 2011 ha classificato le radiofrequenze nel gruppo 2B (possibili cancerogeni). Ma le ricerche scientifiche più recenti confermano o indeboliscono il sospetto che l’uso del telefono cellulare aumenti il rischio di alcuni tumori cerebrali? Il rapporto Istisa, curato da un gruppo multidisciplinare di esperti di diverse agenzie italiane (Iss, Arpa-Piemonte, Enea, Cnr-Irea), risponde proprio a questi dubbi.

Le caratteristiche dell'esposizione. Il rapporto prende in esame le caratteristiche e i livelli di emissione delle sorgenti di radiofrequenze più rilevanti per la popolazione come antenne radiotelevisive, stazioni radio base, WiFi, telefoni cellulari. L’esposizione personale dipende dai livelli di campo nei luoghi in cui si svolge la vita quotidiana, dal tempo trascorso nei diversi ambienti e dalle emissioni dei dispositivi utilizzati a stretto contatto. "Gli impianti per telecomunicazione sono aumentati nel tempo - scrivono gli esperti nel rapporto - ma l’intensità dei segnali trasmessi è diminuita con il passaggio dai sistemi analogici a quelli digitali. La distanza da sorgenti fisse ambientali non è un buon indicatore del livello di radiofrequenze all’interno di un’abitazione perché molte antenne sono direzionali e le radiofrequenze sono schermate dalla struttura degli edifici e da altri ostacoli naturali". Non solo: gli impianti WiFi hanno basse potenze e cicli di lavoro intermittenti per cui nelle case e nelle scuole in cui sono presenti, danno luogo a livelli di radiofrequenza molto inferiori ai limiti ambientali vigenti.

La dose maggiore di radiofrequenze arriva dai cellulari. La maggior parte della dose quotidiana di energia a radiofrequenze deriva dall’uso del cellulare. L’efficienza della rete condiziona l’esposizione degli utenti perché la potenza di emissione del telefonino durante l’uso è tanto minore quanto migliore è la copertura fornita dalla stazione radio base più vicina. Inoltre, la potenza media per chiamata di un cellulare connesso ad una rete 3G o 4G (Umts o Lte) è 100-500 volte inferiore a quella di un dispositivo collegato ad una rete 2G (GSM 900-1800 MHz). Ulteriori drastiche riduzioni dell’esposizione si ottengono con l’uso di auricolari o viva-voce. In modalità stand-by, il telefonino emette segnali di brevissima durata ad intervalli di ore, con un contributo trascurabile all’esposizione personale.

L’avvento del 5G e l’impatto sulla salute. Con l’arrivo delle reti 5G si sono fatti strada anche dei dubbi sulle possibili maggiori conseguenze per la salute. Il rapporto Istisan indaga e risponde anche su questo punto: "Per quanto riguarda le future reti 5G - scrivono gli esperti - al momento non è possibile prevedere i livelli ambientali di radiofrequenze associati allo sviluppo dell’Internet delle Cose (Iot); le emittenti aumenteranno, ma avranno potenze medie inferiori a quelle degli impianti attuali e la rapida variazione temporale dei segnali dovuta all’irradiazione indirizzabile verso l’utente (beam-forming) comporterà un’ulteriore riduzione dei livelli medi di campo nelle aree circostanti".

Nessun aumento dell’incidenza di tumori alla testa. La relazione tra uso del cellulare e incidenza di tumori nell’area della testa è stata analizzata in numerosi studi epidemiologici pubblicati nel periodo 1999-2017. La meta-analisi di questi studi non rileva alcun incremento del rischio di neoplasie maligne (glioma) o benigne (meningiomi, neuromi acustici, tumori dell’ipofisi o delle ghiandole salivari) in relazione all’uso prolungato (≥10 anni) del cellulare. I risultati relativi al glioma e al neuroma acustico sono eterogenei. Alcuni studi caso-controllo riportano notevoli incrementi di rischio anche per modeste durate e intensita? cumulative d’uso, ma queste osservazioni non sono coerenti con l’andamento temporale dei tassi d’incidenza dei tumori cerebrali che non hanno risentito del rapido aumento della prevalenza di esposizione. "Rispetto alle evidenze disponibili al momento della valutazione della IARC - chiarisce il rapporto - le stime di rischio per l’uso prolungato del cellulare considerate in questa meta-analisi sono più numerose e più precise, perché basate su un maggior numero di casi esposti. Inoltre, le analisi più recenti dei trend d’incidenza dei tumori cerebrali coprono un periodo di quasi 30 anni dall’introduzione dei telefoni mobili".

Mancano i dati sull’uso iniziato nell’infanzia. La validità dei risultati degli studi epidemiologici su cellulari e tumori rimane, però, incerta. Un intero capitolo del rapporto, per esempio, è dedicato alle sorgenti di distorsione più rilevanti e al loro impatto sui risultati. I dati attuali, inoltre, non consentono valutazioni accurate del rischio dei tumori intracranici a più lenta crescita e mancano dati sugli effetti a lungo termine dell’uso del cellulare iniziato durante l’infanzia. Gli studi in corso (Cosmos, MobiKids, GERoNiMo) contribuiranno a chiarire le residue incertezze. "Anche l’ipotesi di un’associazione tra radiofrequenze emesse da antenne radiotelevisive e incidenza di leucemia infantile, suggerita da alcune analisi di correlazione geografica, non appare confermata dagli studi epidemiologici", si legge nel rapporto.

Le prossime valutazioni di rischio. Nel 2011 le radiofrequenze sono state classificate dalla Iarc tra gli agenti possibilmente cancerogeni in base a limitata evidenza nell’uomo, limitata evidenza negli animali e debole supporto fornito dagli studi sui meccanismi. Cosa vuol dire? Proprio per il fatto che il significato di questa classificazione non è intuitivo, la Iarc ha ritenuto utile ribadire che le radiofrequenze sono classificate nel gruppo 2B perché c'è un’evidenza tutt’altro che conclusiva che l’esposizione possa causare il cancro negli esseri umani o negli animali. Valutazioni successive concordano nel ritenere che le evidenze relative alla possibile associazione tra esposizione a RF e rischio di tumori si siano indebolite e non richiedano modifiche all’impostazione degli standard di protezione correnti. L'Oms sta attualmente preparando un aggiornamento della valutazione di tutti i rischi per la salute da esposizione a radiofrequenze. In attesa di questa monografia, gli sviluppi della ricerca sono costantemente monitorati da panel nazionali e internazionali di esperti.

Chi ha paura del 5G? Il Codacons vuole vederci chiaro e invita tutti i 7.914 comuni italiani a lasciar perdere le sperimentazioni e a salvaguardare la salute dei cittadini. Antonino Caffo l'8 agosto 2019 su Panorama. Il 5G è dietro l'angolo, con la promessa di rendere le nostre vite connesse molto più intelligenti di quanto lo siano oggi. Non si tratta solo di velocità ma della possibilità di collegare in maniera ottimizzata smartphone, tablet, computer, dispositivi indossabili e tutto ciò che in città "parla" con la rete. Non si poteva già fare oggi con il 4G? Si, certo, con grossi limiti in quanto a spazio concesso ad ogni prodotto (per farla spicciola), con una decadimento della qualità. Il 5G sarà un network migliore e creato apposta per ospitare centinaia, migliaia di device. Per fare questo serviranno antenne diverse dalle attuali, sulle quali il Codacons ha avviato la propria battaglia del "contro".

Stop alla penisola. L’associazione dei consumatori ha chiesto a tutti i sindaci italiani di bloccare e rifiutare la sperimentazione del 5G sui loro territori. Il motivo? «Allo stato attuale – afferma Carlo Rienzi, Presidente Codacons – le evidenze scientifiche non sono in grado di assicurare con assoluta certezza l’assenza di rischi suo fronte sanitario per i cittadini. In tali situazioni si applica quindi il principio di precauzione che pone come interesse primario la tutela della popolazione, anche perché i sindaci sarebbero i primi soggetti chiamati a rispondere di eventuali danni prodotti da strutture tecnologiche autorizzate dalle amministrazioni».

La ricerca del misfatto. A marzo dello scorso anno si è conclusa la ricerca che l’Istituto Ramazzini di Bologna, attraverso il Centro di ricerca sul cancro “Cesare Maltoni”, ha condotto per studiare l’impatto dell’esposizione umana ai livelli di radiazioni a radiofrequenza (RFR) prodotti da ripetitori e trasmettitori per la telefonia mobile. Il risultato? L'Istituto Ramazzini ha studiato le esposizioni alle radiofrequenze mille volte inferiori a quelle utilizzate nello studio sui telefoni cellulari del National Toxicologic Program (USA), e ha riscontrato gli stessi tipi di tumore, ossia malattie rare delle cellule nervose. Insomma, per la ricerca, ripetitori e telefoni cellulari causano il cancro.

Il 3G non è il 5G (e viceversa). Ma c'è un problema: l'Istituto ha utilizzato, come tester delle sue indagini, dei ratti, esponendoli a radiazioni su frequenze da 1.8 Ghz per molte ore al giorno. I topi hanno sviluppato, in alcuni casi, una forma tumorale al cervello. A seguito di ciò, per chissà quale motivo, la ricerca del centro è stata citata da più fonti per condannare il 5G, nonostante il fulcro fossero tecnologie di rete precedenti. La frequenza da 1.8 Ghz è propria del 3G. Non a caso, l'ICNIRP, l'organismo internazionale per lo studio delle radiazioni non ionizzanti, ha ritenuto che i risultati di questo studio non possano essere impiegati per modificare gli attuali parametri sui livelli di esposizioni.

Ecco le testuali parole del Ramazzini: «Nello studio del Ramazzini, 2.448 ratti Sprague-Dawley sono stati esposti a radiazioni GSM da 1.8 GHz (quelle delle antenne della telefonia mobile) per 19 ore al giorno, dalla vita prenatale (cioè durante la gravidanza delle loro madri) fino alla morte spontanea. Lo studio comprende dosi ambientali (cioè simili a quelle che ritroviamo nel nostro ambiente di vita e di lavoro) di 5, 25 e 50 V/m: questi livelli sono stati studiati per mimare l’esposizione umana full-body generata da ripetitori, e sono molto più basse rispetto a quelle usate nello studio dell’NTP americano». Peccato che 50 Volts al metro (l'unità di misura delle radiazioni non ionizzanti) sia una metrica che è fuori legge in un paese dove il limite è di 6 V/m. Al massimo, valori elevati si possono raggiungere in fase di chiamata cellulare, non fino ai "50" e per limitate ore effettive ogni giorno.

Facciamo un po' di chiarezza. Secondo delle inferenze matematiche alquanto basilari, il 5G opera su frequenze maggiori del 4G, quindi la lunghezza d'onda di azione è inferiore. Questo è il motivo per il quale servono più antenne per coprire una certa zona, ma a bassa potenza. Il Codacons collega il numero maggiore a un rischio aumentato per la salute. Ma quasi quasi fa più male mettere una mano, per qualche ora, nel forno a microonde. Come spiegato in un articolo del sito Key4biz: «Il fascio di radiazione emesso da una stazione radio base 4G ha un diagramma di irradiazione fisso. Il raggio di esposizione di una stazione base 4G è maggiore rispetto al 5G e il fascio di radiazione si propaga anche su persone, animali e oggetti che non utilizzano la tecnologia 4G. Invece per la stazione radio base 5G il diagramma di irradiazione è dinamico e indirizzabile verso l’utente. Ogni servizio vede unicamente una “porzione virtuale” della rete e tutti i soggetti che in quel momento non richiedono una connessione mobile di quinta generazione non sono interessati dal fascio di radiazione».

Cosa dice l'Istituto Superiore di Sanità. Inoltre, in un recente rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, in base alle evidenze epidemiologiche attuali, l’uso del cellulare non risulta associato all’incidenza di neoplasie nelle aree più esposte alle radiofrequenze durante le chiamate vocali. Nel periodo 1999-2017 non si sono rilevati rischi di tumori maligni (glioma) o benigni (meningioma, neuroma acustico, tumori delle ghiandole salivari) in relazione all’uso prolungato (≥10 anni) dei telefoni mobili. Per quanto riguarda le future reti 5G, al momento non vi è certezza pratica che, in Italia, non faccia male. Sappiamo che non ci sono conseguenze altrove (tipo negli Stati Uniti dove pure sono state studiate radiazioni più elevate) ma l'azione precauzionale del Codacons non fa altro che alzare la guardia su un fatto che è una credenza e non un'evidenza. Ragionando in questo modo saremmo ancora fermi ai caratteri mobili, al cavallo, ai messaggi di fumo. Se c'è una curva dovuta dello sviluppo tecnologico che prevede un periodo di sperimentazione, non vuol dire che questa comporti la fine dell'umanità. Non se i dati sono trasparenti, pertinenti e calzanti con quello che si cerca.

La petizione dei medici: "Tumori per i cellulari? Non è possibile negarlo". Quasi 5mila firme contro il documento che scagiona i telefonini: "Sottostima i rischi". Francesca Angeli, Venerdì 23/08/2019, su Il Giornale. «L'Istituto Superiore di Sanità deve ritirare il rapporto sulla correlazione tra utilizzo dei cellulari e cancro perché inadeguato a garantire al meglio la salute pubblica». Un'accusa pesantissima quella lanciata dall'Associazione Italiana Medici per l'Ambiente - Isde Italia che oltre ad invitare con forza l'Iss a ritirare il rapporto ha anche promosso una raccolta di firme per chiedere la rielaborazione del documento giudicato eccessivamente rassicurante rispetto al rischio cancro in caso di esposizione assidua alle radiazioni, le microonde emesse dai cellulari. Un sospetto inammissibile per un organismo governativo il cui principale scopo sarebbe per l'appunto la tutela della salute pubblica. Nel documento Iss si afferma che l'uso comune del cellulare non sarebbe «associato all'incremento del rischio di alcun tipo di tumore cerebrale» anche se si riconosce che esiste «un certo grado d'incertezza riguardo alle conseguenze di un uso molto intenso» e soprattutto rispetto «agli effetti a lungo termine dell'uso del cellulare iniziato da bambini e di un'eventuale maggiore vulnerabilità a questi effetti durante l'infanzia». Nonostante questa incertezza gli esperti Iss ritengono che in base alle evidenze disponibili non siano necessarie «modifiche sostanziali all'impostazione corrente degli standard internazionali di prevenzione dei rischi per la salute». Ma questa impostazione viene duramente respinta dall'Isde, rappresentata dal presidente del Comitato Scientifico, Agostino Di Ciaula e dal professor Benedetto Terracini già professore di Epidemiologia dei tumori all'Università di Torino. Gli esperti dell'Isde fanno notare come nel rapporto Iss si riconosca che «la normativa nazionale vigente, nel caso delle bande di frequenza proprie della rete 5G, sia inadeguata a verificare l'esistenza di livelli di esposizione certamente sicuri per la salute pubblica». Ovvero che non si ha idea di quali potranno essere gli effetti sulla salute del 5G. E in prospettiva abbiamo invece la certezza del fatto che ci sarà «un incremento notevole del numero di impianti installati sul territorio» e che «l'introduzione della tecnologia 5G potrà portare a scenari di esposizione molto complessi, con livelli di campo elettromagnetico fortemente variabili nel tempo, nello spazio e nell'uso delle risorse delle bande di frequenza». Per l'Isde dunque «non appare giustificabile ignorare o sottovalutare ciò che già sappiamo e declassificare come irrilevante ciò che ancora non sappiamo». Il rischio potenziale c'è, dicono in sostanza gli esperti, e non va ignorato fino a che non mostrerà i suoi effetti. In sostanza quello che è accaduto con la nicotina i cui effetti nocivi sono stati minimizzati per decenni. «Questo potrebbe trasformarsi in un'inaccettabile rilevazione e quantificazione a posteriori di danni altrimenti evitabili», insistono. Il professor Terracini critica l'eccessiva «timidezza» delle conclusioni del rapporto Iss dove si parla di «incertezze scientifiche ma si evita di esplicitare la sostanza di tali incertezze e non si propone quale utilizzo farne a fini di prevenzione primaria», soprattutto rispetto ai soggetti più fragili: bambini e donne in gravidanza.

·         I Complottisti.

Beppe Grillo contro la pseudoscienza: firma il patto di Burioni, immunologo «pro-vax». Nicola Barone 10 gennaio 2019 su Il Sole 24 ore. C’è Matteo Renzi e c’è anche Beppe Grillo. I due storici avversari, distanti galassie, sono fra i firmatari di un “patto per la scienza” proposto dall'immunologo Roberto Burioni per sostenere la ricerca scientifica e contrastare la pseudomedicina. È stato il medico stesso sul proprio sito Medicalfacts a spiegare che «oggi è successa una cosa molto importante: Beppe Grillo (sul suo blog) e Matteo Renzi hanno sottoscritto (insieme a molti altri), un patto a difesa della scienza. Perché ci si può dividere su tutto, ma una base comune deve esserci». Grillo, ospitando l’appello di Burioni sul proprio blog, cita Claude Levi-Strauss riportando la sua affermazione sul fatto che «lo scienziato non è l'uomo che fornisce le vere risposte; è quello che pone le vere domande». Nella scienza «non si crede: o si capisce oppure non si capisce. È una modalità di comprensione delle cose del mondo che deve essere capace di prescindere da qualsiasi pregiudizio (quindi anche relativamente ad un certo vaccino o modalità di vaccinazione della popolazione)», scrive Grillo. «Il rapporto matematica/realtà naturale non è ancora del tutto chiaro. La scienza procede, senza timori attraverso il dubbio (anche su se stessa). Ma che anche la scienza, ed il suo mondo, hanno bisogno di sopravvivere, come qualunque altra cosa». Per questo, segnala sempre il cofondatore dei Cinque Stelle, «condivido con voi il Patto trasversale per la scienza, perché il progresso della scienza deve essere riconosciuto come un valore universale dell'umanità e non può essere negato o distorto per fini politici e/o elettorali». Una posizione, quasi inedita e per molti versi clamorosa, che fa da sponda alle parole dell'immunologo e grande oppositore dei no-vax. «Non ascoltare la scienza significa non solo oscurantismo e superstizione, ma anche dolore, sofferenza e morte di esseri umani». Nel patto lanciato «le forze politiche si impegnano a “sostenere la Scienza come valore universale di progresso dell'umanità, che non ha alcun colore politico”, ma anche a «governare e legiferare in modo tale da fermare l'operato di quegli pseudoscienziati, che, con affermazioni non-dimostrate e allarmiste, creano paure ingiustificate tra la popolazione nei confronti di presidi terapeutici validati dall'evidenza scientifica e medica». «Stupito dall'adesione di Beppe Grillo? Non ho seguito quello che ha detto Grillo in passato sulla scienza, ma sono felice che in questo momento si riconosca in dei punti molto rigorosi: perché il patto non lascia spazio a fraintendimenti» ha commentato Burioni nel corso di «Uno, nessuno, 100Milan» su Radio 24. «È una base dalla quale partire per evitare il proliferare balle mortali come quelle dei vaccini contaminati e delle chemioterapie che uccidono. Grillo in passato nei suoi spettacoli brandiva le false teorie del professor Peter Duesberg sul fatto che l’Aids fosse un'invenzione? Mi piace pensare che il mio amico Guido Silvestri, che è uno dei più grandi esperti di Hiv al mondo, abbia fatto capire a Grillo che quelle posizioni erano sbagliate». Paradossale che nel 2019 l'adesione a un appello sull'importanza della scienza diventi una notizia? «È incredibile, ma questo è il mondo in cui viviamo». Me nel frattempo si scatenano critiche e insulti su Facebook contro Beppe Grillo “colpevole” di aver sottoscritto un testo che sostiene la ricerca scientifica, contrasta la pseudomedicina e di fatto sconfessa la battaglia no-vax. Oltre 400 follower del comico genovese hanno dato libero sfogo al disappunto nei commenti al post pubblicato sul blog beppegrillo.it. I giudizi sono pressochè unanimi e durissimi. «Traditore», «mai più il mio voto dopo questo voltafaccia», «ci avevate promesso di abolire i vaccini e invece adesso ce li volete iniettare con forza. Bel voltagabbana». Non manca chi posta un video risalente al 1998, in cui Grillo si batte contro i vaccini, con sotto il commento sarcastico «questo Grillo qui di oggi è lo stesso di questo video?».

Beppe Grillo: Complottista o Illuminato? L’Inkiesta 13 giugno 2012. Nel Movimento 5 Stelle si nasconde una marea di complottisti. Poi ci sono i complottisti "grillini pentiti", quelli talmente paranoici che sono convinti che Beppe Grillo sia una pedina degli Illuminati. Giuro. Non è difficile accorgersene, visto che sul ritrovo d'obbligo di tutti i "cinquestellati", il blog di Grillo, si trovano con una facilità estrema commenti tipo: "Sono convita che l'Aids sia una condizione sempre esistita di immunodeficienza non acquisita da virus ma per particolari condizioni vissute da un soggetto", oppure "Come mai i nostri giornalisti non parlano di HAARP? Sarà che manco sanno cos'è, oppure è 1000 volte meglio parlare del populismo di Grillo", o ancora (e veniamo ai paranoici) "Tutti i media sono controllati, Grillo non fa eccezione, basta controllare i video della Casaleggio, intrisi di simbologia illuminato-massonica". Ma cosa ci fanno i complottisti nel Movimento Cinque Stelle? La loro presenza è confermata dallo stesso Grillo, che in alcune dichiarazioni (come questa) si lamenta dei troppi sostenitori che lo fermano e gli chiedono di parlare di boiate tipo le scie chimiche e la fusione fredda. Eh già, perché Beppe Grillo a questa roba non ci crede mica. Crede però che l'Aids sia una truffa, che i pomodori siano incrociati con i merluzzi, che i vaccini siano inutili e a mille altre teorie più o meno assurde che stanno nel manuale del buon complottista e di cui si è parlato recentemente in seguito a questo articolo di Wired. Ed ecco spiegata la presenza dei complottisti nel M5S. Ma dove nasce invece la teoria che lo stesso Grillo sia un Illuminato? Partiamo da un po' lontano...Una delle teorie che più agitano gli spiriti cospirazionisti e a cui Grillo ha addirittura dedicato un intero tour nel 1998 (Apocalisse Morbida) è quella del signoraggio. O meglio, la bufala del signoraggio (a questo link trovate un po' di spiegazioni): una delle più dure a morire, ci è cascato pure Di Pietro e Grillo ne era uno dei più convinti sostenitori. Forse ignaro, o forse no, che le teorie a cui dava credito erano portate avanti da loschi individui neo-fascisti (come sempre capita quando ci si addentra nei meandri del complottismo). Aveva voglia Grillo a sponsorizzare, in quello spettacolo, l'esimio professore ed esperto di signoraggio Giacinto Auriti, forse era meglio informarsi un po' per scoprire che Auriti era (è deceduto nel 2006) un noto neo-fascista che è stato anche candidato nel cartello Mussolini + Forza Nuova + Fiamma Tricolore + Fronte Nazionale noto come Alternativa Sociale. Beh, ai neo-fascisti non si può concedere credito a livello economico? Personalmente, non mi affiderei mai a personaggi del genere, ma evidentemente Grillo la pensa(va) diversamente e si è lasciato portare dritto dritto nei tuguri cospirazionisti, affermando anche cose del tutto improbabili tipo che la Banca d'Italia è una Società per azioni (non lo è). Ma attenzione: la cosa davvero inquietante non è che Grillo credesse alla cospirazione del signoraggio, ma che dallo spettacolo del 1998 abbia smesso improvvisamente di parlarne. Non solo: molti accusano il leader del 5 Stelle di cancellare dal suo blog qualunque intervento che riguardi il signoraggio. Cos'è successo? Perché Grillo non tratta più un argomento così scomodo? Le teorie sono tre. Partiamo dalla prima che è la più semplice, portata avanti anche dal noto (?) esperto di signoraggio Antonio Miclavez, che in questa intervista del 2008 afferma: "Ne ho parlato con lui (Beppe Grillo) circa sei mesi fa, e lui mi ha detto di non volerne più parlare perché è troppo difficile e la gente non capisce". In effetti addentrarsi un po' nel signoraggio fa venire il mal di testa, ma sembra strano che il Beppe nazionale abbandoni un tema del genere solo perché "la gente fa fatica a capire". Seconda ipotesi: a causa del suo volere divulgare un'informazione corretta sul signoraggio, Beppe Grillo è stato minacciato di morte, e da allora ha smesso. Gli Illuminati si sono messi sulle sue tracce, in poche parole. E gli hanno fatto capire che non era il caso di continuare a svelare le loro pratiche per soggiogare il mondo. Alcuni paranoici ne sono convinti, e per diffondere il verbo pubblicano video come questo. Terza e ultima ipotesi, che è poi anche la mia preferita: Beppe Grillo fa parte degli Illuminati. Non è uno scherzo: altro che nemico dei poteri forti, Bilderberg e banchieri. No no. Grillo è un Illuminato, ed è qui tra noi per diffondere una contro-informazione distorta che in realtà fa il gioco degli Illuminati. E' stato comprato, insomma. E quindi ha smesso di parlare di signoraggio. Questi cortocircuiti schizoidi sono fantastici e sono anche un tipico meccanismo dei complottismi, per cui ogni dietrologia può essere a sua volta vittima della dietrologia. Ma da dove nasce questa convinzione? Uno dei punti di forza di questa tesi nasce dalla lettera scritta dall'Illuminato pentito (sì, esistono. O almeno dicono di esistere) Leo Lyon Zagami, autore del libro "Confessione di un Illuminato". In questa lettera scrive: Nell’ormai lontano autunno del 2006 io decisi di uscire fuori dalle società segrete del Nuovo Ordine Mondiale e di farlo pubblicamente grazie alle mie “Confessioni”. Cercavo cosi di rivelare i retroscena per cautelarmi in caso mi fosse successo qualcosa. Mi rivolsi quindi alle figure più importanti dell’informazione alternativa sul web, tra cui Beppe Grillo, da cui non ricevetti mai alcuna risposta alla mia mail; se non 3 anni dopo, in un episodio che dire strano è forse poco, ma che allo stesso tempo mi fece capire tutti i retroscena della Casaleggio e del nostro caro Grillo l’uomo della rivoluzione che non c’è, il giullare di corte dei poteri forti e degli illuminati del progetto DIGNITY. Ok, fermi un secondo. Cos'è Dignity? Dignity Order è la brand new loggia massonica fondata dall'ex Gran Maestro della Loggia Regolare d'Italia, Giuliano Di Bernardo. Ovviamente implicato (secondo i complottisti) nei più loschi traffici possibili immaginabili con finanzieri, poteri fortissimi, Mossad, CIA e chi più ne ha più ne metta. Al fine, indovinate?, di instaurare il solito Governo Mondiale. Va bene. E i Casaleggio? Oltre a tutte le voci non piacevoli sul guru di Grillo, adesso salta pure fuori che sono degli Illuminati? Ebbene sì, la lettera infatti continua. Erano ormai passati tre anni, partecipai nel Giugno del 2009 a un articolo messo su dal vice di Giuliano di Bernardo per la promozione del film Angeli e Demoni basato sul libro di Dan Brown. Sto parlando del famoso lobbista ed esperto nel settore dei media e della comunicazione Piergiorgio Bassi. E fu proprio nel periodo successivo all’uscita di questo articolo che ricevetti una strana telefonata da Piergiorgio Bassi che mi chiamava proprio dall’ufficio della Casaleggio Associati a Milano, per rimproverarmi di quella richiesta di aiuto fatta tre anni prima a Beppe Grillo. Non riuscivo a capire inizialmente il legame professionale tra Grillo e Bassi e mi domandavo tra me e me: "Giuliano di Bernardo Sovrano Gran illuminato ed Eminentissimo e Supremo Gran Maestro della Dignity come si fa chiamare lui stesso, che cavolo centrava con la Casaleggio e il Movimento di Grillo?" E perché di colpo il suo vice mi bacchettava dall’ufficio della Casaleggio chiedendomi perché mai avessi chiesto aiuto a Grillo anni prima? Verrebbe più che altro da chiedersi perché uno che è uscito dalla Massoneria stia partecipando alla stesura di un articolo con il "vice" del capo della Massoneria... O per quale ragione aspettano tre anni prima di sgridarlo. Gli chiesi allora, durante la stessa chiamata, cosa centrava lui con Grillo e la Casaleggio, e la risposta fu in questo caso davvero illuminante: “Fanno parte del team Marketing & communications della DIGNITY”, e poi mi disse: "Leo da quando sei rientrato in Italia io ti curo l’immagine, ma tu non puoi farmi questo, sembra quasi che vuoi fare il tirapiedi a Grillo ricorda che tu sei un Gran Maestro". Ma perché mai uno che vuole uscire dagli Illuminati si fa curare l'immagine da uno infognato fino al collo con la massoneria deviata? Questa cosa proprio non si capisce, ma probabilmente è solo perché non sono abbastanza addentro...Era chiaro ormai come il sole per me che la Casaleggio fosse una sorta di quartier generale delle forze occulte che manovrano Grillo, che poi a loro volta si rivolgevano a personaggi vicini ai servizi segreti come Piergiorgio Bassi. Avevo capito chi si celava dietro a Grillo quando Bassi mi disse che non solo lavorava con loro, ma che c’era li accanto a lui un “Fratello” dell’Accademia degli illuminati, che mi avrebbe voluto conoscere in seguito, un tale di nome Enrico Sasson, che è apparentemente una delle menti della Casaleggio e proviene (sorpresa delle sorprese) da una delle famiglie ebree più importanti nel cartello del Nuovo Ordine Mondiale, i Rothschild. Chiarissimo, no? Grillo è al servizio della massoneria. E' un Illuminato, comandato a bacchetta da persone che sono pappa e cicca con Rothschild. Ma questa lettera abbastanza incomprensibile non è l'unica prova. C'è anche quest'altra lettera, che accusa Grillo delle stesse cose ma citando personaggi diversi (eh vabbè), ma soprattutto il fatto che gli stessi Casaleggio nei video che pubblicano sulla loro pagina internet (quelli dove predicono il futuro del mondo in una maniera che li fa sembrare dei pazzi furiosi) non fanno altro, in realtà, che lanciare messaggi massonici, mostrando occhi onniscienti e citando il New World Order. Uno dei due video lo trovate qui ed è intitolato Gaia, mentre la realtà sui Casaleggio ce la mostra il video qui sotto, che dimostra inequivocabilmente come il loro vero scopo sia la creazione di un mondo stile Matrix (forse lo spiega ancora meglio questo post). Non basta? Non siete ancora convinti che Grillo sia una pedina dei Casaleggio che sono una pedina della massoneria italiana che è una pedina dei Rothschild? Allora sappiate anche questo: Beppe Grillo, nel 1992, era a bordo della Britannia. Sì, proprio quella Britannia, sulla quale i potentati della perfida Albione costrinsero il Governo Italiano a dare il via alle privatizzazioni industriali, ovviamente allo scopo di arricchire ancora di più chi tiene in mano le redini del mondo. Lo scrive il titolare e autorevole gestore del sito Signoraggio.it. (...) Nel 1992, quindi, Beppe Grillo era già al servizio della Massoneria. Adesso resta solo da capire perché fino al 1998 sbraitava contro il signoraggio e perché gli Illuminati lo abbiano minacciato di morte. Il timore è che in queste temutissime strutture oscure che governano il mondo non abbiano le idee troppo chiare.

Dagli alieni al "Frigo-Gate": quando il complotto è a Cinque Stelle. Dalla matita elettorale “da ciucciare” ai veri responsabili dell'11 settembre, dalle Stragi di Stato alle scie chimiche, passando per l'Isis, X-Factor ed i mitologici chip sottocutanei. Ecco a voi tutte le congiure paventate dai grillini. Wil Nonleggerlo il 25 ottobre 2016 su L'Espresso. Mettetevi seduti e fate un bel respiro. Diciamo davvero. Fatto? Bene: Bin Laden è vivo. Proprio così, e non è finita. L'uomo non è mai andato sulla luna. Ed i grandi poteri mondiali tramano in favore del matrimonio gay. Kennedy? È stato ucciso dal gruppo Bilderberg. Ah, la Sirenetta esiste sul serio. L'ultimo caso? Nella Roma di Virginia Raggi è in corso la più occulta delle operazioni: il #FrigoGate. Una mole enorme di congiure, trame e macchinazioni denunziate, spesso svelate da vertici e parlamentari del Movimento 5 Stelle. Tante verità, troppe. Siccome rischiavamo di perderne il conto, una raccolta non era più procrastinabile. E allora via, dalla matita elettorale “da ciucciare” ai veri responsabili dell'11 settembre, dalle Stragi di Stato alle scie chimiche, passando per l'Isis, X-Factor ed i mitologici chip sottocutanei. Si parte, ecco a voi tutti i complotti a 5 Stelle.

La Capitale ed il complotto dei rifiuti (Virginia Raggi, sindaco di Roma, a Repubblica, 25 ottobre 2016): "Non ho mai visto tanti rifiuti pesanti, divani, frigoriferi abbandonati per strada. Non so se vengono fatti dei traslochi, se tanta gente sta rinnovando casa, ma è strano...". Ma sta dicendo che lo fanno apposta? Forse ci sono sempre stati ma lei non li notava? "No, eh no. È un po' strano, ci sono frigoriferi che invece di essere portati all'isola ecologica vengono buttati vicino ai cassonetti e non è mica un lavoro semplice portarli lì, non so neanche come facciano. Però il frigorifero è già tutto sfondato e graffitato. Mi sembra strano...".

La "truffa" di X Factor (Carlo Sibilia, onorevole 5 Stelle, su Facebook, 12 ottobre 2016): "#IoStoConDanilo: "truffato" da X factor e dalla falsità della TV"..."Ho visto il tuo video, ho visto chi sei, la sincerità che traspare dai tuoi occhi, il fatto che tu sei un 25enne inoccupato di Mirabella Eclano, quindi mio conterraneo. Volevo trasmetterti tutta la mia solidarietà perché c'è stato un sovvertimento della realtà. Viviamo in un periodo in cui la realtà è modificata a piacimento di chi manovra la Tv. Mi sono visto in te perché anche io tante volto ho subito dai media tanto fango e falsità...".

Il complotto di Capitan Findus (Pietro Salvino, marito della deputata pentastellata Claudia Mannino, già candidato sindaco di Capaci con il Movimento, su Facebook, 5 ottobre 2016. Ma saranno moltissimi i 5 Stelle a scatenarsi sulla vicenda): "Proprio oggi non ho comprato delle spugnette Vileda visto che questa meretrice dell'etere conduttrice de #lariachetira (Myrta Merlino, ndr) ha più volte infangato personalmente anche me e le persone che stimo nel m5s dicendo falsità sul conto del M5S. #vileda e #findus rinunciate a sponsorizzare la propaganda renziana immediatamente e chiedete scusa o non venderete più una sarda surgelata ne una spugnina!!! Di vedere quella porcata di trasmissione ovviamente non se ne parla neanche se la conduzione passasse a Papa Francesco!!".

Non può esistere crisi monetaria! (Carlo Sibilia, on. M5s, su Facebook, 19 settembre 2016): "Esiste una crisi idrica, quando c'è scarsità d'acqua. Esiste una crisi geologica, quando c'è scarsità di suolo. Esiste una crisi d'aria, quando è troppo inquinata.Non può esistere una crisi monetaria perché manca la moneta. Infatti acqua, terra e aria sono risorse naturali e pertanto sono finite. La moneta è un'unità di misura e può essere creata in qualsiasi momento. Dire che esiste una crisi monetaria è come dire che non c'è la lunghezza perché mancano i metri.

Mafia Capitale contro il Movimento (Mario Giarrusso, senatore 5 Stelle, intervistato da Libero, 18 settembre 2016): "Di sicuro contro di noi c’è una reazione violentissima di Mafia Capitale, che ha messo in campo tutti i cannoni mediatici a sua disposizione. Stanno montando una vicenda che ha la consistenza del nulla». Insomma, dietro c’è una “manina”... "Scusi, francamente... pensi al fatto della e-mail (quella spedita da Paola Taverna a Di Maio per comunicare che la Muraro era indagata, ndr), agli sms, alle conversazioni private: è finito tutto sui giornali. Una puntualità sospetta, che mi spinge a pensare che dietro ci sia una regia. Parliamoci chiaro: qui c’è in ballo Roma, la possibile vittoria alle elezioni, il governo del Paese». Regia di...? "Ci sono tanti e tali di quegli apparati... non ultima la manovra di Renzi per mettere un suo amico a capo dei servizi...". Marco Carrai. "...proprio per fare spionaggio informatico. Non escluderei che dietro a questa puntualità ci sia una regia che non ha nulla a che fare con fonti interne al Movimento".

La cocaina addosso (Beppe Grillo dal palco del comizio di Nettuno, sulla bufera che ha investito l’M5S e la giunta romana dopo il caso Muraro, 7 settembre 2016): "La reazione di questo sistema a noi è una cosa bellissima! Ma è poca... Mi aspettavo molto di più, aspettavo un avviso di garanzia a me, aspettavo cinque chili di cocaina nella macchina, aspettavo che finalmente scoprissero che Di Maio è un omosessuale!".

Poteri forti (Virginia Raggi ai suoi assessori nel corso della prima seduta di Giunta dopo la sequenza di dimissioni ed i pasticci dei primi mesi di mandato, 2 settembre 2016): "Siamo determinati a lavorare per il bene della città. Queste dimissioni non ci spaventano. Diamo fastidio ai poteri forti ma siamo uniti e determinati".

Trilateral (Roberto Fico, parlamentare M5s, su Facebook, 19 aprile 2016): "Nel 2012 era il Bilderberg, oggi è la Trilaterale, riunita per tre giorni a Roma sotto la protezione di un imponente apparato di sicurezza. (...) Il fondamento della dottrina della Trilaterale è insomma la netta separazione fra potere (kratos) e popolo (demos): un pensiero antidemocratico penetrato nella società attraverso i media e realizzato progressivamente dagli esecutivi occidentali".

Il sistema-Vespa (Manlio Di Stefano, parlamentare M5s, su Facebook, 7 aprile 2016): "È SOLO DISTRAZIONE DI MASSA. Basta! Basta! Basta! Non fatevi fregare dal sistema! Vespa ne è parte da sempre, avete già dimenticato le mille occasioni in cui si è prestato a distrarre le masse dai veri problemi del paese? Per quanti mesi è andato in onda il plastico del Delitto di Cogne mentre in Parlamento ci toglievano il futuro? L'equazione è semplice: il Governo Renzi è in crisi perché pescato con le mani nel petrolio dalla magistratura e sotto mozione di sfiducia e, in 24h, mette su un teatrino a tutto campo fatto da Riina junior da Vespa, gli scontri di Bagnoli e il caso Regeni...". La collega Giulia Di Vita è d'accordo, e su Twitter scrive: "Dai @BrunoVespa c'hai provato, ma nel caso #Guidi ora spuntano pure ministri non ancora nominati nelle indagini... #distoglierelattenzione".

Il complotto per farli vincere (Paola Taverna, senatrice M5s, a Radio Cusano Campus, 16 febbraio 2016): "Potrebbe essere in corso un complotto per far vincere il Movimento Cinque Stelle a Roma. Centrodestra e centrosinistra stanno mettendo in campo dei nomi perché non vogliono vincere Roma, si sono già fatti i loro conti. A Roma vogliono metterci il Cinque Stelle, per togliere i fondi e fargli fare brutta figura. Questo i romani lo devono capire".

L'Occidente appoggia l'Isis (Manlio Di Stefano, deputato M5s, su Facebook, 16 settembre 2015): "GUERRA ALL'ISIS? NO, IMPERIALISMO. Gli USA e l'Unione Europea appoggiano l'ISIS. Questo è un dato di fatto riscontrabile in centinaia di testimonianze influenti (senatori americani) nonché in video che mostrano droni sorvolare i convogli neri senza attaccarli (...)".

La verità sull'11 Settembre (Angelo Tofalo, deputato M5s, su Facebook, 11 settembre 2015): "Da Ingegnere, da Portavoce del #M5S, da cittadino del mondo, non smetterò mai di cercare la verità su quel terribile 11 settembre del 2001. #11settembre #ae911truth #USA #Terrorismo".

Corriere: "Vito Crimi ed il complotto dei piedi sporchi" (Vito Crimi, senatore M5s, su Facebook, 28 luglio 2016): "LEGGETE, PRIMA DI RIDERE. Un amico che risiede a Ghedi, in provincia di Brescia, ci ha inviato questa lettera. Vi invito a leggerla. 'Ciao a tutti, molti di voi rideranno guardando l'immagine allegata (i piedi sporchi del figlioletto, ndr). Penserete forse che il caldo di questi giorni mi abbia dato alla testa o che si tratti semplicemente di uno scherzo di cattivo gusto. Purtroppo la realtà supera spesso la fantasia e in questo caso la realtà potrebbe essere più grave di quello che si pensi (...). Ma veniamo ai fatti. Dopo le vacanze al mare siamo ritornati a casa a Ghedi. Premetto che prima di andare via la casa era in perfetto ordine. Come è normale tutti gli scuri erano chiusi ma dietro qualcuno di essi qualche porta è rimasta socchiusa per favorire un minimo di ricambio dell'aria di casa. Ebbene dopo due settimane ecco quello che si è depositato sul pavimento di casa e raccolto dai piedini di mio figlio. Quello che mi spaventa è che non si tratta della normale polvere. È una polvere nera e sottile, più fine della fuliggine. Sembrano i piedi di uno spazzacamino (...). C'è da dire che non viviamo nei pressi di una fabbrica o di una fonderia per cui credo che sia effettivamente quello che circola nell'aria. E questo fa paura (...)'".

Le ruspe ad Hatra? Ma quale Isis, è un’invezione dei giornalisti (Tiziana Ciprini, onorevole M5s, su Facebook, 9 marzo 2015): "PSICOTERRORISMO MADE IN USA. HATRA, patrimonio Unesco, rasa al suolo dall’ISIS con le RUSPE, dice la stampa. È da un giorno e mezzo che cerco foto/video del prima e del dopo del rasamento al suolo. Nulla. Per l’industria SPARGIGUERRA americana i cattivi hanno sempre qualcosa di nero (ora la pelle, ora il vestito, ora la bandiera). Dopo i video i cui effetti speciali fanno impallidire l’industria cinematografica di Hollywood, dopo le statue di carton-gesso distrutte, ora i rasamenti al suolo con le RUSPE. ISIS? Si, si ci credo. American FALSE FLAG...".

Trame sanremesi (Emanuele Scagliusi, onorevole M5s, su Twitter, 12 febbraio 2015): "Mentre tengono gli italiani davanti la #tv con #Sanremo2015 qui in #Parlamento distruggono la #Costituzione!".

L'Isis stampa moneta! (Foto postata su Facebook da Paolo Bernini, onorevole M5s, 14 novembre 2014): "L'Isis stampa moneta senza il consenso di Usa e Fmi. Minare così tanto gli interessi Occidentali non è più tollerabile".

Mai stati sulla luna (Carlo Sibilia, onorevole 5 Stelle, su Twitter - 20 luglio 2014): "Oggi si festeggia l'anniversario dello sbarco sulla luna. Dopo 43 anni ancora nessuno se la sente di dire che era una farsa...". E ancora, ironico: "Scusate. Rettifico. Siamo andati sulla luna, Berlusconi è onesto, la riforma del senato è cosa buona e giusta e Repubblica è un giornale".

Stragi di Stato? Colpa del Bilderberg (Claudio Cominardi, onorevole M5s, in un intervento alla Camera - 31 maggio 2014): "Il mandante della bomba di Piazza della Loggia è lo Stato italiano. Una strage di Stato. C'era di tutto. I servizi segreti deviati, la politica, la Cia, e come dice Imposimato, anche il gruppo Bilderberg. Dietro alla strategia della tensione e alle stragi c'è anche il gruppo Bilderberg!".

Complotto gay (Monia Benini, oggi coordinatrice dell'area stampa M5s al Parlamento europeo. In passato ha manifestato contro "scie chimiche" e "dittatura europea", ma non solo - 30 giugno 2013): "Goldman Sachs e Jp Morgan finanziano i matrimoni gay. Ora capisco perché tutti i riflettori sono puntati sull'argomento". E ancora: "Per chi vuole ottenere una massiccia riduzione della popolazione, ovvero governi e banche potenti, anche le leggi sull'omosessualità hanno un peso enorme. A settembre pubblicherò tutto".

Denunziamo il Bilderberg! (Tiziana Ciprini, il Comitato Popolo Sovrano e alcuni parlamentari M5s - 17 luglio 2014): "La vita o si vive o si scrive, diceva Pirandello. Lunedì 14 luglio sono stata presso la Procura di Roma col Comitato Popolo Sovrano per presentare la denuncia a carico dei presunti cospiratori appartenenti al Gruppo Bilderberg, tra cui Monti, Draghi, Van Rompuy, Barroso & co, per la presunta violazione della Legge Anselmi sull'associazionismo. Portavo virtualmente con me i PortaVoce 5 Stelle Claudio Cominardi, Paolo Bernini, Carlo Sibilia, Alessio Villarosa, impegnati fisicamente in altri fronti di lotta".

Il Nuovo Ordine Mondiale vuole che ti metti il cognome di mammà (Tiziana Ciprini, deputata del Movimento 5 Stelle, sulla nuova norma che apre all'introduzione del cognome materno - 16 luglio 2014): "Nel caos più totale, nell'inconsapevolezza e nell'ignoranza di quasi tutta l'aula circa il testo che si stava votando (...) è andato in scena il tentativo di annacquare la cultura patriarcale, per sostituirla con un nuovo paradigma non meglio specificato. (...) La strategia comunitaria (...) mescola, confonde e porta avanti questioni legittime e questioni più discutibili, quali il promuovere il cambiamento dei ruoli maschili e femminili. (...) Si intravede un tentativo per indebolire il legame (già precario) del nascituro con la linea maschile e paterna. (...) Il cognome del padre spesso tramandava ai figli il mestiere dei padri, il saper fare, come preziosa eredità di appartenenza a un ruolo sociale. Ho il fondato sospetto che l’Ue stia sfruttando da anni la propaganda di genere non già per elevare la condizione della donna, ma per abbassare quella dell’uomo comune, per demolire la cultura patriarcale, oramai diventata scomoda e pericolosa per il sistema che si vuole implementare, funzionale al NWO (Nuovo Ordine Mondiale, ndr) ovviamente. Si vuole colpire il patrimonio androtecnico (...) facendo sì che intere generazioni di uomini crescano senza più riferimenti dell’universo maschile. E venne l’epoca dei bamboccioni e il modello dell’indifferenziato. Questo perché il vertice della piramide del potere è stretto e c’è posto solo per una ristretta élite maschile, quindi meglio depotenziare tutti gli altri, rendendoli subalterni".

Braciole e guerre in Africa (Alessandro Di Battista, onorevole M5s, su facebook - 1 luglio 2014): "Vegetarianismo, povertà e immigrazione. Non riesco ad essere vegetariano del tutto. Riesco a rinunciare alla carne per mesi ma poi, puntualmente, ci ricasco. (...) Avete mai pensato che molte guerre vengono combattute per il rifornimento idrico fondamentale per l'industria della carne? (...) Resto dell'idea che i cittadini africani (salvo rifugiati, studenti o lavoratori con contratto) devono stare a casa loro perché l'Africa è casa loro (…)".

Omicidi, anagrammi, esoterismo (Bartolomeo Pepe, il senatore da poco passato al gruppo Misto (ma eletto con il Movimento 5 Stelle) sulla propria pagina Facebook rilancia un delirante "teoria esoterica" di Paolo Franceschetti, "esperto di circoli e riti magici" - 14 giugno 2014): "Ci risiamo. Ennesimo omicidio, una strage in cui perdono la vita due bambini piccoli e una mamma. Se per valutare un omicidio occorre guardare gli indizi, cominciando dal nome della mamma (Cristina Omes, anagramma della vicenda Mose che si svolge a Venezia) per finire al nome del paese (Motta Visconti, come quel Visconti che fece Morte a Venezia) alla data, ecc. qui siamo sicuri che non si valuterà alcun indizio ma, prima o poi, incastreranno il padre oppure un pazzo isolato che magari confesserà; nonostante l'arma del delitto sia scomparsa, nonostante mancherà il movente, nonostante tutto. (...) Ora, dopo anni, capisco per quale motivo quando ho iniziato a capire questa storia degli omicidi rituali di matrice esoterica, molti esoteristi mi dicevano 'lascia perdere, è inutile... ti vai a cacciare in un guaio, quando la gente non è pronta a capire e al massimo ottieni di farti prendere per pazzo'..."

Mani nascoste (Tiziana Ciprini, deputata del Movimento 5 Stelle, spiega il perché di una certa gestualità durante un suo intervento alla Camera - 4 giugno 2014): "COMUNICAZIONE IMPORTANTE Il GESTO DELLA MANO NASCOSTA lo abbiamo fatto APPOSTA, in senso provocatorio, per denunciare e sbugiardare i poteri massonici e colpirli nei loro sistemi e SIMBOLOGIE. A dimostrazione dell'intento PROVOCATORIO c'è il mio post precedente dell'annuncio della mano nascosta!!".

Brogli europei (Dopo il tonfo elettorale delle Europee, Beppe Grillo si ritrova in stato confuzionale. Prima ringrazia gli elettori, poi ammette la sconfitta - "Casaleggio si trova in analisi, io mi prendo un Maalox" - poi trasforma il tracollo in vittoria ed infine abbraccia la teoria dei brogli elettorali. Sul blog pubblica i post di "Informare x Resistere", "La Rete non perdona" ed "E-iglesias". Ovviamente, di prove, nemmeno l'ombra - 2 giugno 2014): (...) Con l’ausilio dei moderni mass media, oggi il "divide et impera" viene realizzato in modo assai efficace e mirato, in numerose modalità, sia dirette che indirette. Tra quelle indirette vi è un metodo di cui poco si parla, ma che riflettendoci potrebbe essere tra le principali cause di divisione tra cittadini. Si tratta del broglio elettorale. (...) Con la chiusura degli spogli e la percentuale fantomatica del 41% al PD il sospetto di brogli è ragionevole. In una giornata come quella di ieri dove l’affluenza alle urne è stata circa del 60% e tenendo conto che gli elettori 5 Stelle per loro peculiarità vanno a votare, la perdita di 3 milioni di elettori è statisticamente molto improbabile. (...) Lo stesso entourage del PD ha ammesso l’inaspettato ed iperbolico risultato ottenuto, che mai si sarebbero immaginati. (...) La sinistra europea secondo gli ultimi risultati è stata quasi azzerata in queste elezioni. In controcorrente rispetto al quadro politico europeo ci sarebbe invece l’Italia, mosca bianca che secondo quanto risulta al voto darebbe un 41% al PD guidato da uno yes-man ai piedi della Merkel e dell’Europa. Francamente si deve compiere uno stupro alla logica per credere a questo. (...)

Bilderberg, colpi di stato, omicidio Kennedy (Salvo Mandarà, storico reporter grillino, al seguito dei deputati a 5 stelle in collegamento dal Bilderberg di Copenaghen - da La Zanzara, 1 giugno 2014): "Qui al Bilderberg vengono pianificati i colpi di stato, è dimostrato. Nel 2011 hanno pianificato il colpo di stato in Grecia e hanno pianificato il colpo di Stato in Italia. Al Bilderberg hanno persino pianificato l’assassinio di Kennedy. Bisognerebbe aprire un tribunale internazionale, oppure andare alla Corte dei Diritti dell’uomo e processare questi criminali... Draghi, Monti, Kissinger... processarli per crimini contro l’umanità... perché rendono i popoli schiavi, istigano la gente al suicidio. Il Bilderberg ha pianificato anche le stragi (come piazza della Loggia, ndr)... e se il Movimento avesse preso il 45-50% di voti in questo palazzo magari starebbero discutendo la prossima bombettta...".

Niente più tasse, semplice (Da una vecchia idea di Marco Valli, laureato in Economia Aziendale ed appena eletto al Parlamento Europeo tra le fila del Movimento 5 Stelle - 4 agosto 2011): "Come cancellare il debito pubblico e non pagare più tasse. Semplice... Ci hanno prestato carta senza alcuna riserva... Fondiamo una banca dello stato e cambiamo tutti gli EURO degli Italiani in LIRE nuove di proprietà dello stato Italiano... Gli euro che raccoglieremo saremo ben felici di restituirli alla banca d'Italia alla centrale europea e a quei figli di... del fondo monetario... sanando il nostro debito pubblico (...)".

Brogli uno (Luigi Di Maio, vicepresidente M5s della Camera, a Radio 24 - 28 maggio 2014): "Non credo nei brogli, ma sicuramente ci sono stati errori ai seggi. Ci sono una serie di presidenti che non conoscono nemmeno bene i regolamenti e quindi possono fare errori...".

Brogli due (Giulia Grillo, deputata M5s - 26 maggio 2014): "Questo il risultato, nella speranza che sia legale ovviamente visto che in questo paese di legale c'è ben poco".

Brogli tre (Mario Giarrusso, senatore M5s - 26 maggio 2014): "Secondo me si sono mossi apparati clientelari forti. Questa volta il voto di scambio è stato davvero fortissimo".

Complotto elettorale (Il giorno del voto europeo l'onorevole 5 Stelle Vega Colonnese pubblica su facebook questo messaggio. Poi lo farà sparire... - 25 maggio 2014): "Attenzione. Secondo dei sondaggi in mano al Viminale il Movimento 5 Stelle sarebbe parecchio avanti. L'ordine impartito ai presidenti di seggio è quello di ANNULLARE più schede possibile".

Occhio al pollicione! (Movimento 5 Stelle Pompei, su facebook - 25 maggio 2014): "A tutti i rappresentanti di Lista del M5S: Durante lo spoglio delle schede, prestate attenzione al pollice con matita incorporata...". (C'è pure una foto: "Contro i brogli elettorali domani Onaris svelerà il metodo che usano i mentalisti. Attenti al pollice")

Licio Renzi (Beppe Grillo, su twitter - 23 aprile 2014): "Il progetto di riforma del Senato di Renzie è una fotocopia di quello proposto dalla P2.

Ma le scie chimiche? (Paola Taverna, senatrice 5 Stelle, intervistata dall'Espresso - 19 aprile 2014): Anche lei vede complotti contro il vostro movimento, immagina sirene, sospetta chip sotto la pelle? "Va bene, ammetto che ci siano tra noi persone estremamente semplici nel comunicare che dovrebbero fare verifiche prima di parlare. Però chi può escludere che esistano le scie chimiche?".

Bin Laden è vivo e lotta insieme a noi (Paolo Bernini, deputato M5s, in un intervento alla Camera - 14 novembre 2013): "La giustificazione di Bush per invadere l'Afghanistan fu la guerra al terrorismo, con lo scopo di distruggere Al Qaeda e catturare ed uccidere Osama Bin Laden. Ma Al Qaeda continua a mietere vittime, e Bin Laden... beh... dovrebbe... essere morto due anni fa" (sorride e gesticola con le mani, come a dire, "figuriamoci se è morto", ndr).

Le sirene esistono! (Discovery Channel manda in onda un fanta-documentario che unisce "scienza e fiction" e che dovrebbe dimostrare "l'esistenza delle sirene". Puro fantasy. Ma l'onorevole grillina Tatiana Basilio prende tutto questo per vero, parla di "prove schiaccianti", e grida al complotto giudo-pluto-oceanico - 12 novembre 2013): "Prove schiaccianti! Sei scienziati che stavano facendo studi l'hanno vista, ma il NOOA nega tutto, gli sequestra il materiale d li caccia via!! Perché? Di cos'hanno paura? Perché non ammettere un fatto tanto evidente? Perché dire a scienziati che sono dei bugiardi? Perché fare un blitz a mo di Man in black e portare via tutti i documenti? Pensiamo di essere gli unici nell' universo, ma non siamo nemmeno unici sulla terraforse abbiamo paura di questo?"

La coca nella giacca (Alessandro Di Battista, onorevole M5S, su facebook - 28 settembre 2013): "Stanno ricominciando. Abbiamo tutti contro. Io prevedo attacchi sempre più mirati, magari a qualcuno di noi un po’ più in vista. Il sistema fa questo. Pezzi di stato deviati fanno questo. Ti mandano qualche ragazza consenziente che poi ti denuncia per stupro, ti nascondono una dose di cocaina nella giacca che hai lasciato incustodita in una birreria, tirano fuori una storia del tuo passato che nemmeno tu ricordi più. Questo succederà se continuiamo ad andare così bene, perché andiamo bene..."

11 Settembre? Sono stati gli Usa (Non poteva mancare la lettura di Paolo Bernini degli attentati dell'11 settembre 2001 - Da "Il Post"): Mercoledì 11 settembre 2013, in un suo intervento alla Camera, il deputato Paolo Bernini (M5S) ha citato alcune date importanti della storia degli Stati Uniti in chiave antiamericana e complottista. Ha nominato episodi conosciuti, come il colpo di stato contro Allende in Cile, insieme ad altri più fantasiosi, come quando ha parlato di una presunta corresponsabilità di Roosevelt nella mancata preparazione americana all’attacco di Pearl Harbor. A metà circa del suo intervento ha nominato gli attentati dell’11 settembre 2001: "Grazie presidente, colleghi e colleghi, il mio intervento vorrebbe porre l'attenzione su fatti che negli ultimi 100 anni hanno visti per protagonisti gli Stati Uniti d'America e cambiato la storia dell'umanità. Mi si accuserà di complottismo, ma i veri complottisti sono altri (...). La versione ufficiale dell'11 settembre è stata smentita da tutti i punti di vista, è palesemente falsa e ormai il mondo se n'è accorto. La verità probabilmente non la sapremo mai, ma sicuramente è molto diversa da quella che i media mainstream ci raccontano. In questo caso si può dire che tutto quello che sai è falso e detto all'americana: 'it was an inside job'. Tradotto: fu un lavoro interno".

Il cammino degli illuminati (Le elezioni amministrative 2013 rappresentano una grande delusione per il Movimento. E l'onorevole M5s Tatiana Basilio se la prende con l'umanità - 29 maggio 2013): "Non esiste sconfitta o vittoria, non stiamo giocando una partita a calcio, ma semplicemente sto guardando involuzione dell'umanità. Dicono che finché c'è vita c'è speranza ed io continuerò a combattere poiché l' umanità prosegua nel cammino degli illuminati...".

Tutta colpa del Signoraggio (Carlo Sibilia, in un intervento alla Camera - 22 maggio 2013): "Ebbene, signor Letta, mi spiega oggi qual è il nesso tra banche e stati? Se la Banca centrale europea è di fatto di proprietà delle banche centrali nazionali – e diremmo benissimo!, se le banche centrali nazionali fossero di proprietà dei cittadini, dello stato. (...) E se la moneta è dei cittadini, degli stati, allora perché ce la prestano? Caro Letta, ha mai sentito parlare di Signoraggio Bancario? Ne avete mai parlato alle riunioni del Club Bilderberg?".

Ricordate di umettare la matita! (Matteo Dall'Osso, i consigli per il voto dell'onorevole 5 Stelle, su facebook - 24 febbraio 2013): "PRIMA DEL VOTO BAGNATEVI LA MANO CON LA SALIVA, UMETTATE LA MATITA E POI VOTATE. Solo così il vostro voto sarà indelebile". "HO AVUTO CONFERMA: la matita copiativa in dotazione alle urne elettorali è COPLETAMENTE cancellabile (provato su carta semplice) a meno che non sia umettata, si sbiadisce leggermente, ma rimane. Ora mi chiedo: sulla carta elettorale si comporterà allo stesso modo??? M5S e... Vinciamo noooi!".

Anzi, la matita ciucciatela proprio (Da Marco Piazza, consigliere comunale del Movimento 5 Stelle, altre "dritte" per il voto sicuro, su facebook - 24 febbraio 2013): "Importante per elettori e rappresentanti di lista!!!! Per avere la certezza assoluta che la matita sia davvero copiativa e il segno effettivamente indelebile, alcuni votanti ciucciano la matita".

Dittature orwelliane (Gianroberto Casaleggio, in uno dei "video-simbolo" del Movimento): "Nel 2018 il mondo sarà diviso in due blocchi: a ovest con Internet e a Est con una dittatura orwelliana. Nel 2020 ci sarà la Terza Guerra Mondiale (durerà vent’anni). Nel 2040 trionferà la rete democratica (Internet) (...) Nel 2050 un brain trust collettivo risolverà ogni problema mentre nel 2054 ci saranno le prime elezioni mondiali in Rete. Spariranno religioni, partiti e governi nazionali".

Vegano e disiscritto dalla Chiesa Cattolica (Il candidato del Movimento 5 Stelle Paolo Bernini (poi diventerà onorevole) si presenta agli elettori - marzo 2013): "Buongiorno, mi chiamo Paolo, sono vegano, faccio karatè, e sono disiscritto dalla Chiesa Cattolica. Ho scoperto la politica con il documentario Zeitgeist... mi ha fatto vedere il mondo in maniera completamente diversa. Non so se lo sapete, ma in America hanno già cominciato a mettere i microchip all'interno del corpo umano". Il fascismo ha fatto cose buone (Roberta Lombardi, da candidata 5 Stelle, sul proprio blog - 21 gennaio 2014) "Il fascismo, prima che degenerasse, aveva una dimensione nazionale di comunità attinta a piene mani dal socialismo, un altissimo senso dello stato e la tutela della famiglia".

Il complotto della Ruota della Fortuna (Bartolomeo Pepe, pochi mesi prima di entrare in Parlamento con il Movimento 5 Stelle, su facebook - 28 settembre 2012): "Ecco giovincello rampante Renzi, che vinse 48 milioni di lire alla Ruota della Fortuna alla sola età di 19 anni, ma ditemi quante probabilità ci sono che uno superi le selezioni per partecipare e diventi campione per diverse settimane, ad una trasmissione di una rete televisiva di un suo prossimo avversario politico? Sveglia Gente vi stanno pigliando per il culo!!! Almeno siatene consapevoli...".

Satana e terrapiattisti, tempi duri per gli impresentabili del governo gialloverde (che adesso vuole sembrare rispettabile). Uno sostiene che il cambiamento climatico è colpa di Satana. L'altro che lo sbarco sulla luna è “controverso”. Tra i gialloverdi abbondano personaggi pittoreschi, che sono serviti a ottenere consenso, e ora vanno in qualche modo arginati. Il Foglio 10 dicembre 2018. Ecco, sentita altrove – in una chiesa, in un convegno teologico, a una presentazione libraria – l'analisi di Cristiano Ceresani che collega il riscaldamento globale alle tentazioni di Satana e alla predicazione apostolica sulla Parusia, la fine dei tempi e il ritorno di Gesù sulla Terra, avrebbe fatto meno effetto. Detta sulla prima rete Rai, durante Uno Mattina, all'ora della coalizione, la frase provoca qualche sobbalzo. Perché Ceresani non è uno qualunque, ma il capo di gabinetto del ministero della Famiglia (quota Lega), e insomma: questa suggestione da Nome della Rosa mette un po' inquietudine, ci si aspetta che salti qualcuno fuori a gridare “Penitenziagite” ai due giovani conduttori e al loro pubblico che ascoltano sbalorditi. Non è il solo caso. Abbiamo già visto un sottosegretario agli Interni - Carlo Sibilia – convinto che lo sbarco sulla Luna sia un accadimento «controverso», insomma, è possibile che non ci sia mai stato. E ovviamente quelli della ricerca sulle scie chimiche bloccata dal misterioso Nooa (on. Tatiana Basilio) e degli Usa che iniettano microchip sottocutanei all'intera popolazione (on. Paolo Bernini). Folkore, si dirà. E tuttavia la nuova fase governista della Lega e del M5S mal si concilia con i bizzarri estremismi che entrambi si tirano dietro dai tempi dell'opposizione, quando tutto faceva brodo per aumentare il consenso. Dai proibizionisti dei vaccini alle frange più estreme del fondamentalismo cattolico, dai gruppi ultras dei padri separati che vorrebbero dividere con la spada i figli come all'epoca di Re Salomone ai sostenitori del matrimonio tra specie diverse (sì, ci sono pure quelli), il peso risulta piuttosto gravoso. E tuttavia proprio nell'esistenza di queste frange pittoresche si conferma il ruolo che il nuovo blocco di potere intende assumere: qualcosa di simile alla vecchia Dc, che immobile al centro della scena poteva permettersi di strizzare l'occhio al tempo stesso ai Lefebvriani e alla teologia della liberazione. La nuova fase governista della Lega e del M5S mal si concilia con i bizzarri estremismi che entrambi si tirano dietro dai tempi dell'opposizione, quando tutto faceva brodo per aumentare il consenso. Complottisti, animalisti, fanatici delle armi, cattolici pre-conciliari, antiabortisti, gente che sogna di abolire il divorzio, nostalgici delle case chiuse e teorici del cancro curato con acqua e limone, orfani del Metodo Stamina, ex-sostenitori del Metodo Di Bella, sandinisti di ritorno, simpatizzanti di Pinochet che postano a manetta contro l'ultimo docufilm di Nanni Moretti sul Cile, si considerano i nuovi corpi intermedi in ascesa. Quelli che hanno portato voti al governo del cambiamento e adesso aspettano un gesto di riconoscimento. Attenderanno invano: le leadership di M5S e Lega saranno talvolta squinternate ma non sono matte. Sanno benissimo che accontentare uno qualsiasi di questi soggetti provocherebbe una crisi di rigetto nel Paese, che magari è politicamente confuso ma resta affezionato a certi diritti della laicità e della democrazia che si è conquistato nel tempo, oltrechè alle indubitabili conquiste della scienza e del sistema sanitario. In casa Cinque Stelle la vicenda più emblematica è quella della Tav: un progetto che i grillini stentano a cancellare nonostante gli impegni presi con i movimenti no-tunnel e la loro mobilitazione a Torino. Dalle parti della Lega si deve guardare alla riforma del diritto di famiglia, il famoso ddl Pillon, seppellito nei recessi di Montecitorio subito dopo il debutto. I movimenti dei padri separati che lo sostengono erano la presenza più visibile al comizio di Matteo Salvini a Roma e hanno atteso inutilmente un cenno di incoraggiamento, una parola buona. Il ministro della famiglia Lorenzo Fontana se ne è ben guardato. Il Capitano pure. Gli slogan sull'affido paritario ripetutamente scanditi nei momenti di pausa sono volati via col vento. Le leadership di M5S e Lega saranno talvolta squinternate ma non sono matte. Sanno benissimo che accontentare uno qualsiasi di questi soggetti provocherebbe una crisi di rigetto nel Paese. Il fatto è che quando vuoi essere Balena Bianca va benissimo – anzi fa scena – il dirigente che cita l'Apocalisse, i simpatizzanti che riempiono le piazze contro un'opera odiata, il pulviscolo associativo titolare di improbabili cause che ogni tanto conquista il palcoscenico. Il trucco è tenerli insieme concedendo il minimo sindacale, promettendo che “presto arriverà il momento”, senza mai dirgli quel che è chiarissimo a chiunque fa politica: questa era roba buona ai tempi dell'opposizione, ora che si governa suona un'altra musica.

·         Teoria del complotto sulle scie chimiche.

Teoria del complotto sulle scie chimiche. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Cielo solcato da scie di condensazione interpretate come "scie chimiche" dai sostenitori di questa teoria del complotto. La teoria del complotto sulle scie chimiche (in inglese chemtrails conspiracy theory) sostiene che le scie di condensazione visibili nell'atmosfera terrestre create dagli aerei non siano formate da vapore acqueo ma composte da agenti chimici o biologici, spruzzati in volo per mezzo di ipotetiche apparecchiature montate sui velivoli, per varie finalità. Il diffondersi di questa teoria nel mondo attraverso i mass media, in particolare Internet, ha fatto sì che enti governativi si siano trovati a ricevere, da parte di varie persone, richieste di spiegazioni in merito a questo presunto fenomeno. Gli stessi enti governativi e la comunità scientifica hanno ripetutamente dimostrato l'assoluta inconsistenza e incoerenza scientifica di tali asserzioni; analoghe risposte sono state date dai diversi governi italiani alle relative interrogazioni parlamentari, oltre che da numerosi piloti ed esperti di meteorologia. Anche riviste e programmi di divulgazione scientifica hanno definito la teoria una "bufala". La credenza, tuttavia, gode di un notevole credito: una ricerca su scala internazionale eseguita nel 2011 ha quantificato nel 17% del campione la parte di popolazione che si dichiarava convinta dell'esistenza di programmi segreti di irrorazione su larga scala per scopi di ingegneria climatica e di gestione e riduzione della radiazione solare (Solar radiation management). Le affermazioni sull'irrorazione per motivi di controllo climatico è stata sottoposta, nel 2016, a una procedura di revisione paritaria il cui risultato è stato l'inesistenza di prove a sostegno di tali "teorie". L'asserito fenomeno di rilascio di "scie chimiche" non deve essere confuso con la tecnica detta cloud seeding (inseminazione delle nubi), che consiste nello spargere nuclei di condensazione nelle nubi per stimolare le precipitazioni piovose, tecnica che però ha sempre fornito scarsi effetti e che oggi nel mondo viene quindi poco utilizzata.

Storia. La teoria del complotto delle scie chimiche cominciò a diffondersi nel 1996, quando l'aeronautica militare statunitense fu accusata di "irrorare" la popolazione con ipotetiche sostanze misteriose per mezzo di aerei che rilasciavano scie inusuali. L'Air Force rispose che questa accusa era una palese sciocchezza, alimentata in parte dalle decontestualizzate citazioni di un testo redatto nell'istituto universitario dell'Air Force intitolato Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025. Quel documento fu presentato in risposta alla richiesta dei militari di delineare future strategie di modifica del sistema climatico al fine di mantenere il predominio statunitense nell'anno 2025, come fittizia rappresentazione di situazioni e scenari futuri. In seguito l'Air Force chiarì che tale documento non rifletteva le contemporanee politiche e pratiche militari e che non era in corso alcun esperimento di modifica del clima, né era presente nei programmi futuri dell'Air Force. Altre fonti confermano l'inizio del diffondersi della teoria dalla seconda metà degli anni novanta. In questo periodo, la teoria del complotto delle scie chimiche trovò eco mediatica su alcuni programmi televisivi, radiofonici e su pubblicazioni riguardanti il cospirazionismo, arrivando perfino a essere citata in interrogazioni parlamentari in diversi paesi. I sostenitori di queste teorie, in genere, affermarono che le ipotetiche scie chimiche apparirebbero diverse dalle normali scie di condensazione, delle quali non avrebbero la consistenza e le proprietà note. In particolare, secondo i cospirazionisti, esse tenderebbero a persistere più a lungo, allargandosi pian piano invece di scomparire. Per esempio, secondo Jeff Rense, che con Art Bell conduce un programma radiofonico sui misteri, «…le scie chimiche inizialmente sembrano normali scie, ma sono più spesse e si estendono per il cielo in forma di X, griglia o in linee parallele. Invece di dissiparsi rapidamente, si allargano e si diramano. In meno di 30 minuti si aprono in formazioni che si uniscono tra loro formando un sottile velo di finte nuvole simili a cirri che rimangono per ore». In un articolo dal titolo The Chemtrail smoking gun, di Bruce Conway, si suggerisce che le presunte scie chimiche sarebbero l'ipotetica implementazione di una strategia suggerita nel 1992 dalla National Academy of Science, nello studio Policy Implications of Greenhouse Warming; in particolare, riguarderebbero un ipotetico progetto segreto per mitigare il riscaldamento globale.

Argomentazioni. Secondo la teoria, l'operazione farebbe parte di un complotto globale portato avanti da autori ignoti e per motivi sconosciuti; a tal riguardo sono state avanzate ipotesi diverse, la più comune delle quali è quella secondo cui si tratterebbe di una delle tecniche usate per l'alterazione e il controllo del clima terrestre. In genere, i teorici del complotto ritengono che le "scie chimiche" siano formate da sostanze chimiche (anche di tipo biologico), rilasciate su aree popolate per qualche motivo invariabilmente complottistico, non meglio dimostrato. La motivazione ipotizzata più di frequente è il tentativo di operare modificazioni climatiche. Altre motivazioni ipotizzate dai complottisti chiamano variamente e disordinatamente in causa una pletora di altre ipotesi eterogenee e non meglio definite, come presunti esperimenti governativi o militari, attacchi terroristici, operazioni di società private, tentativi di condizionamento psicologico tramite agenti psicoattivi, o addirittura il tentativo di frenare l'esplosione demografica mondiale, eliminando quattro miliardi di persone. Secondo i teorici del complotto le scie di condensazione si formerebbero solo a temperature inferiori a −40 °C a 8 000 m di quota e con umidità relativa del 70%. Questa affermazione si basa sul modello teorico elaborato nel 1953 da H. Appleman. Sempre secondo le teorie dei complottisti, lo Space Preservation Act sarebbe un'implicita ammissione dell'esistenza del fenomeno; l'HAARP sarebbe uno strumento di attuazione del piano; a essere "irrorato" sarebbe un presunto miscuglio di bario, alluminio, silicio e altre sostanze, il cui scopo sarebbe quello di creare una sorta di sandwich elettroconduttivo non meglio precisato, anche con presunte finalità di "controllo mentale" di cui comunque non chiariscono i presunti scopi, obiettivi e modalità o fondamento scientifico. Secondo i sostenitori della teoria delle "scie chimiche", i servizi segreti starebbero tentando di screditare il lavoro degli auto-proclamatisi "ricercatori indipendenti", con presunte minacce e azioni di sabotaggio. A capo della presunta organizzazione responsabile delle "scie chimiche", secondo alcuni teorici del complotto, ci sarebbero lo SMOM e il Vaticano, in collaborazione con un ipotetico ed eterogeneo insieme di enti che spazierebbero dalla CIA, alla NASA, a Google, alle compagnie aeree e altro ancora. Tale teoria del complotto non ha mai trovato alcun credito nell'ambito della comunità scientifica, in quanto priva di riscontri empirici, di coerenza esplicativa o di prove scientifiche. Quei fenomeni fisici che i sostenitori della teoria identificano come scie chimiche, non hanno alcuna caratteristica che le renda incompatibili con le normali scie di condensazione (inglese: contrails) dei gas di scarico degli aeromobili che, in base alle condizioni atmosferiche e all'intensità del traffico aereo, possono assumere aspetti eterogenei e inconsueti. I sostenitori delle teorie complottistiche non hanno mai condotto alcuna analisi fisico-chimica sulle scie nel momento dell'emissione in volo; uno di tali sostenitori, lo statunitense Clifford Carnicom, afferma di aver analizzato campioni di aria raccolti al livello del suolo in seguito a operazioni di rilascio di scie chimiche. Ha affermato di aver trovato alluminio e bario in queste polveri, che sarebbero state ottenute tramite precipitazione elettrostatica. Queste sue asserzioni non hanno però mai avuto alcun riscontro o possibilità di verifica indipendente, in quanto Carnicom non ha mai voluto mettere a disposizione di istituzioni terze i suoi presunti campioni, né ha mai esposto i metodi con i quali avrebbe svolto le analisi. Da sottolineare inoltre che, parlando di elementi chimici, quelli da lui citati sono praticamente ubiqui sulla Terra: l'alluminio è il terzo costituente per quantità della crosta terrestre (dopo ossigeno e silicio) e il bario è al quattordicesimo posto (su 92 elementi naturali).

Il rapporto con le scie di condensazione. Le scie che i sostenitori della teoria aggettivano come "chimiche", sono invece normali scie di condensazione, ovvero strisce nuvolose inizialmente sottili e che, successivamente, si allargano creando ampie formazioni. Sono generate dal passaggio di aeromobili e sono costituite da prodotti di condensazione e successiva solidificazione del vapore acqueo. Vengono suddivise in:

scie formate dai gas di scarico: sono dovute al rapido raffreddamento dei gas di scappamento dei motori, i quali immettono nell'atmosfera, già molto umida, una quantità di vapore acqueo e nuclei di condensazione sufficienti a provocare il fenomeno. La temperatura dell'aria più favorevole è quella compresa fra i −25 e i −40 °C. Questo tipo di scie, che sono le più persistenti, possono formarsi anche a umidità relative pari allo 0%, a patto che la temperatura sia sufficientemente bassa.

scie di convezione: sono dovute a moti convettivi che si manifestano sulla scia dell'aeromobile quando questo vola in aria molto umida e instabile. La temperatura dell'aria più favorevole è quella compresa fra 0 °C e −25 °C. Non si manifestano immediatamente dietro l'aereo, occorrendo un certo intervallo di tempo prima che l'aria calda immessa nell'atmosfera si porti al livello di condensazione.

scie di origine aerodinamica: le meno persistenti, sono dovute all'espansione dell'aria, provocata dal veloce moto di un aereo, quando vola in atmosfera molto umida. La temperatura dell'aria più favorevole è compresa tra 0 °C e 10 °C.

I sostenitori della teoria delle scie chimiche citano come prova della differenza fra scie "chimiche" e scie di condensazione quanto riportato dalla NASA: «…le scie di condensazione si formano solitamente ad alta quota (generalmente al di sopra degli 8 000 m), dove l'aria è estremamente fredda (generalmente al di sotto di −40 °C). Altri [tipi di] nuvole si possono formare ad altitudini molto varie, dalla prossimità del suolo, come la nebbia, a quote estremamente elevate, quali quelle dei cirri».

Secondo i teorici del complotto, queste sarebbero le "uniche" condizioni in cui le scie di condensa si potrebbero formare. Tuttavia quella della NASA è una descrizione divulgativa che vuole dare una sintesi relativa del fenomeno e l'affermazione specifica chiaramente che le scie di condensazione si formano "solitamente" (usually in originale) alle condizioni indicate e non esclusivamente. Inoltre, nello stesso documento, è specificato che le scie di condensazione «…possono anche formarsi più vicine al suolo quando l'aria è molto fredda e ha umidità sufficiente», affermazione che però sembra essere stata completamente ignorata dai sostenitori del complotto. Già negli anni cinquanta H. Appleman mostrò come la formazione di scie di condensazione dipendesse da diversi fattori e che esse potevano formarsi anche a umidità relative molto basse, umidità relativa che incide anche sulla persistenza di tali scie.

Analisi e risposte di scienza e istituzioni. Le scie di condensazione hanno una persistenza anche di ore. Tuttavia, i sostenitori della teoria affermano che le ipotetiche scie chimiche si differenzierebbero dalle scie di condensazione perché sarebbero più persistenti e arriverebbero a formare griglie, incroci o a porsi in parallelo tra loro, o ancora a non avere continuità (ad esempio una scia che si interrompe in un dato punto e che riprende in punto più avanzato); le scie, sempre a loro dire, sarebbero rilasciate da aeroplani militari o privi di segni distintivi ad altitudini basse e inusuali. In maniera pressoché unanime, tutte le agenzie governative, gli scienziati, gli esperti meteorologi, i ricercatori scettici, tra cui il Committee for the Scientific Investigation of Claims of the Paranormal statunitense, i piloti di aereo, spiegano invece che le scie di condensazione mostrano una gran varietà di aspetti e persistenza, e che le descrizioni e le fotografie delle supposte chemtrail sono in realtà del tutto in linea con quelle delle normali scie di condensazione e spesso corrispondono anche a rotte aeree ben note. Le scie di condensazione hanno infatti un diverso comportamento a seconda della temperatura, del wind shear orizzontale e verticale, dell'umidità presente in quota. Nessun sostenitore della teoria delle scie chimiche ha mai fornito delle analisi delle scie prese direttamente in aria; al contrario, fin dagli anni venti, vengono regolarmente effettuati studi sulle scie di condensazione. Quindi, la loro esistenza e normale spiegazione sono ampiamente comprovate da decenni. Diverse altre obiezioni vengono mosse alle numerose contraddizioni della teoria complottista delle presunte chemtrails: Il comportamento delle presunte "scie chimiche", descritto dai complottisti come "bizzarro" o "inusuale" è in realtà sempre perfettamente coerente con il possibile comportamento di una scia di condensazione. Non è possibile che un aereo contenga al suo interno così tanto materiale chimico da generare una scia lunga centinaia di chilometri. La visione del cielo da parte di un osservatore a terra risente del fatto che a grande distanza e senza punti di riferimento l'immagine tridimensionale appaia in realtà sostanzialmente bidimensionale. Di conseguenza due scie che appaiono "affiancate" o "incrociate" possono essere in realtà distanti diverse centinaia di metri in verticale. Analogamente due aeromobili che appaiono vicini possono trovarsi molto distanti, quindi produrre scie differenti. In questa situazione del resto non è in alcun modo possibile stabilire l'esatta verticale di un aereo in base alla semplice osservazione. In aggiunta a questo, la semitrasparenza di scie e nuvole rende in molti casi praticamente impossibile dire se l'una è al di sopra dell'altra o viceversa. Sarebbe necessaria una gigantesca operazione di copertura su scala internazionale, che coinvolgerebbe un numero incredibilmente alto di persone impiegate in diversi settori professionali: piloti, controllori di volo, governanti, militari, meteorologi, scienziati, ecc. Un'operazione del genere è pressoché impossibile da gestire, perché vi sarebbe un'enorme quantità di dati da falsificare, per di più in modo che questi risultino perfettamente compatibili e concordi tra di loro. Inoltre, aumentando il numero di persone a conoscenza di un'operazione segreta, aumenta anche il rischio che tale operazione possa essere scoperta. Ognuna di queste persone, infatti, potrebbe potenzialmente rivelare la natura di tale operazione (accidentalmente o volutamente) facendola quindi fallire. La necessità di mantenere segreto il presunto complotto è incompatibile col fatto che gli aerei operino in pieno giorno, lasciando in cielo delle scie visibili da tutti. I sostenitori della teoria, in risposta, affermano che agire alla luce del sole servirebbe proprio a far sì che la gente possa ritenere questa attività naturale e innocua. Come per molte altre teorie di complotto, i sostenitori citano dati tecnici, fotografie o video che mostrerebbero segni di falsificazione, incongruenze o stranezze. Tuttavia, se queste incongruenze fossero reali, sarebbero risultate immediatamente visibili agli occhi degli esperti dei vari settori coinvolti (piloti, meteorologi, scienziati vari, ecc.), soprattutto quando le persone sostenitrici di tali teorie affermano di averle scoperte attraverso la visione di video su YouTube o semplici osservazioni empiriche. Tutti gli aerei sono regolarmente sottoposti a ispezioni tecniche, che farebbero scoprire i presunti "apparati" per il rilascio delle scie. Ci sono state del resto costanti e numerose smentite governative in merito. Il rilascio di sostanze alle quote superiori ai 10 000 metri usate dagli aerei ha un comportamento non prevedibile, a causa della dispersione generata dai forti venti in alta quota. Inoltre, molte sostanze organiche e anche alcune sostanze chimiche verrebbero distrutte dalla temperatura dei gas combusti dell'aereo prima di distaccarsi dalle linee di flusso aerodinamico. I sostenitori della teoria affermano, tramite loro misure telemetriche amatoriali, che la quota di volo di queste operazioni sarebbe a loro dire molto al di sotto del limite minimo di formazione di contrail; ma nessuna di queste misurazioni personali è mai stata verificata in maniera indipendente, o sottoposta ad enti di certificazione. I sostenitori della teoria hanno più volte presentato delle analisi che mostrerebbero come, su alcuni terreni sorvolati dagli aerei chimici, a loro dire sarebbero presenti delle sostanze velenose. Tuttavia non esiste la prova che tali sostanze provengano necessariamente dagli aerei anziché altre fonti esterne. Inoltre, sostanze diffuse a diversi chilometri d'altezza, anziché ricadere esattamente a strapiombo, sono soggette alle turbolenze dell'aria: pertanto il luogo della loro ricaduta non può essere previsto né tantomeno ricostruito a posteriori. Come per molte altre teorie di complotto, nonostante vengano ipotizzate e citate presunte organizzazioni senza scrupoli (che a dire dei complottisti sarebbero in grado di avvelenare o uccidere la popolazione a proprio piacimento), queste sembrano disinteressarsi completamente dei vari siti internet che ne farebbero i nomi, lasciando loro piena possibilità di rivelare al mondo il complotto. Nonostante i sostenitori affermino che le presunte "scie chimiche" sarebbero diffuse in maniera regolare da molti anni, ancora non si sarebbero visti i risultati di questa ipotetica contaminazione (in particolare per chi sostiene che le "scie chimiche" servano alla diffusione di un'epidemia del cosiddetto "morbo di Morgellons" - a sua volta considerato essere in realtà una patologia psichiatrica dalla comunità scientifica). Secondo la termodinamica e l'aerodinamica, i diversi comportamenti delle scie di condensazione sono dovuti alle diverse condizioni meteorologiche (temperatura, pressione, umidità relativa e venti) riscontrabili a quote differenti, nonché al diverso tipo di motori usati dagli aerei: in una zona più fredda i gas condensano rapidamente e formano scie compatte, in una meno fredda (o con gas più caldi) il tempo di condensa è maggiore e le scie sono più larghe; anche le scie compatte, a causa del moto browniano, tendono ad espandersi al passare del tempo, anche in assenza di vento (e in quota sono sempre presenti venti e correnti). A seconda dei venti in quota (le condizioni in quota non rispecchiano quelle al livello del suolo), le scie possono allargarsi più velocemente o formare curve e ramificazioni (venti di direzione incostante). Dato che l'atmosfera è un fluido non omogeneo, si possono avere zone in cui sono presenti condizioni atte alla formazione di scie di condensazione adiacenti a zone in cui tali condizioni non sono presenti, con conseguente formazione di scie "a tratti". I reattori turbofan a doppio flusso creano scie di condensazione anche in condizioni in cui i vecchi turbofan a singolo flusso non le formano. I sostenitori della teoria affermano che a loro dire tale differenza di comportamento sarebbe dovuta alla presunta differenza di composizione delle supposte scie chimiche rispetto alle normale contrails, ma senza mai aver prodotto alcuna evidenza oggettiva a conferma di tale loro asserzione. È stato osservato che la nuvolosità provocata dalle normali scie di condensazione può avere effetti sul meteo e provocare perturbazioni, come per esempio nel caso dei bombardieri americani durante la seconda guerra mondiale.

Analisi storico-scientifiche. Nel corso dello sviluppo della teoria del complotto, oltre alle inesattezze scientifiche, la teoria delle scie chimiche è stata sostenuta anche da affermazioni completamente false su pubblicazioni e ricerche, in particolare riguardo alla storia della meteorologia e dell'aviazione, allo scopo di affermare che le scie di condensazione erano inesistenti prima degli anni novanta e che tutte le descrizioni scientifiche delle scie sono opera del complotto. «Non esisterebbero foto di scie di condensazione precedenti al 1995. Il che dimostrerebbe che all'epoca le scie non erano comuni.» Tuttavia le prime foto di scie di condensazione risalgono agli anni venti e trenta. «Non esisterebbero immagini satellitari delle scie di condensazione precedenti al 1995.» Anche questa affermazione è falsa, perché esistono numerose foto satellitari delle scie di condensazione anteriori a quella data, compreso uno studio meteorologico dell'American Meteorological Society, che si riferisce a foto satellitari delle scie di condensazione degli anni dal 1977 al 1979. «Le vecchie foto delle scie di condensazione sarebbero dei falsi in quanto gli aerei dell'epoca non erano pressurizzati e quindi non potevano raggiungere le alte quote.» In realtà già durante la seconda guerra mondiale gli aerei raggiungevano anche 10000-11000 metri. In alta quota i piloti utilizzavano bombole d'ossigeno e indumenti riscaldati elettricamente. Già nel 1936 era stato raggiunto da Mario Pezzi il record di altitudine dei 15635 metri e il pilota descrisse chiaramente una scia di condensazione che inizialmente credeva causata da un guasto al motore. «In passato le scie di condensazione non sarebbero state né persistenti né tendenti ad espandersi.» Il primo studio sulle scie di condensazione afferma invece che queste possono essere persistenti o non persistenti a seconda delle condizioni atmosferiche, mentre studi degli anni '70 descrivono la tendenza delle scie ad espandersi notevolmente oltre le dimensioni iniziali. Serbatoi installati su un prototipo di Boeing 747. Secondo i teorici delle chemtrails, è una prova dell'esistenza degli aerei responsabili delle scie chimiche. La presenza e il comportamento delle scie di condensazione erano quindi stati dimostrati già da tempo, prima dell'inizio del presunto complotto. L'aumento delle scie di condensazione è del resto direttamente proporzionale all'aumento del traffico aereo. A titolo di esempio, il traffico aereo civile nel ventennio 1986-2006 ha registrato un aumento del numero di voli superiore al 200%.

False prove. Diverse fotografie, che mostrano serbatoi installati all'interno della carlinga di un aeromobile civile, vengono portate come prova a sostegno dell'esistenza dei sistemi di dispersione aerea degli aerosol chimici. Si tratta, in realtà, di installazioni idrauliche atte a simulare il peso dei passeggeri, o di un carico pesante, allo scopo di testare la stabilità di un aereo mentre è in volo: i serbatoi sono riempiti di acqua, la quale viene pompata da un contenitore all'altro in modo da spostare il centro di gravità del velivolo. Un servizio televisivo andato in onda in Louisiana viene spesso portato all'attenzione dai teorici delle scie chimiche: viene mostrata un'analisi chimica dell'aria, nella quale i livelli di bario sarebbero pari a un livello, molto pericoloso, di 6,8 parti per milione, tre volte superiore al limite di legge statunitense. A una seconda analisi scientifica del servizio, è emerso che le attrezzature usate per la misurazione dell'aria furono male utilizzate e il livello di bario non eccedeva affatto i limiti di legge, ma era anzi di molto inferiore. In un altro servizio della BBC del marzo 2014, relativo alle ricerche del volo Malaysia Airlines 370, una particolare inquadratura mostra un getto bianco uscire da un ugello posto sull'ala dell'aereo dedito alle ricerche, un Lockheed P-3 Orion dell'aviazione australiana. Tale "spruzzo" è stato indicato, da diverse pagine, come la prova del rilascio delle scie chimiche; in realtà, il getto inquadrato è una operazione di fuel dumping, necessario in quanto l'aereo delle ricerche ritornò in aeroporto anzitempo e dovette alleggerirsi del carburante in eccesso prima di effettuare l'atterraggio.

Dibattito politico.

Stati Uniti. Negli Stati Uniti d’America, il rappresentante del Congresso Dennis Kucinich fece riferimento alle "scie chimiche" nello Space Preservation Act del 2001, una proposta di legge per bandire ipotetici "sistemi d'arma esotici". I teorici del complotto presentano tale proposta di legge come un riconoscimento ufficiale dell'esistenza delle "scie chimiche" come arma, almeno in potenza. L'uso del termine "scie chimiche" è però affiancato a una serie di altre armi inesistenti o dai nomi improbabili (come "armi ultrasoniche", "armi extraterrestri"), in un paragrafo che è stato rimosso nella versione successiva dello Space Preservation Act del 2003. In entrambi i casi la legge non fu approvata. La Forza Aerea statunitense ha pubblicato un articolo che dichiara esplicitamente che le scie chimiche sono “una bufala che è stata investigata e confutata da numerose università, organizzazioni scientifiche e pubblicazioni nei principali media”.

Canada. La Camera dei Comuni canadese, a una petizione sulle "scie chimiche" ha risposto che «…il termine scie chimiche è un'espressione popolare e non esistono prove scientifiche che ne dimostrino l'esistenza».

Regno Unito. Il Dipartimento britannico per l'Ambiente, il Cibo e gli Affari Rurali affermò che le "scie chimiche" «non sono un fenomeno riconosciuto scientificamente».

Germania. In Germania, l'Agenzia Federale dell'Ambiente ha avviato un'indagine sulle "scie chimiche" a seguito di «…numerose richieste di informazione in merito da parte dei cittadini». Dopo aver interpellato l'Istituto di Fisica dell'Atmosfera, il Servizio Meteorologico tedesco e l'Ente Aerospaziale tedesco, l'Agenzia dell'Ambiente ha pubblicato uno studio in cui si dichiara che le informazioni reperibili in internet sulle "scie chimiche" «…provengono da fonti non molto credibili, vista l'assenza di prove convincenti» e che le cosiddette "scie chimiche" sono in realtà «…normali scie di condensazione o nuvole».

Italia. In Italia, l'argomento è stato oggetto di 14 interrogazioni parlamentari in un arco del tempo dal 2003 al 2011 di cui tre presentate dal deputato del Partito Democratico Sandro Brandolini. Le diverse interrogazioni hanno ricevuto come risposta solo smentite da parte degli organi di governo interpellati. In particolare, nella risposta del 5 settembre 2008 del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare si legge che «Dall'esame della letteratura scientifica internazionale e del contenuto dei siti web specialistici non è possibile confermare l'esistenza delle scie chimiche. I siti specialistici degli osservatori delle scie chimiche, in particolare, risultano carenti dal punto di vista scientifico» e che «…l'interpretazione più plausibile del fenomeno è che i presunti episodi di scie chimiche siano in realtà comuni scie di condensazione che sono durate più a lungo e hanno assunto forma peculiare per effetto delle condizioni meteorologiche».

Parlamento europeo. La questione è stata oggetto di un'interrogazione presentata al Parlamento Europeo da parte del deputato olandese Erik Meijer. Nella risposta ricevuta, viene nuovamente ribadita l'inesistenza del fenomeno.

Episodi simili. Le presunte scie chimiche non vanno confuse con le usuali tecniche di irrorazione o di scarico di sostanze per mezzo di aerei, come l'uso di diserbanti, la lotta agli incendi o la stimolazione di precipitazioni.

Fertilizzanti e fitofarmaci sono, a volte e in alcuni Paesi, irrorati sui campi con aerei, ma con voli a bassa quota: in alta quota l'effetto sarebbe nullo, data la presenza di venti tesi e imprevedibili.

Un'operazione di scarico del carburante in volo, detta fuel dumping, è a volte necessaria in caso di emergenze con velivoli militari o civili. Detta operazione di scarico avviene tramite degli ugelli posti sulle ali e serve ad alleggerire il velivolo per permettere un atterraggio in condizioni di sicurezza. Il fuel dumping, che può avvenire anche a bassa quota, può generare delle scie con caratteristiche simili a quelle delle scie di condensazione, con la differenza che la scia non ha origine dai motori dell'aereo.

Durante la guerra del Vietnam venne sparso un defoliante con voli aerei a bassa quota, l'"Agente Arancio", per spogliare gli alberi delle zone di combattimento.

Durante le esibizioni aeree, si usano degli appositi pod posizionati sotto un'ala o in coda, o cartucce colorate nel tubo di scarico dell'aereo, per emettere fumo colorato che lascia tracce persistenti alcuni minuti nel cielo. In questo caso il principio utilizzato è diverso da quelli solitamente associati alla teoria delle scie chimiche: si tratta di sostanze, che, a contatto coi gas molto caldi del motore, bruciano lentamente emettendo fumi che si mischiano ai gas stessi.

Gli aerei commerciali, anche se raramente, scaricano in volo i reflui della toilette. Questa pratica, oggi abbandonata e usata solo in casi di emergenza su vecchi aeromobili, può causare delle corte scie di cristalli di liquami congelati e luccicanti, o dei blocchi di materiale solido e ghiacciato. Sono documentati casi di danneggiamenti causati da questi eventi, noti come blue ice.

La pratica del cloud seeding è un metodo di induzione della pioggia che si attua irrorando le nubi già predisposte a causare precipitazioni con varie sostanze, principalmente ioduro d'argento o ghiaccio secco. Queste sostanze creano all'interno delle nubi dei nuclei di condensazione attorno ai quali l'umidità dell'aria si possa raccogliere, formando gocce d'acqua e stimolando quindi la precipitazione. Questa tecnica è normalmente usata in caso di prolungate siccità o per proteggere i raccolti dalla grandine. Poiché questa pratica si limita a favorire la pioggia in nubi già predisposte a generarla, non si può considerare una tecnica di controllo climatico.

L'eventuale utilizzo di aerosol stratosferici è stato considerato quale uno dei sistemi potenzialmente in grado di mitigare il cosiddetto surriscaldamento globale; gli aerosol in alta quota avrebbero infatti il potere di aumentare il livello di albedo del pianeta, e con ciò la capacità di respingere i raggi del sole e il relativo calore.

Il primo studio sulle scie chimiche smonta la bufala (ma non serve a nulla). Alcune teorie del complotto sono così ridicole che pare non ci sia nemmeno bisogno di smentirle. Prendiamo le scie chimiche, l’idea che sia in corso un gigantesco complotto globale ideato da una non meglio identificata plutocrazia. Eugenio Cau 17 Agosto 2016 su Il Foglio. Alcune teorie del complotto sono così ridicole che pare non ci sia nemmeno bisogno di smentirle. Prendiamo le scie chimiche: l’idea che sia in corso un gigantesco complotto globale ideato da una non meglio identificata plutocrazia con l’intento di irrorare dall’altro la popolazione di sostanze non meglio identificate per scopi che vanno dallo sterminio all’omosessualizzazione di massa fa rigirare Guglielmo da Occam e il suo rasoio nella tomba. Dovrebbe bastare un po’ di logica per smentire cotanta teoria, ma secondo una ricerca il 17 per cento della popolazione mondiale crede almeno in parte nelle scie chimiche, e il fenomeno ottiene giocoforza più attenzione di quanta meriterebbe. E’ così che un gruppo di studiosi di varie università americane ha deciso di realizzare uno studio scientifico sulle scie chimiche, il primo al mondo sottoposto al processo di peer review, e dunque dotato del suggello della scienza convenzionale. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Environmental Research Letters, e interroga 77 scienziati di fama sul fenomeno delle scie, presentando loro le presunte “prove” del complotto globale, dalle fotografie degli aerei alle analisi chimiche, e chiedendo spiegazioni. Tra gli esperti ci sono climatologi, chimici e studiosi dei materiali. Tutti, senza esitazioni, smentiscono le teorie complottiste, tranne uno. Quando agli scienziati viene chiesto se hanno mai avuto prove di un programma segreto di irrorazioni, un esperto su settantasette (non identificato) dice che effettivamente sì, in una certa area una volta ha trovato livelli di bario fuori dalla norma. Non arriva a dare credito all’idea del complotto globale, ma quasi. Così, lo studio che avrebbe dovuto essere la pietra tombale sul complotto delle scie si trasforma in una prova, l’ennesima, della penetrazione spaventosa di certe teorie perfino nelle fasce più educate della popolazione. Se uno dei 77 esperti del campo dà credito al complotto, perché stupirsi che lo faccia il 17 per cento della popolazione non esperta? Verrebbe facile parlare di mela marcia, ma il fenomeno è più profondo, e inquietante. Lo studioso dissenziente, adesso, sarà esaltato da tutti i complottisti come un eroe che ha saputo tener fronte al sistema, e come prova dell’esistenza del complotto. Ma se anche tutti e 77 gli scienziati fossero stati d’accordo nel negare le scie chimiche, questo non avrebbe fermato le teorie complottiste: sarebbero stati tutti etichettati come venduti. Al Environmental Research Letters si sono dimenticati di un altro studio, quello che provava che sbugiardare i complotti non fa che rafforzare la convinzione di chi ci crede.

Scie chimiche Porta a Porta. Una parola maldestra stuzzica il vespaio complottista. Su Rai Uno il direttore dell'Istituto di biometeorologia del Cnr usa la metafora di un “esperimento” per parlare di cambiamento climatico. I fanatici della cospirazione vanno in solluchero: “Bombardamento climatico sull'Italia”. Enrico Cicchetti 12 Novembre 2018 su Il Foglio. “Le parole sono importanti!”, si sgolava il Michele Apicella di Nanni Moretti in una delle scene cult(perdonaci, Michele) di Palombella Rossa. Una battuta diventata classico nazional popolare e rivisitata in mille salse. Ma che calza come un guanto al caso del dottor Antonio Raschi, direttore dell'Istituto di biometeorologia del Cnr. “Purtroppo quando non si è abituati a parlare in pubblico si usano espressioni che sono chiare a chi si occupa di ricerca, ma che possono essere strumentalizzate da chi cerca conferme alle proprie teorie”. Il dottor Raschi, incredulo, cerca di rispiegare la frase che ha pronunciato durante la puntata di Porta a Porta del 6 novembre 2018 (qui al minuto 24:50). E di mettere una toppa alla valanga di assurde teorie complottiste che ha scatenato un'affermazione forse un po' ingenua (rispetto al pubblico mainstream a cui era destinata) ma del tutto esatta e innocente. Il caso: durante la trasmissione si parla, tra le altre cose, del forte maltempo che ha colpito l'Italia nelle scorse settimana, con effetti anche disastrosi. Antonio Raschi del Cnr di Firenze viene intervistato. “Mi è stato chiesto di spiegare le cause degli eventi meteorici estremi delle scorse settimane”, racconta e “li ho descritti illustrando su un terminale l'evolversi di una cella di pressione estremamente bassa e la conseguente formazione di un fronte temporalesco. Ho specificato che tali eventi non sono nuovi, ma molto rari: ciò che probabilmente varierà è la loro frequenza, a seguito del cambiamento climatico in corso. Tale variazione è difficile da prevedere in dettaglio, appunto perché il cambiamento climatico è in corso, ma è comunque un fenomeno rischioso perché il pianeta è molto affollato e ha risorse limitate. Ho attribuito il cambiamento, almeno in gran parte, alla emissione di gas serra. Ho detto che è come se fossimo al centro di un esperimento planetario, causato da noi stessi, alterando il sistema in cui viviamo e osservandone l'evoluzione. Almeno, questo è quanto intendevo dire”. Le parole importanti, quelle incriminate e rilanciate su tanti blog e forum e social complottisti, infatti, sono due: “Esperimento planetario”. Gli “sciachimicari” del web italiano sono andati in solluchero: quelle due paroline, se lette da chi vive in una puntata di Black Mirror permanente e interpreta il reale con un costante retropensiero da B-movie paranoico, possono diventare una combinazione esplosiva. “Ammissione in prima serata non si tratta più di teoria del complotto”, si legge in un video di Mida Riva (Attivo TV). I bufalari hanno estrapolato poche frasi dall'intervista di Raschi, non l'hanno contestualizzate e sono partiti per la tangente: “STIAMO CONDUCENDO UN ESPIERIMIENTO (sic!) PLANETARIO DI CAMBIAMENTO DEL CLIMA” avvertono – fra l'altro con un italiano stentato che dà ragione a chi li sbertuccia parlando di “gombloddisti” – come se quella del direttore dell'Istituto di biometeorologia fosse un'ammissione dell'esistenza di una “congiura delle scie chimiche”. E poi siti, blog, pagine Facebook che riprendono la teoria, la gonfiano e manipolano, la distorcono e rimpastano. Così, dalla sorgente, il complotto si dirama in mille rivoli. C'è persino chi parla di “BOMBARDAMENTO CLIMATICO sull’Italia. Un avvertimento al governo?”. Un teatro dell'assurdo. Quelli delle scie chimiche invitano a spedire al presidente della Repubblica una lettera per chiedergli di “attivarsi per interrompere questi esperimenti nocivi o meno per la salute pubblica e per il territorio italiano in quanto non autorizzati dal Popolo Sovrano e rivolti verso il Popolo Sovrano stesso. Al contempo nego, fortemente nego, la mia autorizzazione a qualsiasi sperimentazione di geoingegneria sul suolo e nei cieli italiani. Come Cittadino esprimo il mio diritto a non essere usato come cavia”. Una richiesta che può far persino sorridere, a metà tra il formalismo maccheronico alla Totò e Peppino e quelle catene di Sant'Antonio che girano nelle chat tra genitori o tra vecchi amici delle elementari, che allertano di scrivere a mr. Facebook perché non usi le nostre foto o a mr. Whatsapp che, per cortesia, “con la testa sotto i vostri piedi”, non diventi un'applicazione a pagamento. “Siamo al centro di un esperimento planetario”, dice forse con ingenuità, il dottor Raschi. Nel senso che il nostro pianeta da anni sta subendo un aumento di CO2 e un riscaldamento che è un unicum nella storia della Terra. Un “esperimento”, appunto, che può provocare danni di un'entità a noi sconosciuta con esattezza, benché numerosa ricerca e letteratura scientifica ci indichi la direzione. Quella dell'esperimento globale, spiegano dal Cnr, è una metafora utilizzata spesso in climatologia per spiegare il recente incremento del meccanismo dell'effetto serra terrestre ad opera delle attività umane. Non è la prima volta che la si utilizza e chi si occupa di clima lo sa bene. Già in un articolo uscito nel 1998 su Science il climatologo americano Ramanathan utilizzava proprio questa metafora per spiegare la teoria dell'effetto serra potenziato: “Questo involontario esperimento ha portato il sistema climatico fuori dall'equilibrio...”. Altre fonti autorevoli si trovano su Nature (“Siamo in grado di osservare l'azione di bilanciamento dell'energia planetaria al lavoro grazie all'esperimento non intenzionale che l'umanità sta conducendo aggiungendo anidride carbonica all'atmosfera”) e su Medium (“A partire dalla rivoluzione industriale (o forse anche prima), l'umanità ha iniziato una manipolazione non intenzionale del clima del pianeta Terra...”). “L'aumento della CO2 atmosferica e il cambiamento del clima sono misurabili, e sono sotto gli occhi di tutti”, conclude Raschi. “Attendo dati altrettanto validi sulla composizione delle scie chimiche e sul loro effetto”. In sostanza, se congiura c'è, è quella dei siti complottisti, dove certi autori manipolano le informazioni per supportare le proprie teorie infondate, anche sulla pelle delle tante vittime del maltempo. Ignari lettori, magari in buona fede, senza verificare la notizia su portali più autorevoli, ci cascano e continuano a incentivare i falsari dell'informazione e dei “gombloddi”. “Chi parla male, pensa male e vive male”, avrebbe detto Michele Apicella. E questa volta non ci riferiamo al dottor Raschi.

·         Sulla Luna ci siamo stati?

Ivo Mej per Il Fatto Quotidiano l'8 luglio 2019. Insomma, ci siamo stati o no? Per quello che può interessare ai lettori de Il Fatto Quotidiano, la mia personale opinione è che no, sulla Luna non si saremmo mai potuti andare con la tecnologia degli anni 60, tant’è vero che non riusciamo ad andarci neanche oggi. Ma naturalmente della mia opinione chissenefrega, e poi come è possibile che in mezzo secolo non sia mai venuta fuori la verità sulla conquista mai avvenuta del nostro satellite? Per fortuna, esistono altri positivisti-scientisti oltre al sottoscritto, non inclini ad accettare qualsiasi cosa venga loro propinata dalla propaganda di turno, ma determinati a verificare le miriadi di supercazzole inventate dalla Nasa in 50 anni per compiacere i presidenti di turno. E’ il caso di Massimo Mazzucco – uno che di professione ha fatto il fotografo prima di diventare regista e di immagini se ne intende – e del suo incredibile documentario American Moon, oltre due ore di serena e plausibile confutazione della verità ufficiale sulla Luna. Come molti sanno, la “teoria del complotto lunare” corrente vorrebbe il regista Stanley Kubrick coinvolto in prima persona dalla Nasa per simulare la conquista della Luna. Moltissimi gli indizi in merito, riportati anche in un altro incantevole documentario di Rodney Ashner, Room 237, del 2012. Un altro indizio sulla stretta connessione tra Kubrick e la Nasa è la costruzione da parte dell’Ente spaziale americano di un obiettivo fatto appositamente per il film di Kubrick Barry Lyndon. Perché la Nasa avrebbe speso ingenti fondi per studiare e realizzare un obiettivo tanto speciale per il regista? Perché non glielo fece neanche pagare? Un semplice omaggio all’autore di 2001 Odissea nello spazio (anno: 1968)? Ma a tutto questo Mazzucco non accenna neanche. Di Kubrick nessuna traccia in American Moon. Invece, per tagliare le gambe a tutti i debunker sfata-tesi, il regista gioca d’anticipo, confutando dall’inizio e scientificamente tutte le loro critiche. Il principale debunker e avversario da sempre di Mazzucco è il solito Paolo Attivissimo, di nome e di fatto nel tentare di intorbidire le acque della vicenda lunare. Ma naturalmente ci sono anche fior di fotografi professionisti, interpellati da Mazzucco sulle caratteristiche tecniche delle immagini “riportate” dalla Luna. Bene, nessuno tra Oliviero Toscani, Toni Thorimbert, Aldo Fallai, Peter Lindbergh e Nicola Pecorini riesce a spiegare la stranezza di tutte quelle immagini degli “allunaggi” se non con la loro realizzazione in uno studio fotografico. Per non parlare di uno degli argomenti principe della impossibilità di arrivare sulla Luna: l’attraversamento delle micidiali Fasce di Van Allen, in grado di “friggere” qualsiasi apparato radio (non parliamo dei corpi degli astronauti). Non posso certo riportare qui tutte le incongruenze logiche, le strane dimissioni, le ammissioni a mezza bocca dei dirigenti Nasa presenti nel film, ma voglio ricordare che nel 1994 un altro regista, l’americano Bart Sibrel, tentò di fare giurare sulla Bibbia Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins di essere davvero stati sulla Luna. Nessuno di loro volle farlo.

·         Il terrapiattismo. 

I terrapiattisti arrivano a Milano: quando l’odio per la scienza non teme il ridicolo. Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 su Corriere.it da Guido Tonelli. Domenica a Milano si terrà un convegno di terrapiattisti. Non c’è mai stata epoca nella quale la vita delle persone sia stata così dipendente dalla scienza: e allora perché si riaccendono teorie così infondate? Un convegno dei terrapiattisti a Milano. E un ingresso, domenica a partire dalle 9, rigorosamente a pagamento. Il biglietto di 25 euro consentirà di ascoltare quattro relatori che parleranno, tra l’altro, di «distanza tra Sole e Terra pari a 5.000 chilometri» (in realtà sono 149.600.000) e dei «50 anni di inganni» riguardo la conquista della Luna. Il gruppo di persone che si radunerà domenica a Milano per ascoltare relazioni dal titolo: «Il Sole dista dalla Terra 5000 km» sono gli ultimi rappresentanti di un punto di vista che ha avuto illustri predecessori. Fin dall’antichità il dibattito sulla forma della Terra è stato molto acceso. Sul tema si sono accapigliati anche i primi filosofi, i presocratici della Scuola di Mileto. Talete, il maestro per antonomasia, era un convinto terrapiattista. Ma anche il suo discepolo Anassimandro, che pure intuì per primo che la Terra galleggia nello spazio, le attribuiva una forma strana, una sorta di tozzo cilindro. Fu Pitagora, secondo la tradizione, il primo a parlare di Terra sferica, anche se occorrerà arrivare al periodo ellenistico, con Eratostene di Cirene, per avere la prima misura sperimentale della circonferenza della grande palla. Da allora sono passati più di 2000 anni e si sono accumulate prove innumerevoli della sfericità della Terra: dalle notazioni dei grandi esploratori, alle misurazioni astronomiche, fino alle osservazioni dirette, che, col pianeta sorvegliato da migliaia di satelliti, sono ormai attività di routine. Perché allora ci sono ancora persone che mantengono uno scetticismo così radicale verso risultati scientifici confermati da migliaia di osservazioni? C’è di sicuro una componente goliardica in questi gruppi di buontemponi che ricercano il clamore con la speranza di ricavarne un’effimera notorietà. A ben vedere, però, queste teorie bislacche fanno leva su meccanismi elementari di diffidenza e di paura, che possono contagiare strati più ampi della popolazione e manifestarsi in forme meno folcloristiche. Non c’è mai stata epoca nella quale la vita quotidiana delle persone sia stata così dipendente dalla scienza. Proprio per questo la diffidenza verso il sapere scientifico si riaccende. Ne sono una riprova la voglia cieca di credere ai fenomeni più assurdi: la presenza fra noi di extraterrestri, la fine del mondo prevista dal calendario Maya, le apparizioni periodiche della Madonna in un paesino dei Balcani e così via. È un pezzo di società nel quale scatta l’istinto di rivincita contro un sapere scientifico di cui si percepisce la potenza ma che non si capisce; ed ecco che non si teme il ridicolo pur di sognare di scoprire verità inconfessabili, di un lato oscuro della scienza che ne incrini alla radice l’autorevolezza e che faccia crollare l’intera costruzione.

Terrapiattisti a Milano: «In Antartide dimostreremo che la Terra è piatta». Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 da Corriere.it. «Siamo qui a Milano perché è un piazza importante e per avere una certa risonanza: il nostro scopo è ottenere l’autorizzazione per andare in Antartide da parte del presidente del Consigli0. Abbiamo fatto richiesta a Conte tramite una lettera che mostreremo oggi» così l’ingegnere palermitano Agostino Favari presenta il Convegno «La Terra è piatta», in programma all’Hotel The Hub (25 euro) . «Verificando di persona, potremo avere delle risposte: per esempio se al Polo Sud non ci fosse il sole di mezzanotte, come al Nord, questa asimmetria dimostrerebbe che la Terra non è sferica». La teoria del Terrapiattismo per Favari non è una semplice passione, «ma un riscontro di veridicità». Lo stesso ingegnere oggi dimostra che il sole dista dalla Terra 5000 km «attraverso rilievi topografici delle ombre, come si faceva 2000 anni fa». Favari, complottista dichiarato, ha un trascorso in politica, nel Movimento 5 Stelle, «poi quando ho capito che anche questo era un teatrino ho deciso di mollare». Definisce Beppe Grillo, «un “gate keeper”, ovvero una persona che asseconda chi detiene il potere: non è venuto al convegno di Palermo, come aveva annunciato, ma ha messo in piedi lo spettacolo “Terrapiattista” che porterà in giro l’anno prossimo». Per Calogero Greco, altro promotore dell’evento, questo è un movimento anche politico. «L’acqua non può curvare: da qui si deduce che la Terra è piatta. Auspico che questo nuovo mondo che abbiamo scoperto possa avere un sistema basato sulla laocrazia, la vera democrazia». Tra i relatori anche Albino Galuppini, agricoltore laureato in scienze naturali, che parla di astronomia zetetica, «smontando il modello eliocentrico. Ma anche la beffa dell’allunaggio, parte di un inganno globale». E a proposito dell’annunciata partecipazione del filosofo Diego Fusaro, assicurano che «aveva dato conferma per poi fare marcia indietro». Al convegno sono stati invitati Beppe Grillo, Matteo Salvini e il sindaco Sala. Chissà se apriranno la busta.

TERRAPIATTISTI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI: “LA TERRA E’ PIATTA E IL POLO NORD E’ IL CENTRO”. Sara Scarafia per repubblica.it il 12 maggio 2019. "La terra è piatta e il Polo Nord è il centro". "Il sole è vicino ed è piccolo piccolo, una specie di lampadina". "Il complotto della terra sferica è ordito da un movimento sotterraneo che vuole negare l’esistenza di Dio". "Gli astronauti? Attori". "La circumnavigazione della terra? Un’illusione". "La forza di gravità non esiste". “La prova che la terra è piatta è in una bottiglia piena: basta metterla in orizzontale per accorgersi che l'acqua non si curva mai”. Eccoli, i terrapiattisti che domani a Palermo celebreranno la prima giornata di “esperimenti e conferenze” per dimostrare - sostengono - che "la verità che ci hanno raccontato finora è tutta una farsa". Un convegno a pagamento: 20 euro a testa. Galileo e Darwin? “Solo delle maschere”. La Nasa? “Una Disneyland, nessuno è mai stato nello spazio”. Agostino Favari, Albino Galuppini e Calogero Greco - i primi due ex 5Stelle - sono tre dei quattro terrapiattisti che si sono sono dati appuntamento a Palermo e che oggi hanno incontrato la stampa. Secondo i relatori del convegno, tutti possono rendersi conto che la terra è piatta: “Guardate l’orizzonte: è sempre piatto. Ma soprattutto  è sempre a metà della pupilla, anche quando siamo in volo”. Per Favari le prove regine sono tre: “La prova di curvatura, e domani lo dimostrerò. Il fatto che sia vietato andare in Antartide: lì c'è qualcosa da nascondere. Il divieto di fare osservazioni dall’alto: ci diano la possibilità di salire in volo in verticale. E invece nessuno può decollare senza un'autorizzazione della torre di controllo”. Galuppini è laureato in Scienze agrarie e fa l’agricoltore. Favari ha una laurea in Ingegneria “ma non dirò nient’altro di quello che faccio nella vita”. Così come Greco, che non vuole dire nulla di sé: “L’unica cosa che conta è che la terra è piana”. Nei giorni scorsi, Beppe Grillo aveva detto che sarebbe venuto al convegno. “Noi non lo abbiamo invitato, se verrà pagherà”. Ma lo staff di Grillo ha fatto sapere che il fondatore del M5S non ci sarà.

L’ira dei terrapiattisti su Grillo: «traditore democristiano». Pubblicato domenica, 12 maggio 2019 da Felice Cavallaro su Corriere.it. L’unica cosa tonda alla quale sembravano credere davvero era l’arancina addentata a mezzogiorno fra le panchine del Giardino Inglese. Pic nic e pasto povero ma succulento per i terrapiattisti in pausa dal convegno cominciato alle nove del mattino con ferreo controllo dei paganti, venti euro cadauno, e concluso al tramonto in un albergo di piazza Politeama, a Palermo, dove non è mai arrivato Beppe Grillo. Un tempo idolo di questa eterogenea accademia di scettici, il guru dei Cinque Stelle si è limitato a spedire alla vigilia dell’incontro un post e la emblematica foto di una pizza napoletana dal bordo alto, con dentro oceani e continenti ben appiattiti: «L’Elevato non sarà presente a Palermo, ma vi osserverà». Adesso additato come «un traditore democristiano» perché rinnegherebbe quanto sostenuto in passato. «Grillo era contro i vaccini e non ne discute più, era contro la terra tonda e si smentisce, lavoravamo per la democrazia diretta e tace», ripetono delusi Albino Galuppini, Agostino Favari e Calogero Greco, i patron dell’iniziativa. Esoterista il primo, grillini della prima ora gli altri due. Convinti d’essere stati turlupinati dagli insegnanti a scuola, dai «poteri forti» nella vita. Certi che la terra sia piatta, che la Nasa sia un’agenzia di stampa o di propaganda, che le Torri Gemelle fossero vuote, quinte di un’impostura in cui per loro campeggiano «astronauti mai andati nello spazio perché lo spazio non esiste», scienziati «a partire da Copernico» e cervelli alla guida del settore monetario. A cominciare da Mario Draghi, il gran capo della Banca centrale europea contro il quale punta il dito uno dei tre, Agostino Favari, 40 anni, laurea in ingegneria a Palermo. Un’esperienza politica in Toscana, agli esordi candidato assessore per i grillini a Pescia, Favari nella città di Pinocchio s’è fissato in testa che grandi siano le bugie di chi governa l’euro: «Ma servirebbe avere una delega giudiziaria per procedere e interrogarlo...». Anche i cronisti devono pagare per assistere a esperimenti e riflessioni da acuto mal di testa quando scattano le certezze su «astronomia zetetica», «laocrazia, vero nome della democrazia», «egocentrismo della stella polare» e così via. Fino alla deduzione che i soliti poteri forti abbiano fatto sparire gli scheletri dei giganti che costruirono piramidi e Colosseo. Blasfemi, fra i cinquanta paganti sorridono beffardi due giovani, Vincenzo Tura e Francesco Sinacori: «Meglio di un cabaret. Un’occasione per ridere. D’altronde noi facciamo parte di un gruppo di fantacalcio». Redarguiti da Galuppini, l’esoterista arrivato da Brescia, un conto aperto perfino col Papa: «Un massone... La foto del buco nero? Un falso». Infine, la grande prova: una bottiglia ruotata «con l’acqua che non curva mai». Come gli oceani.

Terrapiattisti a Palermo:«Delusi da Grillo, sfidiamo la Nasa». Pubblicato sabato, 11 maggio 2019 Felice Cavallaro su Corriere.it. La Nasa sarebbe solo un’agenzia di stampa, anzi di propaganda. Ovviamente al servizio dei poteri forti. A cominciare «da multinazionali e banche centrali che vogliono la terra tonda», mentre i loro esperimenti, da vedere al modico obolo di venti euro cadauno, «dimostrano che viviamo su una superficie ultrapiatta». Tutti invitati dai «terrapiattisti». Provare per credere. Pagando. Con sala riservata domenica mattina in un albergo di fronte al Politeama di Palermo dove l’ospite eccellente doveva essere Beppe Grillo. 

Ma è stata una delusione per Albino Galuppini, Agostino Favari e Calogero Greco, i patron dell’iniziativa, esoterista il primo, grillini della prima ora gli altri due: «Delusi perché Beppe rinnega quel che sosteneva quando cominciammo a parlare dei punti fermi: era contro i vaccini e non ne discute più, era contro la terra tonda e si smentisce, lavoravamo per la democrazia diretta e tace». Mentre la Sicilia si prepara ai ballottaggi elettorali di grandi comuni come Caltanissetta e Gela, l’accusa al guru grillino è di «trasformismo di tipo democristiano» in un gioco di carambola che il mancato ospite di Palermo richiama facendo campeggiare in rete un post e una foto emblematica, una pizza napoletana dal bordo alto, con dentro oceani e continenti ben appiattiti: «L’Elevato non sarà presente a Palermo, ma vi osserverà». Non basta per smussare il rincrescimento di un’altra grillina come Morena Morlini pronta a illustrare alla platea «l’egocentrismo della stella polare», mentre Greco si soffermerà sulla «laocrazia, il vero nome della democrazia», lasciando approfondire all’esoterista «l’astronomia zetetica». Ai non esperti può venire il mal di testa fra raggi crepuscolari, misura della curvatura e un vero pallone blu che galleggia in sala per provare come la terra a forma di palla sia un’invenzione. Ma loro vanno ben oltre le Cinque Stelle, tutti certi che in cielo bisognerebbe rimettere ordine. Cominciando dal sole, che starebbe ad appena 6 mila chilometri «e non a 150 mila», impegnato non a ruotare attorno alla terra, ma a passeggiare lungo il perimetro piatto come una lampadina insufficiente ad illuminare l’intero «quadrato». Il vero esperimento loro vorrebbero farlo «con i sedicenti astronauti» che considerano al servizio del potere dominante. E citano Umberto Guidoni, come fa Agostino Favari, 40 anni, laurea in ingegneria a Palermo, candidato grillino qualche anno fa come assessore al comune di Pescia, la città di Pinocchio: «Guidoni astronauta? Ma c’è mai andato sullo spazio? Perché non accetta la nostra sfida? Montiamo le nostre attrezzature su una navicella e partiamo insieme...». Beh, Favari sarebbe disposto anche ad un faccia a faccia con Mario Draghi: «Lasciatemelo interrogare perché dietro tutto ci sono la Banca centrale europea e, in Usa, la Federal Reserve... Ma dovrei avere delega giudiziaria per procedere». Complicato il dialogo con i cronisti che azzardano richiesta di chiarimenti sul sole che non gira intorno, ovvero sul cosiddetto «Trattato Antartide», nell’area del Polo Sud «dove si capirebbe tutto se non fosse proibito superare il sessantesimo parallelo». Qualcuno interroga dubbioso, subito redarguito perché il quesito contiene «un tocco tendenzioso». Un altro perdonato: «Ho capito che la domanda era in buona fede». Diffidenza evidente. Ed è forse l’unico punto fermo che ancora li salda all’Elevato con la terra dentro una pizza.

Il Duomo di Milano? Merito dei giganti. Così parlò il terrapiattista. Vincenzo Fiore il 06/05/2019 su Il Giornale Off. Già i filosofi antichi avevano avuto geniali intuizioni sulla formazione dell’universo, sulla forma della Terra e sul movimento degli astri. Ci sono voluti secoli e secoli per confermare e integrare quanto ipotizzato da uomini geniali come: Eraclide Pontico, Aristarco di Samo o dai pitagorici; tuttavia oggi, nel XXI secolo, c’è chi prova a riscrivere ogni conoscenza acquisita dall’umanità. D’altronde, nell’epoca della post-verità tutto viene asserito e confutato con la stessa semplicità, un’epoca dove il cretinismo viene scambiato per autenticità e lo studio per un’attività élitaria. In quest’ottica, citando a sproposito Hegel, internet sembra assomigliare alla «notte in cui tutte le vacche sono nere», un luogo senza confini e senza regole dove basta una connessione per ergersi a portatori di verità ultime. Se non fosse che, come diceva Flaiano, «la situazione è tragica, ma non è seria» si potrebbe addirittura parlare di una degenerazione della prassi democratica, ovvero di una confusione fra libertà di pensiero e ciarlataneria. Chiarito questo, ho incontrato Albino Galuppini (autore del libro Quaderni dalla Terra piatta,) uno dei relatori alla prossima conferenza sul terrapiattismo che avrà luogo domenica 12 maggio a Palermo. In circa quaranta minuti di conversazione, mi sono reso conto che la sua visione del mondo e delle cose non potrà mai convergere con la mia. Uno di noi due si sbaglia su tutto e continuerà a vivere nella propria illusione, in fin dei conti, suggeriva Allan Poe, «l’ignoranza è una benedizione, ma perché la benedizione sia completa l’ignoranza deve essere così profonda da non sospettare neppure se stessa».

Come è arrivato a scoprire quello che ha definito l’inganno della Terra sferica?

«Da vent’anni mi occupo dello sbarco sulla Luna, della contraffazione operata della Nasa. Successivamente, mi sono occupato anche di altre cospirazioni, fino ad arrivare nel 2015 alla teoria della Terra piatta che mi ha subito affascinato. Sono un complottista nato».

Perché dovrebbero ingannarci sulla forma della Terra?

«Ci sono diverse ragioni. Io, che ho una notevole sensibilità esoterica, penso che sia tutto un modo per negare la Bibbia. Mi sembra ovvio che i poteri occulti abbiano un’origine luciferina».

Potrebbe fornirci una prova che la Terra è piatta?

«Ce ne sono tantissime oramai. Ad esempio, la prova delle rotte aeree che non potrebbero funzionare sul globo. Innanzitutto, gli aeroplani dovrebbero continuamente portare il muso verso il basso per stare al passo con la curvatura terrestre. Se prendiamo in esame la rotta che va da Brisbane o da Sidney verso New York o Boston e verifichiamo l’andamento delle rotte, ci rendiamo conto che gli aerei, dopo aver attraversato l’Oceano Pacifico, giungono negli Stati Uniti da nord, passando per l’Alaska, e la cosa è del tutto incomprensibile sul modello sferico».

Del cosiddetto “effetto Pac-man” cosa mi dice?

«Un’invenzione giornalistica, come la questione dell’Australia, che non esiste».

E quella famosa puntata delle “Iene”?

«Da sempre noi terrapiattisti siamo vittime di manipolazioni: già è accaduto negli Stati Uniti. Non potendo smentire le nostre tesi, la stampa è costretta a ridicolizzarle».

Dalla locandina del prossimo raduno, ho notato che lei parlerà della “astrologia zetetica”. Di cosa si tratta?

«Un’osservazione del mondo in base ai nostri sensi. I nostri sensi parlano chiaro: la Terra non gira né tantomeno ha una curvatura. Da alcune riprese a raggi infrarossi fatte su un aereo di linea, è stato compreso che l’orizzonte è piatto. L’occhio umano a causa dell’umidità non riesce a guardare così lontano l’orizzonte, però grazie ai raggi infrarossi possiamo scorgere fino a distanze importanti, e dalle osservazioni effettuate non abbiamo scorto la curvatura terrestre».

L’altro argomento della sua relazione riguarderà “l’impero dei giganti”. Ci può dire di più?

«Non solo la scienza è manipolata, ma anche la storia. Alcuni monumenti non hanno spiegazione per la storia che conosciamo: ad esempio, sculture e architetture in stile greco-romano che si trovano in America e addirittura in Sri Lanka. Questi possenti edifici o cattedrali (alcuni stanno tentando di distruggerli, come la cattedrale di Notre-Dame), sono talmente enormi, da risultare sproporzionati per l’uomo. Guardi San Pietro o il Duomo di Milano e le loro porte gigantesche: per ora è solo una teoria, ma sarà dimostrato che questi edifici sono stati costruiti dai giganti. Come Notre-Dame e anche la Sagrada Família…»

E i giganti che fine hanno fatto?

«La Bibbia ci dice che sono stati eliminati per la loro cattiveria. Loro erano nati da incroci con angeli e sono stati spazzati via dal diluvio universale».

Se tutto quello che abbiamo studiato a scuola deve essere cestinato, allora dov’è possibile informarsi?

«Loro hanno i libri giusti, ma non sono di pubblico dominio. Esiste la questione delle invenzioni soppresse, i libri nascosti ai ricercatori indipendenti e tanto altro. Chi le conserva queste conoscenze? Dobbiamo solo sperare che non chiudano internet».

E dell’evoluzionismo cosa pensa?

«È sempre parte del complotto. Darwin era un massone, come lo era anche Karl Marx. L’ateismo, il comunismo, l’evoluzionismo sono invenzioni per negare il cristianesimo. Hanno costruito queste teorie grazie alla “retro-ingegneria” per allontanare l’uomo dalla verità e dalla Bibbia».

Sulle scie chimiche?

«Uno strumento di controllo mentale. Sono come gli ufo, distrazioni di massa. Non esistono gli ufo e nemmeno le scie chimiche. O meglio, esistono però sono armi di distrazioni di massa. Se loro volessero, potrebbero inventare scie chimiche trasparenti e non se ne accorgerebbe nessuno».

Internet può essere uno strumento utile, però, spero converrà con me, presenta anche molti rischi. Ci si può imbattere anche in teorie strampalate e prive di senso. Come distinguere un genio da un impostore?

«Io suggerirei di utilizzare il metodo zetetico, cioè di verificare personalmente, fare delle controprove e fare uso della logica. Utilizzare il buon senso e la propria esperienza insomma, anche con l’ausilio di conoscenti e di persone di fiducia».

La Terra è piatta: unitevi contro il Grande Complotto dei poteri forti. Le Iene 26 novembre 2018. Ne sono convinti migliaia di Terrapiattisti di tutto il mondo. Il servizio Gaston Zama ci guida in un viaggio spericolato tra chi crede che la Terra sia piatta e che (quasi) tutto quello che ci racconta la scienza sia figlio del grande complotto degli illuminati e dei poteri forti. Mister X indossa una maschera perché ha paura delle conseguenze delle sue rivelazioni. Poi annuncia: “Tutti noi siamo stati ingannati fin dal primo giorno, il nostro pianeta Terra non è una sfera, non è tonda: è piatta”. I Terrapiattisti nel mondo sono migliaia e sono cresciuti a dismisura negli ultimi anni sul web in America e in Europa. Il servizio di Gaston Zama ce li racconta, partendo dal loro convegno italiano ad Agerola, sulla Costiera Amalfitana. Un viaggio tra delirio e favole: basta guardare le loro mappe a uovo e sentire quando parlano di territori sconosciuti e ancora inesplorati. In assoluta contrapposizione a qualsiasi testo e nozione storica e scientifica condivisa dal resto dell’umanità. C’è di tutto: l’uomo non è mai stato sulla Luna né nello spazio. Fa tutto parte del grande complotto dei poteri forti, degli “illuminati” che ci ha nascosto pure la presenza degli alieni “da qualche parte”. Le scie chimiche? Vanno combattute. Pure i vaccini fanno parte del complotto. Fonte massima di informazione? Internet. Obiettivo: “Aprire gli occhi e non essere più schiavi del grande inganno”. È come nel film Matrix: si prende una metaforica pillola rossa "per scoprire quanto è profonda la tana del bianconiglio”. Crollano tutte le credenze: i dinosauri non sono mai esistiti. Le loro ossa sono le ossa degli antichi Giganti. Ecco, per esempio, perché la Basilica di San Pietro o il Duomo di Milano hanno porte alte dieci metri! Sono stati costruiti da Giganti per i Giganti. Chi sapeva già tutto? Piero Pelù dei Litfiba per esempio (“tutta la storia è una grossa bugia”, vi ricordate), mentre Einstein e Darwin non hanno capito nulla. Manco a dirlo poi: Al Qaeda non c’entra con l’11 settembre. Intorno alla terra piatta c’è un’altissima montagna di ghiaccio, presidiata da un esercito di Guardiani, da più di duemila anni. E al convegno a un certo punto se la prendono pure la forza di gravità: non esiste nemmeno quella. La spiegazione del tutto? Basta pensare al vecchio video Pac-Man, ci spiega l’Uomo Mascherato. Ecco, Pac-Man ci mancava.

Servizio shock delle Iene, il mondo in un complotto : dalla Terra piatta alle scie chimiche. Migliaia i sostenitori. Articolo di Raffaele Laricchia su Inmeteo.net 26/11/2018. La Terra è piatta e l’uomo vi è stato impiantato da creature ignote. Si, è esattamente il nuovo credo di migliaia di persone, portato avanti con teorie e ricerche che vanno avanti da decenni. Sapevate inoltre che l’Australia non esiste? Bene, tutto questo e altre teorie clamorose sono state svelate all’interno del servizio delle Iene andato in onda ieri 25 novembre in TV. Il servizio, dalla durata di 30 minuti, percorre un viaggio tra i “Terrapiattisti” e persone (o gruppi) fedeli a numerose teorie che pongono l’uomo al centro di un complotto che ha dell’incredibile! Un certo “Mister X” decide di venire allo scoperto e raccontare le sue verità all’inviato delle Iene, ma anche altre persone si sono riunite in un congresso ad Agerola, sulla costiera amalfitana, per affrontare il tanto delicato argomento della Terra Piatta. Sono davvero tanti i punti di discussione, che vanno in contrapposizione con qualsiasi testo o nozione storica/scientifica condivisa sino ad ora dall’umanità. Tutto ciò che abbiamo appreso a scuola, tutti i nostri studi specie in materie storiche e scientifiche, sono solo falsità create all’interno di un chiaro e vasto disegno dei “poteri forti” o gli “illuminati“, praticamente coloro che hanno in mano le redini del mondo e dell’umanità. Tutta la scienza viene non solo messa in discussione ma letteralmente gettata nella pattumiera : mostri sacri del mondo scientifico come Darwin e Einstein sono considerati “buffoni” e “massoni” che non hanno mai scoperto nulla. I “guru” delle teorie del complotto in Italia gestiscono conferenze e congressi dove esplicano le loro idee e teorie (considerate verità assolute) e oltre questo vendono anche numerosi libri che nuovi interessati o indecisi leggono anche con piacere. Sono decine di migliaia in Italia coloro che seguono con grande passione e determinazione queste teorie. La “Terra Piatta” è solo uno dei tanti concetti descritti nel video : oltre questa troviamo anche quella delle scie chimiche, l’esistenza dei giganti nel passato, la falsità dell’evoluzione, l’approdo mai avvenuto sulla Luna, il “male assoluto” dei vaccini, “l’effetto pac-man” e la grande bugia sull’esistenza dell’Australia. Si, avete capito bene! L’Australia non esiste!  Secondo queste persone la Terra è totalmente piatta, una specie di cerchio appoggiato su un piatto : il nostro mondo è un granello immerso in un grande complotto circondato da altri mondi dominati da “alieni” che i soldati combattono proprio sul perimetro del “piatto” in cui viviamo. Il perimetro è formato da una cintura di ghiacci dove vivono da sempre soldati e guerrieri che lottano con altre creature. E il Sole e la Luna? Semplicemente sono piccole sfere di qualche chilometro di diametro che ruotano sul nostro meraviglioso cerchio azzurro, a qualche chilometro di altezza! E cosa succede se viaggiamo su un aereo fino al bordo del mondo? Semplice, ricompariamo dall’altro lato come se fossimo nel videogames “pac-man”. Per non parlare delle migliaia, se non milioni, di persone pagate dai governi per tacere sul grande complotto portato avanti dai potenti della Terra : questi “burattini” vengono pagati per spruzzare scie chimiche nei cieli di tutto il cerchio su cui viviamo (con l’intento di creare fenomeni meteorologici violenti o per lobotomizzarci), altri vengono pagati per ingannarci sull’esistenza dell’Australia (addirittura verrebbero pagati anche i nostri parenti che vivono da quelle parti!), altri ancora per alimentare le falsità storiche e scientifiche nelle scuole e su internet. Insomma tutte le teorie complottistiche in qualche modo si intrecciano fra di loro e creano il vero e proprio disegno del complotto portato avanti dai potenti della Terra che ci hanno sempre tenuto nascosto e che mai potremo sapere. Fantasia esagerata o semplice ignoranza? Sicuramente il ragazzino al termine del video ha fatto la domanda più sensata : “ma perchè tutto questo?” Già, perchè? Ce lo chiediamo anche noi!

Flat Earth Society. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La Flat Earth Society ("Associazione della Terra Piatta") è una associazione nata in Inghilterra che sostiene l'ipotesi della "Terra piatta". Successivamente ha avuto sede in California. Uno dei primi sostenitori moderni della Terra piatta fu William Carpenter (1830-1896), che realizzò nel 1885 un opuscolo intitolato "One hundred proofs the Earth is not a Globe" ("Cento prove che la Terra non è un Globo"), stampato e pubblicato in proprio. Una di queste prove, secondo Carpenter, era la testimonianza riferita dagli aeronauti secondo cui, nemmeno alle grandi altezze raggiunte con palloni aerostatici, era possibile vedere la curvatura terrestre; ma all'epoca le massime quote raggiunte non erano sufficienti a percepire ad occhio la curvatura della superficie. L'inventore inglese Samuel Birley Rowbotham (1816 – 1884) nel 1849, con lo pseudonimo "Parallax" (Parallasse) pubblicò un opuscolo di 16 pagine intitolato Zetetic Astronomy: Earth Not a Globe (Astronomia Zetetica: la Terra non è un globo), dando origine all'uso dell'aggettivo "zetetica" (dal greco zêtêin, che significa cercare, indagare) usato per definire la sua visione dell'astronomia. Secondo il modello di Rowbotham, la Terra sarebbe un disco piano, con il Polo Nord al centro, e il Sudcostituito dalla circonferenza del cerchio. Rowbotham pubblicò una seconda edizione del suo volume nel 1865 ampliandone il contenuto fino a 221 pagine, alla quale seguì una terza edizione nel 1881, di 430 pagine, in cui esponeva le basi della sua teoria. Pubblicò inoltre risultati di alcuni suoi esperimenti di misura della curvatura della superficie di diversi laghi per dimostrare come questa non fosse curva; secondo l'autore, il motivo per cui le navi spariscono all'orizzonte sarebbe un effetto prospettico. Rowbotham e i suoi seguaci guadagnarono popolarità conducendo pubblici dibattiti con i più noti scienziati dell'epoca. La Universal Zetetic Society. Alla morte di sir Rowbotham, i suoi sostenitori fondarono la Universal Zetetic Society che pubblicava una rivista, intitolata The Earth Not a Globe Review. La società rimase attiva fino ai primi anni del XX secolo, ma dopo la Prima guerra mondiale conobbe un lento declino. Negli Stati Uniti d'America l'idea di Rowbotham venne accolta dalla Christian Catholic Apostolic Church ("Chiesa Cristiana Cattolica Apostolica"), gruppo religioso fondato dal predicatore scozzese John Alexander Dowie (1847 – 1907). La chiesa stabilì nel 1895 una comunità teocratica a Zion, nell'Illinois. Al suo culmine, nel 1905, la chiesa contava 30 000 aderenti in tutto il mondo 7 500 dei quali nella sola città di Zion; la sua rivista, The Leaves of Healing, era distribuita negli Stati Uniti, in Australia, Europa e Africa del Sud. Nel 1906 Dowie fu sostituito alla guida della comunità dal suo luogotenente Wilbur Glenn Voliva, convinto sostenitore della teoria della Terra piatta. Voliva offrì un premio di 5.000 dollari a chiunque fosse riuscito a dimostrare la non validità del modello della Terra piatta, ma solo alle sue condizioni. Si avvalse di una radio privata per propagandare le sue idee e volle che l'astronomia zetetica fosse insegnata nella scuola della comunità. Dopo la morte di Voliva nel 1942 la chiesa declinò, tuttavia fino agli anni cinquanta persistevano alcuni sostenitori a Zion. Nel 1956 un membro della Royal Astronomical Society, Samuel Shenton, fondò la Flat Earth Society, che doveva raccogliere l'eredità della scomparsa Universal Zetetic Society. La Società venne a confrontarsi con il programma spaziale della NASA, che negli anni sessanta produsse fotografie della terra vista dallo spazio, provandone definitivamente la forma sferica. Tuttavia, a proposito delle foto, Shenton commentò: «È chiaro che una foto simile possa ingannare un occhio inesperto». La posizione della Società fu che il programma spaziale fosse una montatura e gli sbarchi degli astronauti sulla Luna fossero una finzione cinematografica, il tutto mirato ad ingannare l'opinione pubblica con la falsa idea di una Terra sferica. Questa teoria del complotto ebbe successo anche tra persone che non aderivano alla teoria della Terra piatta (vedere Dubbi sull'allunaggio dell'Apollo), e nonostante le due teorie non fossero strettamente correlate fruttò comunque alla Società un grande numero di iscrizioni. Alla morte di Shenton nel 1971 il texano Charles Kenneth Johnson (1924 - 2001), successore da lui stesso designato, diventò nuovo presidente della Società della quale fu energico promotore. Sotto la sua guida la Società divenne un movimento che, oltre a sostenere il consueto modello di Rowbotham, raccoglieva sostenitori di pseudoscienze in genere e si batteva contro le scienze consolidate. Johnson passò anni a esaminare studi a favore e contrari alla sua teoria; sulla base dei quali ipotizzò l'esistenza di un complotto contro la "Terra piatta" ed in proposito pubblicò un articolo su Science Digest nel 1980. Scrisse: «L'idea di un globo rotante è una cospirazione fallace contro cui Mosè e Colombo si batterono...». Le contestazioni all'articolo di Johnson furono molte, a cui il giornale replicò scrivendo: «Se la Terra è una sfera, allora la superficie di una grande massa d'acqua deve essere curva. Johnson ha controllato le superfici dei laghi Tahoe e Salton senza trovare alcuna curvatura». Nel 1995 la sede della Società di Johnson, un rifugio nel Deserto del Mojave, in California venne distrutta da un incendio, e con essa tutti gli archivi comprese le liste degli associati. Il 19 marzo 2001 Johnson morì, lasciando la "Flat Earth Society" al suo destino; all'epoca la società contava poche centinaia di iscritti.

Chi sono i "Terrapiattisti", quelli che non credono che la Terra sia sferica. Galileo? Un impostore. La Nasa? È alla base del più grande complotto di sempre, che coinvolge anche piloti e hostess. La Terra è piatta, è evidente. E il Sole ci gira intorno L’Inkiesta 13 agosto 2016. “Dall’alto sembra sempre piatta”, gli aveva risposto il pilota senza prestargli molta attenzione. Lui, però, non era per nulla sorpreso: da tempo Malachi Henderson si era convinto che la Terra, in realtà, non fosse affatto sferica, bensì piatta. Ne conseguiva che le immagini della Nasa fossero un falso, che le teorie di Galileo costituissero un abbaglio colossale e che la maggioranza degli abitanti della Terra vivesse in una bolla di menzogna e di ignoranza. Ebbene sì, Henderson era quello che si potrebbe definire un “terrapiattista”, esponente di un movimento in crescita in America (guarda caso) che nega la sfericità del nostro pianeta. Una posizione tanto bizzarra da non essere nemmeno inquietante. Loro, però, sono convintissimi. A dire il vero, come fa notare il magazine Mic in questo ampio ritratto dei “terrapiattisti” (in inglese si chiamano Earthers), questa strana teoria viene abbracciata in momenti di scarsa lucidità e difficoltà esistenziale. Una degli Earthers si era appena lasciata con il fidanzato: era la notte di Capodanno quando udì dentro di sé una voce, ben chiara, che la indirizzò verso questo genere di ricerche. “Così ho scoperto questa verità, insieme a molte altre”. Brava. Un altro, invece, si è lasciato irretire da alcuni filmati presenti su Youtube, abbindolato come un jihadista qualsiasi. Un terzo invece, ha capito che qualcosa nella teoria mainstream non funzionava quando, una notte, stava guardando la Luna. “All’improvviso ho notato che c’era una nuvola davanti e [tenetevi forte] ce ne era un’altra dietro la Luna”. Un fenomeno assurdo, “che non dovrebbe succedere visto che la Luna, secondo quanto dicono, è ben al di fuori dalla nostra atmosfera” (e che in realtà si spiega benissimo). Questo evento, anziché convicerlo ad andare da un buon oculista, lo ha spinto a negare la sfericità della Terra. Sono scelte. Secondo gli Earthers la Nasa & simili propagano falsità, all’interno di un enorme complotto teso a ingannare tutti gli abitanti della Terra (per quale scopo? Boh?). Oltre agli astronauti, nella trama sono coinvolti anche tutti i piloti e le compagnie aeree, che allungano il tragitto del volo per tenere in piedi una balla che ormai non regge più. Il pianeta è piatto, del resto. Lo si vede benissimo. Cosa può contare più dell’evidenza? Le conseguenze di questa rivelazione (come altro si può definire?) sono notevoli. Oltre a togliere ogni credibilità al discorso scientifico, elimina il concetto di Sistema Solare: “Non esiste, non c’è. Esiste la Terra e, sopra, ci sono due astri che girano: il Sole e la Luna. Sono della stessa dimensione”. Non solo: “La Terra ha una forma a cerchio: al centro c’è il cosiddetto Polo Nord, mentre l’Antartide è una sorta di muro che ne stabilisce la fine”. Infine, non esiste nemmeno la gravità. “Figurati, io non me la bevo”, ride uno degli Earther. “Non esiste, non ha senso. Esistono solo la densità e la fluttuazione”. Del resto, “un palloncino riempito di elio è in grado di sfuggire alla cosiddetta forza di gravità, mentre la Luna no, anzi. Come si spiega? Semplice, che non è vero”. È “un’invenzione necessaria per far credere alle persone che tonnellate di acqua possono stare su una palla che gira senza disperdersi in ogni direzione. È possibile? Vi sembra possibile?” Ogni commento risulta superfluo. Si può immaginare però che, una volta instradata la mente in una direzione, si può arrivare a credere ogni cosa, senza rispetto per qualsivoglia autorità. E questo, forse, è il male del nostro tempo.

I dieci principali argomenti a sostegno delle teorie dei terrapiattisti. Quali sono le "prove inconfutabili" dietro questa bizzarra convinzione? Ecco perché alcune persone ritengono che la forma sferica della terra sia il frutto di un complotto. Gabriele Fazio il 22 febbraio 2019 su Agi. Il servizio delle Iene sui terrapiattisti, ovvero quella comunità di persone dal numero impronosticabilmente alto convinte che la terra non sia sferica come pensiamo, andato in onda lo scorso novembre, ha aperto agli italiani un mondo che finora si pensava rientrasse semplicemente nei confini delle teorie complottiste della rete, tra il negazionismo sull’attacco alle Torri Gemelle, gli alieni dell’Area 51 e la morte di Paul McCartney. Ma sono numerosi invece i convegni sparsi per il mondo sull’argomento, talmente tanti che anche The Guardian ha deciso di dedicare ai terrapiattisti un’inchiesta che dimostrerebbe come grazie a YouTube il numero di persone che giorno dopo giorno si convincono che la terra in realtà abbia la forma di un disco aumenti costantemente. Ma la prima domanda che ci si pone rispetto a questa tesi che ai più appare bislacca è: come mai le immagini provenienti diffuse dalle agenzie aerospaziali di tutto il mondo ci dimostrerebbero inconfutabilmente che la terra è rotonda? È proprio da questo punto che parte la tesi complottista che si basa sul fatto che le foto dello spazio siano state diffuse tutte da agenzie filogovernative che avrebbero concordato la bugia per benefici derivanti non ben comprensibili. Accettata dunque la fake news delle foto e della relativa montatura dello sbarco sulla luna (che molti attribuiscono al genio creativo di Stanley Kubrick), da lì tutto in poi tutto diventa possibile e anche i più scettici potrebbero restare dubbiosi rispetto a “200 Proofs Earth is Not a Spinning Ball”, libro cult per i terrapiattisti di tutto il mondo scritto da Eric Dubay che raccoglie appunto le 200 prove della “piattezza” del nostro pianeta. Abbiamo raccolto le dieci principali:

L’orizzonte appare sempre perfettamente piatto per 360 gradi attorno all’osservatore, a prescindere dall’altitudine. Tutti i filmati fatti da palloni amatoriali, razzi, aerei e droni mostrano un orizzonte completamente piatto ad oltre 32 km d’altezza, che sarebbe la distanza oltre la quale dovrebbe palesarsi la curvatura della terra. Come è possibile che con un binocolo è possibile scorgere oggetti ben più distanti?

Ammettendo che la Terra sia sferica, come si spiegano le le consistenti superfici d’acqua che riescono a mantenere un livello invariato? La terra può curvare, ma l’acqua, si sa, no…

Se la terra fosse davvero una sfera con una circonferenza di 40’075 km, i piloti d’aereo dovrebbero costantemente correggere la loro altitudine verso il basso per non volare via dritti nello “spazio esterno”; un pilota che volesse semplicemente mantenere la sua altitudine alla tipica velocità di crociera di 805 km/h, dovrebbe costantemente abbassare il muso per scendere di 846 m ogni minuto! Altrimenti, senza compensazione, in un’ora il pilota si troverebbe 50,7 km più in alto del previsto.

Se la terra fosse una palla, diversi voli nell’emisfero sud seguirebbero il percorso più rapido e più diretto sopra il continente antartico, come quelli da Santiago del Cile a Sydney in Australia. Invece di scegliere la rotta più breve e più veloce in linea retta sull’Antartide, tutti questi voli fanno invece ogni tipo di deviazione giustificate con il fatto che le temperature sarebbero troppo basse perché un aereo possa volare! Considerando il fatto che esistono svariati voli per/da/sopra l’Antartide, e che la NASA afferma di possedere una tecnologia che permette loro di volare a temperature decisamente più basse – e anche molto più alte – di tutte quelle registrate sulla terra, una tale scusa non è chiaramente altro che una scusa e questi voli non si compiono soltanto perché sono impossibili.

Le preesistenti leggi della densità e del galleggiamento spiegavano perfettamente la fisica degli oggetti in caduta molto tempo prima che il massone nominato “Sir” Isaac Newton donasse la sua teoria della “gravità” al mondo. È un fatto certo che gli oggetti posti in un fluido più denso salgono verso l’alto mentre gli oggetti in un fluido meno denso affondano. Per adattarlo al modello eliocentrico che non ha sopra né sotto, Newton affermò invece che gli oggetti sono attratti dalle grandi masse e cadono verso il centro. Tuttavia, non un singolo esperimento nella storia ha mai dimostrato che un oggetto abbastanza grande fosse in grado – in virtù della sua sola massa – di attrarre altre masse minori, come Newton affermò che la “gravità” facesse con la terra, il sole, la luna, le stelle e i pianeti.

Non un singolo esperimento nella storia ha mai dimostrato che un oggetto possa – in virtù della sua sola massa – causare una massa minore di orbitare attorno a sé. La magica teoria della gravità consentirebbe che gli oceani, gli edifici e la gente siano costantemente appiccicati al fondo di una palla rotante e simultaneamente che oggetti come la luna e i satelliti rimangano agganciati in perenni orbite circolari attorno alla terra. Se questo fosse vero allora la gente dovrebbe essere in grado di saltare e iniziare a orbitare in circoli attorno alla terra, e la luna dovrebbe da molto tempo essere stata risucchiata dalla terra. Nessuna di queste teorie è mai stata verificata.

Se guardiamo una nave allontanarsi verso l’orizzonte ad occhio nudo finché lo scafo non è completamente scomparso alla vista oltre la presunta “curvatura della terra“, guardando con un telescopio vedremo l’intera nave riapparire immediatamente, il che prova che la sua scomparsa era causata dalla legge della prospettiva e non da un muro di acque curve! Questo prova anche che l’orizzonte è semplicemente la linea di fuga della prospettiva dal nostro punto di vista e NON la supposta “curvatura” terrestre.

La NASA ha pubblicato diverse presunte foto della palla-terra che mostrano svariati duplicati esatti dei corpi nuvolosi! Le probabilità che esistano due o tre nubi della medesima forma nella stessa immagine sono pari a quelle del trovare due o tre persone con le stesse identiche impronte digitali. Di fatto questa è una valida prova del fatto che le nuvole sono state copiate e incollate in un software grafico e che tali immagini della terra a forma di palla sono dei falsi.

Nel documentario “A Funny Thing Happened on the Way to the Moon“, è possibile vedere il filmato ufficiale della NASA che mostra gli astronauti dell’Apollo 11 Buzz Aldrin, Neil Armstrong e Michael Collins che per circa un’ora usano “diapositive” e trucchi ottici per produrre le false riprese della terra rotonda! Essi comunicano con il centro di controllo a Houston riguardo la messa in scena delle riprese, e qualcuno ripetutamente dice loro come posizionare la cinepresa per ottenere l’effetto desiderato. Dapprima essi oscurano accuratamente tutti gli oblò tranne quello circolare che si affaccia verso il basso, sul quale hanno puntato la telecamera a qualche piede di distanza. Questo crea l’illusione di una terra a forma di palla circondata dall’oscurità dello spazio, mentre in realtà è soltanto un finestrino rotondo nella loro cabina buia. Neil Armstrong a questo punto dice di essere a 208’570 km dalla terra, a metà strada verso la luna, ma quando il trucco con la cinepresa è terminato lo spettatore può vedere da sé che gli “astro-nots” non erano a più di 39 km sopra la superficie terrestre, probabilmente in volo su un aereo ad alta quota.

Il continente Antartico non sarebbe altro che un’enorme massa di ghiaccio che rappresenterebbe il confine del pianeta, per questo non “apparterrebbe” a nessuno, non perché inospitale ma perché frutto di un accordo tra i paesi industrializzati. 

Il terrapiattismo italiano in 10 punti. Gianluca Dotti, Giornalista scientifico, 29 novembrfe 2019 su Wired. Essere davvero terrapiattisti vuol dire non fermarsi alla sola idea che la Terra sia bidimensionale, ma abbracciare una serie di teorie alternative a tutto tondo, dall'esplorazione spaziale alla storia dell'umanità, incluse le scie chimiche e il sistema scolastico. La notizia è che fregiarsi dell’essere un terrapiattista significa molto più che essere convinti della forma bidimensionale della Terra. In Italia, oggi, aderire al movimento Flat Earth vuol dire abbracciare una serie di teorie alternative su argomenti che spaziano dal Duomo di Milano all’Australia, da Babbo Natale all’evoluzione, fino ad arrivare a screditare Einstein e una miriade di altri scienziati. Non è facile stimare quante persone nel nostro Paese siano convinte che la Terra non sia un globo, perché esistono posizioni più o meno estremiste in proposito, e soprattutto c’è chi si diverte a fingersi terrapiattista e a trollare altri creduloni. E c’è anche chi, ovviamente, con il terrapiattismo ci vive, o ne ricava un secondo stipendio a suon di libri venduti, gadget rifilati e convegni organizzati. Tornata in primo piano negli ultimi giorni dopo un servizio televisivo, la teoria della Terra piatta a volte pare quasi diventare motivo di scontro scientifico serio, come se davvero fosse necessario ripartire da zero e ridiscutere tutto daccapo. Ignorando secoli di ricerca scientifica e di conquiste nel campo della fisica e dell’astronomia, i terrapiattisti vorrebbero che con qualche schizzo disegnato su dei cartelloni e un paio di mini-esperimenti dalla finestra di casa si potesse creare un nuovo sapere, capace di smontare tutto il resto. Per riassumere l’identità del terrapiattismo italiano di fine 2018, abbiamo raccolto in 10 punti i dogmi di base della dottrina. Senza discutere passo passo l’anti-scientificità di queste tesi (conoscete la teoria della montagna di cacca?), eccole raccolte in ordine, quasi a formare un ipotetico manifesto dei terrapiattisti. Se emergono contraddizioni e passaggi illogici, nessun problema, fa tutto parte della dottrina. Tra i dogmi ne omettiamo uno, ovvio e alla base di tutti gli altri: la regola zero, ossia che la Terra non somiglierebbe affatto a una sfera, ma a un cerchio.

1. Il Polo Nord al centro, Polo Sud tutto intorno. Ci hanno sempre fatto credere che il Polo Nord fosse un luogo magico, una parte del mondo da non esplorare e abitata da strane creature come gli elfi e Babbo Natale. Invece non sarebbe altro che il centro del mondo. Il Polo Sud non sarebbe un punto, ma una linea di confine che circonda e delimita tutte le terre conosciute. Intorno alla Terra circolare, secondo le strampalate teorie, si troverebbe una catena montuosa alta 400 chilometri e lunga 72mila, color smeraldo e popolata da guardiani che difendono i confini terrestri da oltre 2mila anni, nutrendosi dei frutti della terra. Oltre quei confini, molte altre terre ancora inesplorate.

2. Sbarchi lunari e missioni spaziali come messinscena. La menzogna sull’esplorazione spaziale è chiaramente totale: gli allunaggi della Nasa sarebbero un falso, e tutte le altre presunte sonde lanciate nello Spazio solo una favoletta. L’esplorazione spaziale, secondo i terrapiattisti, servirebbe unicamente per sostenere la teoria della Terra sferica, e anche gli astronauti sarebbero degli attori ben pagati per simulare missioni in orbita e divulgare scemenze.

3. Foto satellitari e mappamondi? Strumenti di propaganda. Le immagini (che ci dicono essere) raccolte dallo Spazio sarebbero in realtà grafiche realizzate al computer create ad hoc per convincerci che davvero viviamo su un pianeta sferico. Come ulteriore elemento di persuasione, dicono i terrapiattisti, nei negozi si trovano mappamondi che riproducono la falsa forma di cui ci vogliono convincere. Lo stesso varrebbe per i libri di scuola e gli atlanti: strumenti creati dal sistema per non farci conoscere la verità.

4. Tutta la storia da riscrivere, dai megaliti alle necropoli. La vera storia dell’umanità ci sarebbe stata nascosta, perché chi controlla il passato di fatto controlla il futuro. I megaliti non erano grandi come dimostrazione di imponenza, ma perché in un passato indefinito la Terra era abitata da giganti. Anche la Basilica di San Pietro in Vaticano e il Duomo di Milano, che hanno porte di ingresso enormi, sarebbero per chi crede nella Terra piatta, costruzioni dei giganti per i giganti. Tutta la storia nella sua versione accademica quindi rappresenterebbe solo una grande bugia, un grande inganno.

5. I dinosauri mai esistiti e l’evoluzione come falsa teoria. Le ossa che abbiamo ritrovato grazie agli scavi sono reali, ma non apparterrebbero ai dinosauri, secondo i terrapiattisti, bensì a quei giganti che abitavano sulla Terra prima di noi. Volete una fantasiosa prova che l’evoluzione non esiste? Ci dicono che ci siamo evoluti dai pesci: prendete un pesce vivo e mettetelo su un tavolo. Quanto tempo credete che impieghi il pesce per capire che gli servirebbero le gambe (come le abbiamo noi) per scappare e ritornare in acqua? Non ce la farebbe mai.

6. L’Australia non sarebbe dove ci dicono e l’effetto Pac-Man). L’Oceania sia solo un continente fantasma frutto di un complotto ed esisterebbero piloti d’aereo che hanno confessato come stanno davvero le cose. Per vedere l’Australia, quella vera, basterebbe salire sulla cima di un monte in Norvegia, e la si potrebbe scorgere all’orizzonte. Riguardo alla presunta possibilità di circum-volare il globo andando sempre dritto in aereo, la spiegazione arriva dall’effetto Pac-Man: proprio come nel videogioco, quando si esce da una parte della mappa si rientrerebbe dall’altra.

7. Il vero sapere del web e gli scienziati massoni. La rete secondo i terrapiattisti è l’unico mezzo affidabile di informazione, perché non è schiava della massoneria e del sistema. Quelli che vengono spacciati per grandi scienziati, invece, non avrebbero inventato o scoperto alcunché. Le formule matematiche sarebbero complicate proprio per fare in modo che le persone non capiscano e si fidino del sistema, non avendo la forza e le capacità per controbattere. Tutte le teorie di Einstein, ovviamente, sarebbero sbagliate. Curvatura terrestre e forza di gravità sarebbero solo invenzioni, delle scuse per tentare di giustificare le bugie.

8. La verità di tutte le teorie del complotto. Gli attentati dell’11 settembre non ci sarebbero mai stati, i terremoti sarebbero prodotti artificialmente, gli alieni si troverebbero tra noi, le scie chimiche sarebbero un modo per lobotomizzarci e andrebbero combattute “con dispositivi orgonici che spiralizzano l’etere”. Anche i vaccini rappresenterebbero solo un modo per farci del male, perché in generale non si può tentare di “sostituire l’anima con la scienza”.

9. Gli altri pianeti e i corpi celesti? Ologrammi. La Luna sarebbe un cerchio piatto appeso nel cielo, infatti nessuno di noi ha mai visto la sua altra faccia. Le eclissi si potrebbero spiegare, secondo loro, con un gioco di luci e ombre senza tirare in ballo orbite circolari o pianeti sferici, ma non si potrebbe escludere che una parte degli effetti di oscuramento sia dovuta a qualche post-produzione dell’immagine del cielo. Marte invece non esisterebbe affatto, e il nome Nasa non sarebbe altro che un richiamo a Satana, come suggerirebbe anche il colore rosso del logo che indica la lingua del serpente. Chi gestisce il complotto ama giocare con le lettere, dicono i terrapiattisti, e Satana diventa Nasa, ma anche Ansa: ecco come si smaschera il complotto dell’informazione.

10. I nove punti, anche se non sembra, rientrerebbero nel terrapiattismo. L’inganno della terra sferica servirebbe per farci sentire insignificanti e renderci schiavi. In realtà saremmo tutti controllati e gestiti da un sistema, una sorta di Matrix in cui sono artificiosamente inserite anche le piante e gli altri animali. Saremmo stati creati altrove e messi sulla Terra, e l’immenso complotto inizierebbe dalla forma del nostro pianeta ma si manifesterebbe in moltissime altre occasioni, che coincidono con tutti quegli esempi che vengono fatti passare per complottismi senza senso. Ma se si aprissero gli occhi, tutto acquisterebbe un altro significato. Noi gli occhi li abbiamo ben aperti, ma ci teniamo la nostra Terra sferica.

Come si spiega l’incredibile successo dei «Terrapiattisti». Gilberto Corbellini Il Sole 24 ore 4 dicembre 2018. Da qualche giorno in rete si discute più del solito dell'idea fantasiosa che la Terra sia piatta. Merito di un esilarante servizio delle Iene che ha documentato il convegno dei terrapiattisti ad Agerola. La gente crede a una quantità sterminata di cose ridicole, come conseguenza non tanto di ignoranza, arroganza o perversione, ma del modo in cui funziona il cervello umano. Si crede a omeopatia e agopuntura, alla biodinamica o che i vaccini causano malattie, e poi all'astrologia, agli Ufo, a una pletora di venditori di pseudo-cure, etc. Siamo una specie credulona e a ciò si deve il nostro successo sul pianeta. E c'è una logica ben precisa nella pseudoscienza e nelle superstizioni. Nessuna credenza, forse, è più comica della teoria che la Terra sarebbe piatta. In questo caso il deragliamento della ragione tocca livelli importanti. E' interessante l'eziologia e la storia naturale della deviazione, ma anche come si diffonde. Non esistono rimedi contro le pseudo-credenze, e la loro fluttuazione nella popolazione generale dipende da dinamiche contingenti o dai danni che possono fare. Peraltro, credere che la Terra sia piatta non fa male a nessuno. Stando ai dati di Google Trend, da metà 2015 c'è stato un aumento crescente di ricerche che avevano per oggetto “Flat Earth”, con un picco quasi fuori scala a fine novembre 2017. Non ci sono motivi per quel picco, a parte forse che il 20 novembre Nature pubblicava la prima descrizione di un oggetto interstellare che attraversava il sistema solare, e tutti i giornali riportavano la notizia. Il paese dove il termine è stato più googlato è la Nuova Zelanda, mentre l'Italia è al 38° posto, con un lieve incremento di interesse negli ultimi 4 anni. Ma perché tanto interesse per un'idea così balzana (il 2% degli americani pare creda che la Terra sarebbe piatta e il 10 lo prende in considerazione), che si impara a confutare alle scuole elementari? Togliamo di torno che si tratti di passatismo. Gli antichi sapevano che la Terra è sferica. Viaggiatori e marinai per esperienza, in quanto vedevano prima le parti più elevate di un'isola o di una nave in avvicinamento. Aristotele scriveva che è un fatto accertato, mentre Eratostene ne misurò con sorprendente precisione la circonferenza nel III secolo prima dell'era volgare. Anche nel medioevo le persone istruite sapevano che la Terra è sferica: un trattato degli inizi del XIII secolo di Giovanni di Sacrobosco riassume le prove del tempo della sfericità del mondo (Tractatus de Sphera, circa 1230). Dopo i viaggi di Cristoforo Colombo la teoria entrava in un cono d'ombra per riemergere nell'Ottocento come risposta alla diffusione della razionalità scientifica e in difesa del contenuto letterale della Bibbia, da parte dei frange religiose più integraliste. A fine Ottocento si consumò in Inghilterra una sfida tra il grande biogeografo Alfred Wallace e il terrapiattista John Hampden, che mise in palio 500 sterline per chi avesse dimostrato la curvatura della Terra. Wallace ci riuscì, ma Hampden fece di tutto per non pagare e minacciò Wallace, finendo in carcere. Tuttavia, la scommessa fu annullata e Wallace, che puntava solo ai soldi, dovette restituire la somma, subendo anche le critiche dai colleghi perché non avrebbe dovuto svilire la scienza in una scommesse per stabilire un fatto acclarato. Le pseudoscienze non sono prive di “metodo”, come credono gli scienziati. Nell'ottocento in difesa del terrapiattismo era usato il metodo zetetico, cioè una forma di pseudo-scetticismo che si richiama al pensiero scettico radicale antico, per cui si deve partire da osservazioni e dati sperimentali per dedurre le spiegazioni, e non si devono assumere ipotesi o teoria in partenza da confutare attraverso le prove. Ergo, non si deve fare l'ipotesi che la Terra sia rotonda o piatta, ma partire dalle percezioni e dai dati sperimentali accessibili ai sensi da spiegare deduttivamente: tutto il resto sarebbero pregiudizio o inganni. Nell'era dei viaggi spaziali, la credenza nella Terra piatta è stata alimentata soprattutto dalle teorie cospirative, insieme alla dissonanza cognitiva e a una forma di bias anticonformista. I terrapiattisti sostengono ci sia una cospirazione mondiale che, come nel film Matrix, ci fa vivere una realtà che non esiste ed è frutto di manipolazioni. E' inutile portare prove, perché i terrapiattisti possono anche credere in alcune prove e conservare le loro pseudocredenze. È la dissonanza cognitiva, che ci aiuta a tirare avanti con le nostre contraddizioni. Oggi, per esempio, molti terrapiattisti non mettono più in discussione l'evoluzione darwiniana, l'età della Terra, i dati dei satelliti che provano il riscaldamento globale, la gravità, etc. Forse non è tanto importante credere che la Terra sia piatta, e in molti non ci credono davvero a livello inconscio, quanto aderire a una dottrina cospirativa. È la componente cospirativa che attrae verso molte pseudocredenze. Le teorie della cospirazione condividono il fatto di avanzare una teoria alternativa (altro che zetetica!) rispetto a qualcosa, ed elaborano vaghe (è importante che siano vaghe!) e contorte spiegazioni del perché qualcuno sta nascondendo quella versione “vera” degli eventi. I terrapiattisti sono ben più dogmatici sul fatto che la Terra sia piatta, di quanto noi lo siamo circa la sua rotondità. Per noi non c'è nulla da dimostrare più, e siccome le cose funzionano benissimo con la Terra rotonda, la diamo per scontata senza essere fanatici. Se si è predisposti a un bias di anticonformismo è difficile resistere all'influenza di gruppi di persone che pur avendo un punto di vista minoritario, lo presentano in modo astuto, sembrano molto ben informati e sono molto convinti di quello che sostengono. La nostra capacità non solo di farci ingannare dai sensi, ma anche di farci influenzare dagli altri e di montare argomenti apparentemente razionali per difendere credenze e metodi sbagliati, è fantastica. E c'è chi ancora crede che il libero arbitrio sia una cosa reale! Forse le strategie per contrastare la diffusione e gli effetti dannosi delle pseudoscienze andrebbero ripensate. 

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Il Controllo della Mente.

Da Il Foglio il 25 settembre 2019. Complesso, oscuro, misterioso. E altri aggettivi del genere si potrebbero usare per descrivere il cervello, l’organo che tutto controlla ma che resta – e non solo per i comuni mortali non istruiti in materia – qualcosa di poco esplorato: “Ciò che sappiamo del cervello e della mente è ancora una minima parte del tutto”, scrive l’autore in conclusione del libro. Si cercano le risposte a malattie gravi, l’Alzheimer e il Parkinson, le demenze e l’autismo. Ma si vorrebbe sapere di più, anche solo per mera curiosità, sul perché un colore ci piace più dell’altro, o perché la notte può essere affollata di sogni. Giulio Maira è un neurochirurgo di fama, non ha bisogno di troppe presentazioni e celebrazioni. Il suo curriculum parla per lui. Ha scelto una strada diversa per raccontare la sua grande passione per il cervello: non un trattato scientifico, denso di rimandi a piè di pagina e note varie. Il suo è un testo divulgativo, fatto di citazioni letterarie e agganci a episodi di vita vissuta, a metafore dispensate quando serve, a pillole tratte dal cinema (si parla anche di “Blade Runner”). Il risultato finale corrisponde all’auspicio iniziale. “Queste pagine vogliono spiegare con parole comprensibili e semplici quanto sia complesso e prezioso il funzionamento del cervello e come tutto ciò che caratterizza la nostra vita e il progresso che la accompagna sia possibile proprio grazie a lui. Tutto quello con cui entriamo in contatto ogni giorno, la nostra macchina, il cellulare, la radio che accendiamo andando al lavoro, il computer in cui custodiamo tanta parte della nostra vita, i sogni che ci trasportano in un mondo fantastico, il ricordo delle persone care, l’amore, il senso del bello, i pensieri, senza il cervello non potrebbero esistere”. Sembra un’ovvietà, ma non lo è se ci si ferma a meditare un po’. Tutto dipende da lì, manifestazioni artistiche, l’osservazione di un’opera d’arte, il restare colpiti dalla bellezza di una cattedrale. E poi, “viene dal nostro cervello anche l’identità che ognuno di noi ha di sé; è lui che ci suggerisce a cosa pensare e costruisce per noi l’immagine del mondo che ci circonda, che è il risultato dell’elaborazione di tutte le nostre esperienze. Confida a noi, e solo a noi, le sue riflessioni, le sensazioni, le conclusioni a cui giunge. Per tutto ciò che sappiamo, dobbiamo ringraziare il cervello. In ultima analisi, noi siamo il nostro cervello; senza di lui, noi, come siamo nella realtà, non esisteremmo”, scrive Maira. Il cervello allora è un po’ meno misterioso: è un “capolavoro sconcertante e noi siamo fortunati ad appartenere a una generazione che ha gli strumenti tecnici e la preparazione culturale per studiarlo. E’ la cosa – scrive il neurochirurgo – di gran lunga più bella che si sia scoperta nell’universo”. E’ un viaggio meraviglioso, quello descritto (ma sarebbe più opportuno dire “narrato”) da Maira, quasi fosse un romanzo d’avventura: “Agli albori dell’evoluzione, sulla Terra, non c’era traccia alcuna di coscienza o di libero arbitrio; prevalevano l’istinto e la lotta per la sopravvivenza. Poi, pian piano, l’acquisizione nel nostro cervello di sempre maggiori capacità e funzioni portò l’Homo sapiens a poter prevedere le conseguenze future delle proprie azioni, ad avere un primo barlume di coscienza”. Così, aggiunge, “la coscienza nasce con il cervello, sboccia quando il cervello sviluppa reti rigogliose e le consolida, e poi invecchia con esso. Quando il cervello muore, anch’essa muore”. Senza la coscienza, insomma, “non esisterebbe nulla”.

La nostra capacità di attenzione è di nove secondi: come quella dei pesci rossi. Cala vertiginosamente la concentrazione. Per questo cinema e web puntano sull'accelerazione. Ma più le immagini sono veloci e meno ricordiamo. Il direttore di Arté: «Il nostro tempo è diventato il fattore economico più prezioso». Anna Bonalume il 25 novembre 2019 su L'Espresso. Illustrazione di Pierluigi LongoOgni secondo in più che trascorriamo sui social è denaro. Google ha determinato l’algoritmo della nostra attenzione: il tempo massimo di concentrazione di un millennial è di 9 secondi. Un secondo in più di un pesce rosso. Sulla base di questa proiezione, Google produce contenuti e stimoli per sfruttare il tempo che trascorriamo sul web e monetizzarlo. Schiavi del dio connessione, la nostra attenzione produce ricchezza, quella di Google. E una serie di patologie, le nostre.  Bruno Patino, direttore editoriale di ARTE e della scuola di giornalismo di SciencesPo Parigi, racconta gli effetti del mercato dell’attenzione in un interessante libro appena pubblicato in Francia “La civiltà del pesce rosso. Piccolo trattato sul mercato dell’attenzione” (Grasset). L’autore è un grande esperto del mondo digitale, di cui si occupa da più di vent’anni. La sua carriera inizia a Le Monde, come giornalista corrispondente dal Cile, seguono ruoli di direzione nelle più grandi aziende mediatiche francesi: la rivista Télérama, la radio France Culture e la tv di Stato France Télévisions (corrispondente alla nostra Rai). Tra tutti i media Patino preferisce la radio, perché, dice, «ha una magia che fatico a dimenticare, grazie alla voce, un mezzo di trasmissione meraviglioso». Patino ci accoglie nel suo ufficio al quinto piano della sede di ARTE, la più grande industria culturale franco-tedesca, un canale televisivo di informazione e approfondimento fondato 30 anni fa grazie ad accordi diplomatici tra Francia e Germania per creare «la futura televisione culturale europea». «Il mercato dell’attenzione», racconta il direttore, «è un concetto, economico e semplice, nato negli anni ’20 negli Stati Uniti, nel periodo in cui si sviluppavano i media audiovisivi, secondo il quale alcuni media vivono grazie alla pubblicità e per questo hanno bisogno di captare il tempo dell’attenzione delle persone, quello che Patrick Le Lay, ex direttore di TF1 (canale tv francese privato, ndr.) ha chiamato «il tempo di cervello umano disponibile». Ma il concetto di mercato rinvia innanzitutto all’economia. Patino descrive l’impressionante deriva del modello economico dell’attenzione, del quale è testimone. Osserva che «l’economia dell’attenzione ha subìto una grande mutazione nell’epoca digitale con l’imporsi delle grande piattaforme social, finanziate dalla pubblicità». Questa mutazione ha provocato «gravi problemi individuali, in particolare problemi dell’attenzione e psicologici, ma anche collettivi». Non solo. «Sta cambiando la natura dello spazio pubblico, si è imposta una polarizzazione dei dibattiti pubblici e il dominio del regno dell’emozione nella nostra vita cognitiva e sociale». Ma il mercato dell’attenzione non è un’invenzione dei giganti del Web. Prima che arrivassero Google &Co. si cercava di (in)trattenere le persone di fronte alla tv il più possibile per vendere loro pubblicità. Al tempo del digitale, invece, è tutto più semplice, illimitato, perché siamo tutti connessi permanentemente, sottolinea Patino. Ed è tutto molto più preciso, perché gli strumenti digitali permettono di conoscere e anticipare i comportamenti, il contesto in cui viviamo, attraverso “data” e mezzi coniati con l’ausilio delle neuroscienze. «Il vostro cellulare è attivo 24 ore su 24, il suo scopo è riuscire a catturare la vostra attenzione, anche quando avete deciso di fare altro. Mentre state facendo attività poco interessanti, come durante i trasporti o nelle file di attesa, ma anche più importanti: lo studio, il lavoro, la vita personale e sociale». Persino mentre dormiamo. Il nostro desiderio compulsivo di sentirci circondati da uno “schermo protettore”, dove sviluppiamo la nostra esistenza digitale, ha infatti invaso anche il tempo del riposo. Mai troppo lontano dal cuscino, il cellulare rimane in standby pronto a riaccendersi nel cuore della notte, per controllare nuove notifiche. Accade ai “dormienti sentinella”, che evitano il sonno profondo per non perdere nessun segnale emesso dal cellulare. Le patologie legate a questa dipendenza, e alla conseguente perdita della libertà, sono note e repertoriate. Patino ne elenca alcune: c’è la “nomofobia” (no mobile phone phobia), che consiste nell’essere colti dal panico di fronte all’allontanamento, anche temporaneo, del proprio cellulare; la “phubbing”, (contrazione di phone, cellulare, e snubbing, snobbare), la consultazione evidente dello smartphone di fronte a colleghi, amici, persone di famiglia mentre si parla, un riflesso diventato incosciente, «il midollo spinale ha preso il sopravvento sul cervello». Se è vero che «la società digitale assomiglia ad un popolo di drogati ipnotizzati dallo schermo», quello che spaventa di più è la fragilità mentale, finora sconosciuta, provocata da questa dipendenza. Nel libro si scoprono diversi disturbi, di cui si comincia lentamente a discutere anche in Europa, catalogati da un gruppo di esperti del “Near Future Laboratory”: la sindrome d’ansia, la schizofrenia di profilo, l’atazagorafobia e l’oscuramento. L’ansia più comune è quella legata al bisogno permanente di esporre i diversi momenti dell’esistenza, anche i più derisori, sui social: sarà il buon momento per postare? È questa la foto adatta? Quanti like avrò? E quante condivisioni? Il timore è quello di sparire e di essere dimenticati dalla “comunità digitale”. L’atazagorafobico consulta il proprio cellulare di continuo alla ricerca di un like o di una condivisione e per assicurarsi di non essere un individuo entrato nell’oblio del gruppo. La frase di Sartre, «L’inferno sono gli altri», andrebbe riscritta: «Il nostro inferno quotidiano siamo noi stessi». Anche Patino, però, ha creduto al sogno di un’umanità migliore come risultato dell’evoluzione digitale. «Mi sono occupato della creazione del sito lemonde.fr. Ho iniziato a lavorare nel settore digitale sei anni prima dell’arrivo di Facebook e ho assistito ad un’accelerazione tecnologica inedita. All’epoca si lavorava con una connessione 14K, ci voleva un minuto e mezzo per caricare l’homepage di Le Monde… ci chiedevamo se mettere delle foto, se bisognasse inserire l’attualità o meno, quante volte al giorno aggiornare la homepage».  Quando parla di connessione 14K i suoi alunni della scuola di giornalismo lo guardano come fosse un mammut. «All’inizio mi sono detto: «È una novità tecnologica interessante». Poi «è una novità mediatica interessante».  Poi «è una novità sociologica.  Oggi tutti sappiamo che si tratta di una novità antropologica». Una novità che ha alterato i sogni. Come ricorda nel libro, i due principi fondamentali sui quali è nata la Rete erano l’accesso universale gratuito e la collaborazione di tutti gli utenti per migliorarla e farla crescere. L’utopia di «un’uguaglianza totale, associata a una libertà assoluta, per raggiungere la saggezza universale» si è ormai deteriorata. Trascinata da un impeto collettivo nato dalle passioni individuali, il web ha ceduto alla «superstruttura economica» nata dall’accumulazione. Ma come sono riuscite le piattaforme ad attirarci? Il segreto è il tempo. Il tempo è diventato un prodotto raro, la risorsa più richiesta, sulla base della quale si è costruita la crescita economica attuale. Le piattaforme digitali hanno prodotto un’accelerazione diffusa nella produzione di contenuti per mantenere l’utente sullo schermo. I media audiovisivi e audio ne sono stati influenzati. «Guardi per esempio un certo cinema. Le scene di un blockbuster sono talmente rapide che non si ha quasi nemmeno il tempo di capire quello che si sono detti gli attori. Si passa immediatamente a un’altra scena, producendo una specie di effetto stroboscopico sulla retina. Come se non fossimo più capaci di guardare una scena estesa nel tempo. Diversi libri accorciano i capitoli, di 4 o 5 pagine, perché si pensa che un capitolo di 50 pagine non sia più leggibile. Con questa accelerazione viviamo un circolo vizioso: una capacità d’attenzione che diminuisce, e la produzione culturale che accelera, diminuendo ancora di più la nostra attenzione». In questo contesto, la sfida di un canale come ARTE è grande: «Cerchiamo di ridare tempo e spazio alle persone, di sviluppare una sorta di sobrietà in un contesto di sovrabbondanza di segnali. Cerchiamo di promuovere racconti che richiedono tempo. E gli ascolti crescono». Tuttavia, non è solo questione di tempo. L’economia dell’attenzione ha permesso di democratizzare l’economia del dubbio. Il business del dubbio oggi produce un profitto immediato. Patino cita un memorandum interno al sindacato patronale dell’industria del tabacco datato 1969: «Il nostro prodotto ormai è il dubbio. Perché il dubbio è il miglior modo di indebolire le idee che esistono nella testa dei consumatori». Il dubbio produce domande, fa reagire, provoca uno shock emozionale e quindi moltiplica le azioni digitali, le condivisioni, i commenti. E poi è molto più facile ed economico produrre verosimiglianza, e quindi dubbi e credenze, che verità. «L’economia del dubbio ha creato un impero di credenze, e queste credenze sono il terreno dei complotti», aggiunge. «La realtà è un’esperienza. La solidarietà collettiva e il destino comune nascono dalla costruzione di un’esperienza condivisa». Ma perché quest’esperienza condivisa sia “libera”, bisogna rivedere le modalità e i tempi del consumo di social e altre piattaforme. Per esempio cominciando a diffondere una coscienza collettiva sulla necessità di un’autoregolazione dell’esperienza digitale. E poi avviare un cambiamento economico, senza necessariamente abbandonare Internet o fuggire dai social. Perché le patologie prodotte dalla schiavitù virtuale «non sono un prodotto tecnologico, ma il risultato del modello economico di alcune piattaforme digitali». Se insomma Facebook, Twitter, Youtube trovassero nuovi modi di finanziamento, per esempio attraverso la sottoscrizione di un abbonamento da parte degli utenti, o attraverso la formula “no-profit” di Wikipedia, non funzionerebbero come oggi, ovvero non cercherebbero di catturare ogni secondo della nostra attenzione, perché la loro sopravvivenza non dipenderebbe più dal nostro tempo, ma dal nostro portafoglio. Il problema, oggi, è invece che il successo di molte applicazioni digitali dipende dal tempo che noi gli dedichiamo.          

Nel libro di Giulio Maira i segreti del cervello, l’organo che ci governa. Pubblicato martedì, 24 settembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ripamonti. Perché le idee migliori ci vengono quando la testa è libera di vagare? Viaggio nei meccanismi cerebrali in un volume pubblicato da Solferino. Vi siete mai chiesti perché la soluzione migliore per un problema cui non riuscivate a venire a capo vi è, letteralmente, «venuta in mente» da sola quando avete smesso di pensarci? Oppure perché le idee più originali le avete avute, per esempio, camminando in montagna o magari sotto la doccia? Il motivo è che queste sono situazioni in cui viene messa (almeno parzialmente) a riposo la neocorteccia, cioè i due metri quadrati di cellule nervose e relativi collegamenti, che, ripiegati in vari solchi e circonvoluzioni, rappresenta la parte più evoluta del nostro cervello, quella che il neuropsicologo russo Alexander Luria, definiva «l’organo della civilizzazione», deputata a far sì che la ragione vinca sull’irragionevolezza. Il saggio di Giulio Maira, «Il cervello è più grande del cielo», è pubblicato da Solferino libri (pp. 304, euro 17)È la neocorteccia che ci consente di agire con razionalità e ha permesso alla nostra specie di costruire cultura e relazioni sociali e di dominare il pianeta. La creatività, però, spesso si accende quando si spegne la neocorteccia perché ciò lascia «campo libero» all’attività di reti neuronali non legate ad azioni specifiche da svolgere, che compongono il cosiddetto default mode network. Alla loro attività si attribuisce la facoltà di mettere in relazione tra loro conoscenze accumulate in passato e di stabilire connessioni che sotto il giogo della logica non saremmo stati in grado di stabilire. È per questo che spesso è proprio nei momenti in cui si vaga con la mente che avvertiamo una profonda comprensione della realtà. Giulio Maira è neurochirurgo all’Istituto clinico Humanitas di MilanoEcco perché è importante, per esempio, che i bambini si annoino: se sono sempre incollati alla televisione o hanno tutto il tempo occupato da attività, per quanto intelligenti siano, la loro creatività sarà soffocata. Il bambino che ha tutto, che non ha tempo per annoiarsi non saprà lasciare liberamente spazio alla fantasia, all’immaginazione. E vale la pena ricordare che Einstein diceva che «la logica può portarti dal punto A al punto B, ma l’immaginazione può portarti ovunque». A spiegare questo e molto altro con profondità, ma anche con semplicità, è Giulio Maira, celebre neurochirurgo italiano ne Il cervello è più grande del cielo (Solferino), un viaggio attraverso il miracolo di quest’organo straordinario. Un percorso affascinante, chiaro e comprensibile, preciso ma non accademico, che affronta tutti i principali aspetti legati all’argomento: dall’intelligenza, alla memoria, ai sogni, fino a una riflessione finale sull’Intelligenza artificiale. La quale, per dirla con l’autore, difficilmente potrà essere dotata di un amigdala, piccola «mandorla» fondamentale per il sistema limbico, quella parte di cervello deputata alle emozioni, che, come dice Maira, ci fa fare la guerra ma anche provare l’amore. Il sistema limbico ci premia con la produzione del neurotrasmettitore dopamina per farci ripetere gesti che sono funzionali al nostro bene e alla prosecuzione della specie, come per esempio mangiare e accoppiarci. Ma che ci fa anche provare terrore davanti a qualcosa che minaccia la nostra vita, in modo che possiamo regolarci di conseguenza. È nella comunicazione continua fra il cervello limbico, che presiede alle emozioni, e la neocorteccia che si giocano il comportamento sociale evoluto e la ricerca della felicità. Questi due parti del cervello, insieme a quella rettiliana (la più antica dal punto di vista evolutivo), situata nella parte posteriore dell’encefalo e fondamentale per i movimenti, formano un complesso unico nel panorama degli esseri viventi. Nel loro insieme creano un «dispositivo» dalla potenza e dalla resa eccezionali, che deve la sua complessità e la sua efficienza, fra l’altro, al suo lungo tempo di formazione. A differenza della maggior parte degli animali, un neonato umano alla nascita, pur avendo una quantità enorme di cellule nervose a disposizione, non è capace di fare quasi nulla da solo: dipende totalmente dai genitori. Il motivo è che ha ancora un numero relativamente esiguo di sinapsi, le giunzioni che mettono in contatto fra loro le cellule nervose formando reti complessissime. Le connessioni si formano via via con il tempo e con le esperienze e fanno del cervello un organo che viene cablato e che si rinnova nel corso della sua intera esistenza. Non a caso Maira apre il suo libro scrivendo che la più bella rappresentazione di sempre di una sinapsi è quella del contatto fra il dito di Dio e quello di Adamo, affrescata da Michelangelo nel pannello centrale della Cappella Sistina.

L’intelligenza aiuta a non ammalarsi. Pubblicato domenica, 13 ottobre 2019 da Corriere.it. Esiste un legame tra livello di intelligenza di una persona e il suo stato di salute, con ripercussioni anche sulla longevità. In particolare, sembra esserci uno specifico rapporto tra il livello di intelligenza mostrato da bambini o da giovani e la salute di cui si godrà nella vita. Questo legame, la cui natura non è ancora del tutto chiara agli scienziati, sarà uno dei temi della quinta edizione del Festival della Scienza Medica, organizzato a Bologna dal 9 al 12 maggio e che quest’anno sarà dedicato proprio alla «intelligenza della salute». Al festival è prevista anche la partecipazione di Ian Deary del Centro per l’invecchiamento cognitivo del dipartimento di psicologia dell’Università di Edimburgo, autore di diversi studi sul rapporto tra intelligenza, stato di salute e longevità. Una delle sue ricerche ha coinvolto oltre 65mila persone che nel 1947 erano state sottoposte a test di intelligenza nelle scuole scozzesi, così è stato poi possibile verificarne le condizioni di salute e la longevità. Il legame tra quoziente di intelligenza e salute è risultato inequivocabile. «Abbiamo prove chiare del fatto che un livello più alto di intelligenza rilevato tramite specifici test risulta associato a una vita più lunga, sia per un minor rischio di malattia, sia per la maggior probabilità di tenere comportamenti salutari» ha spiegato Ian Deary al Corriere della Sera. «Le prove vengono da grandi studi di popolazione condotti in diversi Paesi. Punteggi elevati ai test dell’intelligenza sono abbinati a un minor rischio di morire per diverse patologie, compresi ictus, malattie cardiovascolari, tumori correlati al fumo di sigaretta, malattie respiratorie e dell’apparato digerente, demenza, ferite o lesioni. Sia il nostro gruppo di ricerca sia altri che lavorano sugli stessi temi stanno cercando di capire meglio perché esiste questa correlazione. Le ragioni in buona parte possono essere fatte risalire al livello di istruzione e alla posizione socio-economica e a comportamenti connessi allo stato di salute, compresa la relazione con il fumo di sigaretta. In parte però possono essere chiamati in causa anche fattori genetici ». Ma l’intelligenza oggi sembra essere sempre più una caratteristica mutevole dell’individuo, dal momento che la ricerca degli ultimi anni ha mostrato che il cervello sa essere plastico, con la possibilità fino in tarda età di sviluppare nuove sinapsi e perfino nuovi neuroni in certe zone, come l’ippocampo. Questa intelligenza «aggiuntiva» potrebbe aiutare comunque a migliorare il benessere e la longevità di un individuo? «Mantenere una buona funzione cognitiva ed evitare il declino in età adulta è sicuramente una buona idea» commenta Ian Deary. «Ne derivano una salute migliore, una vita più lunga e la possibilità di restare indipendenti quando si diventa anziani. Molte delle nostre ricerche oggi sono orientate a cercare di capire perché i cervelli e le abilità di pensiero di alcune persone sono migliori di quelli di altre. Sappiamo che alcuni fattori possono essere protettivi nei confronti del declino cognitivo: evitare il fumo di sigaretta, mantenersi in forma, raggiungere un più alto livello di istruzione, impegnarsi in lavori intellettualmente stimolanti, cercare di evitare le malattie. Poi però contano anche i fattori genetici. Comunque non credo che si debba per forza essere intelligenti per stare in salute. Credo piuttosto che tutti dovremmo chiederci come si comportano le persone più intelligenti rispetto alla loro salute. Se riusciamo a capirlo, allora possiamo copiarle». La disciplina che studia il legame tra intelligenza e stato di salute è l’epidemiologia cognitiva, sulla quale stanno lavorando diversi gruppi di ricerca al mondo. «L’epidemiologia cognitiva è lo studio della reciproca associazione dinamica tra il funzionamento cognitivo e le condizioni di salute lungo tutto il corso della vita di una persona, ed è coltivata in molti Paesi europei, negli Usa e in Australia. L’interrogativo principale che si pone è proprio la possibile associazione tra un più elevato livello di intelligenza rilevato ai test effettuati in gioventù e un miglior stato di salute, minori episodi di malattia e vita più lunga». «In molti Paesi — continua Deary - si stanno portando avanti ampi studi epidemiologici, come una ricerca danese effettuata su circa un milione di persone e uno studio israeliano che ha coinvolto circa due milioni di persone. Un’altra nostra ricerca ha esplorato i rapporti tra test d’intelligenza in età giovanile e presenza in età adulta di disturbi mentali e fisici, oltre che di specifici comportamenti salutistici. Abbiamo effettuato anche alcune ricerche di tipo genetico per cercare di scoprire qual è il ruolo della genetica e anche per individuare quali potrebbero essere i geni coinvolti». Intelligenza e salute certamente hanno una reciproca influenza e insieme rappresentano un vero e proprio patrimonio sociale che vale la pena preservare. «La salute dipende dall’intelligenza e l’intelligenza dalla salute» commenta Gilberto Corbellini direttore del Festival di Bologna. «Non dobbiamo dimenticare che nei Paesi dove i bambini crescono contraendo infezioni — alcune delle quali come la malaria, colpiscono gravemente anche il cervello, — o non si alimentano a sufficienza, subiscono ritardi cognitivi, con ricadute negative non solo a livello individuale, ma anche per le prospettive di sviluppo economico, sanitario e civile». Si chiama «effetto Flynn» ed è davvero sorprendente: da quando si fanno i test di intelligenza si rileva un costante aumento del punteggio raggiunto dai ragazzi. In media, i dodicenni testati nel 1980 mostravano un’intelligenza superiore a quella dei coetanei testati nel 1970, che a loro volta superavano quelli del 1960. L’effetto è stato scoperto dallo psicologo neozelandese James Flynn, che nel 1981 revisionò i risultati dei test d’intelligenza realizzati durante quasi un secolo. «È impossibile che gli esseri umani abbiano avuto in così poco tempo una vera evoluzione biologica che li ha portati a diventare una specie più intelligente» dice David Shenk, dell’Università dello Iowa, in un articolo pubblicato sulla rivista WIREs Cognitive Science. «Infatti i miglioramenti non sono rilevabili in tutte le aree, ma solo in alcune, come quella del ragionamento astratto». È possibile che il miglioramento osservato ai test rispecchi solo una maggior confidenza con il ragionamento astratto, mentre l’intelligenza delle generazioni precedenti era più ancorata alla realtà quotidiana». 

Dai un nome a quel brano: ecco in quanto tempo il cervello riconosce una melodia familiare. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. In quanto tempo il cervello umano è in grado di riconoscere una canzone? Il nostro «Shazam» interno sembra essere velocissimo perché le note preferite vengono riconosciute dalla nostra memoria in un tempo davvero rapido: tra i 100 e i 300 millisecondi, come spiega uno studio dell’University College of London, pubblicato su «Scientific Reports». Nella ricerca gli scienziati hanno voluto scoprire esattamente la velocità necessaria al cervello per rispondere a una musica familiare, nonché la successione dei processi coinvolti in questa operazione. Il team ha reclutato cinque uomini e cinque donne che avevano indicato cinque canzoni a testa, molto familiari per loro. Per ciascun partecipante, i ricercatori hanno quindi scelto una delle canzoni più note e l’hanno abbinata a una melodia che era simile (come tempo, armonia, voce e strumentazione), ma non era familiare al volontario. I partecipanti hanno quindi ascoltato passivamente 100 frammenti (ciascuno della durata di meno di un secondo) della canzone familiare e di quella sconosciuta, presentati in ordine casuale. In totale sono stati ascoltati circa 400 secondi di musica. I ricercatori hanno sottoposto i volontari a elettroencefalogramma, che registra l’attività elettrica nel cervello, e pupillometria, una tecnica che misura il diametro della pupilla (considerata una spia dell’eccitazione). Così si è scoperto che il cervello umano riconosce le melodie familiari a partire da 100 millisecondi dall’inizio del suono, con un tempo medio di riconoscimento tra 100 e 300 millisecondi. A rivelarlo è stata la rapida dilatazione della pupilla, probabilmente collegata all’eccitazione associata al suono familiare, seguita dall’attivazione dell’area della corteccia correlata al recupero della memoria. Nessuna differenza del genere è stata riscontrata invece in un gruppo di controllo, di cui facevano parte soggetti che non avevano familiarità né con le canzoni note né con quelle sconosciute utilizzate nel primo gruppo. «I nostri risultati - commenta Maria Chait, dell’Ucl Ear Institute - dimostrano che il riconoscimento di un brano musicale che ci è familiare avviene molto rapidamente. Queste scoperte indicano che i circuiti temporali sono molto veloci, e sono coerenti con la profonda presa dei brani musicali che conosciamo bene nella nostra memoria». Capire come il cervello riconosce le melodie familiari «è utile - aggiunge Chait - anche per impostare interventi terapeutici basati sulla musica. Ad esempio, c’è un crescente interesse nel cercare di sfruttare canzoni e brani musicali per raggiungere i pazienti con demenza, nei quali il ricordo della musica appare ben conservato, nonostante l’alterazione generale dei sistemi di memoria». «Individuare il percorso neurale e i processi che supportano l’identificazione della musica - conclude - può fornire un indizio per comprendere le basi di questo fenomeno». Lo studio presenta però un limite importante. Le canzoni sono state esplicitamente selezionate per evocare ricordi e sentimenti positivi; pertanto per il gruppo «principale» le canzoni «familiari» e «non familiari» non differivano solo in termini di riconoscibilità, ma anche in termini di coinvolgimento emotivo e affettivo. Inoltre è stata utilizzata una sola canzone familiare per volontario.

Zeina Ayache per scienze.fanpage.it il 18 ottobre 2019. I ricercatori della Caltech hanno scoperto che esistono rare cellule cerebrali che sono uniche nei topi maschi e altre uniche invece nei topi femmine. Queste cellule specifiche in base al genere sono state trovate in una regione del cervello che governa sia l'aggressività che i comportamenti di accoppiamento. Vediamo insieme cosa significa e come gli esperti sono giunti a questa conclusione. Partiamo con il dire che esistono diverse tipologie di cellule all'interno del cervello, ad esempio ci sono i neuroni che trasmettono segnali e le cellule gliali che supportano le funzioni neurali, spiegano gli esperti. Per quanto tutte queste cellule contengano lo stesso insieme di geni o genoma, i tipi di cellule differiscono nel modo in cui esprimono quegli stessi geni. Per capirci, immaginiamo il genoma come un pianoforte a 88 tasti. Ogni cellula non utilizza tutti gli 88 tasti. Pertanto, il sottoinsieme di chiavi che "riproduce" la cellula determina il tipo di cellula stesso. Analizzando il comportamento dei neuroni nei cervelli dei topi maschi e dei topi femmine, gli esperti hanno osservato che la loro stimolazione è in grado di indurre gli animali ad essere più aggressivi, anche in assenza di minacce. Diversamente, una debole stimolazione induce i topi ad accoppiarsi. Tutto ciò avviene nell’ipotalamo, un’area fondamentale del nostro cervello. Nello specifico, gli esperti con il loro studio sono riusciti ad identificare 17 diverse tipologie di cellule del cervello, alcune delle quali sono più abbondanti nei maschi, mentre altre lo sono nelle femmine. Già si sapeva che l’espressione delle cellule era differente tra maschi e femmine, ma per la prima volta gli esperti sono riusciti a scoprire che esistono proprio cellule specifiche in base al genere nel cervello dei mammiferi. Lo studio, intitolato “Multimodal Analysis of Cell Types in a Hypothalamic Node Controlling Social Behavior”, è stato pubblicato su Cell.

Francesco Rigatelli per “la Stampa” il 29 ottobre 2019. Per anni direttore di Neurochirurgia al Gemelli e ordinario alla Cattolica di Roma, Giulio Maira, 75 anni, è «senior consultant» all' Humanitas di Milano e autore del libro «Il cervello è più grande del cielo» (Solferino), quasi un romanzo sull' organo più importante e misterioso.

Professore, lei dubita che l' Intelligenza Artificiale possa replicare la coscienza?

«Sì, le ricerche in atto possono far pensare che il cervello sia replicabile, ma in realtà le nuove tecnologie raggiungono obiettivi di calcolo importanti e tuttavia specifici. Altra cosa sarebbe riprodurre una mente completa, dotata di coscienza. E' la sfida di molti scienziati, che si domandano come mai non sia possibile, visto che, in fondo, il nostro cervello è fatto di materia proveniente dal pulviscolo di stelle successivo al Big Bang. Solo che ci sono voluti milioni di anni per diventare ciò che siamo. Certo che, anche senza la coscienza, il fatto che una macchina, nel 2045, possa raggiungere la capacità di calcolo di tutta l' umanità pone grandi interrogativi etici».

Questa coscienza così irreplicabile che cos' è?

«Un insieme di consapevolezza, giudizio, senso morale, creatività ed empatia: tutte capacità difficili da trasformare in algoritmi. Le macchine possono simulare queste facoltà, ma la loro creazione autentica resta improbabile. Certo, si rischia di arrivarci vicino e, dunque, l' importante è che l' Intelligenza Artificiale sia utilizzata per migliorare la vita umana e non per portare al comando il computer. Non a caso l' Ue ha posto delle regole sul suo sviluppo».

E l' intelligenza cos' è invece?

«Se la coscienza è la mente che riflette su se stessa, l' intelligenza può essere considerata la mente operativa, il frutto del ragionamento».

Si può dire, dunque, che è più importante essere coscienti che intelligenti?

«Naturalmente, anche perché l' intelligenza non esisterebbe senza la coscienza. E' importante pure la creatività, forse la caratteristica più umana assieme alla memoria. Gli animali, infatti, si muovono soprattutto secondo logiche di sopravvivenza, mentre gli uomini decidono in base a una serie più vasta di motivazioni e emozioni».

Nella vita si può diventare più coscienti o intelligenti?

«Fin da bambini la mente è dedicata a imparare dal mondo. Una capacità che si attenua con gli anni, ma non finisce mai. Le reti neurali sono in continua espansione, soprattutto se coltivate leggendo, dialogando, imparando materie e lingue nuove e anche facendo sport. Il cervello lavora pure di notte, quando nel sonno resetta la memoria e seleziona quella a lungo termine».

E la differenza tra mente femminile e maschile? Cosa ha capito in tanti anni?

«Il cervello femminile è un mondo meraviglioso e, a mio parere, più vivace di quello maschile, ma esistono differenze tra i due che non vanno negate. E' vero che hanno in comune il 99% dei geni, ma quell' 1% è fondamentale, perché, per esempio, tra il cervello di Einstein e quello della scimmia c' era solo l' 1,2% di differenza. Il cervello femminile ha un po' meno neuroni, ma più connessioni: tendenzialmente, dunque, la razionalità è maggiormente maschile e la creatività più femminile. La donna, invece, ha più neuroni nell' area del linguaggio e dispone di un ippocampo, l' area che contiene i ricordi, più grande. Inoltre l' amigdala femminile, che gestisce emozioni e paure, è collegata più a funzioni verbali, mentre quella maschile all' attività fisica: questo ha una spiegazione evoluzionistica, perché l' uomo cacciava e lottava e la donna cresceva e rassicurava la prole».

Uno schema ancestrale può arrivare fino a oggi?

«I nostri geni non si modificano da milioni di anni, al massimo si sono sviluppati altri centri del cervello, ma va chiarito che un meccanismo biologico di base non giustifica, oggi, comportamenti sociali sbagliati. L' uomo contemporaneo è pienamente in grado di superare con la razionalità e la cultura l' istinto elementare, che pure esiste nelle reazioni ad ansie e paure. Ecco perché persone con minori strumenti culturali possono essere più esposte a simili stimoli».

Quali sono i misteri ancora da risolvere sul cervello?

«E' l' unico organo che non ha solo funzione meccanica, ma parti delicatissime vicine alla coscienza, come il talamo o il tronco dell' encefalo. A stupire di più è che ogni notte questa coscienza praticamente scompaia e si risvegli al mattino, rigenerata. Come nasca e quale rapporto abbia con la materia del cervello resta un mistero.

Altro punto interrogativo è come sia davvero la realtà fuori di noi: tutto il mondo infatti, come diceva Sherrington nell' Ottocento, potrebbe essere un telaio incantato, immaginato dalla mente nella sua scatola buia grazie agli impulsi elettrici che le arrivano dai sensi. Infine, l'Intelligenza Artificiale e l'utilizzo di chip aprono grandi interrogativi etici».

Di quali si tratta?

«Della prima abbiamo parlato e dei secondi bisogna sapere che ne esistono già di sperimentali per trasferire l' attività mentale o i ricordi su computer. Usati in modo sbagliato potrebbero eliminare la memoria e condizionare gli individui».

Antonio G. Rebuzzi, Direttore Cardiologia intensiva - Policlinico Gemelli - Università Cattolica Roma per “il Messaggero” il 14 novembre 2019. «Ogni affezione della mente che si manifesti con dolore o con piacere, con speranza o con paura, è la causa di una agitazione la cui influenza si estende al cuore». Con queste parole, già nel 1628 il medico inglese William Harvey, primo a descrivere il sistema cardiocircolatorio dell'uomo, chiariva lo stretto rapporto che lega mente e cuore. Questa osservazione, semplice ma profonda, sembra essersi persa nella medicina moderna. Oggi siamo bravi nel trattare le malattie, molto meno attenti nel trattare i pazienti e spesso incapaci di trattare le persone. Noi cardiologi abbiamo sviluppato eccezionali tecniche diagnostiche ed interventistiche. Utilizziamo medicine all'avanguardia, ma prestiamo poca o nulla attenzione allo stato psicologico delle persone che curiamo. Eppure proprio il cuore è uno degli organi maggiormente in relazione col cervello. La frequenza cardiaca, ad esempio, cambia in base allo stato psicologico ed emozionale. Nel cuore ci sono oltre 40.000 neuroni, e le informazioni che vengono da questi raccolte sono indirizzate al cervello innescando reazioni che si ribaltano a loro volta sul sistema cardiovascolare. Così come patologie dell'organismo quali diabete, obesità o ipertensione possono danneggiare il cuore, alla stessa maniera lo danneggiano patologie della mente o alterazioni della psiche. Ce lo ricorda il prof. Glenn N. Levine del Baylor College of Medicine di Houston (Texas) in un editoriale pubblicato sulla rivista Circulation. Come noto, uno stress molto forte ed improvviso può aumentare di tre o quattro volte il rischio di attacchi anginosi fino all'infarto in chi è predisposto. Il terremoto di Northrige, vicino Los Angeles, nel 1994 fece aumentare del 260% le morti di origine cardiaca nell'area metropolitana rispetto ai giorni precedenti. Nella sindrome di Takotsubo, altrimenti classificata come cardiomiopatia da stress, un'emozione profonda (un lutto come una separazione) induce nel cuore una disfunzione marcata, delle modifiche dell'elettrocardiogramma ed un rialzo degli enzimi cardiaci tipici dell'infarto, senza che vi sia alcuna ostruzione delle coronarie. Stesso discorso di aumento notevole del rischio cardiovascolare vale per la depressione. C'è una chiara relazione tra grado di depressione e varie patologie cardiache. Nel Multi Etnic Study of Atherosclerosis (studio di prevenzione a cura dell'American Heart Association) le persone hanno in dieci anni un rischio di sviluppare fibrillazione atriale del 34% superiore ai non depressi. Stessa storia per le malattie coronariche. I pazienti depressi dopo un infarto vanno più facilmente incontro a recidiva rispetto a quelli non depressi. Anche il recupero dopo un intervento di by pass aorto-coronarico è più lento e con maggiori complicanze nei depressi. Va ricordato che la depressione spesso si associa a aumento del fumo ed incremento del peso, e conseguente maggiore rischio cardiaco. La perdita di autostima diventa un killer per le malattie coronariche. Mentre un atteggiamento ottimistico è stato in vari studi correlato a più basse percentuali di ospedalizzazioni e ridotta mortalità. Come medici, siamo perciò obbligati a tener conto non solo delle malattie, ma anche dei malati. Curare non significa solo tendere ad una assenza di malattia ma anche occuparsi del loro benessere psichico.

Marco Filoni Per Tuttolibri-la Stampa il 13 Novembre 2019. C’è un grande e potente dio che si aggira per il mondo: l’«io». Il nostro tempo gli ha eretto templi, sacrari pagani dove le pietre sono scatti. E una certa cultura, annacquata da un repertorio tragicomico, ha fatto il resto. Motivatori, mental coach, personal coach, life coach (chi più ne ha più ne metta), spacciatori di saggezze dal gusto esotico e orientaleggiante, fricchettoni fuori tempo massimo che contrabbandano felicità e manuali di auto-aiuto… Il catalogo è ampio – e, va detto, non tutto è risibile. Però il rumore di fondo di questo spirito del tempo sta tutto in una massima, ripetuta come un mantra: non puoi amare gli altri se non ami te stesso. È interessante come questa indicazione sia in fondo un ribaltamento del precetto della tradizione cristiana: il secondo comandamento, «Amerai il prossimo tuo come te stesso», aveva come presupposto implicito che ognuno si amasse già, senza bisogno di incoraggiamento. Del resto anche l’intera storia della filosofia occidentale ha lungamente discusso partendo dal presupposto che gli esseri umani siano essenzialmente egoisti, ovvero che si amino già abbastanza e che agiscano di conseguenza per soddisfare i propri bisogni e desideri. Per questo si è pensato per secoli che per vivere una vita virtuosa e felice fosse necessario liberarsi da questo egoismo di fondo. Oggi al contrario siamo perseguitati dall’amore per se stessi. Così perlomeno ci dice il filosofo inglese Simon Blackburn nel suo bel libro Specchio delle mie brame. Pregi e difetti del narcisismo. In questa lettura godibilissima – il grande pregio degli anglosassoni: saper fare divulgazione, quella vera, quella cioè capace di discutere temi complessi con semplicità – Blackburn si guarda bene dall’affrontare il tema del narcisismo sotto lenti che non ha lungamente lucidato. Certo, utilizza il mito, le religioni, la psicologia, ma la sua riflessione è di ordine morale; e ironicamente lo annuncia lui stesso nelle prime pagine quando scrive: «Questo saggio è quindi ciò che il grande filosofo tedesco Immanuel Kant, che non si lasciava intimorire dai titoli grandiosi, avrebbe definito un esercizio di antropologia pragmatica». Ecco allora scorrere fra queste pagine Aristotele e Platone, poi Adam Smith, David Hume e Kant, via via fino a Rousseau e Iris Murdoch: l’intento è quello di mostrare alcuni concetti molto complessi come quelli di orgoglio, vanità, autostima, ovvero la linfa del narcisismo, che quando si presentano mettono alla prova le certezze morali di ogni individuo. Anche perché hanno a che fare con la vergogna e l’imbarazzo, il risentimento e l’indignazione: emozioni che si sono sempre manifestate ma che nel mondo moderno hanno più vigore di quanto non sia mai stato in passato. Ma non sono solo questo, perché una buona dose di amor proprio è fondamentale, aiuta, è l’umanissima cura dell’«io». Il punto di partenza di Blackburn potrà sembrare frivolo: ovvero lo slogan della grande azienda di cosmetici L’Oréal: «perché io valgo». Ragionando su questo slogan altezzoso – e sulle sue varianti successive: «perché voi valete» e «perché tu vali» – l’autore trova la chiave per leggere l’ossessione contemporanea verso l’idea e l’immagine di sé. Perché se da un lato è innegabile che l’«io» è al centro della moralità (e della valutazione morale che ognuno ha di se stesso), dall’altro lato è anche la fonte di attitudini considerate comunemente immorali: egoismo, vanità, arroganza, avidità e invidia. In questo gioco di equilibri complessi, dove non ci sono ricette definitive, si gioca tutto il libro – per esplicita ammissione dell’autore, che non vuol dare una soluzione al problema bensì mostrarne gli aspetti più controversi. È un bene una certa dose di considerazione di sé; è un male quando questa diventa un alibi per comportamenti ignobili. I quali di certo non mancano: sono cristalline le pagine dedicate ad alcuni politici inglesi e americani (cita la Thatcher, George Bush jr. e Tony Blair, ma noi italiani in questo siamo un laboratorio impareggiabile) che con i loro paraocchi narcisistici hanno saccheggiato le società che governavano. Per non dire della cultura dell’avidità che domina nei colossi dell’economia e che ha legittimato le crescenti diseguaglianze, rifiutando la reciprocità umana e mercificando le persone, diventando così l’ostacolo principale del rispetto e della compassione, di uno sviluppo etico e collettivo. Con un registro autoironico, capace di passare dai classici del pensiero ai selfie e al disprezzabile narcisismo di molti personaggi pubblici, Blackburn riesce nel tentativo di orientare, di fornire le basi per la costruzione di quella bussola morale che il nostro tempo sembra aver smarrito. Il mito ci insegna che Narciso si innamorò della propria immagine riflessa nell’acqua, e che la ninfa Eco (condannata da Giunone a poter ripetere soltanto le ultime sillabe che le venivano dette) si consumò per amore riducendosi a quella flebile voce ossessiva che sentiamo fra le rocce. Ecco, la sfida oggi è quella di trovare l’equilibrio fra Narciso ed Eco: né così innamorati di noi stessi da non considerare più l’altro, né così poco attenti a se stessi da dissolversi in esso.

Al cervello piace leggere i libri (ma anche ascoltarli). Pubblicato martedì, 12 novembre 2019 da Corriere.it. Leggere un testo per conto proprio o ascoltarlo dalla viva voce di un lettore attiva le stesse aree cerebrali, generando un’esperienza emotiva e cognitiva molto simile. La prova di questa sovrapponibilità di esperienze viene da una ricerca pubblicata sulla rivista The Journal of Neuroscience da parte di un gruppo di neuroscienziati californiani guidati da Fatma Deniz. Molto accurata la metodologia utilizzata dai ricercatori per il confronto tra ascolto e lettura: sono state fatte rilevazioni tramite la Risonanza magnetica funzionale cerebrale su volontari che stavano ascoltando un episodio di The Moth Radio Hour, un sito Internet nel quale di volta in volta uno speaker racconta una breve storia autobiografica; gli stessi testi sono stati poi trascritti e letti direttamente dai volontari sempre mentre erano sotto Risonanza magnetica funzionale. Per rendere l’esperienza quanto più possibile confrontabile, il tempo della lettura individuale è stato governato elettronicamente in modo da corrispondere a quello dell’ascolto. «Gli esseri umani possono comprendere il significato delle parole sia espresse verbalmente, sia rappresentate in linguaggio scritto» dicono gli autori della ricerca. «È quindi importante capire la relazione esistente tra le rappresentazioni cerebrali generate da testi parlati o testi scritti. Nella nostra ricerca abbiamo mostrato che, sebbene la rappresentazione delle informazioni semantiche nel cervello umano sia alquanto complessa, quella evocata dall’ascolto e dalla lettura sono pressoché identiche». Individuate dai ricercatori con precisione anche le aree cerebrali che lettura o ascolto di un testo mettono in moto, e sono davvero tante, a dimostrazione che le parole che leggiamo o ascoltiamo rappresentano uno stimolo potente. Tra le altre, si attivano la giunzione temporale parietale, il giro angolare, la corteccia premotoria superiore ventrale, l’area di Broca e il giro inferiore frontale. Come per altre funzioni cerebrali complesse, anche per la lettura o l’ascolto di un testo non esiste un unico centro di elaborazione, ma una rete che collega aree del cervello anche molto distanti le une dalle altre. Ma se l’ascolto e la lettura di un testo sono esperienze emotivamente e cognitivamente simili, allora diventa ancora più importante leggere storie ai bambini prima che imparino a leggere da soli. In un articolo pubblicato sull’American Journal of Psychology, Dominic Massaro dell’University of California di Santa Cruz ricorda un esperimento che ha monitorato lo sguardo di bambini di 4 anni — che quindi ancora non sapevano leggere — mentre erano seduti in braccio a un genitore che stava loro leggendo un libro illustrato. Vista l’età, si trattava di libri costituiti principalmente da figure attorno alle quali c’era un po’ di testo. Il classico libro per bambini molto piccoli, che gli anglosassoni chiamano picture book. Dall’esperimento è emerso che i bambini tenevano lo sguardo fisso sulle figure per il 95 per cento del loro tempo, ignorando quasi completamente le parole scritte, in qualunque posizione fossero nella pagina. Eppure, nonostante che i bambini ignorino le lettere scritte, la lettura condivisa a voce alta è importante per lo sviluppo psicologico e linguistico del bambino. Ciò avviene, oltre che per gli aspetti affettivi della condivisione della lettura, anche perché un’analisi del linguaggio usato nei libri per bambini anche molto piccoli ha mostrato che nei loro testi sono presenti parole che non farebbero comunque parte del vocabolario tipico del linguaggio che si usa in casa. «I bambini che ascoltano un picture book letto a voce alta hanno una probabilità circa tre volte superiore di fare esperienza di parole non usate nel linguaggio diretto ai bambini. Le parole trovate nell’analisi dei picture books non fanno parte neppure delle 5 mila parole più frequenti del linguaggio, e rappresentano quindi una vera sfida» conclude Massaro. L’esposizione precoce all’ascolto di parole diverse da quelle della vita di tutti i giorni ha effetti anche distanza, come hanno dimostrato altre ricerche. Si sa infatti che quanto più precocemente una parola viene ascoltata e riascoltata da bambini, tanto più essa tenderà a entrare stabilmente nel vocabolario personale e durante la vita adulta sarà utilizzata con maggiore appropriatezza rispetto a chi l’avrà incontrata più avanti nel tempo.

Fabio Sindici per “la Stampa” il 19 novembre 2019. Non chiamatelo emozione. Francesco Bianchi-Demicheli, neurobiologo e sessuologo - ha una cattedra in sessuologia clinica all' Università di Ginevra - detesta le semplificazioni, quando si parla d'amore. L'amore è la sua specialità. Nelle diverse coniugazioni, dal desiderio degli amanti all' attaccamento tra genitori e prole, dall' affetto per gli amici all' amore romantico. Fino alla disperazione, a volte patologica, per la rottura di un rapporto. «Tutto parte dal cervello - assicura -. A seconda del tipo o della fase amorosa si accendono e si spengono diverse aree dell' organo più complesso: si stabiliscono connessioni sinaptiche e i quattro sistemi nervosi che collegano il cervello ai genitali si attivano. Prima, durante e dopo l' orgasmo, poi, si shakera un cocktail ormonale: endorfine, dopamina, ossitocina, prolattina. In alternanza e con effetti diversi su uomini e donne. Ma il gioco mentale e fisico va oltre il rapporto sessuale. L'amore agisce a lungo termine e in modo positivo e negativo. È lo stato più sofisticato che l' organismo sperimenti». Abbiamo le immagini di risonanza magnetica al riguardo, elaborate in meta-analisi. Cominciamo ad addentrarci nei labirinti neuronali, ma siamo ancora alla ricerca del filo d' Arianna. Bianchi-Demicheli è nel comitato scientifico della mostra «De L'amour» (Sull' amore), al Palais de la Découverte di Parigi: un percorso, tra ludico ed educativo, attraverso il corpo durante le bonacce e le tempeste del sentimento più complicato. Non è facile ricomporre il puzzle del cervello in amore. L'amigdala, il «cervello primitivo», gioca una parte importante nella nascita del desiderio, nella reazione agli stimoli sessuali e nella scelta del partner. «Se negli uomini hanno più importanza gli stimoli visivi, nelle donne, invece, la memoria e i dettagli degli atteggiamenti del futuro amante sembrano predominare». Nell' amplesso e nell'orgasmo l'amigdala sugli scan si spegne, come se il cervello togliesse i campanelli d'allarme che risvegliano la paura. «Bisogna stare attenti a non sovrainterpretare, però. L'amigdala - con la corteccia prefrontale ventromediale - apparentemente si prende una vacanza, ma potrebbe lavorare in un network. Il cervello è molto plastico durante l'amore». Probabilmente anche quando labbra ed epidermidi si congiungono, ci sono processi inibitori in aree dei lobi temporali, almeno fino all' orgasmo. «Bisogna fare attenzione a non identificare l'amore con il sesso e l' orgasmo. C' è altro. Nel desiderio sessuale è attiva l' insula posteriore. Nello stato amoroso tocca a quella anteriore. E ci troviamo nel campo del pensiero astratto. La stessa insula, nell' orgasmo, si accende a sinistra, nell' amore materno a destra. È l' area legata agli stati di estasi mistica e felicità creativa. Ne hanno fatto esperienza santi e scrittori. Non è più sufficiente parlare di endorfine, si può comprendere con l' idea di rete. La plasticità del cervello, infatti, aumenta durante lo stato amoroso e vengono prodotti nuovi neuroni». Siamo - sostiene il neuroscienziato - nella «théorie de l' esprit», intesa come modello per capire intuitivamente gli stati emotivi dell' altro. E gli ormai celebri neuroni a specchio hanno un ruolo? «Non ho dubbi. Pensiamo a certe coppie che sembrano capirsi senza parole. Questi neuroni sono coinvolti nell' innamoramento, come nella vita di coppia e nell' amore parentale». Eppure ci sono conflitti e «loop» ossessivi di pensiero. L' amore può diventare malattia. Dipendenza, come da una droga. Sentimenti o legami chimici? Se le aree del cervello che brillano nell' orgasmo sono le stesse sollecitate dall' eroina (un sostituto dell' affetto materno per alcuni psicologi), quelle che lampeggiano in modo inquietante nelle teste degli innamorati respinti o abbandonati le ritroviamo nelle persone in astinenza da cocaina. «Il rapporto finisce, ma il bisogno dell' altro rimane. Così si mette in moto il cortex cingolato posteriore e abbiamo rabbia, desiderio di vendetta, senso di isolamento. I farmaci antidepressivi sono in grado di tamponare, ma non di risolvere. Serve un terapeuta capace di sciogliere alcuni nodi e riallacciarne altri». Algoritmi e siti di incontri Il lato oscuro dell' amore non sempre fa la sua comparsa alla fine di un rapporto. Le chimiche dell' innamoramento, a volte, non lavorano in tandem. L' esaltazione dello spirito può diventare depressione al minimo segnale negativo: «È come se un' altra persona avesse piantato le tende nel nostro cervello», secondo una battuta di Helen Fischer, pioniera delle indagini neurologiche sull' amore. Le sue teorie sono finite negli algoritmi dei siti d' incontri. Fischer ha individuato tre sistemi di accoppiamento: il desiderio sessuale, il coinvolgimento romantico e l' attaccamento a lungo termine in una coppia. Sono percorsi che possono sovrapporsi. Bianchi-Demicheli ne aggiunge un quarto, un amore profondo e senza desiderio sessuale che somiglia all' amore platonico. «È come un navigatore mentale». Produce immagini felici. Il filosofo Arthur Schopenhauer, che rispettava l' amore alla stregua di un uragano, lo riteneva un inganno potente con la finalità della continuazione della specie. Sembra, a guardare nel cervello, che la «truffa» sia molto più complicata e sfuggente. E geniale.

Ma davvero la psicoanalisi è inutile come l'omeopatia? Inaffidabile. Illusoria. Piena di ombre fin dalla sua fondazione. Corbellini, colonna della battaglia contro le "pseudoscienze", spiega perché la terapia ideata da Freud merita la stessa diffidenza delle altre terapie antiscientifiche. E va quindi bandita dalle aule universitarie. Angiola Codacci-Pisanelli il 12 novembre 2019 su La Repubblica. La sfida arriva con un articolo che denuncia "una deriva sempre più grave" con cui "le università tradiscono se stesse": colpa di corsi e master che aprono le aule a pseudoscienze come biodinamica, omeopatia e agopuntura. Andando più avanti nella lettura della denuncia firmata per "La Stampa" da due colonne della battaglia contro le "pseudoscienze", il biologo Enrico Bucci e lo storico della scienza Gilberto Corbellini, si scopre però che accanto ai bersagli tradizionali dei paladini della ricerca scientifica impegnati contro la marea montante di "negazionisti" di ogni genere - un esercito colorito ma non innocuo che va dai "no vax" ai terrapiattisti - c'è anche la psicoanalisi. Cioè una pratica di "terapia della parola" usata anche da chi non avrebbe mai l'idea di sostituire farmaci chimici con zuccherini omeopatici, o antidolorifici con aghi cinesi.Una condanna eccessiva? Ne abbiamo parlato con Corbellini, professore di bioetica all'università di Roma La Sapienza, che ai pericoli della deriva antiscientifica ha dedicato il suo libro più recente, “Nel paese della pseudoscienza. Perché i pregiudizi minacciano la nostra libertà" (Feltrinelli). Corbellini in questa intervista entra nel dettaglio delle accuse. E conferma: «Se usata per curare malattie mentali, la psicoanalisi è come omeopatia e agopuntura. Se parliamo di psicoanalisi come filosofia umanistica, nessuno problema. Usare soldi pubblici per insegnarla come fosse una branca della medicina o della psicologia clinica lo trovo disonesto».

Nell'articolo che denuncia la resa dell'università italiana alle pseudoscienze si parla di «corsi di omeopatia, biodinamica, agopuntura, medicina tradizionale cinese e psicoanalisi». Fa effetto vedere messa sullo stesso piano una pratica molto diffusa, che ha aiutato molte persone ad affrontare problemi esistenziali gravi. Non è esagerato metterla in quell’elenco?

«Non è esagerato a mio modo di vedere. Se mi permette una battuta cattiva, la psicoanalisi è “il passato di un’illusione”. Le religioni sono anche più “diffuse” della psicoanalisi e portano un sollievo psicologico a molti. Ma non concludiamo per questo che sia vero quello che predicano. Non voglio essere frainteso: quando studiavo filosofia all’università, ho letto parecchia psicoanalisi. Ma mi era chiaro che con la scienza o la medicina non aveva niente a che vedere».

Nell’articolo citate corsi e master in agopuntura, omeopatia, biodinamica. E la psicoanalisi?

«Ci sono corsi, seminari e laboratori nei dipartimenti umanistici. E questo ok. Negli Ottanta/Novanta la psicoanalisi è diventata uno dei principali argomenti del pensiero postmoderno, relativista e costruttivista (critical studies). Ma ci sono corsi e attività elettive nei corsi di psicologia clinica, la psicoanalisi è insegnata nei corsi di psicologia dinamica e nelle scuole di specializzazione in psicoterapia. Questa pratica si diffonde attraverso scuole che abilitano al trattamento psicoterapico, con dei limiti se non si è laureati in medicina».

Cosa porta a giudicare la psicoanalisi una "pseudoscienza"? Solo il fatto che “non è falsificabile”?

«La non falsificabilità non è un concetto banale. Perché se io le dico che dalla parte opposta del Sole c’è in pianeta identico alla Terra, che non si può rilevare in alcun modo con le attuali conoscenze, che influenza il nostro cervello, ma che se lei ascolta i miei racconti e ci crede col tempo troverà al proprio interno la verità o la serenità, le sto sottoponendo una teoria non falsificabile e intanto la manipolo e forse la faccio anche stare meglio… Ma la sto ingannando. Comunque non c’è solo il problema della falsificazione: manca qualunque prova diretta o indiretta delle ipotesi e pratiche su cui si basa la psicoanalisi. Non esiste un solo trial clinico che provi l’efficacia della psicoanalisi: peraltro sarebbe impossibile farlo. La crisi della psicoanalisi nel mondo psichiatrico è iniziata quando, negli anni Ottanta, le neuroscienze hanno aperto nuove finestre sul cervello con l’obiettivo di spiegare anche le malattie mentali. In quegli anni anche il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders abbandonava i suoi originari contenuti psicodinamici. La psichiatria tornava a riferirsi al cervello o a sintomi e comportamemti osservabili piuttosto che a una vaga “psiche”. E sono arrivati libri di storici che hanno demolito anche Freud come quello di Frank Sulloway, "Freud, biologo della psiche” (Feltrinelli 1982), dove si dimostra che Freud era lontano anni luce dalla scienza ed era uno spregiudicato manipolatore di idee. È stato un interessante filosofo morale, oserei dire».

Nel libro "Freud Was a Fraud: A Triumph of Pseudoscience”, Frederick Crews elenca molti difetti dei casi raccontati dal padre della psicoanalisi. Ma basta questo a far crollare il valore della sua intera opera?

«Basta e avanza. Non c’è niente, davvero niente, che vada oltre le chiacchiere, nella psicoanalisi. La metapsicologia (Io-Es-Super Io) è aria fritta, così come la dottrina delle pulsioni, della repressione, della rimozione... Lo sviluppo infantile con le fasi orale, anale, genitale, oggi fa ridere. La riflessione di un influente psicoanalista statunitense la vede in via di estinzione anche come pratica di cura. Certo, ci sono stati anche sviluppi interessanti e clinicamente utili, scaturiti dalla psicoanalisi, come gli studi di Bolwby sull’attaccamento. Ma è un altro discorso».

Le altre pseudoscienze che lei combatte si propongono di sostituire una scienza, con risultati potenzialmente molto pericolosi. Pensa che chi si affida alla psicoanalisi corra lo stesso pericolo? Che si sieda sul lettino dell’analista per patologie che richiederebbero l'intervento dello psichiatra?

«Oggi non si corrono troppi pericoli se lo pscoanalista è onesto e non abusa delle fragilità del paziente. Gli psicoanalisti ci stanno di norma attenti. Come gli omeopati, che se non sono stupidi danno gli antibiotici quando servono. Ma quanti depressi gravi, in passato, si sono suicidati e quanti psicotici, ossessivi eccetera hanno fatto del male a sé stessi e ad altri, perché degli psicoanalisti si ostinavano a volerli aiutare solo la parola e una cartografia falsa della mente!»

Spesso però è proprio lo psichiatra che consiglia al paziente di affiancare o di sostituire (alla fine di una cura farmacologica) la psicoanalisi. Cosa pensa di queste alleanze tra psichiatri e psicoanalisti?

«Dipende dalle malattie di cui parliamo - i disturbi mentali non sono tutti uguali e nessuno dice che parlare non possa essere d’aiuto - e dai motivi per cui il paziente viene indirizzato all'analista. Ma mi chiedo: perché lo psichiatra usa quel particolare psicoterapeuta? Io non sto dicendo che le psicoterapie psicodinamiche non funzionano, in assoluto, ma che se qualcosa fanno non è in ragione delle spiegazioni psicoanalitiche. L’unica variabile correlata con una qualche efficacia delle psicoterapie psicodinamiche è il profilo personale del terapeuta. Non la teoria. Si tratta di effetto placebo».

Alcune forme di psicoterapia sono considerate scientifiche. Si tratta però di quella psicoterapia cognitivo comportamentale che dopo essere “andata di moda” per qualche anno, è ora accusata di superficialità: cura il sintomo ma non la causa dei disturbi.

«Esatto. Ma tutta la psichiatria, praticamente, tratta, con alcuni farmaci o psicoterapie e per alcune malattie in alcuni pazienti, il sintomo e non la causa. Gli psichiatri quasi mai conoscono la causa a livello biochimico/cellulare o anche a livello di lesioni funzionali del cervello che producano prevedibili deragliamenti mentali».

Il rapporto con le neuroscienze può aprire una porta a una “nuova” psicoanalisi, realmente scientifica? «Dipende dalle scuole di pensiero: per esempio penso che i lacaniani siano irrecuperabili. Quello che i neuroscienziati chiedono alla psicoanalisi - e penso al premio Nobel Eric Kandel - è di abbandonare l’impianto teorico, indifendibile, e usare la terapia della parola spiegandone eventuali effetti in un altro modo, che abbia senso biologicamente. Ma in questo modo che cosa resta, mi chiedo, della psicoanalisi?»

Bollare la psicoanalisi come pseudoscienza non rischia di favorire la deriva che porta a considerare per le malattie mentali solo cure farmaceutiche e non “di parola”? Vedo un doppio rischio: da una parte spinge chi ha una malattia mentale o una forma di “male di vivere” a una diffidenza eccessiva, dall’altro porta acqua al mulino dei “manicomi chimici”...

«Trovo curioso dire che se bolliamo la psicoanalisi come pseudoscienza scivoliamo verso cure solo farmacologiche. E se la psicoanalisi fosse davvero una pseudoscienza e le cure farmacologiche funzionassero davvero? Dovremmo almeno provare a essere neutrali, in partenza. Se applichiamo alla psicoanalisi intesa cura i criteri che definiscono una pratica clinica scientifica, questa non lo è. È pseudoscienza. Inoltre dovremmo ricordare le sofferenze dei malati di mente prima degli psicofarmaci, che hanno portato al superamento dei manicomi e delle camicie di forza. Se sono migliorati i trattamenti di alcune malattie mentali e le condizioni dei malati non è stato per merito della psicoanalisi. Questo è sicuro. Il problema non sono gli psicofarmaci ma l’assenza al momento di modelli biologici delle malattie mentali, per sviluppare terapie efficaci e mirate».

«Con la psicoanalisi curiamo la sofferenza: i pazienti lo sanno, chi la critica no». La presidente della Società Psicoanalitica Italiana risponde alla polemica sulla "psuedoscienza" lanciata da Gilberto Corbellini. E ricorda gli studi e le ricerche che ne fanno una disciplina indispensabile. Anna Maria Nicolò il 18 novembre 2019 su La Repubblica. Leggere quanto dice il professor Corbellini  fa venire molti dubbi intorno a quale sia la sua idea di psicoanalisi. Sembra riferirsi ad una filosofia che è rimasta ferma alla sua origine. Per molti di noi, medici, psichiatri, neuropsichiatri infantili, psicologi, la psicoanalisi è una scienza in movimento. Ormai sono moltissime le ricerche sull’efficacia della psicoanalisi. In Germania, M. Leuzinger Bohleber ha mostrato l’efficacia dell’orientamento psicoanalitico nel trattamento della depressione e questo ha indotto lo stato tedesco a finanziare al paziente 300 sedute di psicoanalisi.

Il dialogo tra psicoanalisi, neuroscienze e infant research..

Kandel affermava, nel 1999, che la psicoanalisi “è la visione della mente più coerente soddisfacente oggi disponibile”. Molti neuroscienziati, da Northoff a Gallese dialogano oggi con la psicoanalisi. Freud stesso era in origine un neurobiologo. Una delle frontiere della ricerca in proposito riguarda gli studi sulla memoria, sul sogno, sui vari tipi di inconscio. A Mauro Mancia, psicoanalista e neuro scienziato, tra gli altri, si devono gli studi sulla memoria implicita e sull’inconscio non rimosso, Tra di essi possiamo annoverare le tracce di quelle esperienze o di quei traumi che abbiamo depositato fin dall’inizio nei primi 3 anni, che non ricordiamo, ma che influenzano la nostra vita. Freud stesso l’aveva intuito. Non possiamo poi dimenticare gli studi sull’Infant Research e sulla Psicologia dello sviluppo. Le osservazioni sulle prime relazioni madre- bambino, sulle dinamiche genitoriali e co-genitoriali nell’allevamento, per non parlare di tutti gli studi dalla gravidanza all’adolescenza, fatti, tra gli altri ,da Winnicott , Fonagy e l’italiano Ammaniti, costituiscono il cuore di questo approccio. Fa molto bene Corbellini a citare Bowlby, il padre degli studi sull’attaccamento che, guarda caso, era uno psicoanalista inglese. Ma come mai Corbellini non cita le ricerche che hanno influenzato decisamente non solo la psicologia, ma perfino la nostra vita quotidiana? Farò uno tra mille esempi: la cura data alla gravidanza, alla depressione post partum, la scoperta dell’oggetto transizionale (winnicott),e cioè del legame specifico che esiste tra il bambino piccolo e , ad esempio,il suo orsacchiotto che rappresenta nello stesso tempo il suo possesso e il suo legame con l’altro da sé, il mondo esterno. Quello che invece accade alla psicoanalisi è il continuo furto delle sue idee e delle sue acquisizioni.

Ma la psicoanalisi è una pseudoscienza? Un tema sempre vivo resta il problema dello statuto epistemologico della psicoanalisi, se essa può essere considerata una scienza, sia pure diversa dalle scienze dure, oppure deve essere considerata una scienza umanitaria ,come la letteratura o la filosofia. Posizioni così radicalizzate non tengono conto di come sia cambiato il modo stesso di concepire la scienza , di come la valutazione al proposito è spesso soggettiva ,mentre la crescita in campo scientifico si deve a fattori che hanno poco a che fare con la quantificazione. Ci siamo forse dimenticati che a proposito di purezza della scienza, nel 1927, fu dato il premio Nobel al medico austriaco Wagner-Juaregg per la sua cura dei disturbi mentali che utilizzava crisi indotte di malaria. I pazienti spessissimo morivano. Non dobbiamo confondere la mente, la psiche, la sua complessità e ricchezza con un organo o con una macchina. Resto perciò stupita dal fatto che in modo diffamatorio Corbellini annoveri la psicoanalisi assieme all’omeopatia e all’agopuntura. Sembra che egli valuti come vero e reale solo ciò che si tocca o si guarda con gli occhi del corpo. Con quale termometro possiamo misurare le angosce dei nostri pazienti negli ambulatori, negli ospedali nelle comunità terapeutiche ? Certo, essendo medico e neuropsichiatra infantile, oltre che psicoanalista, non mi sento autorizzata a discutere di filosofia, se non superficialmente, e d’altronde penso che sia difficile per un filosofo o uno storico discutere appropriatamente di un approccio terapeutico, visto che non si è trovato mai davanti alla sofferenza di un paziente, alla responsabilità della sua cura. Bisogna essere in possesso di strumenti specifici per una valutazione obiettiva. Purtroppo certe affermazioni scandalistiche possono anche produrre danno a persone sofferenti o fragili.

L’essere umano non è una macchina. Dobbiamo usare per la malattia mentale lo stesso metro che useremmo per una polmonite batterica? .La ricerca empirica, nel campo della relazione umana, ha limiti connessi con la complessità del campo di studio che dovrebbe valutare , con la molteplicità infinita dei dati consci e inconsci presenti nella persona, e fa fatica a sintonizzarsi con la profondità dei livelli di funzionamento mentale della psiche. Esiste la specificità di ogni persona che si rivolge a noi e che proprio per la peculiarità del lavoro analitico non può essere semplificata in un sintomo, come invece può fare il medico che studia l’infezione batterica e l’antibiotico specifico. Infine la funzione terapeutica dell’analisi è collegata alla relazione con la stessa persona dell’analista ed è per questo motivo che l’analista serio ha una lunga formazione professionale fatta per molti anni dalla sua stessa analisi personale e da supervisioni di casi e seminari.

Quale è il bisogno che anima i detrattori della psicoanalisi? Aspetti economici probabilmente spingono a mettere in discussione questa disciplina. Ad esempio, lo psicoanalista, pur usandoli se necessario, riduce con il suo intervento l’uso dei farmaci. La nostra cultura si basa sulla semplificazione e su un tempo accelerato e questo rende difficile accettare un trattamento psicoanalitico. Più facile far credere che in 10 sedute puoi apprendere le manovre con cui superare una fobia o una difficoltà sessuale. Il paziente non si sente rimesso in discussione e crede di mantenere il controllo su sé stesso , senza dipendere da nessuno. Ma cosa succederà dopo, quando sarà svanita la suggestione e le angosce sottostanti si saranno ripresentate ? Cambiare una persona non è un’operazione magica, necessita di tempo. Ricerche prodotte da molti gruppi tra cui il Columbia Center Research o la Menninger clinic ,per citarne solo due, mostrano come i trattamenti analitici conseguono risultati più stabili e duraturi nel tempo e inducono miglioramenti rilevanti o una maggiore capacità di gestire i conflitti. Un lavoro psicoanalitico non è un processo semplicistico. In genere non è neppure un lavoro facile da riportare sul giornale o alla televisione, non serve a catturare audience, a impressionare il pubblico. Sulle pagine dei giornali fa sempre effetto un vigoroso attacco alla Psicoanalisi . Incuriosisce il lettore , lo spinge a leggere l’articolo o il libro che contiene queste accuse . Al contrario Il nostro intento è curare la sofferenza e uno degli obiettivi di una buona analisi è la ricerca della verità, non dell’immagine.

Cosa succede  al cervello durante la meditazione. Pubblicato domenica, 20 ottobre 2019 su Corriere.it da Danilo di Diodoro. È una forma strutturata di silenzio: l’assenza di rumore permette alla nostra «materia grigia» di modificarsi, gestire le emozioni e potenziare la memoria. Rumore e silenzio, croce e delizia delle orecchie, ma anche del cervello. E se quasi tutti cercano di sfuggire i rumori molesti, più articolato è il rapporto con il silenzio, che mette a confronto con se stessi e con gli altri, e forse per questo è talora temuto e rifuggito. Ma il silenzio svolge anche un importante ruolo di modulazione sul cervello, alterandone il funzionamento e la struttura, a causa della cosiddetta plasticità cerebrale, la capacità del cervello di modificarsi e adattarsi in relazione a richieste funzionali provenienti dall’ambiente interno ed esterno. A tal fine sono state molto studiate le tecniche di rilassamento, tra cui la meditazione, che può essere considerata una forma strutturata di silenzio. «Vari studi hanno dimostrato che la meditazione può produrre cambiamenti anche duraturi nell’architettura cerebrale, soprattutto se ripetuta regolarmente e per lunghi periodi di tempo» dice Filippo Carducci, responsabile del Laboratorio di neuroimmagini del Dipartimento di fisiologia e farmacologia dell’Università La Sapienza, di Roma, relatore al convegno Icons «Neurofisiologia del Silenzio», organizzato dalla Fondazione Patrizio Paoletti, tenutosi dal 26 al 28 luglio nel Monastero di San Biagio a Nocera Umbra. «Questi cambiamenti includono il potenziamento di attenzione, memoria di lavoro e creatività, una migliore gestione delle emozioni, un incremento del comportamento pro sociale. La pratica della meditazione migliora inoltre il senso generale di benessere, riduce i sintomi di ansia e depressione e migliora il funzionamento del sistema immunitario». Studi realizzati con la risonanza magnetica, hanno evidenziato la meditazione che può modificare l’attività di due network cerebrali antagonisti: il Default Mode Network (Dmn) e il Task Positive Network(Tpn). «Il Dmn è in funzione quando siamo in condizione di riposo mentale ed è costituito da corteccia prefrontale mediale, corteccia cingolata posteriore, ippocampo e amigdala» spiega Carducci. «Un’attività regolata di questo network riduce gli stati di insoddisfazione associati al vagare della mente e a processi di ruminazione mentale, e crea uno spazio di lavoro cosciente dove pianificare attività future anche sulla base di eventi passati significativi. Il Tpn è invece deputato allo svolgimento di processi che richiedono controllo ed è in grado di dirigere la nostra attenzione consapevole sia verso l’ambiente esterno che verso stati interni. Il Tpn comprende corteccia prefrontale laterale, corteccia cingolata anteriore, insula e corteccia somatosensoriale. La meditazione è associata a un’aumentata attività del Tpn e, conseguentemente, a una diminuzione dell’attività del Dmn. Si tratta di un effetto molto importante in quanto è dimostrato che un aumento dell’attività del Tpn migliora l’attenzione e le prestazioni della memoria di lavoro, mentre un’attività bilanciata del Dmn è associata a un miglioramento delle prestazioni cognitive e a un aumento del benessere» Secondo quanto riportato da Kishore Deepak del Department of physiology dell’All India Institute of medical science di New Delhi, in India, autore di un articolo su Progress in Brain Research, chi entra in uno stato di rilassamento psicofisico riesce a contenere l’attività spontanea del Dmn, fino a creare una condizione di silenzio interiore, che paradossalmente corrisponde a un incremento delle capacità cognitive. Tanto che, così come spesso si ricorre a una pausa caffè per recuperare energie psichiche troppo spremute, Deepak suggerisce di ricorrere anche a pause meditative, durante le quali il silenzio esteriore e interiore potrebbe fungere da momento di ricarica. Da un punto di vista biologico, la pausa meditativa sembra indurre una riduzione nel livello di alcune citochine, come l’interleuchina-1, nota per rappresentare un ostacolo naturale al buon funzionamento delle capacità cognitive. «Viviamo in una società densa di sollecitazioni, e il rumore permea tutta la nostra vita» dice Patrizio Paoletti, organizzatore, in collaborazione con l’Università Sapienza di Roma e l’Haifa University israeliana, del convegno sul silenzio. «Ma il silenzio ha un valore per l’umanità e può aiutare l’uomo a conoscere se stesso e a raggiungere uno stato di benessere. Avere accesso a questo spazio interiore, che da millenni chiamiamo vuoto, può migliorare la qualità della nostra vita. La pratica del silenzio influisce positivamente sulla concentrazione, sulla capacità di tollerare i disagi, sulla creatività, sulle emozioni, sull’empatia, sul rapporto dell’individuo con il proprio corpo e con l’ambiente». La tendenza naturale della mente a vagare e quindi a riempire il vuoto che potrebbe crearsi in assenza di pensieri è la conseguenza del fatto che il cervello ha una tendenza proattiva, cerca sempre di anticipare il futuro e prepararsi per quello che potrebbe arrivare. «In conseguenza di ciò, il cervello non è mai passivo, raramente si lascia sorprendere» ha detto a Corriere Salute Moshe Bar del Gonda Multidisciplinary Brain Research Center dell’Università di Bar Ilan, in Israele, relatore al convegno. «Questa tendenza a pianificare e prepararsi è vantaggiosa per molti aspetti della vita quotidiana, ma allo stesso tempo è anche un ostacolo per godersi il presente. Una mente silenziosa potrebbe dipendere meno dalla memoria e più dalle sensazioni attuali, meno dalle aspettative e più dalle meraviglie davanti a noi. È importante distinguere tra i contesti nei quali è meglio avere una mente silenziosa e quelli nei quali è preferibile una mente proattiva».

·         Così la Cia creò l’Lsd (per controllare le menti).

Massimo Gaggi per Corriere.it il 14 settembre 2019. La Seconda guerra mondiale è finita da pochi anni. L’Europa, ancora distrutta, è spaccata in due. L’Unione Sovietica, ormai potenza nucleare, fa paura. L’America continua a vivere nel terrore anche quando doma il maccartismo e mette fine alla «caccia alle streghe». È l’alba della Guerra fredda e la Cia, convinta che gli scienziati russi stiano cercando di trasformare l’essere umano in un’arma controllando la sua mente e attribuendogli una nuova personalità, decide di giocare d’anticipo affidando a un brillante chimico, Sidney Gottlieb, un progetto che ha gli stessi obiettivi: scoprire se è possibile sopprimere il carattere di un individuo sostituendolo con un altro creato artificialmente. Gottlieb, un uomo inquieto, scosso da pulsioni etiche che lo spingono a rifiutare la religione ebraica, quella della sua famiglia, per battere altre strade, dall’agnosticismo al buddismo zen, accetta di guidare un programma segreto che lo porterà a usare molti uomini come cavie (alcuni moriranno, altri impazziranno) convinto che, per quanto alto, questo sia un prezzo che vale la pena pagare per difendere la libertà dell’America e dell’Occidente. Ottenuta carta bianca e molti soldi, privo di controlli, Gottlieb investe 240 mila dollari nell’acquisto di tutte le scorte di una nuova droga, l’Lsd, che trova in giro per il mondo. Può essere la materia prima per trasformare la personalità: il chimico decide di sottrarla ai russi (e alla Cina di Mao, ancora isolata ma già temuta). Inizia, invece, a sperimentare lui l’Lsd: prima in centri di detenzione sotto controllo americano in Germania, Giappone e nelle Filippine. Serve a tenere i test lontani da occhi Usa indiscreti, ma anche a ottenere l’aiuto di medici e chimici nazisti: la Cia usa i dati degli esperimenti fatti nei campi di concentramento tedeschi e giapponesi. Anche i metodi ricordano quelli degli abissi del dottor Mengele, l’«angelo della morte»: detenuti non protetti (spie nemiche, assassini psicopatici) torturati e drogati per misurare fino a che punto può arrivare la resistenza della mente umana. Poi Gottlieb trasferisce, in modo meno cruento, i suoi esperimenti negli Stati Uniti: distribuisce l’Lsd a penitenziari e ospedali psichiatrici per esperimenti di varia intensità. Questa storia agghiacciante della quale rimangono poche tracce (gli archivi del programma, chiamato MK-Ultra, furono distrutti quando Gottlieb lasciò la Cia) non è inedita: alla fine degli anni Settanta il caso venne fuori durante le indagini del Congresso sulle attività clandestine dell’intelligence Usa. Ormai sepolto da decenni, riemerge ora nella ricostruzione di un giornalista, Stephen Kinzer, che, dopo anni di ricerche, ha appena pubblicato Poisoner in Chief (avvelenatore capo), un libro nel quale ricostruisce questa pagina tragica della storia americana. Tragica e paradossale: il programma che la Cia aveva ideato per cercare di mettere sotto controllo l’umanità finì, invece, per alimentare involontariamente la ribellione generazionale della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta: gli hippy e i tanti giovani che cercavano la libertà nella droga. L’Lsd di Ken Kesey, l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, veniva da un esperimento sponsorizzato dalla Cia. E anche la droga di Robert Hunter dei Grateful Dead o quella di Allen Ginsberg, il poeta della beat generation e dell’Lsd, arrivò, indirettamente, dai massicci acquisti dell’intelligence. Ormai consapevole di poter distruggere una mente, ma di non poterne creare un’altra, Gottlieb, che per i servizi segreti produsse anche veleni — regali tossici per Fidel Castro, un fazzoletto avvelenato per uccidere un colonnello iracheno, una freccia avvelenata per eliminare un leader congolese, tutti attentati falliti — si ritirò nel 1972 quando andarono via i capi della Cia che lo avevano coperto. Passò i suoi ultimi anni creando comuni dedite alle danze folk e alla pastorizia e facendo il filantropo: gestore di un lebbrosario in India e poi a fianco dei malati terminali in un hospice.

Così la Cia creò l’Lsd (per controllare le menti). L’intelligence Usa usò la droga per condurre test su detenuti, spie e psicopatici. Senza volerlo contribuì alla rivolta generazionale anni '60. Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 Massimo Gaggi su Corriere.it. La Seconda guerra mondiale è finita da pochi anni. L’Europa, ancora distrutta, è spaccata in due. L’Unione Sovietica, ormai potenza nucleare, fa paura. L’America continua a vivere nel terrore anche quando doma il maccartismo e mette fine alla «caccia alle streghe». È l’alba della Guerra fredda e la Cia, convinta che gli scienziati russi stiano cercando di trasformare l’essere umano in un’arma controllando la sua mente e attribuendogli una nuova personalità, decide di giocare d’anticipo affidando a un brillante chimico, Sidney Gottlieb, un progetto che ha gli stessi obiettivi: scoprire se è possibile sopprimere il carattere di un individuo sostituendolo con un altro creato artificialmente. Gottlieb, un uomo inquieto, scosso da pulsioni etiche che lo spingono a rifiutare la religione ebraica, quella della sua famiglia, per battere altre strade, dall’agnosticismo al buddismo zen, accetta di guidare un programma segreto che lo porterà a usare molti uomini come cavie (alcuni moriranno, altri impazziranno) convinto che, per quanto alto, questo sia un prezzo che vale la pena pagare per difendere la libertà dell’America e dell’Occidente. Ottenuta carta bianca e molti soldi, privo di controlli, Gottlieb investe 240 mila dollari nell’acquisto di tutte le scorte di una nuova droga, l’Lsd, che trova in giro per il mondo. Può essere la materia prima per trasformare la personalità: il chimico decide di sottrarla ai russi (e alla Cina di Mao, ancora isolata ma già temuta). Inizia, invece, a sperimentare lui l’Lsd: prima in centri di detenzione sotto controllo americano in Germania, Giappone e nelle Filippine. Serve a tenere i test lontani da occhi Usa indiscreti, ma anche a ottenere l’aiuto di medici e chimici nazisti: la Cia usa i dati degli esperimenti fatti nei campi di concentramento tedeschi e giapponesi. Anche i metodi ricordano quelli degli abissi del dottor Mengele, l’«angelo della morte»: detenuti non protetti (spie nemiche, assassini psicopatici) torturati e drogati per misurare fino a che punto può arrivare la resistenza della mente umana. Poi Gottlieb trasferisce, in modo meno cruento, i suoi esperimenti negli Stati Uniti: distribuisce l’Lsd a penitenziari e ospedali psichiatrici per esperimenti di varia intensità. Questa storia agghiacciante della quale rimangono poche tracce (gli archivi del programma, chiamato MK-Ultra, furono distrutti quando Gottlieb lasciò la Cia) non è inedita: alla fine degli anni Settanta il caso venne fuori durante le indagini del Congresso sulle attività clandestine dell’intelligence Usa. Ormai sepolto da decenni, riemerge ora nella ricostruzione di un giornalista, Stephen Kinzer, che, dopo anni di ricerche, ha appena pubblicato Poisoner in Chief (avvelenatore capo), un libro nel quale ricostruisce questa pagina tragica della storia americana. Tragica e paradossale: il programma che la Cia aveva ideato per cercare di mettere sotto controllo l’umanità finì, invece, per alimentare involontariamente la ribellione generazionale della controcultura californiana degli anni Sessanta e Settanta: gli hippy e i tanti giovani che cercavano la libertà nella droga. L’Lsd di Ken Kesey, l’autore di Qualcuno volò sul nido del cuculo, veniva da un esperimento sponsorizzato dalla Cia. E anche la droga di Robert Hunter dei Grateful Dead o quella di Allen Ginsberg, il poeta della beat generation e dell’Lsd, arrivò, indirettamente, dai massicci acquisti dell’intelligence. Ormai consapevole di poter distruggere una mente, ma di non poterne creare un’altra, Gottlieb, che per i servizi segreti produsse anche veleni — regali tossici per Fidel Castro, un fazzoletto avvelenato per uccidere un colonnello iracheno, una freccia avvelenata per eliminare un leader congolese, tutti attentati falliti — si ritirò nel 1972 quando andarono via i capi della Cia che lo avevano coperto. Passò i suoi ultimi anni creando comuni dedite alle danze folk e alla pastorizia e facendo il filantropo: gestore di un lebbrosario in India e poi a fianco dei malati terminali in un hospice.

Lsd, il piano segreto della Cia per creare i killer. le Iene il 12 settembre 2019. In piena guerra fredda scienziati nazisti e uomini della Cia lavorarono a un segretissimo programma di “controllo della mente”. Lo svela un libro in uscita negli Usa. Una droga che è ancora diffusa tra i giovani, come ci ha raccontato in un servizio Liza Boschin. Una droga scoperta per caso e usata dalla Cia per un segretissimo esperimento di controllo delle menti. Parliamo dell’Lsd, tra le più potenti sostanze psichedeliche al mondo. Una sostanza in grado di alterare temporaneamente la percezione e lo stato di coscienza di una persona e di generare visioni e deliri di ogni tipo. L'Lsd ha una storia che viene da lontano: è stata scoperta casualmente negli anni Quaranta, quando una goccia di una sostanza cadde sulla mano di un chimico che lavorava in Svizzera, provocandogli immediatamente allucinazioni molto forti. L’Lsd negli anni fa moltissima “strada”, fino a diventare attorno al 1970 simbolo della ribellione giovanile e della cultura hippie. Una droga che è stata usata in modo massiccio dalla Cia per condurre un esperimento di “controllo sociale” degno del medico nazista Joseph Mengele. Lo racconta il giornalista Stephen Kinzer in un libro appena uscito negli Stati Uniti, “Poisoner Chief”. Tutto nasce dalla paura americana, in piena guerra fredda, che i nemici russi stessero conducendo esperimenti affinché il controllo della mente umana possa diventare un’arma da usare. Una paura talmente forte da dover essere anticipata: il chimico Sidney Gottlieb si vede affidare dalla Cia il progetto top secret. Uno scienziato che per il suo coinvolgimento in questo programma passerà alla storia come “lo stregone nero”, in grado di ideare vari piani per assassinare il leader comunista cubano Fidel Castro. L’idea di base è semplice ma inquietante: è possibile sconvolgere la mente umana al punto di creare una personalità completamente nuova, così da utilizzare la persona come un’arma contro il nemico? Come dire, possiamo trasformare un cittadino russo da odiato nemico a prezioso collaboratore capace di fare operazioni in patria senza essere scoperto? Un esperimento, racconta il libro di Kinzer, che usa fin da subito cavie umane, alcune delle quali impazziranno davvero, fino a morire. La sperimentazione ha come strumento principale proprio l’Lsd, che era stato scoperta da pochi anni. Vengono assoldati anche ex medici che hanno lavorato nei lager nazisti. Un esperimento che all’inizio avviene lontano dagli Usa, in laboratori sparsi in giro per il mondo, dal Giappone alle Filippine. Una volta analizzati i primi effetti su poche cavie, c’è bisogno di allargare la platea degli sperimentatori. Ecco allora che la ricerca torna negli Stati Uniti, dove l’Lsd viene somministrata in dosi importanti a pazienti che non possono dire di no: malati mentali e carcerati. Uno scandalo enorme insomma, che viene alla luce alla fine degli anni ’70: molti documenti top secret però sono già stati distrutti.

Di Lsd, una droga storica mai abbandonata davvero dai consumatori e usata anche da giovanissimi, ci ha parlato Liza Boschin, nel servizio che vedete qui sotto. “Per me non è una droga ma una sostanza che ti aiuta a stare meglio con te stesso nella vita”, spiega un ragazzo che confessa di farne uso abitualmente. Liza Boschin intervista anche un vecchio hippie, che decide di provarla davanti alle nostre telecamere e di raccontare gli effetti sulla sua psiche: “Le sensazioni sono sempre diverse, ogni volta. Ora mi sta scatenando irrefrenabili fantasie sessuali”. A usarla sono anche normalissimi professionisti molto lanciati nel mondo del lavoro, come il creativo che incontriamo e che spiega di usare le “microdosi” proprio per espandere le sue percezioni ed essere più geniale in ufficio. “Il rischio però, se hai problemi non risolti e mostri dentro di te, è quello di partire per mondi che poi non sai più gestire. Mi è capitato una volta di avere un’ansia tale che se avessi avuto una pistola mi sarei sparato”.

·         Una Scossa vi Guarirà.

UNA “SCOSSA” VI GUARIRÀ. Valentina Arcovio per “la Stampa - TuttoSalute” il 13 settembre 2019. «Un anno fa mi svegliavo di notte e pensavo a quali scommesse avrei fatto il mattino seguente, ora, invece, dormo come un bambino e al risveglio penso solo a mia moglie e ai miei quattro figli». Antonio Romano, 36 anni, di Santa Maria CapuaVetere, in provincia di Caserta, ha dato una scossa alla sua vita e a quella della sua famiglia. Letteralmente. Romano è uno dei sempre più numerosi pazienti che, schiavi della dipendenza da gioco, si è rivolto al Centro Riabilitativo per le Dipendenze «La Promessa» di Roma, per sottoporsi a un innovativo trattamento che sfrutta la stimolazione magnetica transcranica ripetitiva con cui curare le dipendenze. Lì approdano pazienti nella speranza di curare diverse forme di dipendenza: non solo quella dal gioco, ma dalla cocaina, dall' alcol e dal cibo. Per tre mesi i pazienti vengono sottoposti a sedute di stimolazione magnetica transcranica: sulla testa viene posto un «braccio» dotato di un magnete che emette onde a bassa frequenza, capaci di penetrare la scatola cranica e raggiungere le aree dell' encefalo legate alla dipendenza. Le onde magnetiche hanno la funzione di re-insegnare al cervello a produrre dopamina naturalmente, una capacità che la dipendenza distrugge. «Nelle persone dipendenti - spiega Fabrizio Fanella, psicologo e direttore sanitario del centro - le cellule deputate alla produzione di dopamina non funzionano più. Per questo hanno bisogno di assecondare la dipendenza: solo giocando d' azzardo, consumando cocaina o mangiando compulsivamente, a seconda quindi della dipendenza, riescono a far circolare quel neurotrasmettitore fondamentale per il benessere psicofisico». La stimolazione magnetica transcranica, quindi, aiuta a recuperare la capacità di produrre fisiologicamente la dopamina, eliminando il problema dell' astinenza. «Si tratta di una procedura sicura e indolore - garantisce Fanella -. Le sedute consistono in due applicazioni di 15 minuti, intervallate da una pausa di poco più di 30 minuti». Nelle prime due settimane il trattamento viene eseguito tutti i giorni. Poi si passa a tre volte alla settimana per 15 giorni, fino ad arrivare a due volte alla settimana, e infine si procede con sporadiche sedute di mantenimento. I risultati sono notevoli. «Dal 2016 abbiamo trattato 150 pazienti, giovani e adulti, e nella stragrande maggioranza dei casi siamo riusciti a risolvere il problema». Ora è in via di pubblicazione uno studio su 20 pazienti, condotto con il National Institute on Drug Abuse e con l' Università «Gabriele d' Annunzio» di Chieti, nell' ambito della ricerca Brain Switch. «I risultati preliminari dimostrano che la proceduta è efficace in oltre l' 80% dei casi». Antonio Romano è la prova dell' efficacia della terapia. Il trattamento è costato intorno ai 4mila euro e, almeno per il momento, non è rimborsabile dal Sistema sanitario. «Ma la speranza è che i risultati del nostro lavoro renderanno questa procedura accessibile a chi ne ha bisogno - sottolinea Fanella -. La stimolazione magnetica è e sarà il futuro per la cura delle dipendenze patologiche».

·         Una scarica elettrica per renderci pro accoglienza.

Una scarica elettrica per renderci pro accoglienza. Michael Sfaradi il 26 agosto 2019 su Nicola Porro.it. L’Aktion T4 è il nome convenzionale con cui gli storici chiamano il Programma nazista di eutanasia che, sotto responsabilità medica, prevedeva nella Germania hitleriana la soppressione di persone affette da malattie genetiche inguaribili e da portatori di handicap mentali. Cioè delle cosiddette “vite indegne di essere vissute”. La ricerca dell’uomo perfetto è sempre stata la prerogativa di tutte le dittature, di destra o di sinistra, atte a perseguire l’eliminazione di chi, secondo il regime, era un peso per la nazione. Modus operandi tipico del regime nazista o fascista, oppure di quelli comunisti con i Laogai, i famigerati campi di rieducazione cinesi, o con i Gulag sovietici. Metodi diversi per raggiungere lo stesso fine. Vi chiederete perché alla fine estate del 2019 stia scrivendo di cose che dovrebbero essere relegate nel capitolo degli orrori di tutti i libri di storia, la risposta è semplice: troppi sono i segnali che qualcosa si stia nuovamente muovendo, anche se con mezzi moderni ed estremamente tecnologici, verso lo stesso fine. Cioè creare l’uomo perfetto che pensi in maniera corretta secondo degli standard condivisi da chi ne sa di più. Sui mezzi di comunicazione, giornali o televisioni, ma anche durante seminari di giornalismo e comunicazione, ho sentito più volte ripetere che in futuro bisognerebbe dare la possibilità di votare solamente a coloro che hanno una certa cultura o titolo di studio, perché i più ignoranti non hanno, secondo alcune “menti eccelse”, una visione di insieme di come si governa il mondo. Ho sentito anche dire, soprattutto dopo il referendum britannico per la Brexit, che le persone anziane, quelle che in maggioranza si sono espressi per staccare la Gran Bretagna dalla palude europea, non dovevano votare perché non avrebbero avuto tanto futuro da vivere, mettendo fine, di fatto, non solo alla democrazia ma anche alla divina provvidenza. Alcuni mesi fa il quotidiano La Verità di Maurizio Belpietro ha dedicato un articolo a Gilberto Corbellini, dirigente del C.N.R. che in un proprio articolo pubblicato da Wired aveva proposto l’uso della ossitocina (si tratta di un ormone) per rendere gli italiani più inclini all’accoglienza e meno salviniani. Inutile dire che insulti e derisioni hanno subissato la redazione del giornale che però, non aveva poi sbagliato tanto visto che il 16 agosto, con gli italiani in ferie occupati solo a riposarsi, l’Huffingtonpost ha ospitato un articolo blog di Maddalena Marini, ricercatrice dell’Istituto Italiano di Tecnologia intitolato: “La stimolazione cerebrale non invasiva contro pregiudizi e stereotipi sociali”. La dottoressa Marini nel suo articolo ci dice: “Nel corso degli ultimi decenni, la globalizzazione ha portato a un’intensificazione degli scambi internazionali nella nostra società, favorendo su una scala senza precedenti il crescere dell’economia mondiale e la coesistenza di differenti gruppi socioculturali. Tale processo, però, oltre ad avere certamente aspetti positivi molto rilevanti per l’evoluzione della società moderna come il superamento dei confini spazio-temporali, la velocità e la circolazione delle comunicazioni, e l’arricchimento culturale, ha portato a ripercussioni e scontri a livello sociale dovuti allo scambio culturale tra civiltà e culture molto diverse tra di loro. Infatti, nonostante la nostra società sia ora popolata da individui appartenenti a diverse culture, la nostra mente riflette ancora le tracce di un’eredità evoluzionistica dove gli esseri umani vivevano in piccoli gruppi composti da individui con caratteristiche genetiche e sociali simili tra loro, portandoci tuttora a preferire le persone che sono socialmente e culturalmente “simili a noi” rispetto a quelle che “differiscono da noi”. A conferma di ciò, la ricerca scientifica ha mostrato che la nostra mente contiene stereotipi e pregiudizi che sono legati alle diverse caratteristiche sociali degli individui, quali ad esempio l’etnia, il colore della pelle, il peso, il genere, l’età, l’orientamento sessuale, politico o religioso, la disabilità e la malattia fisica o mentale”. Diciamo che questa premessa è abbastanza riduttiva della realtà, ma il problema riguarda principalmente l’idea che questa dottoressa vorrebbe realizzare, e qui c’è di che far gelare i polsi: “L’idea che sto portando avanti con la mia ricerca presso l’Istituto Italiano di Tecnologia è che questi stereotipi siano così instillati nella nostra mente che l’unico modo per cambiarli sia modificare i meccanismi biologici del cervello responsabili della generazione e controllo di tali stereotipi. In particolare, i miei studi sono volti all’utilizzo di una procedura, chiamata stimolazione cerebrale non invasiva: tecnica appartenente al campo scientifico delle neuroscienze. Le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva sono delle procedure considerate sicure che permettono, inducendo delle piccole correnti elettriche o magnetiche, di modulare i meccanismi attraverso i quali il cervello regola il nostro comportamento”. In tutta sostanza la dottoressa Marini vorrebbe indurci a cambiare il nostro comportamento usando stimolazioni cerebrali eseguite con delle procedure non invasive e, secondo lei, sicure. Si tratterebbe soltanto di piccole scariche elettriche o magnetiche a cui il popolo bue dovrebbe sottoporsi per smettere rapidamente di essere razzista, antisemita, islamofobo o altro ancora. Una scarica elettrica e il mondo sarà tutto rose e fiori, peace and love. Ma non è tutto perché nel suo pezzo la dottoressa Marini ci dice anche che: “Per far fronte a questo problema, i ricercatori negli ultimi 20 anni hanno cercato di creare degli interventi che siano in grado di modificare tali stereotipi e pregiudizi. Per esempio, è stato scoperto che è possibile ridurre il pregiudizio etnico/razziale, fornendo delle informazioni che vanno contro lo stesso pregiudizio, come per esempio presentare uno scenario relativo a un’aggressione, in cui un uomo bianco interpreta il ruolo dell’aggressore e un uomo di colore interpreta il ruolo del soccorritore. Questi interventi però, nonostante si siano mostrati efficaci hanno prodotto solo risultati limitati, soprattutto, in termini temporali. I loro effetti infatti non sono più presenti dopo qualche ora o giorno”.

Praticamente ci sta confermando che i problemi di oggi hanno radici lontane e che sono più di venti anni che si porta avanti una sorta di lavaggio del cervello di massa sui media di ogni tipo, per arrivare a un risultato che sarebbe invece più logico ottenere combattendo l’ignoranza con una sana istruzione. Ma non è ancora tutto visto che la dottoressa continua dicendoci che: “Studi che hanno iniziato a utilizzare queste tecniche nel campo degli stereotipi hanno permesso di definire una rete di regioni cerebrali causalmente coinvolte in questi processi e di dimostrare che aumentando o diminuendo l’attività di alcune di queste aree è possibile ridurre la forza degli stereotipi inconsci, come quello di genere in ambito scientifico e del pregiudizio che porta ad associare atti di terrorismo all’essere di origine araba rispetto al non esserlo. L’uguaglianza è un diritto fondamentale di ogni cittadino e un dovere della nostra società. Le pari opportunità non rappresentano solamente una caratteristica indispensabile per una società democratica, ma anche un fondamento cruciale per l’innovazione, l’economia e il benessere generale di una nazione”. Bene ha fatto Riccardo Torrescura il 20 agosto scorso sempre sul quotidiano La Verità a denunciare il tentativo di tornare al peggiore dei passati possibili, denunciare come voglio fare anche io con questo mio articolo, una ricerca che vorrebbe raggiungere una tecnologia che in mano a pochi potrebbe far sì che la popolazione umana, in un prossimo futuro, possa essere comandata tramite chip e scariche elettriche come in un pessimo film di fantascienza. Per non permettere che nel giro di un numero di anni queste persone possano decidere per noi ciò che noi stessi vogliamo essere, perché se si può cambiare in meglio lo si può fare anche in peggio, in un metodo che ricorda molto ciò che risulta dalle notizie che filtrano sull’indagine dei bambini di Bibbiano: scariche elettriche per immettere nella memoria ricordi di cose mai accadute. È impossibile al momento quantificare in quanto tempo queste folli ricerche possano avere applicazione pratica, ma vista la velocità con la quale la tecnologia si evolve quel momento potrebbe essere dietro l’angolo e per questo dico che tutto ciò deve essere fermato e deve essere fatto subito, con ogni mezzo, senza perdere tempo, prima che sia troppo tardi. Michael Sfaradi, 26 agosto 2019

·         Il primo sistema che traduce i pensieri in parole.

Il primo sistema che traduce i pensieri in parole. Lo fa "leggendo" i segnali dell'attività cerebrale, scrive la Redazione ANSA il 30 gennaio 2019. Costruito il primo sistema capace di tradurre i pensieri in parole: 'leggendo nel pensiero' di una persona, può ricostruirne le parole con una chiarezza mai avuta prima. E' un passo verso nuovi sintetizzatori linguistici basati sull'intelligenza artificiale e computer capaci di dialogare direttamente con il cervello umano, aiutando a esprimersi persone che non possono più parlare a causa di malattie. Il risultato, pubblicato sulla rivista Scientific Reports, si deve alla Columbia University. Quando una persona parla, o immagina di farlo, appaiono nel cervello le spie di questa attività, segnali riconoscibili presenti anche quando si ascolta parlare qualcuno. Per decodificarli, i ricercatori guidati da Nima Mesgarani hanno sviluppato un vocoder, cioè un algoritmo capace di sintetizzare i discorsi, dopo aver imparato a registrare una persona mentre parla. "E' la stessa tecnologia usata da Amazon Echo e Apple Siri che rispondono verbalmente alle nostre domande", rileva Mesgarani. Per insegnare al vocoder a interpretare l'attività cerebrale, i ricercatori hanno studiato e misurato quella di malati di epilessia, mentre ascoltavano frasi pronunciate da persone diverse. Quindi hanno chiesto ai volontari di contare da 0 a 9, registrando i loro segnali cerebrali. Il suono prodotto dal vocoder in risposta a questi segnali è stato analizzato e 'pulito' da un sistema intelligenza artificiale che imita le strutture dei neuroni. Il risultato è stata una voce, dal suono meccanico, in grado di ripetere la sequenza di numeri. "Le persone riuscivano a capire e ripetere i suoni detti dalla macchina il 75% delle volte", continua. I ricercatori vogliono ora ripetere il test con parole e frasi più complesse, e con i segnali cerebrali prodotti da una persona mentre parla o immagina di farlo. L'idea è di arrivare a realizzare un impianto simile a quello usato per i malati di epilessia, capace di tradurre direttamente in parole i pensieri di persona non più in grado di parlare a causa di malattie, come la sclerosi laterale amiotrofica.

·         Ancora attacchi sonici a Cuba? 

Ancora attacchi sonici a Cuba? Il Canada ritira personale diplomatico, scrive l'1 febbraio 2019 Davide Bartoccini su "Gli Occhi della Guerra" de Il Giornale. Cuba torna al centro dei sospetti come teatro di presunti “attacchi sonici”. Il governo canadese ha ordinato il rientro a Ottawa dei diplomatici di stanza all’Avana, dimezzando il proprio personale presso l’ambasciata nella capitale cubana. L’annuncio del governo canadese è stato diramato ieri mattina in seguito ai disturbi analoghi a quelli già riscontrati, dopo la denuncia di un altro funzionario in servizio all’Avana. Il diplomatico canadese, come molti altri prima di lui, ha accusato sintomi relativi a quelli che sono divenuti noti alle cronache come “attacchi sonici”: misteriosi malesseri sorti improvvisamente e prolunganti nel tempo che si manifestano sotto forma di emicranie, forti giramenti di testa, insonnia, perdita di udito, problemi cognitivi e nausea durante l’utilizzo del computer. Alcune volte con lievi lesioni celebrali. Come nei casi precedenti anche i familiari del personale diplomatico in servizio presso l’ambasciata hanno lamentato le stesse sintomatiche. Ciò ha già suggerito che i soggetti possono aver subito questi attacchi anche al di fuori delle sedi diplomatiche. Questo genere di “attacchi”, che nell’ultimo anno avrebbero colpito personale diplomatico occidentale nelle ambasciate cubane e cinesi, sono stati sottoposti ad esamina dagli scienziati di una task force appositamente creata dal segretario di Stato americano Mike Pompeo, che dopo il presunto attacco “numero 2” lanciato contro il consolato di Guangzhouin Cina, ha deciso di fare chiarezza sul cosiddetto “incidente”. Non è ancora chiaro infatti si sia trattato, e se anche in questo caso possa trattarsi, di attacchi voluti, lanciati con nuove sofisticate armi che prevedono l’impiego di ultrasuoni o microonde. Ciò che è certo però, è che per la terza volta dal 2016, quattordici membri dei uno staff diplomatico – in questo caso canadese – sono stati colpiti da sintomi sospetti e analoghi. Nel caso dell’attacco all’ambasciata americana dell’Avana, Washington decise di ridurre il proprio personale diplomatico da oltre 50 persone a 18. Rimpatriando tutti coloro che hanno riportato le sintomatiche sospette. Nel caso del consolato cinese decise di rimpatriare 24 persone. Un ingegnere intervistato dal New York Times che era di stanza al consolato evacuato dichiarò di aver iniziato a percepire, prima dell’inizio dei sintomi, “suoni simili a biglie che rimbalzano e colpiscono un pavimento” che si sarebbero protratti per diversi mesi. Allora il Pentagono dichiarò che tra i possibili colpevoli di questi presunti attacchi ibridi, potevano essere contemplate Federazione Russa e Repubblica Popolare Cinese. Nonostante non vi siano ancora reali prove che identifichino i sintomi come “conseguenza di un attacco sonico” o di simile, ciò che potrebbe rivelarsi preoccupante, è l’ipotetica connessione tra la Cina come possibile colpevole, il Canada come obiettivo, e il “Caso Huawei” che vede contrapposti questi due paesi per l’estradizione della figlia del magnate cinese Meng Wanzhou come movente. Ma queste sono solo ipotesi infondate. In una nota ufficiale il governo canadese si è limitato a dichiarare: “La salute e la sicurezza del nostro personale diplomatico e delle loro famiglie sono la nostra priorità”, aggiungendo che le autorità preposte apriranno un’inchiesta per far luce sull’incidente e le potenziali cause di questi problemi. Che nel frattempo iniziano a preoccupare sempre maggiormente tutti gli staff diplomatici che temono di poter entrare nel mirino di questi misteriosi, quanto ancora indimostrabili attacchi.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Università, dalla dea Cerere alla scuola di Salerno. Storia di una corporazione.

Università, dalla dea Cerere alla scuola di Salerno. Storia di una corporazione. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 da Corriere.it. Una particolare categoria di parole ha visto il suo significato crescere e strutturarsi nel corso del tempo, fino a cristallizzarsi nella sua ultima espressione, dimenticando in qualche modo le sue origini. Fa parte di questa famiglia una delle parole più usate del nostro piccolo bagaglio: università. Pochi dubbi sul fatto che indichi l’istituzione, pubblica o privata, chiamata a completare il ciclo di studio e formazione dopo la scuola secondaria superiore. Così come la conosciamo è articolata in facoltà, corsi di laurea, dipartimenti e rilascia titoli accademici e professionali, lauree triennali o «magistrali» per quei corsi che durano 5 o 6 anni. Dal latino universĭtas, che significa «totalità, universalità», derivato di universus. Che non è stato subito un sinonimo di cosmo, ma più semplicemente voleva dire «tutto intero», essendo composto di unus «uno» e versus, participio passato di vertĕre «volgere»; in sintesi, come ci ricorda il vocabolario Treccani, «volto tutt’intero nella stessa direzione». Già aver chiarito l’etimologia offre un’immagine di questa parola più densa di quanto avremmo frettolosamente supposto. Proprio questa sua «universalità» ha fatto sì che nel medioevo il suo significato evolvesse in corporazione, insieme di persone associate. Ed è quindi abbastanza comprensibile che sia stata associata ad una «corporazione di studenti» nel momento della fondazione di una accademia dedicata allo studio, a Bologna nel 1088, secondo una data individuata con entusiastica approssimazione da una commissione di cui faceva parte anche Giosuè Carducci che non seppe resistere nel 1888 alla rotondità dell’anniversario. Ma che l’Università di Bologna sia stata la prima istituzione, nel mondo occidentale, dove «maestri di grammatica, di retorica e di logica iniziano ad applicarsi al diritto» non ci sono davvero dubbi ed è un primato che dovrebbe renderci orgogliosi. Se non altro perché sono italiane gran parte delle prime università: Modena (1175), Padova (1222), Napoli (1224), Siena (1240), Macerata (1290), Roma «La Sapienza» (1303, con una «bolla» di papa Bonifacio VIII), Perugia (1308), Firenze (1321). Per fare un piccolo confronto Parigi sarà fondata nel 1180, Oxford «solo» nel 1284. In realtà un centro studi di formazione superiore e interamente dedicato alla medicina, esisteva già prima del fatidico 1088: è la Scuola Medica Salernitana, le cui basi teoriche si rifacevano alle lezioni di Ippocrate e Galeno ma che non disdegnava di mettere a confronto elementi della tradizione greco latina con i contributi delle culture araba ed ebraica. Non esiste un atto di fondazione della scuola di Salerno e solo una leggenda la fa risalire genericamente all’alto medioevo. Ma tanto basta far considerare la scuola salernitana come antesignana delle moderne università e a salvare il primato bolognese. Non può sfuggire che per molti secoli l’accesso allo studio e alla formazione superiore, fossero riservati al clero e a una ristretta categoria di privilegiati. L’universalità dell’università era molto parziale e si è presa una sua rivincita solo nel 20º secolo con l’istruzione di massa. Non sarebbe male ricordare, ogni volta che si riflette sulle politiche dell’istruzione, che questa universalità rappresenta una delle conquiste più importanti dell’uomo moderno. Se non altro per combattere gli ostacoli di natura logistica e amministrativa (oltre alle posizioni dichiaratamente ideologiche) che tendono far tornare lo studio un privilegio per pochi.

L’Università di Bologna per prima e molte altre università dopo di lei, si fregiano dell’epiteto «alma mater» studiorum. È una locuzione latina che significa «Madre che alimenta». Nell’antica Roma era il titolo con cui identificare Cerere, dea madre della terra e della fertilità. È la divinità che i greci chiamavano Demetra. Entrambe poste a tutela del nutrimento dei nostri corpi, come le università dovrebbero sovrintendere a quello delle menti.

·         Ecco le scuole migliori d’Italia. La classifica città per città.

Ecco le scuole migliori d’Italia. La classifica città per città. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 da Corriere.it. Torna Eduscopio, l’atlante online delle migliori (e peggiori) scuole italiane pensato dalla Fondazione Agnelli per aiutare le famiglie nel delicato passaggio dalla terza media alle superiori. Migliori e peggiori in che senso? Come si misura la bontà di una scuola? In base ai risultati dei ragazzi alla Maturità, sui quali però pesa la soggettività di giudizio dei commissari, o a quelli più obiettivi ma sgranati dell’Invalsi? La Fondazione Agnelli ha scelto un terzo criterio, esterno alle scuole: ovvero le performance dei ragazzi al primo anno di università (numero di esami sostenuti e media dei voti). Per il secondo anno consecutivo la palma di liceo migliore d’Italia va allo Scientifico delle scienze applicate (quello con l’informatica al posto del latino) Pier Luigi Nervi di Morbegno, in provincia di Sondrio. Per gli istituti tecnici e i professionali esiste anche una seconda classifica, basata sugli sbocchi lavorativi: tasso di occupazione e coerenza fra studi fatti e lavoro trovato. Dall’anno scorso per tutti si è aggiunto anche un altro indicatore: quello dei diplomati che hanno compiuto il percorso in tempo netto, senza mai incorrere in una bocciatura. Se la percentuale è alta, la scuola è inclusiva. Se è bassa, la scuola è selettiva. Contrariamente alle attese, come ci tiene a sottolineare il direttore della Fondazione Andrea Gavosto, Eduscopio dimostra che non è vero che le scuole più selettive siano anche quelle che preparano meglio all’università e al lavoro. Anzi. Per la nuova edizione 2019-20, il gruppo di lavoro della Fondazione Agnelli coordinato da Martino Bernardi ha analizzato i dati di circa 1.255.000 diplomati italiani in tre successivi anni scolastici (2013/14, 2014/15, 2015/16) in circa 7.300 indirizzi di studio nelle scuole superiori statali e paritarie. Di seguito i risultati a Milano, Roma, Torino, Bologna, Firenze e Napoli.

Le scuole top. Ecco le superiori che preparano al futuro: a Milano e Roma rivincita dei licei storici. La sesta edizione della classifica "Eduscopio" della Fondazione Agnelli valuta anche gli sbocchi professionali. Ilaria Venturi su La Repubblica il 7 novembre 2019. Nelle città i licei storici. Al Nord, in particolare in Lombardia, le paritarie. Poi la riscossa degli istituti in provincia. Ma anche i tecnici e i professionali si prendono la loro rivincita: rispetto al passato danno più chance di trovare lavoro. È la fotografia scattata dalla sesta edizione di Eduscopio, la classifica stilata dalla Fondazione Agnelli sulle superiori che meglio preparano all'università e al mondo del lavoro. A fine mese le scuole apriranno le porte per gli open day e un esercito di oltre 560mila alunni ora in terza media, con genitori al seguito, dovrà orientarsi. È il tempo della grande scelta, quella che più agita le famiglie: sarà la scuola giusta? "Eduscopio aiuta chi non si accontenta del passaparola e soprattutto le famiglie che non possono contare su reti sociali e culturali forti", spiega il direttore Andrea Gavosto. Ad essere monitorati sono stati un milione e 255mila diplomati dal 2013-14 al 2015-16: sono valutate le performance al primo anno di università (voti e crediti) e nell'occupazione, calcolata su un lavoro di almeno sei mesi a due anni dal diploma, per chi è uscito da tecnici e professionali e non ha continuato gli studi. Un altro indice viene preso in considerazione: quanti studenti sono arrivati alla Maturità in 5 anni, una regolarità che racconta la capacità di una scuola di essere inclusiva, non di selezionare i migliori per essere la migliore. I risultati smontano il luogo comune di una formazione che, per essere di qualità, deve bocciare. "La severità non è un criterio, soprattutto se si accompagna a una didattica vecchia che punta al nozionismo e non alla capacità di ragionare: si può preparare bene gli studenti senza essere feroci nei criteri di giudizio", avverte Gavosto. A Milano, per esempio, tra gli scientifici, il Volta che è primo in graduatoria è meno severo del Da Vinci (secondo) o dell'Einstein (sesto). A Napoli, tra i linguistici, il Quinto Orazio Flacco (primo) è di gran lunga il più inclusivo. Altro dato che emerge è la stabilità: più o meno le scuole confermano le proprie posizioni. Il derby tra i classici di Bologna è vinto per il terzo anno consecutivo dal Minghetti sul Galvani, dove hanno studiato Pasolini e Casini. A Palermo lo scientifico Cannizzaro è saldo al primo posto, a Firenze e Genova il podio è pressoché confermato con gli stessi istituti del 2018. A Roma il classico Tasso rimane in vetta, ma è la risalita del Visconti dai piani bassi del 2018 a sorprendere: quest'anno il liceo dell'élite borghese è secondo. Il motivo? Un'annata eccezionale di diplomati nel 2016 che hanno mietuto successi da matricole. Rimonta anche a Napoli dello scientifico Convitto Vittorio Emanuele II: da decimo a primo. In Lombardia le paritarie spiccano: nei classici a Milano sono tra i primi 4 licei, con il blasonato Berchet, unico pubblico sul podio, che sale dal terzo al secondo posto.

In Piemonte è la provincia ad affermarsi: lo scientifico Ancina di Fossano, nel Cuneese, raggiunge il punteggio stratosferico di 96.31. Significativo il dato sull'occupabilità, al Nord più al Sud dove gli istituti scontano un contesto economico difficile. Non sono ancora i figli dell'alternanza scuola-lavoro quelli presi in esame, ma l'indice di occupazione dei diplomati dei professionali industriali cresce dal 51 al 57% e dal 58 al 68% quello dei servizi nel Nordest. Il tecnico Meucci di Cittadella, a Padova, e il Buzzi di Prato hanno un'occupazione all'87%, ma anche il tecnico economico Besta di Ragusa si difende: 62%. Non sarà l'unico criterio per orientarsi, ma un punto di partenza.

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il  14 Novembre 2019. Vicenza, Lecco, Pavia, Pisa e Cuneo. Anche per il 2019 il podio dei migliori licei classici e scientifici italiani è tutto occupato da scuole del Nord della Penisola. Non si tratta di una vera e propria novità ma di una conferma che certifica la spaccatura all'interno del Paese. Anche estendendo l'analisi alla top 10, elaborata sui dati Eduscopio, l'atlante online delle migliori e peggiori scuole pubblicato pochi giorni fa dalla Fondazione Agnelli per aiutare le famiglie nel passaggio dalla terza media alle superiori, il risultato non cambia. In questa particolare classifica non c'è traccia di istituti scolastici più a Sud di Pisa. Una situazione che peraltro sembra peggiorare con il passare del tempo, come dimostra ad esempio la repentina caduta del liceo classico Sesto Properzio di Assisi. Dal primo posto ottenuto appena due anni fa, il liceo è scivolato fino al 33esimo. Scavalcato, neanche a dirlo, soprattutto da una lunga serie di istituti lombardi e piemontesi ma anche da quelle che figurano essere le eccellenze classiche della porzione più meridionale della Penisola. Vale a dire il Torquato Tasso di Roma e lo Jacopo Sannazaro di Napoli, rispettivamente undicesimo e trentunesimo. A spiccare in questo raffronto però, è anche il caso di Cuneo che tra città e provincia, raccoglie ben 4 tra le scuole migliori per preparazione fornita agli studenti per affrontare un percorso universitario. La Fondazione Agnelli infatti, per elaborare la sua guida ha scelto come indice - denominato FGA - la performance dei ragazzi al primo anno di università. In pratica il numero di esami sostenuti e la media dei voti sono stati considerati diretta conseguenza della preparazione che le scuole hanno dato ai loro diplomati. La classifica nazionale con la media dei punteggi invece, è un'elaborazione di questo giornale che sfrutta Eduscopio per provare a scattare una fotografia della situazione dell'intera Penisola. Ovviamente però, a differenza della Fondazione che da anni fornisce uno strumento alle famiglie, il confronto tra le diverse città, regioni e zone del Paese è indicativo. Non può infatti tener conto delle peculiarità geografiche. Nonostante ciò alcuni dei dati ottenuti appaiono lo stesso significativi. Non solo la top 10 orientata per intero verso settentrione, ma anche il raffronto tra le quattro più grandi città italiane e i loro risultati ottenuti nel 2017. Pur considerando che bisogna registrare una crescita minima della media dei risultati generici con i licei di Roma, Milano, Napoli e Torino tutti in trend positivo, è vero che la distanza appare ancora una volta evidente. Da un lato Torino e Milano continuano a contendersi il primo posto in classifica per licei classici e scientifici - con la città piemontese più adatta ai letterati e quella lombarda ai matematici - dall'altro la Capitale migliora troppo poco e rispetto a due anni fa viene scavalcata in entrambe le medie dalle scuole napoletane. Una débacle per Roma che non riesce a mantenere neppure il primato di migliore città per il Centro-Sud, rendendo forse ancor più evidente la frattura mostrata dal confronto e, peraltro, già certificata dall'ormai noto e discusso rapporto sui test Invalsi. Ogni anno infatti il resoconto sembra diventare un po' più drammatico raccontando di almeno la metà del Paese che arranca in un sistema scuola non funzionante e che pare ampliare le disuguaglianze piuttosto che ridurle. L'Italia spende 67,4 miliardi di euro, pari al 4,1% del Pil e all'8,1% della spesa pubblica per l'educazione dei suoi cittadini. Vale a dire meno di chiunque altro nel Vecchio Continente, eccetto la Grecia e alcune nazioni dell'Est. Tuttavia non solo la spesa per l'istruzione è in continua contrazione - lo ha già fatto dal 2005 al 2015 come mostrano gli indici Ocse, in cui l'Italia ha perso 4 punti in dieci anni, a differenza del resto dei Paesi europei - quanto prosegue a farlo in particolare a Sud. Stando al rapporto Svimez 2019 sull'economia e la società del Mezzogiorno presentato a Montecitorio pochi giorni fa, si continua infatti a tracciare una differenza sempre più netta. Mentre nel Centro-Nord la flessione nella spesa si attesta attorno al 13%, nel Mezzogiorno il calo è del 19%.

Scuola a Brescia si vanta: «Pochi stranieri», è polemica online. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 da Corriere.it. «La presenza di studenti con cittadinanza non italiana è numericamente limitata». Genera la polemica la frase contenuta nel piano di presentazione del Liceo classico Arnaldo di Brescia, da sempre ritenuto punto di riferimento della cultura bresciana. Una polemica fatta scoppiare in rete da un genitore che voleva iscrivere la figlia e che ha trovato la presentazione inappropriata. Nel piano, visibile online, si dice anche che «gli alunni provengono da un contesto socio-culturale in generale medio-alto, che offre buone potenzialità di formazione culturale e ricchezza di stimoli». Nello stesso testo la dirigenza scolastica aggiunge che «la scuola gode di buona fama all’interno del contesto cittadino e da sempre è considerata una delle scuole in cui si sono formate personalità in ambito sociale, culturale, politico, economico e le iscrizione dei figli alla scuola avviene anche per una volontà dei genitori di continuare la tradizione famigliare». Anche il liceo Visconti l’anno scorso era finito nel mirino per lo stesso motivo, e la preside fu accusata di classismo e razzismo. La polemica nasceva dalla descrizione di 1.500 caratteri che il Visconti faceva di sé nella sezione «Scuola in chiaro» del sito del ministero dell’Istruzione: «Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alta borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi». E ancora: «Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile. La percentuale di alunni svantaggiati per condizione familiare è pressoché inesistente». La preside si era difesa: «Solo dati oggettivi».

·         Ripetenti Patentati.

RIPETENTI PATENTATI. Fabrizio Barbuto per “Libero Quotidiano” il 16 ottobre 2019. Gli italiani sono bravi in tutto, tanto da essere ritenuti i più virtuosi d'Europa, ma c'è un settore nel quale, le nuove generazioni, sembrano incapaci di tenere alto l' onore nazionale: la guida. Stando a un' indagine condotta nel 2018 dall'Istituto mUp Research in collaborazione con Norstat, oltre 6 milioni di penisolani avrebbero ripetuto almeno una volta l' esame di guida; cifra che corrisponde al 17,7% di tutti coloro che hanno tentato di prendere la patente. Il Trentino Alto Adige, con il 29,5% dei respinti all' esame, è la regione in cui si è registrato il maggior numero di bocciati. Ad essa segue la Liguria con il 28%. Invece, a rivelarsi più preparate, sono state Lombardia, Campania e Lazio, con una quota di promossi al di sopra della media nazionale. Gli aspiranti automobilisti vacillerebbero soprattutto nella prova pratica, tanto da dover ripetere l' esame due, tre o quattro volte, come nel caso di 36mila esaminati. A bissare i test con più frequenza sarebbero le donzelle. Ma aspettate a declamare il proverbio "donne al volante pericolo costante" perché, a smentire i luoghi comuni, ci pensano le agenzie assicuratrici, dalle cui indagini risulta che, a manifestare più prudenza alla guida, siano proprio le fanciulle. A sorprendere non è tanto il numero di chi viene rimandato ai test quanto quello di chi, all' esame, non prova neppure ad accedere: i 18enni di oggi sono sempre più disinteressati al traguardo della patente, e raggiunta la maggiore età preferiscono dare priorità ad altri obiettivi che non a quello di una macchina delegata ad annullare le distanze. A contare il maggior numero di "spatentati" sono le regioni le cui aree urbane sono ben collegate da metropolitana e bus efficienti. Questi motivi hanno esteso il margine d' età entro il quale, i fanciulli, mirano a conseguire la patente: l' età media, in regioni come Basilicata, Campania e Sicilia, si aggira attorno ai 20 anni e 7 mesi. In Sardegna si arriva perfino ai 22 anni, ed in Emilia Romagna ai 21 e 8 mesi. A generare indifferenza attorno ai traguardi ambiti dai teenager di una volta contribuisce anche il fatto che, quelli di oggi, siano ben più remoti dall' indipendenza finanziaria: i 18enni di due decadi fa che cercavano lavoro per affrancarsi dalla famiglia guadagnavano più dei maggiorenni di oggi mossi dallo stesso bisogno d'autonomia. Mantenere un' auto senza gravare sui genitori, è pressocché impossibile: le polizze assicurative sono onerose, e neppure le spese relative alla scuola guida sono emblema di economia: si va dai 500 ai 900 euro. Per non parlare della benzina! Ce n' è abbastanza per sostenere che costa meno viaggiare in aereo che non in macchina. Per le brevi distanze, i più tradizionalisti, possono invece contare sul mezzo di trasporto meno esoso di tutti: le proprie gambe.

·         La scuola si svuota e restringe.

Allarme scuola, si svuotano le classi: dal 2014 trecentomila studenti in meno. Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 su Corriere.it. La scuola si restringe, anno dopo anno stanno diminuendo gli studenti. E il fenomeno, preannunciato di dati sulla scarsa natalità nel Paese, sta cominciando ad essere ben visibile: in questo inizio di anno scolastico ci sono quasi 300 mila studenti in meno.. Erano 7.881.632 nel 2014/15, sono 7.599.259. Sono «scomparse» 500 sedi scolastiche, di cui 388 sono scuole elementari, perché il calo degli studenti per ora interessa soprattutto i piccoli: in cinque anni nella primaria si sono persi 150 mila studenti. C’è invece un dato, tra quelli diffusi dal servizio statistico del Miur, che è significativamente in controtendenza e positivo. E’ in leggero aumento il numero degli studenti che sono alle superiori: ci sono 14 mila ragazzi e ragazze in più di cinque anni fa, e dunque cinquemila classi in più, segno che pur tra alti e bassi, le politiche per la dispersione qualche cosa fanno, ma soprattutto che gli studenti si stanno spostando dagli istituti professionali triennali verso gli istituti tecnici. E’ un dato confermato infatti dallo stesso rapporto Miur: Nel 2014 uno studente su cinque (21 per cento) era frequentava un istituto professionale mentre oggi è il 18,7 . Lo spostamento nelle scelte verso percorsi più impegnativi come i tecnici e i licei si vede nel dato che riguarda le iscrizioni ai licei: erano il 47,1 per cento dei ragazzi a cimentarsi con queste scuole superiori, oggi sono il 49,8 che scelgono il liceo, in gran parte grazie ai nuovi indirizzi istituiti da una delle ultime riforme. La diminuzione degli studenti non ha significato la contemporanea diminuzione dei prof. Anzi, dal 2014 i posti comuni e per il sostegno sono (di poco) aumentati. Molto è dovuto all’ingresso nelle scuole del 50 per cento in più di insegnanti per il sostegno (molti in deroga, segnala il Miur, cioè occupati da insegnanti che non specializzati e comunque complessivamente non sufficienti), giustificato dalla presenza di un numero sempre maggiore di ragazzi con la certificazione (sono passati da 210 mila a 260 mila in cinque anni).

·         Cattivi Maestri.

Inchiesta sulla scuola, cosa pensano gli studenti dei prof? Uno su tre si sente incompreso. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 da Corriere.it. Ogni anno la pubblicazione dei risultati dell’Invalsi e di quelli della Maturità si porta dietro un inevitabile strascico di polemiche: sull’analfabetismo funzionale dei nostri ragazzi che arrivano all’ultimo anno senza sapere leggere e capire un testo di media complessità e con competenze matematiche da terza media, sulla forbice Nord-Sud, sulla disparità fra licei e istituti tecnici e professionali e così via. Ai dibattiti - per lo più senza alcun seguito - sulle ragioni di questa crisi (docenti sottopagati, didattiche non al passo con i tempi) si alternano le notizie di cronaca che raccontano di studenti e docenti bullizzati e famiglie in rotta con la scuola. Ma i ragazzi, loro, cosa pensano di compagni e prof? E cosa vorrebbero dalla scuola? Ecco i risultati di un sondaggio in più puntate condotto dal Canale Scuola di Corriere.it in collaborazione con il Laboratorio Adolescenza. L’indagine è stata realizzata con un questionario a risposte chiuse distribuito a un campione di 780 studenti delle scuole superiori di Milano (licei, istituti tecnici e professionali) durante l’orario di lezione, alla presenza dell’insegnante e/o di un intervistatore, tra i mesi di marzo e maggio 2019. La prima puntata ha per argomento il rapporto con gli insegnanti. L’autore, Maurizio Tucci, è presidente del Laboratorio Adolescenza. Il primo resoconto di questo percorso insieme agli studenti (attivato attraverso la somministrazione di un questionario e la realizzazione di focus group) lo dedichiamo ad un aspetto molto importante della vita scolastica: la qualità della comunicazione con gli insegnanti, a prescindere dagli aspetti strettamente legati all’insegnamento. Il risultato emerso dall’indagine appare decisamente confortante: il 70,7% degli intervistati (la percentuale sfiora il 73% se ci riferiamo solo alle ragazze) sostiene che la comunicazione con «i prof» è generalmente buona. E questo risultato non subisce variazioni significative passando dai licei alle scuole tecniche o professionali. Mentre, passando dal biennio al triennio, si consolida ulteriormente raggiungendo quota 72%. In quel 30% che sostiene, invece, che la comunicazione non è soddisfacente, c’è una percentuale significativa di studenti e studentesse che affermano di andare a scuola «così così» o «male». È evidente il collegamento tra le due cose: un buon rendimento scolastico facilita indubbiamente la comunicazione studente-insegnante, anche al di là della stretta didattica. Ma se da un certo punto di vista questa evidenza ci può apparire scontata, dall’altro ci deve spingere a riflettere sul rischio che un cattivo rendimento scolastico possa generare difficoltà anche nella comunicazione tout-court insegnante-studente, innescando un circolo vizioso dal quale può diventare difficile uscire. «Il recupero di un rapporto di fiducia con uno studente che ha un una comunicazione difficile con gli insegnanti, e che spesso si autoconvince di essere poco stimato e considerato come persona, non è cosa facile o scontata – afferma Teresa Caputo, insegnante dell’Istituto Tecnico Turistico Varalli di Milano (la scuola, tra quelle selezionate nel campione dell’indagine, in cui è risultata più alta la percentuale di studenti che ha affermato che la comunicazione con gli insegnanti è generalmente buona) – ma è necessario sfruttare tutti i canali possibili per riallacciare la comunicazione». A volte si può fare attraverso la famiglia, parlando con i genitori e spiegando che non c’è alcun preconcetto nei confronti del ragazzo o della ragazza; a volte sfruttando un eventuale maggior livello di confidenza tra lo studente e uno dei suoi insegnanti. «Nella mia lunga esperienza – riferisce Caputo – ricordo successi straordinari in questo senso, ma anche tante situazioni che non si sono risolte in modo soddisfacente. L’importante, da parte di un insegnante e della scuola tutta, è provarci sempre». Ma c’è un altro aspetto, emerso dall’indagine, che lega ulteriormente scuola e famiglia: tra i ragazzi e le ragazze che indicano la loro vita in famiglia come conflittuale (24%) o critica (8,5%), la percentuale di chi afferma di non avere un buon livello di comunicazione con gli insegnanti è maggiore rispetto a coloro che, invece, descrivono la loro vita familiare come «piacevole» (37,6%) o «tranquilla» (29%). Scontato anche questo? «Dipende dalla gravità del conflitto in famiglia – afferma Fulvio Scaparro, psicologo e psicoterapeuta, fondatore dell’Associazione Genitori Ancòra e referente per l’area psicologica di Laboratorio Adolescenza – All’età del campione osservato [15-19 anni] un normale tasso di conflitto familiare è inevitabile e generalmente non condiziona i rapporti con il resto del mondo, ma se il conflitto ed il disagio sono gravi, influiscono negativamente su tutto ed, in particolare, sul rapporto con il mondo adulto di cui gli insegnanti sono l’espressione extra-familiare con la quale gli adolescenti sono più a contatto». Prossimo appuntamento: A scuola telefonino sì o telefonino no?

Noi professori, da giudici a giudicati. Pubblicato martedì, 01 ottobre 2019 su Corriere.it da Alessandro Piperno. Non amo giudicare (né essere giudicato). Quando devo valutare qualcuno mi viene subito in mente la frase che Tolstoj mette in bocca a un suo personaggio: «Dove si giudica non c’è giustizia». Non amo giudicare (né essere giudicato). Ho seri problemi con pagelle, recensioni, verbali: che sia io a compilarli o che siano a mio danno o vantaggio, la sola utopia che concepisco è un mondo in cui nessuno giudica. Quando devo valutare qualcuno mi viene subito in mente la frase che Tolstoj mette in bocca a un suo personaggio: «Dove si giudica non c’è giustizia». Non invidio i magistrati, i vigili urbani, gli arbitri di calcio, per non dire dei critici gastronomici. Comminare pene? Multare? Ammonire? Conferire stelle? Che strazio! Forse faccio lo scrittore perché la narrativa è il solo luogo in cui il giudizio è sospeso quasi per statuto (parlo della narrativa migliore, naturalmente). Poi però c’è l’altro mestiere, quello borghese: l’accademico. Lì non si scappa. L’istruzione — a meno di non intenderla in modo utopistico, come faceva Montaigne — si basa sul giudizio, nei casi peggiori su reprimende, castighi, mortificazioni. All’università poi, come recita l’adagio eduardiano, gli esami non finiscono mai. Ebbene, se da studente detestavo essere esaminato, ora l’incubo è esaminare. Non mi fido del mio discernimento più che della buonafede dello studente medio (lo sono stato anch’io dopotutto, e non tra i più virtuosi). Con gli anni ci ho messo una pezza: mi sforzo di essere equanime ma non troppo indulgente; non pretendo dagli allievi la mia stessa devozione per la letteratura e tengo al guinzaglio simpatie o antipatie inconsulte. Se proprio devo, durante la sessione, sfotto me stesso, Flaubert e l’esaminato, ma così per allentare la tensione. Insomma faccio del mio meglio per non essere iniquo e ansiogeno. Non esibisco la crudeltà dei miei maestri ma neanche il lassismo peloso di certi demagoghi vetero-sessantottini. Ciò detto, tutto mi sarei aspettato tranne che, in una sorta di beffardo ribaltamento della sorte, alla soglia dei cinquant’anni mi sarei ritrovato invischiato in un tipo di istituzione universitaria — nuova di zecca e iper-democratica — in cui a essere giudicati sono i docenti. Spero che nessuno prenda questo pezzo per una squallida rivendicazione corporativa. Figuriamoci. Il mio intento è segnalare, persino divertito, alcuni bizzarri dati sensibili, chiamiamoli così. Tralascio i termini burocratici della faccenda, tanto noiosi quanto difficili da comunicare. Vi basti sapere che ogni anno gli atenei sottopongono gli studenti a una serie di questionari per valutare il gradimento del servizio erogato (testuale) dai professori. Si dà il caso che quest’anno, per ragioni di turnazione, mi sia ritrovato nella commissione chiamata a visionare le risposte dei nostri allievi, il cosiddetto «monitoraggio».

1) Cosa pensano gli studenti di noi?

2) Cosa possiamo fare per facilitare loro il compito?

3) Quali mancanze è necessario correggere?

Vorrei dirvi che ad avermi preoccupato sono state le risposte. Niente affatto. Assurde erano soprattutto le domande: il tono delle domande. Scorrendole mi sentivo come il titolare di un ristorante che consulta stoicamente i giudizi lasciati su un sito specializzato da un avventore esigente e malmostoso. Intendiamoci, da anni i docenti trovano sul proprio profilo accademico i commenti degli studenti sui loro corsi. Non mi piace ma mi adeguo. Ecco però un bel salto di qualità. Si fa una media matematica delle risposte a interrogativi così concepiti: «Il carico di studio richiesto da questo insegnamento è proporzionato rispetto ai crediti assegnati?». Che diavolo di domanda è? Che senso ha? Sono anni che provo a capire cosa sia adeguato e cosa non lo sia allo studio di una disciplina cui ho consacrato le mie forze migliori. E ora tocca a uno studente — anche al più pelandrone e disinteressato, «la confraternita del diciotto, spina dorsale della nazione» — dire la sua su una questione su cui io stesso nutro dubbi ancestrali. Che mondo è questo? Chi ha ideato una simile mostruosità demagogica? E visto che non c’è limite alla grande sbornia giudicante che infesta questi tempi di giacobinismo massificato, se ne sono inventati un’altra. Per fare carriera un professore deve pubblicare articoli su riviste scientifiche di classe A (sì, proprio come la Mercedes). Tralasciando il fatto che applicare criteri scientifici alle discipline umanistiche è una nefandezza atta a favorire conformismo, banalità e ogni sorta di consorteria accademica, e en passant a mortificare originalità e slanci creativi, soffermiamoci sulla bizantina trafila che porta alla pubblicazione. Tu sputi il sangue su un articolo per mesi. Poi lo consegni alla redazione; la quale, senza alcun criterio, lo invia a un paio di tuoi colleghi anonimi che si prendono il tempo per giudicarlo (non vedono l’ora di farti la pelle, o quanto meno la lezione). Tocca a loro stabilire se il tuo lavoro è degno di essere pubblicato. Ufficialmente non conoscono il nome dell’imputato affidato alle loro cure, ma vi assicuro: non è così difficile scoprirlo. In teoria potrebbero essere accademici con cui non condividi niente o con cui hai più volte polemizzato. Gli stai servendo su un piatto d’argento l’agognata vendetta. Dopo qualche settimana arriva il responso, il cosiddetto referee. Non è detto che i due censori siano d’accordo tra loro. Uno potrebbe ritenere che hai scritto la cosa più bella mai concepita sull’argomento, l’altro che ti sei reso ridicolo. A chi dare ragione? Uno dei due può accusarti di non aver citato un certo studio (per lui indispensabile, per te trascurabile). Perché deve averla vinta lui? Del resto, l’anonimato del giudice sembra un invito criminogeno all’esercizio del proprio piccolo potere o, nei casi peggiori, alla vendetta o alla delazione. A rendere tutto ancor più spiacevole è l’impossibilità di replica. Non puoi interloquire con i censori invisibili. Poniamo che tu non sia d’accordo con loro e voglia confrontarti? Non puoi farlo. Perché il loro giudizio dovrebbe valere più del tuo? Ti ritrovi l’articolo fatto a pezzi, pieno di commenti superciliosi o persino ingiuriosi, zeppo di correzioni neanche fosse una tesi di laurea; e devi starci, dando per scontate le argomentazioni, la competenza e soprattutto la buonafede dei tuoi colleghi. Chi ha concepito questo pastrocchio che serve solo a infittire le tenebre e favorire l’arbitrarietà? È proprio vero allora: dove si giudica non c’è giustizia.

"Troppi prof di sinistra": il sindaco avvia un monitoraggio nelle scuole. La decisione del sindaco leghista di Monfalcone: "I docenti, con le loro ideologie, avvelenano i giovani". E il Pd insorge: "Si apre la caccia alle streghe". Giorgia Baroncini, Lunedì 05/08/2019 su Il Giornale. Troppi professori di sinistra nelle classi di Monfalcone. Una situazione che non piace al sindaco leghista della cittadina in provincia di Gorizia. "Con le loro ideologie, avvelenano i giovani, osteggiando apertamente le scelte democratiche che gli italiani stanno manifestando verso gli amministratori della Lega", ha spiegato il primo cittadino, Anna Maria Cisint. Dopo aver fissato il tetto del 45% di stranieri per classe nella scuola materna e aver eliminato dalla biblioteca comunale i quotidiani Il Manifesto e Avvenire, ora il sindaco si concentra sugli insegnanti. Una decina le segnalazioni di "preoccupazione e disagio" arrivate sulla sua scrivania in due anni di mandato da genitori, studenti e da docenti che si distanziano da quelle posizioni. Così, come riporta il Gazzettino, la prima cittadina ha deciso di mettere in atto un monitoraggio delle scuole affidando il compito al Garante per i diritti dell'infanzia e della adolescenza che raccoglierà tutte le proteste e valuterà ogni singolo caso. "Dobbiamo far sviluppare nei ragazzi spirito critico, io non voglio la politica nella scuola e non voglio liste di proscrizione" dei prof di sinistra, ha continuato il sindaco. Ma il Pd non ci sta. "A Monfalcone la Lega apre la caccia alle streghe contro i terribili insegnanti di sinistra che infestano le scuole pubbliche. La sindaca Cisint vede 'comunisti' dappertutto e invita i ragazzi a fare i nomi di chi la critica. Parola d'ordine: bocca chiusa e ubbidire al Capitano", ha tuonato su Twitter Debora Serracchiani, ex presidente della Regione. La prima cittadina tira diritto e intende salvaguardare la formazione dei più giovani. "Egemonia di sinistra nelle scuole? Credo nelle scuole superiori ci sia senz'altro, non in tutte, ma la mia esperienza di sindaco e di mamma mi fa dire che il mondo della scuola così tanto neutrale non è. Non voglio parlare di cattivi maestri ma questa è una situazione che esiste", ha spiegato Cisint. "Ho saputo di critiche alle mie ordinanze e anche di manifestazioni del tutto irrispettose verso Salvini - ha continuato -. Ecco, io credo che questo non sia tollerabile: l'errore non è la critica in sé, ma il fatto che se ne parli in termini ideologici e partitici. Non è più libertà di insegnamento o di espressione, ma fomentazione dell'odio attraverso la strumentalizzazione dei giovani".

"A Monfalcone troppi insegnanti di sinistra, la scuola non può essere una dittatura". Parla la sindaca leghista Anna Cisint dopo il post sul centro di ascolto riservato agli studenti vessati dai docenti politicizzati: "Almeno dieci casi in quasi tre anni di amministrazione, un ragazzo irriso in classe. E' stata un'idea del mio garante dell'infanzia, a settembre vedremo se realizzarla". Corrado Zunino il 06 agosto 2019 su La Repubblica. "La sinistra deve capire che è finita la sua dittatura, scuola compresa". Spalleggiata dal presidente della Regione Veneto, Massimiliano Fedriga, la sindaca di Monfalcone Anna Cisint, 56 anni, alla Festa della Lega Romagna, a Cervia, ha insistito sul servizio di ascolto riservato di studenti (e genitori) per far emergere i docenti di sinistra "che infestano le scuole pubbliche".

Sindaca, giovedì scorso, a tarda ora, ha postato su Facebook questa frase sotto un testo di Nicola Porro che raccontava la storia di un insegnante imbavagliato da colleghi di sinistra: “Valuteremo se da settembre far partire un servizio di ascolto riservato”. E' sicura di quel che dice: un ascolto riservato per snidare i prof comunisti? 

“Liste di proscrizione, censimento degli insegnanti di serie A, chi sta a destra, e di serie B, chi è di sinistra. Mi state dando un'importanza che non merito, io sono più banale. Quel post è nato spontaneamente, poche righe innocue. Sa, io scrivo sui social, ma poi non sto a leggere le reazioni, non ho tempo".

Ci sono state reazioni, sui social e nella società. Non siamo più nell'Italia dei podestà che controllavano i maestri. La libertà d'insegnamento è garantita dall'Articolo 33 della Costituzione.

"Io non ho quella cultura, il fascismo, non è nelle mie corde. Sono di destra, ma i miei figli li ho lasciati sempre liberi di formarsi un convincimento. In questi giorni si è esagerato. Il post di Porro mi ha solo fatto ricordare tutti quei ragazzi e quelle famiglie che hanno vissuto disagi in una scuola dove docenti di sinistra li hanno messi in difficoltà. Altroché Podestà, ho colto un bisogno esistente".

Ci spiega che cosa hanno fatto questi docenti di sinistra e bulli? 

"Non voglio entrare nei dettagli, tradirei la fiducia di chi me lo ha raccontato. Diciamo che un ragazzo, per esempio, è stato irriso in classe perché non era in linea con il pensiero della docente, e poi ghettizzato per un anno".

Quanti casi ha registrato in quasi tre stagioni di amministrazione?

"Una decina, le sembrano pochi? Monfalcone è una città di trentamila abitanti e la gente mi regala confidenze quando mi incontra, mi prende da parte. Io giro molto e ascolto, un sindaco deve saper ascoltare. E non esagerare".

Questi dieci, mi par di capire non tutti studenti, le hanno confidato vessazioni subite da docenti di sinistra. Quali?

"Lezioni di storie molto faziose".

A scuola si spiega, per esempio, la Costituzione. Lì c'è scritto che l'Italia è una Repubblica democratica, che è vietata la ricostituzione del Partito fascista. Se un docente avesse spiegato questo lo considererebbe un fazioso di sinistra?

"Non è questo il punto. Il punto è non essere ideologici, lasciare che i ragazzi si formino un pensiero proprio. Io credo che non esista al mondo un libro con le verità assolute all'interno".

La scuola deve aiutare a formarsi un pensiero democratico. Se lei, sindaca, avesse ricevuto le confidenza di studenti che si sentivano costretti da docenti di destra, anti-stranieri, promulgatori del pensiero salviniano avrebbe pensato lo stesso a un servizio di ascolto riservato?

"A me sono arrivate solo le rimostranze dei ragazzi oppressi dalla sinistra".

Forse perché lei è una sindaca di destra.

"Può darsi e, comunque, se facessero politica in classe sbaglierebbero anche i professori di destra. La questione più importante è che di questo centro d'ascolto c'è bisogno, almeno a Monfalcone. Dopo che sono uscita allo scoperto mi sono arrivati altri messaggi, l’ultimo dieci minuti fa da un ragazzo del Liceo Petrarca di Trieste. Il problema è più diffuso di quel che credevo. Mi dica lei, perché ascoltare gli sfoghi di ragazzi in crisi deve diventare uno scandalo?".

Perché nella Repubblica democratica italiana funziona così, per legge. Se una persona, un cittadino, un sindaco, viene a conoscenza di docenti che svolgono male il loro mestiere, per esempio, come dice lei, indottrinando gli studenti con pensieri vetero-marxisti, può e deve segnalare la questione al ministero dell'Istruzione o all'Ufficio scolastico regionale. Le istituzioni aprono un fascicolo, decidono se inviare ispettori e, quindi, come comportarsi con quel docente. Non basta?

"Qui in provincia è più facile rivolgersi al sindaco. Se avessi detto a chi mi regalava le confidenze "fai un esposto al provveditorato", se ne sarebbe andato senza rivelarmi nulla".

E invece, adesso, lei vuole che la questione sia trasferita nell'ufficio del Garante dell'infanzia del Comune di Monfalcone, da lei nominato".

"Intanto il nostro garante, che è il signor Francesco Orlando, non ha un ufficio. E poi mica lo controllo. E' uno dei due candidati che ha inviato il curriculum: abbiamo dato a Orlando la funzione perché è un ex professore di scuola media".

O più probabilmente perché si era candidato con la sua lista civica, alle ultime elezioni amministrative. 

"Ma perché dovete vedere il male dappertutto?".

Quando il garante avrà ascoltato i racconti sui malvagi docenti di sinistra, che cosa farà?

"Non so, valuterà. Se sarà il caso manderà un rapporto in Provveditorato o al Miur".

Ma se bisogna passare sempre da lì, dall'Ufficio scolastico regionale o dal ministero, perché inventarsi un nuovo ufficio di ascolto in Comune?

"Guardi, è un'idea che ha avuto il garante, vedremo a settembre se si farà. Non è questa, certo, la priorità di Monfalcone né del Paese".

E' lei che ha fatto il post.

"Non ho cercato questa vetrina negativa, né sono andata a prendermi i ragazzi scontenti. E poi mi scusi, sono al primo giorno di ferie, vorrei fare dell'altro che parlare del centro riservato d'ascolto".

Sindaca, ha anche detto: “Le terribili insegnanti di sinistra che con le loro ideologie avvelenano i giovani osteggiando apertamente le scelte democratiche che gli italiani stanno manifestando verso gli amministratori della Lega”. Poi: "Nelle scuole superiori hanno un'egemonia". 

“Si sa che è così, almeno da noi a Monfalcone. Emerge dai fatti. E i genitori sono arrabbiati, i figli demoralizzati".

Ha detto ancora: "Mi hanno raccontato di docenti che criticano Salvini e le mie ordinanze". E da quando le sue ordinanze non si possono criticare?

"Un professore può fare commenti critici sulle ordinanze della mia giunta, ma se fossi io al suo posto prima le spiegherei, poi aprirei un confronto con gli studenti, infine, al limite, le criticherei. Se non si ragiona così, allora, siamo in dittatura".

Dopo l'insurrezione contro i colloqui di proscrizione, ha parlato di delegittimazione continua dei social rispetto alla sua attività amministrativa. Alludeva ai molti gruppi Facebook che la contestano?

"Sono guidati da chi c'era prima e ha fatto i guai a cui sto cercando di porre rimedio".

La sua Lega, e Salvini in particolare, sono i primi sfruttatori del bar Facebook. E’ un’arma del vostro successo, ma quando vi criticano diventa un problema.

"Guardi, io leggo poco Facebook, ma i post contro di me sono pieni di parolacce. Il mio avvocato sta procedendo, in un caso, con una querela. I social vanno gestiti con educazione e rispetto".

Lei li gestisce bannando chiunque non sia d’accordo con quello che scrive. Non è una pratica antidemocratica?

"Senta, è il mio primo giorno di ferie e le ho già dette molte cose".

A proposito di ordinanze, quella che garantisce birra calda per gli stranieri è ancora in vigore? 

"Non bisogna fermarsi ai titoli, quel provvedimento ha tolto dalla strada molti ubriachi molesti".

La biblioteca comunale ha per caso ripreso a fornire ai lettori Avvenire e Il Manifesto, giornali che hanno criticato le sue politiche con i migranti e che lei ha fatto togliere dal servizio?

"Intanto è stato un atto della dirigente della biblioteca, non mio. Li ha ritirati perché nessuno li chiedeva. Anche Repubblica mi attacca, ma le due copie non le abbiamo tolte. Noi acquistiamo molti giornali e settimanali, nei paesi intorno al massimo uno".

Le quote per bambini stranieri a scuola? Sono sempre valide? Hanno avuto l'effetto di spingere nelle loro case i figli dei lavoratori bengalesi della Fincantieri.

"Le mie politiche scolastiche hanno fatto sì che oggi abbiamo più posti che bambini, prima era il contrario. Alcuni scolari stranieri vanno nei paesi vicini, entusiasti. La distanza è poca e nessuno è più in lista d'attesa".

Cosa ne pensa della classe docente, sindaca Cisint?

"La stimo. I miei figli hanno avuto solo bravi insegnanti".

CATTIVE MAESTRE.  Massimiliano Peggio per La Stampa il  5 ottobre 2018.  Cocaina e hashish. È la droga sequestrata nell’alloggio di corso Novara dove vive Flavia Lavinia Cassaro, la maestra elementare licenziata per aver partecipato lo scorso 22 febbraio ad una manifestazione antifascista nel centro di Torino, urlando ai poliziotti schierati in ordine pubblico «vigliacchi, mi fate schifo, dovete morire». Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini ha commentato la vicenda rivelata dalla Stampa. «Ve la ricordate? Si era messa a insultare i poliziotti urlando “vigliacchi, mi fate schifo, dovete morire!”. Ora trovati cocaina e hashish a casa sua. Non c’è che dire, un’ottima educatrice? Viva la scuola libera da questi personaggi!». Sono stati gli agenti del commissariato Barriera Milano a controllare la sua abitazione, nel corso di un controllo straordinario del territorio che ha interessato lo stabile di corso Novara, occupato da anni da famiglie ed esponenti dell’area antagonista. La polizia, in realtà, era sulle stracce di un marocchino, H.E.M. 38 anni, conoscente della maestra, residente in un altro alloggio dello stabile, sospettato di essere un pusher. Nel suo appartamento gli agenti hanno trovato più di 14 grammi di hashish: per questo è stato denunciato all’autorità giudiziaria. Altri guai, dunque, per la maestra vicina ai centri sociali. Per il possesso della droga è stata segnalata amministrativamente. È stata lei a indicare ai poliziotti del commissariato lo stupefacente, lasciato in bella mostra sul tavolo della cucina. Inoltre è stata trovata in possesso di un «Grinder» ovvero un attrezzo da cucina che serve a sminuzzare vegetali, ma anche la marijuana. Flavia Lavinia Cassaro, sospesa dall’insegnamento dopo il clamore suscitato dalle sue frasi contro la polizia ripetute di fronte alle telecamere di Mediaset, lo scorso giugno era stata licenziata. Con la motivazione di aver agito «in grave contrasto con i doveri inerenti alla funzione di educatrice nonché per attività dolosa che ha arrecato grave pregiudizio alla Scuola e alla pubblica amministrazione». Inoltre si è ritrovata indagata per oltraggio nell’ambito dell’inchiesta sugli scontri tra polizia e antagonisti avvenuti la sera del 22 febbraio, quando le forze dell’ordine cercarono di impedire al corteo antifascista di raggiungere l’hotel Nh di corso Vittorio dove era in corso un comizio di CasaPound. Incontrando i giornalisti, pochi giorni dopo la notifica del provvedimento di «destituzione», l’insegnate, assistita dal sindacato Cub Scuola, aveva detto: «Ho fatto una sciocchezza, ma il licenziamento è eccessivo. È una punizione ingiusta rispetto all’errore che ho commesso». Pochi giorni fa il sindacato di polizia Siulp si è costituito parte civile nel procedimento penale per la guerriglia scoppiata tra corso Vittorio e piazza Statuto il 22 febbraio. L’azione legale contro gli imputati è una presa di posizione da parte del sindacato a tutela dei poliziotti rimasti feriti negli scontri.

Urlò "dovete morire" agli agenti: licenziata maestra antagonista. Il tribunale di Torino ha respinto il suo ricorso contro il Miur per il licenziamento: "Si resta docenti anche fuori dalla scuola". Franco Grilli, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Si resta docenti anche fuori dalle Aule. La maestra di Torino che insultò gli agenti nel corso di una manifestazione perderà il posto di lavoro. Dopo avere impugnato il provvedimento disciplinare per lei è arrivata la doccia fredda: respinto. Così la direttiva del Miur è valida: la maestra dovrà rinunciare alla sua cattedra. Lavinia Flavia Cassaro pagherà a caro prezzo quegli insulti pieni d'odio urlati ai poliziotti durante una manifestazione antifascista contro un'iniziativa elettorale di Casapound a Torino. La maestra, come ricorda l'Adnkronos, è stata indagata dalla procura per istigazione a delinquere, oltraggio al pubblico ufficiale e minacce. A inchiodare la donna erano stati alcuni video finiti anche in tv in cui la maestra augurava la morte agli agenti in servizio. La Cassaro aveva impugnato la decisione dell'Ufficio scolastico regionale del Piemonte che l'aveva sanzionata per la "grave condotta" tenuta nel corso della manifestazione di febbraio scorso. La maestra ha però perso la sua battaglia legale. Il Giudice del Tribunale di Torino ha infatti respinto il ricorso e l'ha condannata a pagare le spese processuali. Il giudice ha di fatto ritenuta idonea la decisione del Ministero dell'Istruzione considerata la particolare gravità di quanto accaduto. Le motivazioni fornite dal giudice spiegano la sua scelta. Secondo il magistrato il sistema scuola rappresenta "un mezzo per promuovere la crescita della persona in tutte le sue dimensioni". Qui arriva la bocciatura del ricorso: il giudice evidenzia quanto possa essere "evidente il contrasto tra le finalità educative e il ruolo dell'insegnante e l'atteggiamento incontrollato e offensivo nei confronti delle forze dell'ordine tenuto dall'insegnante". Qui il giudice sottolinea e rimarca in modo chiaro il ruolo dell'insegnante: "I docenti hanno compiti non solo legati all'istruzione dei bambini e dei ragazzi, ma anche educativi" e, "per i docenti di scuola primaria, i compiti educativi sono ancora più marcati rispetto ai colleghi degli altri gradi scolastici: hanno a che fare con bambini che non hanno sviluppato un senso critico e sono quindi portati ad 'assorbire' tutto ciò che viene trasmesso loro dall'insegnante, pertanto, un comportamento che violi le regole di civile convivenza e diffonda un senso disprezzo per lo Stato e i suoi comportamenti, tenuto dalla persona che dovrebbe essere modello di comportamento è ancora più grave". Infine il giudice ha inoltre ritenuto che tali comportamenti abbiano "portato grave pregiudizio alla scuola, alla pubblica amministrazione, agli alunni, alle famiglie". Insomma quel "dovete morire" costerà il posto di lavoro all'insegnante che ha insultato gli agenti e la loro divisa.

Torino, la prof insulta i poliziotti: "Dovete morire vigliacchi". Una insegnante intervistata da Matrix conferma di fronte alle telecamere gli insulti alla polizia. Matteo Renzi: "Va licenziata". Claudio Cartaldo, Martedì 27/02/2018, su Il Giornale. Le telecamere l'hanno ripresa lì, di fronte ai poliziotti in tenuta antisommossa. La polizia: "Semina odio. Non può più insegnare". Cappuccio del cappotto sulla testa per proteggersi dal getto degli idranti. Torino. Scontri tra antagonisti e forze dell'ordine schierate a difesa di CasaPound. "Vigliacchi, mi fate schifo, dovete morire", urla la donna guardando in faccia le divise. Professoressa, la donna è stata intervistata da Angelo Macchiavello di "Matrix". Il servizio, mandato in onda ieri sera, sta già facendo discutere. "Sì, ho detto quelle parole perché loro stanno proteggendo i fascisti - ha ribadito la donna - e perché un giorno potrei trovarmi fucile in mano a combattere contro questi individui". Nel mezzo degli scontri, incurante delle telecamere che la stavano riprendendo, la professoressa aveva urlato di tutto contro i tutori dell'ordine. "Mezza cartuccia del cazzo...". E ancora: "Vergognati, schifoso". Durante quella serata di ordinaria guerriglia antagonista, un agente della polizia di stato è rimasto ferito dopo essere stato trafitto da una scheggia di legno schizzata nella sua gamba dall'esplosione di una bomba carta "costruita per uccidere". L'uscita della donna non è piaciuta nemmeno a Matteo Renzi, ospite in studio da Nicola Porro. "Che schifo - ha detto l'ex premier - una insegnante che augura la morte ai poliziotti andrebbe licenziata su due piedi. Una insegnante viene pagata per educare alla cittadinanza nelle scuole...".

Ecco chi è la prof degli insulti che non si pente e tifa No Tav. Una mamma della scuola rivela: urla anche ai bambini. E il ministero apre un caso sulla prof che insulta i poliziotti. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 28/02/2018, su Il Giornale. La sua foto a bocca spalancata mentre vomita offese contro i poliziotti è ormai su tutti i giornali. Lavinia Flavia Cassaro è suo malgrado la "professoressa" più famosa d'Italia, anche se tecnicamente "professoressa" non è. Insegna all'Istituto Comprensivo Leonardo Da Vinci di Torino, una scuola elementare nella periferia Nord della città dove fa ore di compresenza in una classe. No Tav, No Muos, antagonista e fiera antifascista. La sua storia però è più complessa di quell'immagine che ora la rappresenta. E va guardata più dal lato militante che da quello tra i banchi di scuola. "La giovane è componente del centro sociale Gabrio", spiega un agente che ne ha seguito da vicino le mosse. "La digos la conosce molto bene e non va presentata come una professoressa impazzita durante un corteo". Nel suo curriculum ci sono "precedenti legati alla sua attività" come "occupazioni, imbrattamenti e manifestazioni di piazza". Nata nel 1980 a Piazza Amerina, ad Enna, risultava residente a Bologna "ma di fatto domiciliata a Torino". Un verbale di identificazione per una denuncia per "imbrattamento di cose altrui" la descrive come "sposata, insegnante, conosciuta agli archivi di Polizia". Nel suo profilo Facebook condivide più volte notizie legate alla lotta contro la Tav e alle proteste dei No Muos. La sua presenza in Val di Susa è stata registrata più volte, anche e soprattutto quando i cortei sono finiti in scontri con le forze dell'ordine. "È una delle presenze costanti ai cortei No Tav", fa sapere l'agente. "È proprio una delle anime più carismatiche di Gabrio". "Quello che hai visto in video l'altra sera - continua il poliziotto - è quello che fa sempre". Come nel 2013, quando in un post non esitò a chiamare "vigliacco di merda" un agente costretto a sparare ad un cane che gli ringhiava contro. L'odio verso le forze dell'ordine, in fondo, lo ha espresso senza filtri durante il corteo della settimana scorsa. E il suo nome sarebbe finito più volte nei taccuini delle forze dell'ordine per gli insulti urlati in faccia ai "celerini" in tenuta antisommossa. La Digos l'ha denunciata per quel "dovete morire" finito in televisione e la segnalazione è già arrivata in procura. Anche per questo motivo ieri il ministero dell'Istruzione ha aperto un "caso" su Lavinia Flavia Cassaro. "L'Ufficio scolastico regionale del Piemonte - ha detto oggi Valeria Fedeli - dopo aver svolto i necessari approfondimenti, mi ha informato che in data odierna è stato avviato un procedimento disciplinare". L'obiettivo è quello di capire se sia compatibile con il ruolo educativo che svolge. Ci sarebbero dei dubbi, rinvigoriti da quanto successo a Torino. Il Corriere infatti riporta la testimonianza di una mamma dell'Istituto il cui figlio, alunno alle medie, "sentiva le urla arrivare dal piano delle elementari dove c'era lei". "Gridava sempre e i bambini erano terrorizzati - spiega Claudia - finché un papà si è arrabbiato e allora finalmente l'hanno tolta dalla seconda B" per mandarla con bimbi più grandi. Su questo punto anche gli agenti di polizia sono concordi: "Dentro le istituzioni - dice Pietro Di Lorenzo, segretario provinciale del Siap torinese - non ci può essere spazio per chi nutre e predica odio verso i poliziotti. Le deve essere impedito senza se e senza ma il prosieguo del suo percorso nel mondo della scuola". In diretta su Matrix, Matteo Renzi si è affrettato a condannare la "professoressa dell'odio", come è stata ribattezzata. E lei non ha esitato a rispondergli definendosi una maestra "giustamente delusa dal sistema statale, per il vilipendio quotidiano nei confronti della Costituzione, per le connivenze, ma soprattutto le pratiche fasciste, in questo Paese". Lavinia Flavia non si pente: "Oltre che un’insegnante, sono una persona e sono antifascista. Non mi vergogno della sana rabbia che tutta questa incomprensibile indifferenza scatena nel mio cuore e nella mia mente".

Insegnanti veri! Alessandro Bertirotti il 6 maggio 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… educazione permanente. Era molto tempo che non leggevamo, noi italiani, una bella notizia come questa, proveniente poi da un tribunale. Ho ragione, dunque, quando dico che esiste ancora la normalità, il buon senso, in questa nazione. Certo, un po’ nascosto, come accade nel caso dell’intelligenza, ma comunque presente. La frase che ovviamente mi è piaciuta è. “Si resta docenti anche fuori dalla scuola”. È una frase che utilizzo spesso durante le mie lezioni universitarie, quando devo spiegare i concetti di status e ruolo. Il ruolo è, infatti, il comportamento di status. E lo status è la posizione che si occupa all’interno di un gruppo o di una comunità culturale. Per meglio spiegarmi, il ruolo è un modello di comportamento che una persona assume in relazione alla società alla quale appartiene, e tutti i membri di tale società si attendono che quel comportamento di ruolo venga assunto e mantenuto. Quando il ruolo è diretto, abbiamo a che fare con effetti positivi, quando, invece, è indiretto, gli effetti sono negativi. Come in questo caso. Ecco perché la frase espressa dal giudice del tribunale di Torino, nei confronti di Lavinia Flavia Cassaro, è particolarmente importante, visto che considera il sistema scuola come “un mezzo per promuovere la crescita della persona in tutte le sue dimensioni”, risultando evidente, in questo caso, “il contrasto tra le finalità educative e il ruolo dell’insegnante e l’atteggiamento incontrollato e offensivo nei confronti delle forze dell’ordine tenuto dall’insegnante”. Infatti, visto che non vi è soluzione di continuità fra ruolo e status, è bene ricordare che in base allo status ci si attende che una persona si comporti in un certo modo, rispetto agli altri membri del gruppo, e che quest’ultimi si comportino di conseguenza in modo altrettanto specifico nei confronti di colui/colei che occupa quello status. Ebbene, che i nostri insegnanti (non tutti, ovviamente…) siano ignoranti lo sappiamo, ma che siano anche incompetenti circa il ruolo e lo status che occupano, penso sia più grave. Dovrebbero studiare di più, magari anche educazione civica, prima ancora di avere la pretesa di assegnare votazioni sul rendimento scolastico dei loro allievi. Perché, per studiare la storia e la filosofia bisogna stimare l’insegnante, come persona, come individuo e dunque come educatore. E i nostri studenti ci valutano, sempre e con una certa severità, visto che dal nostro comportamento dipende la possibilità di convincerli che il sapere migliora il (nostro) vivere in società, e migliora, con l’esercizio della fatica quotidiana, la qualità della vita di tutti. Per esempio, ci si attende che un padre si comporti con i propri figli secondo quanto è previsto dal suo ruolo, mentre il padre si attende che i figli si comportino nei suoi riguardi secondo il suo status. Ecco, questo dovrebbe accadere anche con i docenti.

·         Indottrinamento a scuola. I Libri di Storia li scrivono i vincitori e …gli ignoranti.

Libro di storia shock Caporetto? Si vinse. A scoprirlo l'assessore veneto Donazzan: volume ritirato. Felice Manti, Domenica 14/07/2019 su Il Giornale. Da qualche parte c'è il generale Luigi Cadorna che si arriccia i baffi e dice: «Visto? Avevo ragione io. Ho vinto». Come dargli torto. La Storia la scrivono i vincitori e la riscrivono i libri. Prendete Caporetto. Non c'è sinonimo migliore di sconfitta della battaglia del 24 ottobre 1917, Prima guerra mondiale, quando il nostro esercito dovette cedere alle forze austro-ungariche e tedesche, per poi riscattarsi a difesa del Piave, dove lo straniero non passò. E invece no. A Caporetto ci fu «lo sfondamento del fronte ad opera dell'Esercito italiano ai danni degli Austriaci». Scritto nero su bianco in un libro di storia, già ritirato dalle scuole venete e nazionali dove era stato adottato. «Roba da mettersi le mani nei capelli», ha detto l'assessore all'Istruzione della Regione Veneto Elena Donazzan, che ha anche scoperto un altro errore: «In una didascalia c'è scritto che il Ponte degli Alpini di Bassano si trova sul Piave». Lo strafalcione l'ha scoperto la professoressa Cavalli, una docente della scuola di formazione professionale Enaip di Bassano del Grappa. «C'è da chiedersi quante altre inesattezze ci siano in questo testo che fino a ieri era adottato dalle scuole italiane e forse lo è ancora oggi - si è lamentata la leghista - la Storia va maneggiata con cura, nello spirito di verità che concorre a formare la coscienza civica di una comunità ed è alle radici della propria identità». Com'è possibile che uno svarione del genere sia finito in un volume destinato ai ragazzi del liceo? Mistero. D'altronde, non c'è da stupirsi che secondo i test Invalsi un ragazzo su tre è un analfabeta funzionale, incapace di leggere e capire un testo scritto. Se anche chi studia rischia di non imparare nulla, anzi... Persino il ministro dell'Istruzione Marco Bussetti, nell'augurare buon lavoro ai maturandi, è scivolato su una citazione, «La fortuna non esiste: esiste il momento in cui il talento incontra l'opportunità», che è stata attribuita a Lucio Anneo Seneca, quando in realtà Seneca non l'ha mai detta, perché in realtà sarebbe una sintesi di un passaggio del De Beneficiis. Non è il primo strafalcione a finire tra i banchi, e ahinoi non sarà l'ultimo. La deriva della scuola italiana è iniziata con il Sessantotto ed è finita con i telefonini e i social, che non abituano più i ragazzi né a saper scrivere correttamente né a quella «pazienza cognitiva» che serve per capire e assimilare un testo scritto. Il lavoro degli insegnanti, sfiduciati, mal pagati e senza più quel prestigio sociale che una volta veniva loro riconosciuto, è malvisto dalle famiglie. La politica finge di non vedere che oggi la cattedra è la trincea di un Paese che rischia l'ultima Caporetto.

Lorenzo Fioramonti, il ministro M5s riscrive la Storia per indottrinare i più giovani. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 27 Ottobre 2019. Difficilmente passerà alla storia. E, se la cambierà, lo farà in peggio. Dopo aver proposto tasse sulle merendine, giustificazione per gli scioperi ambientalisti ed espulsione del crocifisso dalle aule, il ministro dell' Istruzione Lorenzo Fioramonti riesce a far danni pure annunciando la prima cosa di buon senso del suo mandato: la reintroduzione della prova di storia nell' esame di maturità. Nell'intervista rilasciata ieri a Repubblica, Fioramonti sostiene di non aver potuto «ignorare il Manifesto firmato da una parte rilevante della società italiana» che chiedeva di ripristinare la traccia di storia obbligatoria tra le prove. Detto questo, il ministro inciampa subito nelle motivazioni del suo intervento: «Solo la conoscenza del passato», spiega, «può permetterci di costruire il futuro». Oddio, ma ci voleva un ministro dell' Istruzione per dire questa ovvietà?

BASTA CON LE DATE. Ancor più grave è il metodo che Fioramonti intende seguire per ridare valore all' insegnamento della storia a scuola. A suo avviso, occorre cambiare le modalità di studio perché la storia «non può essere solo una sequela di date e di battaglie da mandare a memoria, ma il racconto di una evoluzione umana in ambiti come il progresso sociale, la conquista dei diritti civili, la partecipazione democratica». Questa frase sconcerta a livello di principio e di contenuto. Per quanto riguarda il primo aspetto, essa si fonda sulla convinzione che la storia umana sia un processo continuo di evoluzione, un cammino lineare orientato verso le "magnifiche sorti e progressive", un' affermazione graduale dello Spirito, come avrebbe detto Hegel. Ma questa visione è stata ormai superata perché le vicende storiche, soprattutto del Novecento, hanno dimostrato che non c' è alcuna tensione verso il Meglio o preparazione del sol dell' avvenire. Semmai, a volte, avviene l'esatto contrario: un processo di decadimento e regresso non guidato né da una ratio scientifica né da una qualche provvidenza.

I PILASTRI DELLA SOCIETÀ. Ma oltre a questo colpisce, da un punto di vista ideologico, la convinzione che l' evoluzione, per Fioramonti, coincida solo con la conquista dei diritti civili, il progresso sociale e la partecipazione democratica, ossia con i baluardi della sinistra Politicamente Corretta basata su retorica dei diritti, femminismo, pensiero Lgbt, accoglienza dell'altro ed estensione della cittadinanza. Dimenticandosi così degli altri pilastri di una civiltà che fanno capo ai doveri di un individuo e di una comunità, al rispetto dell' autorità, all' importanza della tradizione, e alla tutela dei riferimenti sacri, familiari, nazionali. Far coincidere l' evoluzione storica solo con gli elementi indicati da Fioramonti significa orientare l'insegnamento, indottrinare gli studenti, stabilendo un criterio che sancisce a priori ciò che è Bene e ciò che è Male.

SPIAZZARE I DOCENTI. Questo tentativo diventa ancor più evidente allorché il ministro aggiunge che «i libri di testo dovrebbero essere meno didascalici per offrire strumenti stimolanti agli occhi di un insegnante invogliato a essere più dinamico» e l' editoria di settore dovrebbe promuovere «una manualistica che spiazza i docenti» finora «rassicurati da un' impostazione più tradizionale». Quindi basta coi vecchi metodi di insegnamento e i libri di testo troppo tradizionali. Vogliamo manuali «dinamici» e «spiazzanti». Quasi non bastassero i libri di storia infarciti di ideologia sinistrorsa e sessantottina, ora arrivano i manuali grillini «stimolanti» e «non didascalici». Della serie: non c' è mai limite al peggio. Fioramonti assicura che è sua intenzione consegnare questa nuova modalità di studio della storia entro il 2022. Viene da pensare che esattamente un secolo prima, nel 1923, l' allora ministro dell' Istruzione Giovanni Gentile varava la sua epocale riforma della scuola. Da Gentile a Fioramonti: siamo sicuri che la storia sia un processo che evolve verso il meglio? Gianluca Veneziani

·         Istat, ragazzini promossi ma ignoranti.

 No, imparare divertendosi non è imparare. Studio e gioco siano separati: altrimenti si apprende solo in maniera discontinua. Francesco Alberoni, Domenica 08/12/2019, su Il Giornale. Fin dalla primissima infanzia ciò che oggi viene promosso come educativo, formativo è qualcosa di divertente: videogiochi o strumenti che in realtà hanno lo scopo di distrarre. Si è ormai diffusa l'idea che non ci debba essere differenza fra studio e divertimento. Vero, dicono, che noi impariamo solo ciò che ci appassiona, ma questo non può significare che noi impariamo solo quando ci vogliamo divertire. Di fronte a studenti distratti oggi i pedagogisti pensano che basti attirare la loro attenzione. Nelle nostre scuole medie degli studenti disattenti e svogliati alzano la testa, guardano l'insegnante solo quando lui dice qualcosa di nuovo, spiritoso e brillante, come se fosse un attore, un cantante o un comico. Io ritengo invece che gioco e studio vadano distinti. Ci sono delle cose, dei modi di sentire, dei comportamenti pratici che si apprendono con il gioco. Ma altri si ottengono solo con un diverso atteggiamento della mente, che chiamerei «di apprendimento», di «volontà di sapere». Leggendo dei racconti e guardando dei film posso imparare chi sono molti personaggi storici. Ma per conoscere la storia è necessario collocarli sull'asse storico-geografico in modo corretto. Lo stesso vale per la trigonometria, la geografia, la grammatica italiana, la musica. C'è una differenza fondamentale fra l'apprendimento ludico-emozionale, di divertimento oppure frammentario, basato sulla memoria a breve, su Google, di evasione, e quello intenzionale, la volontà di sapere, di apprendere, di ricordare in cui mettiamo in moto altre parti del cervello, altri circuiti, altri neuroni. Questo apprendimento multiplo e discontinuo, il «saltare da un argomento all'altro» e il «piluccare» qua e là rende difficile la lettura di un intero libro, sia esso un saggio o un romanzo, è incompatibile con un reale sapere e una reale capacità di apprendere. In questo modo, seguendo l'attualità, lo svago, l'ultimo stimolo, fluttuiamo su un non sapere, perdiamo i contatti con le nostre radici culturali e restiamo arretrati sul terreno scientifico-tecnologico. E ci indeboliamo economicamente sempre di più, diventando colonie dei Paesi più potenti.

Scuola, rapporto Ocse-Pisa. Uno studente su 20 comprende un testo. La Cenerentola delle materie è Scienze. Secondo l'indagine 2018 solo in matematica i quindicenni risultano in media con gli altri Paesi. L'Italia si colloca tra il 23esimo e il 29esimo posto per capacità di lettura. Si confermano il divario tra Nord e Sud e tra maschi e femmine. Ilaria Venturi il 03 dicembre 2019 su La Repubblica Sanno distinguere tra fatti e opinioni quando leggono un testo di un argomento a loro non familiare? Un quindicenne su venti riesce a farlo. La media Ocse è di uno su dieci. Mentre gli studenti che hanno difficoltà con gli aspetti di base della lettura sono uno su quattro: non riescono ad identificare, per esempio, l'idea principale di un testo di media lunghezza. Niente da fare, dunque. I ragazzi italiani non migliorano nella capacità di leggere e comprendere un testo, un'emergenza nota da tempo e che era già emersa anche nell'ultimo rapporto Invalsi sugli studenti di terza media. Se si guarda alle superiori, siamo sempre sotto la media nel confronto internazionale. E peggioriamo rispetto a rilevazioni di dieci anni fa. Un campanello di allarme che risuona dalla nuova indagine Ocse-Pisa che valuta le competenze dei 15enni rispetto alla lettura, la matematica e le scienze. A rappresentare una popolazione totale di 32 milioni di studenti quindicenni di tutti i 79 paesi ed economie partecipanti a questa edizione - presentata oggi - sono circa 600mila studenti che hanno sostenuto il test al computer della durata di due ore. In Italia, 11.785 studenti hanno sostenuto la prova, rappresentativi di una popolazione di circa 521.000 studenti quindicenni. I risultati confermano i miglioramenti degli studenti italiani in matematica. Rimangono invece sotto la media Ocse per la lettura, definita come la capacità di comprendere, utilizzare, valutare, riflettere e farsi coinvolgere da un testo. E peggiorano le capacità nelle scienze. Si confermano inoltre il divario tra Nord e Sud, tra licei e professionali e le differenze di genere. Risultati che fanno dire ad Anna Maria Ajello, presidente Invalsi, che "non scatta una presa in carico del problema rispetto alla lettura di dati che, al contrario, devono preoccupare". Il punteggio dell'Italia nella lettura è di 476 contro 487 della media Ocse. Il nostro Paese si colloca tra il 23° e il 29° posto tra i paesi Ocse. Un dato abbastanza stabile rispetto all'ultima rilevazione del 2015 (485). Ma se si guarda indietro i nostri ragazzi sono peggiorati: meno 11 punti rispetto al 2000 e meno 10 punti rispetto a dieci anni fa (2009) nelle competenze di lettura. L'Italia è a livello di Svizzera, Lettonia, Ungheria, Lituania, Islanda e Israele. Le province cinesi di Pechino, Shanghai, Jiangsu, Zhejiang, oltre a Singapore ottengono un punteggio medio superiore a quello di tutti i paesi che hanno partecipato alla rilevazione. La novità è che per la prima volta sono state introdotte letture tratte da testi digitali per testare le conoscenze della generazione Z, nata nel 2004, che legge e s'informa sul web. Gli studenti italiani sono più bravi nei processi di comprensione (478) e di valutazione e riflessione (482), se la cavano peggio nell’individuare informazioni (470). Non è una novità, ma sulle capacità di lettura si conferma il divario tra Nord e Sud: gli studenti delle aree del Nord ottengono i risultati migliori, al di sopra della media Ocse (Nord Ovest 498 e Nord Est 501), mentre i loro coetanei delle aree del Sud sono quelli che presentano le maggiori difficoltà (Sud 453 e Sud Isole 439). Saltano agli occhi anche le differenze tra liceali, che ottengono i risultati migliori (521) e i ragazzi degli Istituti tecnici (458) e professionali (395) e della formazione professionale (404). Nei licei troviamo la percentuale più elevata di studenti che raggiungono i livelli più alti, definiti come top performer: sono il 9% contro il 2% dei tecnici. Chi raggiunge il livello minimo di competenza nella lettura è l'8% nei licei, percentuale che sale al 27% nei tecnici,. Non raggiunge il livello 2 - quello minimo - almeno il 50% degli studenti degli Istituti professionali e della Formazione professionale. In lettura le ragazze superano i ragazzi di 25 punti; nel Nord-Estee nel Sud Isole il divario arriva a 30 e 35 punti di differenza. Il vantaggio delle ragazze è confermato anche da una presenza maggiore di ragazzi che non raggiungono il livello minimo di competenza: circa il 28% contro il 19%. In Matematica va meglio. Gli studenti italiani hanno ottenuto un punteggio medio (487 - era 490 nel 2015) in linea con la media dei paesi Ocse (489). Un risultato simile a quello di Portogallo, Australia, Federazione Russa, Repubblica Slovacca, Lussemburgo, Spagna, Georgia, Ungheria e Stati Uniti. Anche qui le differenze si fanno sentire confermando una scuola a due velocità. Gli studenti del Nord Est, con un punteggio di 515, e quelli del Nord Ovest, con 514, ottengono risultati mi­gliori rispetto agli studenti del Centro (494), del Sud (458) e del Sud Isole (445). In particolare le due province di Trento e Bolzano hanno ottenuto risultati non dissimili dai Paesi scandinavi. Dal 2009 ad oggi l’andamento dei risultati Pisa in matematica è rimasto costante. Rispetto ai cicli precedenti, la rilevazione del 2018 ha mostrato un miglioramento solo in confronto al 2003 (+21 punti) e al 2006 (+25 punti). Sono i ragazzi, soprattutto quelli che raggiungono i livelli più eccellenti, a superare le ragazze. Nei paesi Ocse, la differenza media tra maschi e femmine in matematica è di 5 punti, in favore dei primi. In Italia questa differenza è più elevata: 16 punti. Peggiora la situazione delle competenze in Scienze: il punteggio è di 468 contro la media Ocse di 489. Nel 2015 era di 481. Più in generale, se si guarda a un periodo più lungo, la media dei risultati in scienze nel 2018 è significativamente inferiore a quella osservata nel periodo 2009-15. L’Italia si colloca in linea con Turchia, Slovacchia e Israele e, tra i paesi partner, Croazia, Bielorussia, Ucraina. Le differenze nei risultati medi tra macro-aree si confermano molto marcate: gli studenti del Nord Ovest e del Nord Est ottengono i risultati migliori con rispettivamente 491 e 497 punti. Seguono gli studenti del Centro con 473 punti, infine troviamo quelli del Sud e del Sud Isole (rispettivamente 443 e 430 punti). I licei ottengono un risultato medio in scienze significativamente superiore (503) a quello di tutti gli altri tipi di scuola e gli Istituti tecnici conseguono un risultato (460) che supera quello degli Istituti professionali (394) e dei Centri di Formazione professionale (408).

La scuola delle disuguaglianze. Il sistema scolastico non sblocca l'ascensore sociale. Le scuole tendono ad essere frequentate da studenti con lo stesso background socio-economico e culturale, rileva l'indagine. E questo crea un effetto di segregazione. Basti pensare che la varianza dei risultati tra scuole in Italia è del 43% della varianza totale contro il 29% della media Ocse. A parità di competenze, si rileva una maggiore difficoltà a immaginare il proprio futuro se i ragazzi vengono da condizioni svantaggiate dal punto di vista sociale. Gli studenti eccellenti che vogliono un titolo superiore al diploma sono 9 su 10 se provengono da un contesto socio-economico avvantaggiato; scendono a 6 su 10 se sono socio-economicamente svantaggiati. E sono forti gli stereotipi di genere che resistono. Le aspettative di carriera degli studenti con i risultati migliori in matematica e scienze lo dimostrano: un ragazzo su quattro prevede di lavorare come ingegnere o come professionista nelle scienze all'età di 30 anni. Tra le ragazze la percentuale è inferiore: solo una su otto immagina così il suo futuro.

SFORNIAMO GENERAZIONI DI ASINI. Lorena Loiacono per “il Messaggero” il 4 maggio 2019. Se queste fossero le pagelle di fine anno, le bocciature in Italia fioccherebbero a migliaia. Soprattutto al Sud. In terza media infatti non raggiungono la sufficienza in italiano più di un ragazzo su tre, in matematica addirittura 4 su dieci. È quanto emerge dalla fotografia scattata dal Rapporto Istat sui Sustainable Development Goals, gli obiettivi dello sviluppo sostenibile adottati con l' Agenda 2030 dall' Assemblea Generale delle Nazioni Unite per intervenire sulle criticità. Tra i vari obiettivi fissati dall' Agenda 2030, c' è anche quello legato all' educazione e alla formazione dei ragazzi. Secondo i dati dell' Istat, che si basano sulle rilevazioni svolte dall' Invalsi, i ragazzi che frequentano l' ultimo anno delle scuole medie si affacciano alle superiori con gravi insufficienze: il 34,4% infatti non raggiunge la sufficienza nelle competenze alfabetiche, riportando gravi difficoltà nella comprensione dei testi, mentre il 40,1% ha seri problemi con la matematica. Il quadro generale svela differenze importanti a livello territoriale. Le regioni dove si registra la maggiore presenza di ragazzi con difficoltà a ricostruire significati complessi, infatti, si trovano al Sud: in Campania si raggiunge la percentuale più alta pari al 50,2% di insufficienze in lettura, di poco inferiori le percentuali che si registrano in Calabria e in Sicilia dove si resta comunque sull' ordine di uno studente su due impreparato in italiano. Sempre al Sud e sempre in queste tre regioni si rilevano i peggiori risultati anche in matematica. A fronte di una media nazionale di 4 ragazzi impreparati su 10, in Campania e Calabria si sale addirittura a quota 6 su 10 e in Sicilia il dato cala di poco. In entrambi i campi presi in considerazione dai test invalsi, italiano e matematica, a fare la differenza è il genere: in matematica infatti i ragazzi vanno meglio rispetto alla media nazionale, le femmine al contrario raggiungono risultati migliori in italiano. Quando poi si passa al secondo ciclo di istruzione, alla scuola superiore, le criticità continuano a farsi sentire, ma con un quadro molto differenziato a seconda del percorso di studi scelto. Per quanto riguarda il secondo anno delle scuole superiori, infatti, il risultato medio cambia in base al tipo di istituto: il 17,7% dei liceali non raggiunge la sufficienza nelle competenze alfabetiche mentre uno su tre è scarso in quelle matematiche. Se invece si osservano i ragazzi al secondo anno degli istituti tecnici, risultano insufficienti in lettura poco meno di 4 ragazzi su 10 e in matematica il 42,3%. La pagella più brutta arriva dai professionali: sette studenti su dieci non raggiungono la sufficienza in lettura mentre quasi 8 su 10, il 77,2%, è insufficiente in competenze numeriche. Nel rapporto Istat una sezione a parte è dedicata al titolo di studio terziario: la laurea. In Italia meno di un ragazzo su 3, in età compresa tra i 30 e i 34 anni, possiede una laurea: il 27,9%. Il dato soddisfa l'obiettivo nazionale previsto da Europa 2020, fissato al 26-27%, ma resta comunque decisamente inferiore rispetto a quello dell' Unione Europea che arriva al 40,5%: il dato italiano è superiore solo a quello della Romania. A spiccare in questo campo sono le donne: nel 2018, infatti, il 34% delle donne di 30-34 anni ha una laurea contro il 21,7% dei coetanei maschi. Si tratta di percentuali in aumento rispetto al passato: nel 2004, erano rispettivamente il 18,4% e il 12,8%.

Uno studente su tre esce dalle medie senza sapere leggere, scrivere e far di conto. Pubblicato venerdì, 33 maggio 2019 da Corriere.it. Come è possibile che, con una percentuale praticamente del 100 per cento di promossi in terza media, al test Invalsi di italiano ottengano la sufficienza piena soltanto il 65,6 per cento degli studenti? Va addirittura peggio in matematica dove i «promossi», cioè coloro a cui è riconosciuto un livello di competenze matematiche sufficiente o più alto, sono il 59,9 per cento. Il dato, pubblicato dall’Invalsi a luglio 2018, è stato rilanciato nei giorni scorsi dal Rapporto Istat «SDGs 2019. Informazioni statistiche per l’Agenda 2030 in Italia», nel capitolo dedicato al quarto «goal» dell’agenda, quello per una educazione di qualità per tutti: un obiettivo che - a leggere i risultati degli alunni italiani nelle prove Invalsi - è ancora molto lontano, viste le enormi disparità regionali e di genere registrate nei test e le drammatiche sacche di povertà educativa persistenti nel nostro Paese.

Istat, ragazzini promossi ma ignoranti. Il 34% alla fine della terza media non ha competenze sufficienti. Lo studio condotto sulla base delle prove Invalsi: le conoscenze rimangono a livello superficiale. Salvo Intravaia 3 maggio 2019 su La Repubblica. Promossi a giugno, e magari con una buona media, ma in difficoltà nella lettura e nella comprensione di un semplice brano o di fronte ai calcoli, anche elementari. È quello che emerge dall’ultimo report dell’Istat sugli Obiettivi per uno sviluppo sostenibile. Il rapporto 2019,  diffuso qualche giorno fa dall’Istituto italiano di statistica, scandaglia tutti gli aspetti della vita economica e sociale del sistema Italia, mettendo al quarto posto, su 17 obiettivi, “l’istruzione di qualità per tutti”. Un aspetto che figura soltanto dopo la lotta alla povertà, la lotta alla fame e al benessere e alla salute. Scorrendo i dati sul livello effettivo di istruzione dei ragazzi italiani, calcolati in base all’Invalsi, si scopre che oltre un terzo non raggiunge una competenza alfabetica neppure sufficiente. Inondati dal linguaggio iper veloce e spesso sgrammaticato, zeppo di xché, xò e di emoticon, gli studenti del terzo anno della scuola media entrano sovente in crisi al momento di decodificare il contenuto di un brano scritto, che riescono a comprendere solo superficialmente. Secondo il Rapporto SDG (Sustainable Development Goals), il 34,4% degli studenti italiani che frequentano il terzo anno della scuola media “non raggiungono un livello sufficiente di competenza alfabetica”. Riescono cioè a decodificare solo brani semplici e con informazioni esplicite. Appena il testo richiede di riconoscere e ricostruire autonomamente significati complessi, anche impliciti, le cose si complicano. Ed un terzo dei nostri ragazzini entra in difficoltà. Stesso discorso per la competenza numerica, quella che rende capaci i ragazzi di risolvere problemi anche di una certa complessità, come quelli che si presentano quotidianamente sulle questioni economiche o statistiche. In questo caso, la quota di adolescenti carenti, che si troverà in difficoltà a decifrare il mondo che li circonda, sale al 40%: quattro su dieci. I dati come detto sono dell’Invalsi e relativi al 2018. Ed è al Sud che questi valori crescono e oltrepassano sovente il 50%. E cambia poco se si analizzano i dati relativi ai ragazzi del secondo anno della scuola superiore. La quota di studenti che, nonostante le promozioni a scuola, incontra difficoltà in italiano e matematica resta praticamente invariata, descrivendo una situazione che la scuola, da sola, non riesce a fronteggiare. Oggi, spiegano gli insegnanti, gli studenti fanno fatica a concentrarsi nello studio perché immersi in un mondo iper connesso in cui tutte le operazioni si svolgono a velocità sostenuta. E per gli approfondimenti c’è sempre meno tempo. “Il concetto di sviluppo sostenibile è introdotto per la prima volta - si legge nel dossier - nel Rapporto our common future rilasciato nel 1987 dalla Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo del programma delle Nazioni unite per l’ambiente. Nel documento è definito sostenibile quello sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Un concetto che proprio in questi giorni è tornato ad essere di estrema attualità. Con la studentessa svedese Greta Thunberg che, in difesa dell’ambiente e contro la produzione selvaggia che danneggia la Terra, ha sollevato le coscienze dei giovani di mezzo mondo. Paolo Mazzoli è direttore dell’Invalsi e non si sorprende troppo di questi dati. “Probabilmente, il nostro insegnamento è ancora troppo scolastico. Mentre le prove Invalsi non sono prove propriamente scolastiche, scandagliano competenze durevoli, profonde. Ecco perché, probabilmente, i ragazzi entrano in difficoltà appena si trovano di fronte alla risoluzione di problemi di realtà o nel decodificare i significati più profondi di un testo scritto”. 

Scuola, troppi copioni ai test Invalsi: studenti del Nord più bravi di quelli del Sud.  Leggo Giovedì 9 Luglio 2015. Aumenta in generale il numero di chi ha copiato le prove Invalsi, mentre gli studenti più bravi si trovano al Nord Italia. Sono questi alcuni degli esiti della prove Invalsi presentati il 9 luglio al Ministero dell'istruzione. Il fenomeno del cheating è in aumento rispetto all'anno scorso in Sicilia, Calabria, Molise e Campania. Per i prossimi anni si sta studiando per far affrontare la Prova Invalsi per via informatica. È quanto segnala Skuola.net che ha partecipato alla presentazione dei dati Invalsi al Miur.

ARGOMENTARE, TROPPO DIFFICILE PER GLI STUDENTI - Per quanto riguarda le prove di italiano è stato più difficile per gli studenti affrontare testi in cui si deve argomentare sul tema. Un aspetto complesso che si rispecchia anche nelle prove di matematica, quando ai ragazzi è stato chiesto di rispondere alle domande e articolare sulle risposte.

IL NORD MEGLIO DEL SUD - Le differenze tra gli studenti migliori e quelli peggiori emergono dalle scuole primarie in poi. Gli istituti tecnici del Nord Italia hanno una preparazione solida come quella dei licei. Lo stesso però non si può dire delle scuole tecniche del Sud, dove la variabilità dei risultati tra scuole e classi è molto sentita. Gli studenti migliori del Centro Italia sono comunque i marchigiani.

LE FEMMINE FORTI CON LE PAROLE, I MASCHI CON I NUMERI - Le ragazze amano scrivere e cimentarsi sulle materie umanistiche. E per questo sono più brave dei ragazzi in italiano. I maschi invece vincono sulle materie logiche e sono più pratici delle femmine in matematica.

Test Invalsi, il 35% degli studenti di terza media non capisce un testo d'Italiano. E al Sud 8 su 10 in ritardo sull'Inglese. I risultati delle Prove nazionali: leggeri miglioramenti per Matematica e Lingue alla secondaria di primo grado. L'Istituto di valutazione: "Il Meridione ha studenti in grande sofferenza". Il ministro Bussetti: "Motivi di preoccupazione". Corrado Zunino il 10 luglio 2019 su La Repubblica. I risultati delle prove Invalsi nazionali, che quest'anno contemplano anche l'analisi di qualità e attitudini dei nostri studenti di quinta superiore, mostrano un livello critico degli apprendimenti di bambini (seconda e quinta elementare), adolescenti (terza media) e ragazzi (seconda superiore e, appunto, quinta). Si avverte un leggero miglioramento, rispetto al 2018, per gli studenti della scuola superiore di primo grado, soprattutto in Matematica e Inglese, ma le larghe zone d'ombra faticano ad essere illuminate. L'istruzione al Sud resta un'emergenza. Così come, soprattutto nel Meridione d'Italia, l'idea di una scuola equa.

Campania, Calabria, Sicilia alle medie: tre anni persi. I livelli di assimilazione in Italiano, Matematica e Inglese mostrano differenze marcate nel Paese e le distanze, ancora contenute nella scuola elementare, crescono alle medie e diventano rilevanti alle superiori (il lavoro mette in discussione il convincimento collettivo che le medie inferiori siano il buco nero dell'istruzione italiana, sono solo uno dei passaggi critici). Bene, in seconda elementare il blocco di chi raggiunge risultati largamente insufficienti in Italiano (si parla di comprensione del testo) è pari al 20 per cento: uno scolaro ogni cinque. E se in Umbria e Basilicata quest'area supera di poco il 10 per cento, in Calabria si arriva al 24 per cento (peggio ancora nella provincia autonoma di Bolzano, ma in questo caso dipende dalla larga platea discente di lingua tedesca). Nelle stesse classi - sempre la seconda della primaria - la forbice si allarga se si prende in esame Matematica. La media dei "largamente insufficienti" del Paese qui è pari al 28 per cento, in Campania e in Calabria si arriva al 35. Vanno segnalati, anche in questo caso, i risultati confortanti della Basilicata con una quota di forte sofferenza sotto il 15 per cento, la più bassa tra le venti regioni italiane. Alle ampie difficoltà scolastiche del Sud si sottrae anche la Puglia. Il sistema scolastico nell’Italia meridionale e nelle Isole non solo continua a essere meno efficace rispetto all’Italia centrale e soprattutto settentrionale, ma coltiva un'ingiustizia di censo. La variabilità dei risultati tra scuole differenti e tra classi presenti nello stesso plesso, nel primo ciclo d’istruzione, è consistente e in ogni caso più alta che al Nord e al Centro, così come sono più elevate le percentuali di alunni con status socio-economico basso che non raggiungono livelli adeguati nelle prove. In particolare, in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna. Rispetto al 2018, tuttavia, alcune variazioni in positivo si osservano anche nella macro-area del Sud, nel primo ciclo d’istruzione e nel biennio del secondo ciclo. La crescita costante delle differenze Nord-Sud tra i 7 e i 19 anni si vede già con le prove Invalsi di quinta elementare. Gli allievi in "forte difficoltà" nella comprensione di un testo salgono nel Paese al 25 per cento: vuol dire uno su quattro. Calabria e Sicilia viaggiano, invece, hanno percentuali di dieci punti peggiori. Umbria e Marche mostrano una sofferenza intorno al 15 per cento: meno della metà rispetto all'estremo Sud. La Matematica allo stesso livello scolastico - stiamo parlando di pre-adolescenti di undici anni - acuisce le differenze: i "gravemente insufficienti" nel Paese diventano quasi un quarto, quelli della Calabria quasi quattro su dieci (con la Basilicata che detiene ancora il risultato migliore: 15 per cento di "ritardi seri"). Anche in Inglese lo stacco tra Settentrione e Meridione è netto. Nella comprensione (listening) si trova sotto il livello A1, l'Inglese basico, il 15 per cento degli scolari italiani di quinta e il 32 per cento degli scolari sardi. In terza media le differenze non si contengono più e i ritardi scolastici meridionali diventano una frattura nazionale. I problemi nella comprensione di un Italiano adeguato all'età si fanno seri in tutto il Paese: il 35 per cento dei quattordicenni, infatti, è al livello 1 e 2 (su una scala di cinque), ma in Calabria addirittura uno studente su due ha problemi di comprensione di un testo. Le Marche mostrano anche alle medie i risultati migliori. Per comprendere cosa si intende per livello 1 nella comprensione di un testo in terza media, l'Invalsi indica questo specchietto: "Al livello 1 l’allievo individua singole informazioni date esplicitamente in parti circoscritte di un testo. Mette in relazione informazioni facilmente rintracciabili nel testo e, utilizzando anche conoscenze personali, ricava semplici informazioni non date esplicitamente. Conosce e usa le parole del lessico di base e riesce a ricostruire il significato di singole parole o espressioni non note, ma facilmente comprensibili". Passando all'insidiosa Matematica la sofferenza tra gli studenti italiani, sempre in terza media, sale al 38 per cento - si parla di difficoltà rispetto a nozioni base -. In Sardegna e in Campania si supera il 50 per cento, in Sicilia ci si avvicina al 60 e in Calabria sono sei i ragazzi ogni dieci che non conoscono i ferri del mestiere della disciplina. "Possiamo dire che in larghe parti del Sud ci sono adolescenti che affrontano l'esame di terza media avendo competenze da quinta elementare", spiega Roberto Ricci, direttore generale dell'Invalsi, l'Istituto nazionale di valutazione del sistema educativo. Sulla comprensione dell'Inglese, ancora, i "gravi ritardi" in Valle d'Aosta sono poco meno di uno su cinque, in Sicilia sfiorano il 65 per cento.

Inglese, maggioranza dei maturandi sotto il livello B1. In seconda superiore gli "scarsi" in Italiano sono il 30 per cento, oltre il 45 in Calabria e Sardegna. I migliori risultati si vedono in Valle d'Aosta, Veneto e nelle due province autonome di Trento e Bolzano. Le forti difficoltà in Matematica sono al 38 per cento sul livello medio nazionale e oltre il 60 in Sardegna. Nella stessa disciplina i guai (e le differenze) esplodono in quinta: all'esame di Maturità approdano diciannovenni che nel 42 per cento dei casi hanno lacune larghe. In Calabria e in Sicilia i "gravi ritardi" superano il 60 per cento, in Campania si tocca l'aliquota sessanta, in Sardegna la si sfiora. Sull'Inglese il livello è imbarazzante (per la scuola italiana, ben prima che per i ragazzi). In Calabria quasi sette maturandi su dieci non riesce a leggerlo, in Calabria e in Sicilia l'85 per cento non lo comprende (al livello richiesto seguendo standard europei). Il dato medio del Paese sulla seconda lingua resta da allarme rosso: quasi il 50 per cento non sa leggere, il 65 per cento non raggiunge il livello B1 previsto, appunto, dai programmi di quinta superiore.

Le ragazze meglio nelle Lettere (italiane e straniere). In seconda primaria, la differenza tra maschi e femmine nei risultati delle prove Invalsi è di tre punti in Italiano, a favore delle seconde, e tre punti in Matematica, a favore dei primi. In quinta elementare le pre-adolescenti superano i coetanei di nove punti in Italiano mentre una differenza di sei punti si registra, ma a parti rovesciate, in Matematica. Nell'Inglese, sia nell’ascolto che nella lettura, le femmine conseguono un risultato migliore, di quattro punti nel primo caso e di sei punti nel secondo. In terza media la differenza si attesta a nove punti in Italiano e a tre punti in Matematica, a vantaggio nel primo caso delle femmine e nel secondo dei maschi. In Inglese, come già in quinta primaria, le studentesse ottengono un punteggio più alto dei maschi di sette lunghezze nella prova di ascolto e otto nella prova di lettura.

Gli stranieri faticano con le cifre, bene in Inglese. In tutti i gradi gli alunni stranieri ottengono in Italiano e in Matematica punteggi nettamente più bassi di quelli degli italiani. Le distanze tendono, però, a diminuire nel passaggio tra la prima e la seconda generazione d’immigrati e nel corso dell’itinerario scolastico, in particolare in Matematica, materia dove pesa meno la padronanza della lingua del Paese ospitante. In terza media, classe terminale del primo ciclo d’istruzione, la differenza tra italiani e stranieri di seconda generazione è, a livello nazionale, di diciotto punti in Italiano e di nove in Matematica. Nella scuola secondaria di secondo grado il divario in Lettere tra gli studenti italiani e quelli d’origine straniera si attesta sul piano nazionale, in seconda superiore, a ventiquattro punti rispetto agli stranieri di prima generazione e a tredici rispetto agli stranieri di seconda. In Matematica le differenze sono rispettivamente di diciassette e sette punti. Per i maturandi le distanze si riducono a diciassette e nove punti in Italiano e a nove e cinque punti in Matematica. La sola materia dove gli alunni stranieri conseguono risultati simili a quelli dei loro compagni italiani è l’Inglese: in varie regioni, gli stranieri, in particolare di seconda generazione e nella prova di ascolto, fanno meglio degli italiani. Considerando l’Italia nel suo insieme, in quinta elementare gli alunni stranieri di prima e seconda generazione superano di alcuni punti gli italiani nell’ascolto, ma non nella lettura. I dati del Rapporto Invalsi - l'adesione ai test in quinta superiore è stata del 96,4 per cento - evidenziano "innegabili motivi di preoccupazione, ma anche motivi di novità e interesse". Lo ha detto il ministro dell'Istruzione Marco Bussetti alla presentazione dei risultati, oggi alla Camera. "L'Invalsi è uno strumento che consente di avere una foto articolata e dettagliata del nostro lavoro", ha aggiunto, "come ministero siamo convinti dell'importanza della valutazione standardizzata degli apprendimenti che, tuttavia, si deve integrare e affiancare all'insostituibile ruolo della valutazione dei docenti". Critico il presidente della Commissione Cultura della Camera, Luigi Gallo (M5s): “Le valutazioni da sole non bastano se non si attiva un processo di miglioramento. Da vent'anni si mappano i guasti, senza però lavorare alle soluzioni. È necessario investire più risorse per sviluppare processi di miglioramento, per esempio rafforzando l’azione di Istituti di ricerca come Indire a cui va dato un ruolo cardine nella formazione e nella promozione concreta di processi di miglioramento della scuola”.

Dagli al meridionale, fin da quando è studente.

Se i numeri li fai leggere ai media del settentrione, è logico che il risultato è sfalsato.

Risultato che si scontra con la realtà dei fatti.

Nord-Sud, la Maturità rovescia l’Invalsi Puglia prima per lodi, Calabria seconda. Pubblicato lunedì, 22 luglio 2019 da Orsola Riva e Valentina Santarpia su Corriere.it. Quest’anno per la prima volta anche gli studenti di quinta superiore hanno sostenuto i test Invalsi di italiano matematica e inglese. Benché non fossero indispensabili per essere ammessi all’esame di Maturità né tanto meno facessero media, il grado di adesione è stato altissimo: oltre il 96 per cento. Da domani, martedì 23 luglio, i neo diplomati che lo desiderino potranno verificare il livello che ciascuno di loro ha raggiunto collegandosi al sito invalsiopen.it e digitando il codice personale che gli è stato dato durante le prove eseguite al computer la primavera scorsa. E magari confrontarli con il voto di Maturità. Non mancheranno le sorprese visto che, solo per fare un esempio, gli studenti calabresi che nelle prove standardizzate sono andati malissimo (più della metà non ha raggiunto la sufficienza in italiano né in matematica, dove sono andati anche peggio), alla Maturità invece sono arrivati secondi dopo i colleghi pugliesi, ottenendo una percentuale di lodi quattro volte superiore ai colleghi della Lombardia che invece primeggiano nell’Invalsi. Ed è vero che un conto sono dei test standardizzati a risposta multipla il cui scopo non è di misurare gli studenti ma di radiografare il sistema scolastico italiano segnalando cosa funziona e dove e cosa no; tutt’altro un esame che almeno nelle ambizioni vorrebbe accertare il livello di maturità culturale, personale e perfino civile raggiunto da ciascuno candidato nel corso dei tredici anni di carriera scolastica (come si è visto chiaramente sia nella scelta delle tracce del tema, su Mafia ed eredità del Novecento, che all’orale dove per la prima volta i candidati quest’anno sono stati interrogati anche sulle cosiddette attività di Cittadinanza e Costituzione). Ma non si può non riconoscere che la pubblicazione dei risultati Invalsi avrà come effetto paradossale che lo stesso studente in alcuni casi si ritroverà in mano due carte d’identità scolastiche con «altezza» «peso» e «colore degli occhi» non coincidenti. E i tanti pur bravi studenti lombardi resteranno con l’amaro in bocca per il cento o la lode mancata (la prendono solo lo 0,7 per cento: è la percentuale più bassa d’Italia) e magari anche con la sgradevole impressione di essere vittime della involontaria concorrenza sleale dei colleghi di altre regioni non solo del Sud ma anche del Centro (l’Umbria per esempio, che nell’Invalsi si attesta su valori in linea con la media nazionale, ottiene il triplo di lodi alla Maturità: 2,4 per cento). Ma poi potranno contare sull’alto di livello di competenze realmente raggiunto. Mentre sul lungo periodo i più penalizzati da questo sistema di valutazione così poco omogeneo saranno proprio gli studenti del Sud, calabresi in testa, che per tre quarti vengono licenziati con voti sopra il 70 senza però essere diventati dei cittadini realmente consapevoli, visto che più della metà di loro non è in grado di capire un testo di argomento astratto. Cosa conterrà - per chi vorrà confrontarcisi - la pagella dell’Invalsi? Nessun voto o punteggio, ma una descrizione qualitativa dei livelli di competenza raggiunti al termine della scuola. Mentre per italiano e matematica sono cinque con il 3 che corrisponde alla sufficienza, per l’inglese i livelli sono invece quelli stabiliti dal Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (QCER) e sono solo tre: non ancora B1 – B1 (corrispondente al «pre-intermediate») che è il livello atteso già alla fine della terza media – B2 («intermediate»), che invece sarebbe il traguardo da raggiungere al termine delle superiori. 

Università, sorpresa dal Sud. Quante start up dietro quel pezzo di carta. Un’autorevole rivista britannica pubblica la graduatoria degli atenei con i più alti tassi di trasferimento tecnologico e la sorpresa è sbalorditiva. L’importanza strategica di dialogare con imprese e istituzioni e le tante start up nate grazie alla collaborazione con i centri di ricerca. La Repubblica l'8 luglio 2019. In questo effluvio di patriottico orgoglio, di inni di Mameli urlati al cielo con l’occhio madido, la braga corta e una palla sottobraccio, chissà mai che un giorno si rivendichi uguale fierezza per certi risultati che non ti aspetti ma che portano autentico lustro al nostro Paese. Succede che, scorrendo le schermate dell'autorevole THE, acronimo che sta per Times Higher Education, punto di riferimento per il mondo accademico più evoluto, ci si imbatta in una classifica strategica, che calcola, tra gli altri, un indice di capacità degli atenei di trasferire tecnologia alla società civile. E’ un dato tenuto in grande considerazione dagli esperti perché, se l’obiettivo di un’università resta quello di formare professionisti capaci di competere con gli altri colleghi del pianeta, è indispensabile che questa preparazione avvenga in un contesto fertile, ricco di occasioni e possibilità, non in un deserto produttivo e occupazionale. Chi sarà mai la prima Università italiana in questo ranking 2019, davanti a diversi prestigiosi atenei quali l’Università di Bonn e l’University of Science and Technology of China? Sorpresa: University of Calabria. Proprio così, nella terra dei migranti universitari, di intere generazioni costrette a salutare famiglia e amici per trapiantarsi altrove, spesso definitivamente, UniCal (abbreviato) riesce finalmente a gettare il proprio seme e a farlo fruttare. Volete la prova? Qualcuno avrà sentito parlare di Gipstech, l’applicazione di localizzazione per musei e luoghi al chiuso che funziona senza wi fi e che - da non credere - è stata adottata perfino nel museo di Storia dell’Informatica di Google a Mountain View, proprio in casa dei padroni della navigazione satellitare, e all’aeroporto Narita di Tokio, tanto per citare alcuni esempi. Un lavoro figlio dell’Università di Calabria. Ancora: Altilia è una società che ha inventato il Mantra deep insight platform, un programma che interpreta in modo straordinariamente funzionale e intelligente i big data in possesso a grossi gruppi imprenditoriali offrendo loro possibilità altrimenti non immaginabili per sviluppare il proprio business. E poi Ocore, start up che ha creato la crema alla cipolla di Tropea con effetti straordinari per le ulcere procurate dal diabete, migliore idea innovativa 2017, vincitrice del Premio nazionale dell’Innovazione, oppure Innovacarbon, altra start up che si è aggiudicata lo stesso premio nel 2018 per il sistema di filtraggio delle acque inquinate da idrocarburi. Tutti progetti e tutte imprese ad alto profilo innovativo passate, sostenute e affiancate da UniCal. “Sono oltre vent’anni che lavoriamo su trasferimento tecnologico e interazione con le aziende - spiega Giuseppe Passarino, delegato dal rettore al trasferimento tecnologico -, non a caso siamo soci fondatori di Netval e PniCube, le principali associazioni che coordinano politiche di innovazione e trasferimento tecnologico delle Università Italiane. Si è cominciato collaborando con le imprese nei settori della informatica e dell’ingegneria ma nel tempo abbiamo toccato aree tradizionalmente meno propense, grazie al lavoro incessante del nostro Liaison Office, che fa dialogare il nostro Ateneo con tante realtà locali e no. Durante questo periodo abbiamo prodotto circa 120 brevetti, in parte ceduti, e attualmente ne abbiamo circa 60 in portafoglio. UniCal conta 48 aziende SpinOff (create da nostri ricercatori o studenti) undici delle quali attive nel nostro Incubatore Technest mentre le altre sono ospitate presso i Dipartimenti. A queste ne vanno aggiunte altre dieci che, conclusa l’incubazione, sono ormai fuori dal nostro Ateneo e ora camminano con le proprie gambe”. La presenza dell’Università di Calabria è stata decisiva per l’affermazione del distretto di Sibari dove si pratica l’agricoltura avanzata e nei sistemi di bioedilizia. Sono diverse le aziende che hanno aperto e apriranno la loro sede nei dintorni dell’Università per meglio interagire con i gruppi di ricerca UniCal. Non solo: ad aprile è stato sottoscritto un accordo con Mito Technology che mette a disposizione dell’Università di Calabria e delle sue start up un fondo di investimenti di 40 milioni di euro.

·         Da Gentile a Sullo sino a Fioramonti: ministro che viene, esame di maturità che cambia.

Da Sullo a Fioramonti: ministro che viene, esame di maturità che cambia. La storia dell’esame più temuto dagli studenti. Lanfranco Caminiti il 23 Novembre 2019 su Il Dubbio. I buoni propositi c’erano tutti. Dichiarazione del nuovo ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Lorenzo Fioramonti: «Evitiamo che ogni ministro che si siede al ministero cambi qualcosa. La mia idea di scuola è quella di non cambiare ma di mantenere». E considerato che, all’incirca, governo che viene scuola che cambia – come dargli torto? Però, il ministro Fioramonti qualcosina l’ha cambiata anche lui, la regola è di ferro: ministro che viene scuola che cambia. I cambiamenti sembrano non modificare l’impianto dell’esame di maturità, o esame di Stato come sarebbe più proprio adesso dire – sono state eliminate le buste e viene reintrodotto il tema di storia. Sostanzialmente, scompaiono le due novità introdotte dal ministro precedente, il leghista Marco Bussetti, e che avevano suscitato tante perplessità. A far discutere era stata soprattutto l’eliminazione del tema di storia. Erano stati tanti gli appelli per reintrodurlo, firmati da storici, intellettuali, opinionisti. Siamo ancora un paese di santi, navigatori e umanisti, o no? Il ministro Bussetti nel mettere aveva anche tolto – ovvero l’ammissione all’esame non era più subordinata all’alternanza scuola- lavoro e al superamento delle prove Invalsi. Che invece erano state le novità introdotte dal precedente ministro Valeria Fedeli. L’ho già detto che la regola è di ferro? «Ho voluto ascoltare la voce dei docenti, dice il ministro Fioramonti, e il tema storico tornerà nella prima prova scritta della Maturità, sarà nella seconda tipologia di tracce, obbligatoriamente come una delle opzioni». Quanto alle buste, dice Fioramonti: «La commissione manterrà una serie di materiali che serviranno a far partire l’esame. Ma, anziché sorteggiarlo si sapranno prima quali saranno gli argomenti scelti». L’esame di maturità fu introdotto nel 1923 da Giovanni Gentile, nell’ambito della sua riforma della scuola, «la più fascista delle riforme», come la definì Mussolini. Consisteva in quattro prove scritte più l’orale sul programma degli ultimi tre anni. La commissione chiamata a giudicare era composta interamente da docenti esterni nominati dal ministro e venivano assegnati tanti voti quante le materie affrontate. Erano anche previsti gli esami di riparazione. Nella prima sessione il 75 percento dei candidati risultarono bocciati. Ci fu un gran malumore dei gerarchi e dei genitori, e allora si provò a intervenire per smussare. Nel 1937 Cesare Maria De Vecchi riduce il programma d’esame a quello dell’ultimo anno e nel 1940 Giuseppe Bottai introduce i “giudici naturali”, ovvero la commissione è composta dai docenti dei candidati e solo il presidente ( un professore universitario) e vicepresidente ( un preside) sono di nomina ministeriale. Ma c’è la guerra e non si cambia nulla. Con Guido Gonnella nel 1947 si ritorna alla forma ante- guerra con due piccole modifiche, ovvero l’introduzione di commissari interni accanto a quelli esterni e la limitazione dei programmi agli ultimi due anni. Nel 1969 cambiò tutto. Fiorentino Sullo nel 1969 ( decreto legge del 15 febbraio), cinquant’anni fa, propone gli esami facilitati: solo due prove scritte, una fissa di italiano e una specifica in funzione del tipo di istituto; una prova orale che verteva su due materie scelte ( una dallo studente e una dal gruppo di professori) fra un gruppo di quattro indicate anticipatamente dal ministero della Pubblica istruzione; aboliti gli esami di riparazione mentre è introdotto il giudizio di ammissione del consiglio di classe. Il punteggio finale è complessivo e è in sessantesimi. Inoltre con la liberalizzazione degli accessi agli studi universitari l’esame è esteso a tutti i corsi di studio dei cicli quadriennali e quinquennali di istruzione secondaria superiore ( prima era in vigore solo nei licei). Questa formula, che sarebbe dovuta essere una sperimentazione dalla durata di soli due anni, ne durò più o meno trenta. Cioè, fino al 1997 quando, con la riforma Berlinguer, la prova cambia molto: tre le prove scritte, di cui la terza predisposta dalla Commissione e colloquio su tutte le discipline dell’ultimo anno. Introduzione del credito scolastico e del credito formativo. Votazione espressa in centesimi: 45 punti alle prove scritte, 35 al colloquio orale, e 20 punti al credito scolastico. Viene valorizzata la presenza della lingua straniera nell’esame. Nel 2001, nuovi cambiamenti con il ministro Letizia Moratti, poi nel 2007, ministro Giuseppe Fioroni, e poi ancora nel 2010 la Riforma Gelmini che chiede per essere ammessi all’esame di Stato di riportare un voto almeno pari al sei in tutte le discipline: non basta più la semplice media sufficiente. E infine 2017, ministro Valeria Fedeli: l’esame è composto da due prove scritte e un colloquio orale che darà rilevanza all’esperienza dell’alternanza scuola-lavoro; criterio di ammissione sono le prove invalsi di italiano, matematica e inglese: insomma, le cose che poi cambierà Bussetti. Molto sensibili e vicine agli studenti sembrano essere state le intenzioni che hanno mosso Fioramonti ai cambiamenti, non vuole che l’esame sia uno stress, non vuole che sia una lotteria, che non è che siamo al Casino – bisogna puntare alla preparazione. Però, se uno ci pensa salta quello che è uno dei fattori determinanti di qualunque esame, cioè il fattore C, dove C sta, diciamo, per fortuna, per cui ti può capitare la busta che proprio entri in un bosco oscuro e fai una figura barbina, oppure ti può capitare la busta proprio su quelle quattro cose che sai alla grande e fai un figurone. È come se si passasse, in una tv generalista, dal quiz ( lascia o raddoppia?) al talent ( ecco la performance del giovane artista, che ci presenti?). È la modernità, lo so. Intanto, il ministro Fioramonti è tornato a fare la voce grossa sulla manovra economica, se non usciranno i 3 miliardi che lui ha chiesto per il mondo della scuola, è pronto a dimettersi. Fioramonti chiede una «linea di galleggiamento», considerando che di miliardi, a occhio e croce, ce ne vorrebbero una ventina. Con sti chiari di luna, chissà se lo ascolteranno. Ma l’esame di Stato è cambiato.

·         Scuola, i furbetti del Diploma.

Scuola, i furbetti del Diploma. Esiste un mercato di titoli contraffatti che consentono a docenti e bidelli trasferimenti e supplenze farlocche. Fabio Amendolara il 27 settembre 2019 su Panorama. Ci sono docenti con titoli e diplomi comprati al mercato dei falsari che hanno scalato le graduatorie a esaurimento o quelle d’istituto per l’assunzione temporanea nelle scuole, lasciando fuori chi, invece, quegli studi li ha fatti davvero. C’è chi ha approfittato anche di disabili e ragazzi con problemi d’apprendimento, facendosi preparare ad arte riconoscimenti speciali per poter entrare nelle graduatorie per il sostegno. Oppure chi, al momento della mobilità, quello che decreta i trasferimenti, ha calato l’asso (ovviamente falsificato) ed è riuscito ad avvicinarsi a casa. E c’è perfino chi è entrato nella segreteria di un istituto e si è creato un certificato di servizio per gli anni precedenti con tanto di timbri e firme. L’epidemia di truffe coinvolge anche il personale Ata (amministrativo, tecnico e ausiliario). E pure i bidelli. Con l’avvio dell’anno scolastico i controlli sui furbetti della scuola sono ricominciati. E saltano fuori ancora i diplomi prodotti a Mangone, in provincia di Cosenza, dove un pensionato settantenne aveva messo su un vero e proprio diplomificio, producendo su carta pergamena i vecchi certificati di istituti magistrali (quelli che erano già abilitanti all’insegnamento) statali e paritari della provincia di Cosenza e di Reggio Calabria, ma anche di scuole di specializzazione per l’insegnamento del sostegno agli alunni portatori di handicap, con tanto di logo dell’Istituto nazionale scuole e corsi professionali di Cosenza. L’uomo è riuscito a «infettare» con i suoi prodotti istituti di tutta Italia: ne sono stati trovati a Cosenza, a Lecce, a Pistoia, a Milano, a Bergamo, a Forlì e a Cesena. Le pergamene non venivano depositate solo da aspiranti insegnanti calabresi, segno che, sostengono gli investigatori, il pensionato era riuscito a creare un bel giro d’affari che ha varcato i confini calabresi. E, così, la stamperia illegale di Mangone, poco meno di mille abitanti, paesello già famoso per le scorribande di uno dei briganti più attivi durante la proclamazione del Regno d’Italia, Marco Berardi, soprannominato il Re della Sila, è tornato alla ribalta 200 anni dopo. I carabinieri hanno battezzato l’inchiesta «Minerva», per la testa della dea usata nel simbolo della Repubblica italiana stampato dal falsario sui diplomi. Gli investigatori hanno identificato 25 docenti che, stando agli atti, non avrebbero esitato a compiere più di un reato per assicurarsi la tanto agognata cattedra. Le accuse: falsità materiale commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici, falsità materiale commessa da privato in concorso, falsità ideologica in atto pubblico. Sono stati due dirigenti scolastici a notare che qualcosa in quei diplomi non quadrava e hanno inviato una segnalazione ai carabinieri e all’ufficio scolastico regionale. Interrogato il primo furbetto, è spuntato il nome del falsario. I carabinieri si sono fiondati a casa sua e dalla perquisizione sono saltate fuori le bozze di 30 stampe di diplomi compilati con nominativi di alcuni insegnanti già entrati in ruolo e due risme di carta pergamena pronte per la stampa. Al falsario è stata contestata la contraffazione di 22 titoli di studio presentati nelle segreterie di istituti scolastici. Una delle prof ha confidato ai carabinieri che, tramite un intermediario, il falsario avrebbe chiesto 3 mila euro in cambio del diploma tarocco. Risultato? I furbetti sono stati esclusi dagli elenchi e le graduatorie sono state ripristinate. Interrogatori a tappeto ad Avellino, dove il procuratore Rosario Cantelmo ha convocato 43 furbetti che tramite un ex collaboratore della Cisl, soprannominato Mister 2 mila euro, riuscivano a ottenere certificazione informatica di tipo europeo e attestazioni varie a pagamento con le quali poi presentavano domande dopate nelle scuole del Nord. A Salerno, invece, l’ufficio scolastico regionale si è concentrato sui trasferimenti, scoprendo che i titoli di riserva e precedenza indicati da alcuni docenti salernitani che avevano chiesto il trasferimento o l’avvicinamento annuale a Salerno erano falsi o non esistevano. Sette i casi sospetti individuati finora. Anche qui l’epidemia da furbetto si è diffusa presto in altre città e sono scattati controlli a Torino, Milano, Firenze e Roma. C’è addirittura chi avrebbe chiesto il ricongiungimento a un figlio minore, senza avere prole. Ma da Salerno la vera epidemia coinvolge i bidelli: dalle scuole del Nord Italia, soprattutto dal Veneto, sono partite circa 500 segnalazioni al ministero dell’Istruzione per verificare i diplomi, tutti con il massimo dei voti, presentati dai bidelli per scalare le graduatorie di terza fascia (nelle quali rientra chi non ha fatto un concorso, ndr). Con quelle attestazioni alcuni di loro, partendo dalla città campana, sono riusciti a ottenere supplenze anche annuali negli istituti scolastici del Nord. Quattro bidelli salernitani e uno veneto sono già stati licenziati. Altri quattro licenziamenti a Piacenza, dove già da gennaio è scoppiato un altro bubbone: titoli di servizio inesistenti perché provenienti da scuole fantasma e autocertificazione per aumentare i punteggi di merito. Solo a Piacenza si contano almeno 15 irregolarità da verificare. Il provveditore si è visto costretto a convocare scuole e sindacati per chiedere maggiore attenzione ai curriculum dei candidati ai vertici delle graduatorie. C’era chi è riuscito a ottenere un bonus di 14 e chi, con pochi anni di esperienza, ha incassato una supplenza annuale certificando titoli che in pochi anni di servizio non avrebbe mai potuto accumulare. «C’è chi è pronto a rischiare la galera per lavori che offrono un reddito da mille euro al mese» ha denunciato più volte Paola Votto della Cisl scuola. «Un dato sociale allarmante da guerra tra poveri». Altri sette furbetti sono stati scoperti nelle scuole padovane. Sono ben 146 casi sospetti anche nelle scuole del Torinese, sempre grazie ai diplomi facili conseguiti al Sud. Aspiranti docenti e personale Ata erano disposti a pagare anche 15 mila euro pur di avere un curriculum da primi posti in graduatoria. In tanti anche qui hanno attestato di aver lavorato in scuole paritarie, ma poi non hanno superato la verifica Inps. Cosimo Scarinzi, coordinatore nazionale di Cub Scuola, stigmatizza il solito andazzo negli istituti paritari «di “pagare” solo in punteggio». Niente stipendio né contributi. A quel punto, la certificazione, dopo un semplice controllo, viene messa in discussione e si rischia l’esclusione dalla graduatoria. È accaduto anche a Lucca. Le verifiche nell’aggiornamento delle graduatorie di istituto valide fino al 2021 per il personale Ata di terza fascia hanno portato al licenziamento di sei collaboratori scolastici. Il provveditore Donatella Buonriposi ha definito la situazione «preoccupante». Solita storia: candidati troppo giovani e punteggi troppo alti. Ma nel popolo dei furbetti della scuola figurano anche i commissari dei concorsi: a Roma il pubblico ministero Desiree Digeronimo ha aperto un fascicolo sull’ultimo concorsone per dirigenti scolastici. Alcuni di loro avevano il dono dell’ubiquità: sono risultati presenti in commissione durante le correzioni mentre, invece, partecipavano a incontri ufficiali, a un consiglio comunale o a un consiglio d’istituto.

·         Ignoranti, diplomati e laureati.

Giampiero Mughini per Dagospia il 6 dicembre 2019. Caro Dago, tra i giornalisti che di mestiere passano le loro giornate a Montecitorio, a tu per tu con la classe politica che ha in mano le sorti del Paese, il mio amico Fabrizio Roncone è tra i più aguzzi. Ecco quel che ha scritto di recente: “Noi cronisti politici, a Montecitorio e a Palazzo Madama, siamo ormai costretti a muoverci sempre più spesso tra parlamentari semianalfabeti e mitomani, furbacchioni spregiudicati e potenziali disoccupati aggrappati alla poltrona”. Più chiaro di così si muore. Detto altrimenti: i semianalfabeti hanno conquistato la prima linea addirittura nel Parlamento italiano, o forse lì più che altrove. Ovvero la prevalenza del semianalfabeta, l’erede odierno del “cretino” la cui “prevalenza” Carlo Fruttero e Franco Lucentini avevano additato trent’anni fa. E del resto è passata per i giornali, sia pure l’istante di un mattino, la notizia (il dato statistico) che uno studente italiano su quattro non capisce quello che sta leggendo. Una questione, quella della prevalenza del semianalfabeta, che in termini emergenziali è per l’Italia odierna forse ancora più drammatica che non la caduta del Ponte Morandi, e lo dico con infinito rispetto per quei morti innocenti. Che Paese è quello in cui il 70 percento dei nostri cittadini non è in grado di intendere l’editoriale di prima pagina di un quotidiano? Che valore ha nella nostra democrazia l’espressione “prima gli italiani” dato che la più parte di quegli “italiani” non sa di che cosa si sta parlando, quale sia la portata reale e i dati significativi dei problemi della nostra economia e della nostra società? Cosa che non faccio mai perché sono rituali perfettamente inutili, ho accettato ieri pomeriggio di presentare un mio libro in un locale pubblico. C’erano 30-40 persone, neppure poche in una città dove ci sono diecimila cose più interessanti da fare che non assistere alla chiacchiera a proposito di un libro, ossia dell’oggetto che è divenuto il meno desiato al mondo. Grandissimo mio imbarazzo. Non sapevo che dire e come dirlo dato che glielo leggevo in faccia a queste brave persone che il nome, che so?, di Aldo Moro o di Ugo La Malfa non diceva nulla di nulla. Che narrazione puoi pronunciare innanzi a un pubblico che non sa niente di niente della storia italiana di questo ultimo mezzo secolo? A un certo punto l’amico che mi ospitava mi ha fatto un domanda su Sciascia, uno i cui libri nei miei vent’anni stavano nell’aria che respiravo. Ho balbettato qualcosa, ad esempio la volta che uno mi aveva querelato perché avevo definito “una mascalzonata intellettuale” un suo lunghissimo papello su “Repubblica” dove dava del “vigliacco” a Sciascia per come lui scriveva della mafia siciliana. Le facce degli astanti restavano del tutto impassibili. Fossi rimasto muto alla domanda su Sciascia, sarebbe stata perfettamente la stessa cosa. Nel pomeriggio mi era arrivato un sms dal mio caro Ruggero, che fa il medico nelle Marche e che è un eccellente lettore di libri. Mi raccontava che era entrato in libreria a chiedere quali libri di Sciascia avessero. Seduta al computer, la commessa gli ha chiesto come si scrivesse il nome Sciascia. E lui ha replicato che aveva perfettamente ragione a chiederlo trattandosi di uno scrittore straniero. Semianalfabeti, abbiate pietà di noi.

Mattia Feltri per “la Stampa” l'1 ottobre 2019. L' idea di far votare i sedicenni - rilanciata ieri da Enrico Letta dopo che venerdì l' aveva avanzata Matteo Salvini davanti alla piazza ecologista, e solo ora accolta da Luigi Di Maio e Nicola Zingaretti, quindi tutti d' accordo - è davvero eccellente. Secondo i dati Ocse-Pisa, da noi un sedicenne su cinque non è in grado di comprendere un testo. Uno straordinario balzo in avanti, visto che secondo i dati Ocse-Piaac il quarantasette per cento degli adulti italiani è analfabeta funzionale. La platea si impreziosisce, insomma. Tocca però conservare un dubbio: non sarà la solita riforma studiata all' ammazzacaffè, vero? Perché il diritto di voto presuppone una serie di conseguenze: se uno a sedici anni ha la testa buona per partecipare alla scelta del governo del paese, ce l' ha anche per ottenere il porto d' armi, acquistare casa, vivere da solo, come qualsiasi adulto rispondere penalmente delle sue azioni. In due parole, è maggiorenne. Altrimenti ci tocca dichiarare che la tessera elettorale è meno importante della patente di guida, o del libretto delle giustificazioni. Scelta peraltro in linea con l' azione politica di questo governo, avviato a una riforma costituzionale di taglio dei parlamentari, da 945 a 500, del tutto fuori da una strategia di ammodernamento istituzionale, e sulla sola motivazione che i parlamentari sono troppi, servono a poco, sanno giusto cambiare casacca: meglio risparmiare qualche milione di euro. Così si aumentano gli elettori e si riducono gli eletti, con l'aria di farlo perché fa ganzo, e per dire ai primi quanto siano decisivi i secondi. Povera, piccola democrazia.

Quel vento dell'ignoranza che arriva dai social. Gli algoritmi sono diventati maître à penser. E livellano ogni discorso verso il basso. Francesco Alberoni, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. Qualche giorno fa il Giornale lanciava «l'allarme ignoranza» perché i risultati dei test dell'Invalsi hanno mostrato che moltissimi studenti delle nostre scuole non riescono a capire un testo scritto, non sanno la storia e la geografia, non imparano la matematica, non riescono ad argomentare. Oltre i cattivi ministri dell'Istruzione Luigi Mascheroni giustamente accusa la pedagogia che, per distruggere il nozionismo, ha proibito di imparare le cose. Io ricordo il maestro di mio figlio Giulio che gli aveva proibito di imparare le tabelline ma poi pretendeva che facesse le moltiplicazioni e le divisioni. È una pedagogia che ha la sua radice anarchica in Rousseau e la sua matrice pragmatica negli Usa. Ne La democrazia in America Alexis de Tocqueville mette in evidenza che per gli americani la scuola serve per guadagnare mentre la cultura classica non serve a niente. «L'istruzione primaria - scrive - è alla portata di tutti mentre l'istruzione superiore non è quasi alla portata di nessuno... A quindici anni essi entrano in una carriera e così la loro educazione finisce nel momento in cui la nostra incomincia». Il livello culturale dei nostri giovani è stato solo portato al livello di ignoranza dell'americano medio. A questo non ha però contribuito solo la pedagogia ma anche i grandi social: Google, Facebook, Twitter e Instagram che non si limitano ad informarti ma ti censurano e guidano il tuo pensiero. Recentemente ho messo sul mio Alberoni Magazine un articolo con un particolare (castigato) del quadro di Ingres, La grande odalisca: Facebook l'ha censurato come pornografia, ha bloccato tutte le mie attività di promozione e non c'è stato modo di parlare con qualcuno. Perché succedono queste cose? Perché i social (che sono smisurati monopoli sovranazionali) sono programmati da algoritmi progettati da giovani ingegneri americani, che non sanno niente della nostra cultura e ci censurano in base alle loro convinzioni e non ne rispondono a nessuno. Sono costoro oggi i maître à penser dell'Occidente che trascinano tutti nella mediocrità e nell'ovvio. Essi standardizzano tutti i comportamenti, li livellano sui loro gusti e distruggono così l'alta cultura e le culture locali più originali.

Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 5 luglio 2019. Chissà se quelli che li fanno sanno da dove deriva la parola? Strafalcione, da "falciare male". Sbagliano, e tuttavia falciano. Non è poco. Perché a leggerli gli strafalcioni di questa Maturità 2019 viene da sorridere, se non proprio da ridere, perché alcuni sono davvero pensati bene, e altri sono quasi commuoventi. Bisognerebbe dire che, se esiste una creatività "verso l'alto", quella degli artisti e degli scienziati, c' è anche una creatività "verso il basso", quella degli errori involontari. Si tratta di una forma d' inventività prodotta dalla manipolazione più o meno inconsapevole delle parole, la quale dimostra una sua forza non banale. Del resto, lo strafalcione non è mai banale, ammesso che la banalità esista davvero, come ci ha ricordato Stefano Bartezzaghi in un suo libro. La collezione degli strafalcioni prodotti nelle varie scuole italiane, dimostra che spesso si tratta di lapsus linguistici - "esteta" diventa "estetista" per D' Annunzio -, di giochi linguistici - lo "ius soli" che diventa "diritto al suolo" -, di errori di lettura - coscienza scambiata per conoscenza - e persino storici - chi ha liberato Mussolini? I partigiani: liberato da sé stesso o liberati gli italiani da lui?

Lo strafalcione può essere frutto dell' emozione, come hanno notato alcuni insegnanti romani, o essere un involontario gioco di parole. L' errore rivela qualcosa di sé, come sostiene la teoria freudiana del lapsus. Anche se non è proprio l' esame di maturità il luogo giusto dove farli, ma esiste anche il diritto allo strafalcione, e a volte può essere, come qui, pagato caro. Primo Levi, di cui ricorre quest' anno il centenario della nascita (gli è stata risparmiata, non si sa per quale ragione recondita, la presenza nelle tracce d' esame) aveva notato in un suo articolo "L' aria congestionata", che i parlanti tendono a ricostruire il "vero" significato delle parole deformandole più o meno profondamente. MATURITA' 8

Si tratta del fenomeno della cosiddetta falsa etimologia o etimologia popolare, rilevato da Giuseppe Gioacchino Belli: "brodometrico" per "protomedico", "mormoriale" per "memoriale", "formicare" per "fornicare". Lo scrittore torinese sottolinea come queste deformazioni e manipolazioni lessicali "nascono intorno a noi o addirittura dentro ciascuno di noi". E si tratta pur sempre di qualcosa che esprime, come nel lapsus freudiano, un pensiero recondito, una volizione, un desiderio, un timore, o altro ancora. Levi fornisce vari strafalcioni da lui raccolti nel corso degli anni. Per esempio "acqua portabile" invece di "potabile". Non è forse "portabile", scrive, l' acqua dal momento che viene portata a casa dalle condutture? Gli esempi che Levi fa provengono probabilmente da esperienze personali o da racconti di amici insegnanti, perché è proprio la scuola il luogo dove gli strafalcioni prosperano, vengono raccolti e ricordati per generazioni. Ci sono nel catalogo leviano alcune espressioni che potevano essere presenti negli scritti di questa maturità 2019, se solo si fosse data l' occasione giusta. Come: "raggi ultraviolenti" al posto di "ultravioletti", o" aria congestionata" invece di "condizionata". Del resto, non è forse vero che molti strafalcioni risultano di "umile estrazione", dice Levi, e "comportano una elaborazione inconscia ovvia ed elementare", mentre "altri sono più arditi ed attestano associazioni ad un livello più alto" - confondere "lusso" con "lussuria" nel 2019; "altri infine contengono un lampo di poesia, o di sarcasmo, o di riso". Questi sono i migliori. Invece della reprimenda dei commissari, e il voto basso, meriterebbero, fuori registro, una loro piccola lode, perché allietano e rendono ragione del fatto che il gioco di parole è qualcosa di molto profondo e radicato in noi, che alimenta la fantasia e l' immaginazione, o ne è l' effetto. A volte crea persino versi. Soprattutto mette di buon umore, che non è una cosa da poco. Certo, l' ignoranza non è un bene, ma in un mondo così incattivito, come quello attuale, togliere peso alle parole, movimentarle, seppur nell' inadatta sede di esame, non è poi così terribile. Poveri studenti, si saranno vergognati, come capita a tutti noi quando "tagliamo male".

Dispersione scolastica, l’esercito dei diplomati che rimangono analfabeti. Pubblicato domenica, 06 ottobre 2019 su Corriere.it da Gianna Fregonara e Orsola Riva. Nuova ricerca Invalsi: in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna uno studente su tre a 18 anni, anche se ha il diploma, non ha le competenze minime per entrare nel mondo del lavoro. Letti uno di seguito all’altro sono i numeri di una disfatta: 21 per cento nel Lazio, un ragazzo su cinque; 23 per cento in Molise, quasi uno su quattro; 25,7 in Basilicata e 26,8 in Puglia. E poi: Campania (31,9), Calabria (33,1), Sicilia (37) e Sardegna (37,4). Sono tantissimi e sono i ragazzi e le ragazze che il nuovo studio dell’Invalsi sulla «dispersione scolastica implicita», firmato da Roberto Ricci, considera perduti dal nostro sistema scolastico. Quelli che non finiscono le scuole superiori più quelli che arrivano sì al diploma finale ma con un livello di conoscenze così basso che quel pezzo di carta non gli servirà a nulla. Di solito questa seconda categoria non si conta nei dati ufficiali, quelli che hanno fatto dire al premier Giuseppe Conte nel discorso di insediamento che «la dispersione scolastica resta un’emergenza». Negli ultimi due anni, complice la crisi, i giovani fra i 18 e i 24 anni che hanno abbandonato la scuola prima del traguardo finale sono tornati a crescere attestandosi sopra il 14 per cento. Siamo quartultimi in Europa. Peggio di noi fanno solo Romania, Malta e Spagna, mentre siamo stati superati anche dalla Bulgaria. Questi ragazzi che la scuola perde sono condannati alla marginalità sociale. Molti finiscono nei cosiddetti Neet: non studiano né lavorano e nei contesti più svantaggiati diventano preda della criminalità. Ma non ci sono solo loro. C’è un altro esercito di ragazzi che la scuola «perde» anche se arrivano in fondo. A farli uscire dal cono d’ombra ci ha pensato l’Invalsi, usando i dati delle rilevazioni fatte all’ultimo anno delle superiori. Ragazzi che pur avendo in tasca un diploma di scuola superiore non sono in grado di capire un libretto di istruzioni di media difficoltà, figuriamoci un modulo assicurativo o bancario. Qualcuno potrà pensare che paragonarli ai «dispersi» veri e propri sia un’esagerazione retorica. Ma (purtroppo) non è così. Quelli che nei test Invalsi arrivano al massimo al livello due su cinque in italiano e matematica e sotto il B1 di inglese sono studenti che stanno per prendere il diploma ma è come se non avessero frequentato la scuola perché hanno le stesse competenze di ragazzini di terza media o al massimo di seconda superiore. In Italia sono il 7,1 per cento, nelle scuole del Nord non superano il 3-4 per cento, ma in regioni come la Calabria sono più del doppio. Se si sommano a quelli che hanno abbandonato la scuola prima di arrivare al traguardo, il totale è da brivido: 22,1 per cento, più di un giovane su 5. Ma le differenze regionali sono enormi, tanto da disegnare una mappa dell’Italia spaccata in tre parti, dove solo Veneto, Friuli-Venezia Giulia e provincia di Trento riescono a stare vicino o sotto l’obiettivo europeo del dieci per cento di giovani che abbandonano la scuola in anticipo, mentre le altre regioni del Centro-Nord sono fra il 15 e il 20 e al Sud si supera il 25% con punte ben oltre il 30 in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna. Eppure sarebbe possibile individuare precocemente i soggetti più a rischio, se solo lo si volesse. Sono coloro che già alla fine della terza media non raggiungono i traguardi attesi: il 14,4 per cento su base nazionale, fra il 25 e il 30 per cento al Sud e nelle isole. Questi ragazzi a 14 anni hanno accumulato un ritardo negli apprendimenti che è quasi impossibile recuperare «dopo». Di fronte a un fenomeno di questa gravità l’impegno dei singoli docenti e delle singole scuole non può bastare, perché è evidente come dice la presidente dell’Invalsi Anna Maria Ajello che «la dispersione è prima di tutto un fenomeno sociale e poi scolastico. E inizia fin dalla composizione delle classi, visto che in certe aree del Paese si dividono ancora gli studenti per provenienza e censo».

Ignoranti, diplomati e laureati. Tommaso Rodano per il “Fatto quotidiano” il 30 giugno 2019.  Rieccoci. Ogni anno, in questi giorni, centinaia di migliaia di ragazzi si avvicinano ai banchi della commissione d' esame con passo patibolare: è il momento della maturità. Talvolta da quelle bocche innocenti e terrorizzate escono alcune delle peggiori castronerie mai rimbalzate tra le mura di una scuola italiana. Come tradizione, abbiamo chiesto agli insegnanti di raccontarci gli errori più tragici e divertenti dei maturandi, per raccontare con un po' di ironia lo stato dell' istruzione italiana. Senza dimenticare che sbagliamo tutti: studenti, professori, (soprattutto) giornalisti. Ridiamoci su, buona maturità a tutti.

Grandi classici. "D'Annunzio era un estetista", ma pure "Oscar Wilde fu l' estetista per eccellenza"; "I Malavoglia vendevano lupetti"; "Pirandello scrisse Il fu Mattia Bazar", "Mazzini e Garibaldi fecero la carbonara"; le famose "guerre intestinali tra guelfi e ghibellini". Non c' è scampo: queste meravigliose boiate si ripetono anno dopo anno.

Gender fluid. "Interrogata su Dante, una studentessa cita il famoso canto V dell' Inferno che narra la storia di Paola e Francesco". Non c' è dubbio che sia colpa della martellante propaganda LGBT nelle scuole italiane.

Apolidi. "Alla domanda: Definisca l'area geografica in cui si trova la popolazione curda l'alunno, dopo lunga riflessione, risponde 'Taiwan'". Si sa che questi curdi stanno dappertutto e da nessuna parte.

Educazione civica. "Chi scrisse la Costituzione? I Padri Ricostituenti". Integratori della democrazia.

Piccoli problemi di cuore. "L'entrata in guerra degli Usa nel primo conflitto mondiale è dovuta a un 'attaccamento' da parte della Germania". Una questione affettiva.

Storia creativa. "La Seconda guerra mondiale inizia con l'invasione della Germania sulla Croazia". Hitler mica si accontentava di fare la guerra con nazioni che già esistevano.

Grandi tradimenti. "Innocenzo III si proclama sicario di Cristo". Adesso rimane solo da trovare il mandante.

Ampie vedute. "Domanda del professore: Contro chi se la prese Hitler? e il ragazzo, prontissimo: Coi froci". Praticamente era un piccolo Adinolfi.

Impeccabile. Domanda del professore: 'Quando iniziò l' ascesa del nazismo?' Lo studente: 'Non ricordo l'anno ma so che il maggiore esponente fu Hitler'". L' uomo copertina, insomma.

Impeccabile/2. "Chi viene eletto senatore a vita? I senatori". A vita, magari.

Relazioni complicate. "Mary Shelley era la moglie di Frankenstein". E poi? Divorzio breve?

Questa la so. "Alla domanda: Elenchi i principali esponenti della corrente impressionista l'alunno esordisce con Immanuel Kant". Illuminante.

I promessi che? "Lucia era una modella e Renzo un tramaglino". Altro?

Complicazioni. "La donna in gravidanza rischia l'isteria". Sarebbe la listeria (un batterio), ma si sa che in quei mesi le donne sono speso intrattabili.

Comunismi. "Il segretario del Pci era Palmiro Tognazzi". La doppiezza del doppiatore.

Clericalismi. "Il sacerdote Don Luigi Struzzo". La Chiesa che nasconde la testa sotto la sabbia.

Profeti. "Matteo Salvini è molto meglio di Matteo Renzi perché difende l' Italia dai barbari che arrivano soprattutto dall'Africa e dal Medio Oriente ed è dunque come Martin Luther King". L'importanza delle idee chiare.

Ritorno al futurismo. "Filippo Tommaso Marinetti partecipa alla Rivoluzione francese nel 1922". Stava talmente avanti che viaggiava nel tempo. E nello spazio.

Moto-tragedie. "Un' alunna racconta, commossa, il dramma della bomba atomica a Hiroshima e Kawasaki". E poi quelle di Honda, Suzuki, Yamaha.

Eroe dei due mondi. "Chi ha scoperto l'America? Garibaldi". Non stava mai fermo quello lì.

Manifesto della razza. "Domanda: Se i nazisti erano ariani, gli ebrei erano? Risposta: terrestri". Poi ci sono le creature del fuoco, quelle dell' acqua Autogol. "Napoleone è andato in Russia con la nave e quando è tornato ha fatto guerra alla Francia". Si sa che era un tipo ambizioso e irritabile.

Su e giù per la via Emilia. "I Malavoglia è un romanzo di Verga ambientato ad Aci Trezza, in provincia di Bologna". Quasi.

Ungaretti fantino e il "Water" D'Annunzio. Alessandro Gnocchi, Venerdì 05/07/2019, su Il Giornale. Tutti a squola. Anzi, a Skuola.net, il sito che ha raccolto gli strafalcioni più divertenti dell'esame di maturità appena terminato. È una testimonianza palpabile degli effetti causati dalle riforme, e dalle riforme delle riforme, che quasi ogni ministro si è sentito in obbligo di approvare, conducendo l'istruzione di ogni ordine e grado da Giovanni Gentile al nulla. Altrettanto nocive, da evitare come la peste, le trovate dei «geni» della pedagogia che hanno messo l'accento sul «come si insegna» e non sul «cosa si insegna». I ministri, invece di scoppiare a ridere in faccia a questi maghi della didattica all'incontrario, hanno consegnato loro le chiavi dei programmi. Risultato: una tragedia. Fate un paragone tra la padronanza della grammatica di vostro padre e quella dei vostri nipoti. Probabilmente scoprirete un abisso scavato da idee comiche, tipo che le regole della grammatica non vanno impartite e studiate. No, sarebbe poco democratico calare dall'alto della cattedra le nozioni indispensabili. Quindi il professore deve fare nascere nello studente la consapevolezza dell'esistenza di regole grammaticali. Vi sembra la più grossa idiozia che abbiate mai sentito? Era nero su bianco nelle indicazioni ministeriali di inizio millennio. Indicazioni che i buoni presidi consigliavano velatamente di ignorare. Ecco qualche esempio di sfondone della maturità 2019. Gabriele D'Annunzio è stato il primo «estetista» italiano e anche il «Poeta Water». I Malavoglia? Il romanzo simbolo del verismo di Giovanni Verga è attribuito a Italo Svevo, dalla Sicilia a Trieste con un balzo solo. Pirandello invece ha scritto Luigi XIV. Peccato fosse invece l'Enrico IV. Dante avrebbe scritto X agosto, e il vero autore Giovanni Pascoli si rassegni. 1984 di George Orwell è un classico citatissimo e suggestivo. Diventa ancora più particolare se al protagonista Winston Smith subentra l'attore Will Smith. Si potrebbe aggiornare il titolo: Men in black 1984. Sequel dopo sequel forse ci arriveremo. A Mariano del Friuli, in zona di guerra, Giuseppe Ungaretti è un soldato semplice del 19° reggimento di fanteria. Siamo nel 1916, il primo conflitto mondiale infuria. Ungaretti verga poesie disperate. Ma... secondo un maturando in realtà Mariano è un amico del poeta. C'è chi ha riscritto la storia. Per restare alla grande guerra, uno studente ha sottolineato la stretta alleanza tra Italia e Germania. Ma allora perché si sparavano addosso? Non si sa. Mussolini fu il primo governatore d'Italia nel 1915. Come no. Garibaldi è stato un grande condottiero. Tutti d'accordo ma qualcuno pensa sia vissuto nel medioevo. Tito Livio invece era un imperatore romano. Un visionario ha già assistito alla terza guerra mondiale, iniziata in India. La guerra fredda ha dato vita a molte ipotesi: «fredda» si riferisce al fatto che fu combattuta «senza sentimento» oppure al fatto che fu combattuta «in Siberia». Spettacolari anche gli orali. Professore: «Parlami della rivoluzione di febbraio». Maturanda: «Forse intende dire quella di ottobre, quella di febbraio non esiste». Purtroppo esiste. Anche le serie tv, nuovo oppio dei popoli, fanno sentire i loro effetti. Professore: «Chi ha dipinto Guernica?». Maturando: «Pablo Escobar». E Pablo Picasso si rivoltò nella tomba. Cittadinanza e Costituzione è una materia alla quale i politici, vero esempio di civismo, tengono molto. Professore: «E cosa ci dice di Cittadinanza e Costituzione?». Maturando: «Ma Cittadinanza di italiano o di storia?». E le attuali cariche dello Stato. Sergio Mattarella, nonostante si rivolga spesso ai giovani, è un perfetto sconosciuto. A parte quelli che non hanno la minima idea su chi sia il presidente della Repubblica, c'è chi ha dato risposte (in)credibili: un ragazzo ha indicato Giuseppe Conte; un altro ha parlato di Matteotti; un altro ancora ha indicato Matteotti ma con il nome storpiato in Matteozzi. Vi sembra un'invenzione? Purtroppo non è così. Ho potuto vedere con i miei occhi, in una maturità di tanti anni fa, un tema in cui Ungaretti era definito «fantino della prima guerra mondiale».

·         Ritardi a scuola, 16 milioni di ore perse in un anno.

Ritardi a scuola, 16 milioni di ore perse in un anno. L’allarme dei presidi. Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 su Corriere.it da Gianna Fregonara e Orsola Riva. Giannelli, capo dei presidi: «Colpa anche dei genitori». Il pedagogista Mantegazza: «Questa generazione, stando sempre connessa, perde il senso del tempo. Prendete una classe delle superiori a caso. Quasi ogni giorno, per l’esattezza quattro giorni sui cinque che in media si passano a scuola, gli insegnanti firmano una giustificazione per l’arrivo in ritardo di almeno uno studente. Sono numeri che si possono desumere dai dati che le scuole nel loro rapporto di autovalutazione hanno fornito al ministero dell’Istruzione. Alle medie gli studenti sono un po’ più puntuali: 3,4 ritardi all’anno per ogni alunno, ma alle superiori i ritardi raddoppiano: 6,3 in media. E negli istituti tecnici e professionali sono ancora di più: rispettivamente 7,2 e 8,1. Se si considera una classe di 25 alunni, vuol dire quasi 160 ingressi posticipati su 200 giorni circa di scuola: dunque quattro giorni su cinque. In tutto, visto che gli studenti delle superiori sono più di due milioni e mezzo, si sono persi 16 milioni di ore di lezione. Spesso per pigrizia, indolenza, sciatteria. Inutile dire che durante il quarto e quinto anno, quando cioè i ragazzi diventano maggiorenni e si autogiustificano, i ritardi crescono ancora. Qualche anno fa l’Invalsi aveva raccolto i dati sui ritardi dividendoli per regione. I tecnici dell’Istituto per la valutazione avevano misurato quanti ingressi alla seconda ora c’erano stati nel mese di ottobre ogni cento studenti: uno studente su tre era arrivato almeno una volta in ritardo, il record spettava al Lazio con quasi uno studente su due, seguito dalla Puglia (circa il 40 per cento). Nel 2014 - ultimo dato disponibile - la palma della puntualità spettava agli studenti del Friuli-Venezia Giulia (15 per cento di ritardi), seguiti dai piemontesi (20 per cento, circa). «Verifichiamo sul campo una tendenza alla deresponsabilizzazione che è diventata un vero e proprio fatto culturale nel nostro Paese - spiega Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi -. I ragazzi, ma anche i loro genitori, fanno fatica ad abituarsi alla disciplina: è un malcostume al quale non è facile opporsi». Non che presidi e insegnanti non provino a contrastare questo fenomeno. Ogni scuola in autonomia può decidere come affrontarlo: da vent’anni è stato anche istituito il patto di corresponsabilità scuola-famiglia che dovrebbe impegnare studenti e genitori a rispettare le regole: «Ma spesso padri e madri lavorano e le misure disciplinari messe in atto dalle scuole non portano risultati». Ci sono scuole, come il liceo scientifico Pitagora di Selargius (Cagliari), dove si è deciso di multare chi non arriva in orario. Non una grande somma in verità, due euro appena: è più il valore simbolico. «Alle famiglie chiediamo semplicemente di farsi carico delle spese per l’assistenza dovuta ai ritardatari che, in base al regolamento di istituto, non possono entrare in classe fino alla seconda ora e nel frattempo devono essere affidati alla vigilanza di qualcuno. Tutto questo ha un costo», precisa la vicepreside Manuela Spanu. «All’inizio c’è stata qualche polemica - aggiunge - ma ormai la cosa è stata digerita». E ha funzionato: nel senso che ci sono meno ritardi. Anche se il problema persiste. Soprattutto fra i maggiorenni che si scrivono le giustificazioni da sé. Per loro il regolamento prevede che «in caso di reiterato e sistematico ritardo non potranno essere ricevuti a scuola». E gli interessati, cosa pensano dei loro ritardi? Apparentemente non sembrano proprio farci caso o comunque non li considerano una cosa grave come invece bigiare del tutto la scuola (anche se, soprattutto nel caso dei recidivi, mettendo insieme tutte le ore che hanno saltato in un anno saltano fuori giorni interi di scuola). Durante l’ultima rilevazione Ocse-Pisa, più di un ragazzo su due ha confessato di aver saltato almeno un giorno di scuola nelle due settimane precedenti il test (record mondiale: peggio di noi solo i montenegrini), mentre invece pochissimi hanno riportato di essere entrati un’ora dopo, tanto da far sembrare gli studenti italiani anche più ligi dei coetanei tedeschi. I loro professori, però, se lo ricordano benissimo, e lo hanno segnalato nei rapporti di autovalutazione. «E’ un problema di questa generazione: i ragazzi oggi faticano a capire che arrivare in orario è importante - dice il pedagogista Raffaele Mantegazza -. Stando perennemente attaccati ai telefonini, vivono in una specie di eterno presente: una diretta continua dove tutto è sempre disponibile. Non è cattiva volontà, è che proprio non ce la fanno. Peccato che poi il pullman o il treno non stia ad aspettare loro». Chiunque abbia un figlio teenager lo prova tutti i giorni. «E’ pronto, vieni a tavola». «Un attimo». «Preparati che devi andare a calcio». «Un attimo». «Son capaci di arrivare con un’ora di ritardo anche dalla fidanzata - dice Mantegazza -. Viviamo in una società dove la forma è stata degradata a formalismo. Dove nessuno pensa più all’importanza di fare bene il proprio lavoro, come diceva Primo Levi». Da dove ripartire? «A me non piace l’idea delle sanzioni. Penso sia più utile cercare di far capire ai ragazzi che se imparano a programmare il tempo, fanno meno fatica. Se salti la prima ora, poi la devi recuperare. E ti sale l’ansia. Prima, però, bisognerebbe riuscire a trovare un’alternativa allo schermo dei telefonini. Ma lo sa che anche all’università non c’è verso che riesca a far spegnere i cellulari ai miei studenti? Lo silenziano, ma non lo spengono».

·         Degni di nota.

Bocciata l’educazione civica a scuola.  Prima spina per il ministro Fioramonti. Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Corriere.it. Bloccata all’ultimo miglio. Il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione ha espresso parere negativo all’unanimità all’avvio fin da quest’anno dell’Educazione civica a scuola. A causa di un ritardo di qualche giorno nella pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, in teoria l’insegnamento avrebbe dovuto essere rinviato di un anno. Ma il ministro uscente, il leghista Marco Bussetti, era riuscito a trovare un escamotage per superare l’impasse giuridica e far partire la nuova materia con tanto di voto in pagella da subito sotto forma di «sperimentazione scolastica». Mancava a questo punto solo l’ultimo timbro: quello del Cspi, organo consultivo il cui parere è obbligatorio ma non vincolante. Cosa succederà a questo punto, visto che nel frattempo a Viale Trastevere si è insediato il nuovo ministro grillino Lorenzo Fioramonti? La decisione in capo al ministro è tutta politica: partire comunque, un po’ alla garibaldina, forti del consenso politico raggiunto in Parlamento (dove il provvedimento è stato approvato all’unanimità con la sola astensione del Pd e solo al Senato) o rinviare di un anno per dare alle scuole modo e tempo di organizzarsi meglio e di «realizzare adeguate iniziative di formazione del personale scolastico», come suggerito nelle conclusioni del Consiglio superiore dell’istruzione? La nuova educazione civica è il frutto di un compromesso politico da cui è uscita notevolmente ridimensionata rispetto alle ambizioni iniziali. Non una materia a se stante, ma 33 ore l’anno su ambiente e Costituzione, cittadinanza digitale e mafia, diritto alla salute, bullismo e cyberbullismo, da ritagliarsi all’interno dell’orario scolastico. Un’ora in più sarebbe costata troppo, mentre un’ora ritagliata a scapito di un’altra materia avrebbe scatenato le proteste dei diretti interessati. Per il momento il suo insegnamento è affidato a più insegnanti «in contitolarità» alle elementari e medie, mentre alle superiori spetta - ove ci siano - ai docenti di discipline economiche e giuridiche entrati in massa nella scuola con le assunzioni fatte da Renzi. Anche se è previsto un monitoraggio ogni due anni, proprio nella prospettiva di poter trasformare l’educazione civica in un’ora a se stante.

Studente aggredisce e sputa a insegnante di religione perché discute dell’abbandono dei bambini. Francesco Giubilei il 25 novembre 2019 siu Il Giornale. In Emilia-Romagna si registra l’ennesimo episodio di intolleranza e tentativo di censura, questa volta ancor più grave perché avvenuto all’interno di un’aula scolastica nei confronti di una docente. A farne le spese una professoressa di religione che è stata aggredita da uno studente di quinta superiore che le ha lanciato una bottiglietta d’acqua e sputato. La sua colpa? Aver raccontato la storia di “Giovannino”, il bambino abbandonato all’ospedale S. Anna di Torino perché nato con una malattia genetica. L’obiettivo della professoressa di religione era discutere con i propri studenti dei temi di attualità come l’adozione, l’aborto, la responsabilità dei genitori. Argomenti di cui non si è riusciti a parlare perché lo studente ha aggredito la professoressa sostenendo che nessuno volesse affrontare quei temi in classe. Di fronte al tentativo della professoressa di continuare la sua lezione, lo studente ha iniziato a inveirle contro, spostando sedie e banchi fino all’aggressione con il lancio di una bottiglia e lo sputo. Mentre si cerca di derubricare l’episodio come una semplice alterazione del ragazzo, in realtà si tratta di un’aggressione a sfondo politico da quanto apprendiamo parlando con fonti vicine alla scuola e alla professoressa (di cui non riveliamo il nome per privacy). D’altro canto viviamo l’eredità del Sessantotto che mette in discussione l’autorità dei professori unita alla dittatura del politicamente corretto che impedisce anche solo di affrontare temi come la sacralità della vita, la tutela dei minori e l’aborto. Come spiega Enrico Castagnoli, consigliere comunale a Cesena e docente di religione: “da insegnante sperimento in prima persona come su certi temi oggigiorno persista una narrazione dominante contro la quale non è ammesso il dissenso. Parlare del valore della vita, del dramma dell’aborto o di altre tematiche legate alla famiglia, all’educazione o ai figli porta ad una esposizione coraggiosa ma pericolosa”. Ci auguriamo che lo studente venga bocciato e che, essendo maggiorenne, risponda anche in un tribunale del suo gesto. Oppure se a subire l’aggressione è una professoressa di religione, la violenza è meno grave?

Salvini rivuole i grembiuli a scuola: "Lo faceva anche il Duce? ​Servono ordine e disciplina". Il ministro dell'Interno: "Già so che diranno che lo faceva anche il Duce, ma siamo in democrazia e bisogna riportare ordine e disciplina". Claudio Cartaldo, Sabato 04/05/2019 su Il Giornale. Diranno che "lo faceva anche il Duce", ma a Matteo Salvini non sembra interessare. Dopo l'approvazione alla Camera della legge (proposta dalla Lega) che reintroduce l'educazione civica come materia obbligatoria a scuola, ora il ministro dell'Interno punta a riportare tra i banchi delle elementari anche il famoso grembiule. Quello che in molti hanno indossato (senza poi grandi patemi) e che da qualche tempo non si usa più. "Abbiamo riportato l'educazione civica a scuola come materie di studio obbligatorio - ha detto il vicepremier leghista da San Giuliano Terme (Pisa) - Ora chiederò che venga rimesso anche il grembiulino ai bambini per evitare che ci sia chi viene con le felpe da 700 euro. Già so che diranno che lo faceva anche il Duce, ma siamo in democrazia e bisogna riportare ordine e disciplina". La proposta non è del tutto nuova. È da gennaio che il ministro dell'Interno la porta avanti. Ma ora, chissà, le sue parole su "ordine e disciplina" faranno discutere. In realtà gli ultimi casi di cronaca suggeriscono che forse un po' più di rigore a scuola potrebbe fare bene. Basti pensare al caso di Manduria, dove una baby gang ha preso di mira un pensionato fino a portarlo alla morte. Oppure a quanto successo un anno fa a Lucca, quando alcuni studenti presero di mira (in aula) il professore.

Grembiule, Rodari e la polemica nel 1968. Bussetti: il mio aveva il fiocchetto. Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 da Corriere.it. «Il senso di appartenenza al proprio istituto è una cosa bella che uno si porta dentro. Farlo anche attraverso il grembiule potrebbe essere positivo. Potremmo avviare una riflessione se introdurre sempre il grembiule nel primo ciclo di studi, quindi elementari e medie. Anche nelle superiori? Mi sembra eccessivo». Lo ha detto il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, a «Un Giorno da Pecora». «C’è necessità- ha aggiunto Bussetti- di evitare contrasti rispetto a un abbigliamento che potrebbe creare delle differenze da un punto di vista sociale. Si eviterebbe di mettere in difficolta’ alcune famiglie rispetto ad altre». «Quando andavo a scuola- ha concluso il ministro- il mio grembiule era nero con il colletto bianco e il fiocchetto». Ecco che cosa scriveva nel 1968 lo scrittore Gianni Rodari sul Corrierino dei Piccoli a proposito della polemica «Ho seguito su un grande giornale una piccola polemica. Questa parola deriva dal greco “polemos”, che voleva dire “combattimento”. Ma per fortuna le polemiche giornalistiche si fanno senza bombe atomiche, con la penna o con la macchina per scrivere. Dunque un noto professore di pedagogia (che sarebbe la scienza dell’educazione) si diceva contrario all’obbligo per gli scolari di indossare il grembiulino, col collettino col fiocchettino: la tradizionale uniforme dentro al quale i bambini dovrebbero sentirsi tutti uguali di fronte al maestro, ma che contrasta con la personalità, lo spirito di indipendenza, la libertà dei bambini. Due madri di famiglia gli rispondevano sottolineando i vantaggi del grembiulino: economia, praticità, igiene, impossibilità (per le bambine specialmente di fare sfoggio di vanità. Voglio entrare anch’io nel “combattimento”. Sono armatissimo, perché ho chiesto l’opinione dei maestri che conoscevo. «Se non ci fosse il grembiulino i bambini poveri avrebbero l’umiliazione di mostrare le loro toppe nei pantaloni ai bambini ricchi, vestiti come figurini». Questo ragionamento non mi convince. La povertà va abolita, non nascosta. Bambini con le toppe nei pantaloni non dovrebbero essercene più, ecco tutto. Un altro maestro mi ha detto: «Il grembiulino aiuta la disciplina. Che cosa ne diresti di un esercito senza divisa, un soldato col maglione rosso, un caporale con il gilè a fiorellini?». Nemmeno questo ragionamento mi convince: la scuola non è una caserma. E sulla disciplina bisogna intendersi bene: secondo me una classe non è veramente disciplinata quando ascolta immobile e impassibile le spiegazioni del maestro, pena un brutto voto in condotta, ma quando sta facendo una cosa interessante, così interessante che a nessuno viene in mente di guardare dalla finestra, o di tirare le trecce alle bambine, o di leggere un fumetto sotto il banco. Un grembiule o magari una bella tuta da lavoro, mi sembra indispensabile se si fa giardinaggio, se si usa la macchina per stampare (molte scuole al usano), se si fanno pitture con grandi pennelli, per non sporcarsi. Cioè. Accetto il grembiule dove e quando è utile e necessario. Come simbolo di uguaglianza, disciplina, eccetera non lo capisco. Il fiocco, poi, dà proprio fastidio. In certe scuole lo fanno portare lungo lungo, largo largo. Prima si vede il fiocco poi il bambino che c’è dietro. Ma forse in quelle scuole li fanno scrivere col fiocco invece che con la penna. Senza offesa per nessuno, ho detto la mia. Se non siete d’accordo non tiratemi le pietre: tiratemi i collettini bianchi, che fanno meno male».

Alle elementari stop alle note sul registro. Salvini: «Telecamere alle superiori». Pubblicato giovedì, 2 maggio 2019 su Corriere.it. Niente più note sul diario da far firmare ai genitori. E nessun bambino potrà più essere sospeso durante gli anni delle elementari. Con un emendamento alla proposta di legge che introduce l’insegnamento dell’educazione civica, la Camera dei Deputati ha soppresso due articoli del regio decreto 1297 del 1928 che riportavano le «punizioni» possibili per i «fanciulli» indisciplinati. D’ora in poi, in caso di problemi di disciplina nella scuola primaria si dovrà procedere convocando i genitori e risolvendo la questione insieme nell’ambito del patto educativo scuola-famiglia, che è già in vigore per le scuole medie e superiori. Ma mentre il Parlamento - la legge dovrà poi passare al Senato una volta approvata dalla Camera - decide di ammorbidire i rapporti in classe tra alunni e maestre, il ministro dell’Interno Matteo Salvini torna a parlare di scuola e dei problemi di disciplina lanciando una proposta molto impegnativa. Secondo quanto riporta il sito Tecnica della Scuola, il 1 maggio a Tivoli, ha spiegato di essere favorevole non solo al ritorno del grembiule in classe 8suo cavallo di battaglia da tempo) ma anche all’introduzione delle telecamere in classe, non solo negli asili, ma «pure nelle scuole dei gradi superiori, in questo caso per difendere i professori da alunni e genitori imbecilli». Una proposta che per ora non è in alcun progetto di legge e assomiglia di più ad uno slogan elettorale che ad un provvedimento: nei termini illustrati dal vicepremier, è anche incostituzionale, perché le telecamere possono essere previste soltanto «per casi di stretta indispensabilità».

Scuola, abolito Regio decreto del 1928 sulle note sul registro e le sanzioni disciplinari per i bambini delle elementari. Un emendamento nella riforma sull'educazione civica passata alla Camera cancella le punizioni previste da un Regio decreto del 1928. Il Miur: "Sanzioni allineate alla normativa sulla secondaria". Soddisfatti i presidi: "Norme anacronistiche, l'educazione deve basarsi sulla comprensione". Ma c'è chi attacca: "Quali strumenti contro la nuova emergenza bullismo sin dai 9-10 anni?" Ilaria Venturi il 2 maggio 2019 su La Repubblica. Via le sanzioni disciplinari, dalla nota sul registro all'espulsione, nella scuola primaria. Almeno quelle previste da un Regio decreto del 1928. Si tratta di una novità che è passata in un emendamento, proposto dalla Commissione e approvato alla Camera, sulla riforma dell’insegnamento alla convivenza civile. Punizioni, in realtà, già molto rare tra i banchi degli alunni delle elementari, che fanno riferimento ad alcuni articoli, appunto, di un Regio decreto: quelli che ora sono stati abrogati. E non senza polemica perché si è riaperto il dibattito: giusto o no abolire le punizioni in classe nella fascia d'età tra i 6 e i 10 anni? Il Miur frena: "Viene solo operato un allineamento normativo in tutti gli ordini di scuola, con il conseguente superamento di alcune norme del passato". Le sanzioni restano, ma all'interno di un quadro normativo aggiornato. I presidi non hanno dubbi rispetto all'emendamento: bene abolire le sanzioni previste in una norma obsoleta, conta l'intervento educativo. Vittorio Lodolo D'Oria, esperto in burnout degli insegnanti, al contrario, è durissimo: "Questa è la deriva, stiamo levando tutti gli strumenti educativi, anche le sanzioni. Ora sappiamo cosa non si deve fare con i bambini, ma non come comportarci con loro".  

Spiega il Miur: "L'articolo 8 del disegno di legge - relativo ai rapporti tra scuola e famiglia - non fa altro che estendere anche alla scuola primaria, infatti, il Patto educativo di corresponsabilità che già oggi disciplina, in maniera dettagliata e condivisa, i diritti e doveri degli studenti delle scuole secondarie nei confronti delle istituzioni scolastiche, comprese le relative sanzioni". L'emendamento approvato abroga gli articoli dal 412 al 414 del Regio Decreto 26 aprile 1928, n. 1297, ancora in vigore per le elementari. Nel Regio Decreto si fa riferimento a mezzi disciplinari "verso gli alunni che manchino ai loro doveri" da "usare, secondo la gravità delle mancanze": l'ammonizione, la nota sul registro con comunicazione scritta ai genitori, la sospensione (da uno a dieci giorni di lezione), l'esclusione dagli scrutini o dagli esami della prima sessione, l'espulsione dalla scuola con perdita dell’anno. Inoltre, viene "vietata qualsiasi forma di punizione diversa" da quelle indicate nell'articolo 412. Il senso dell'emendamento è quello di puntare a "rafforzare la collaborazione con le famiglie", estendendo alla scuola primaria il Patto educativo di corresponsabilità valido, al momento, solo per le scuole medie e superiori. Su come sarà fatto questo passaggio per i bambini della primaria si rimanda ai regolamenti di Istituto e ad altre norme. Lo Statuto degli studenti e delle studentesse, introdotto nel 1998 dal ministro Berlinguer (modificato successivamente dal ministro Fioroni), prevede che nei regolamenti siano stabilite le sanzioni. Ma non si parla più di punizioni, un concetto sostituito da interventi educativi. "Si è sanata una situazione che era fuori dalla regolamentazione che c'è stata da Berlinguer in poi per la scuola secondaria", osserva Roberta Fanfarillo, responsabile dei dirigenti scolastici della Flc-Cgil. Antonello Giannelli, presidente dell'Anp, parla di una norma che nei fatti (anche attraverso le indicazioni di circolari successive) era già inapplicabile. "Plaudo comunque alla decisione della Commissione, si tratta di un atto di civiltà, altro che buonismo: ma come si può pensare che sia giusta l'espulsione o la sospensione da scuola di bambini di 6-9 anni? Occorre piuttosto fare leva di più sul coinvolgimento delle famiglie". "Dal punto di vista educativo è più che condivisibile: non si puniscono i bambini - commenta Filomena Massaro, preside di due istituti comprensivi a Bologna da oltre mille alunni alla primaria - Poi è vero che ci sono emergenze educative che si stanno anticipando nella fascia 9-10 anni. Ma qui occorrono interventi, anche specialistici, di diverso tipo". Per Mario Rusconi dell'Anp del Lazio, si tratta di "forme di sanzioni anacronistiche". "Quel provvedimento prevedeva una cosa fuori del tempo ed è stato abrogato anche perchè era così già nei fatti. In età così precoce - spiega - dobbiamo basarci sul convincimento, sulle caratteristiche psicologiche delle bambini. Senza abbassare la guardia rispetto a fenomeni di bullismo che si verificano già in quarta, quinta elementare". Intanto il disegno di legge che introduce l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole oggi pomeriggio ha ottenuto l'ok della Camera. Non senza scontro politico. "Tanto felice perché oggi il Parlamento approva l'educazione civica obbligatoria nelle scuole. Promessa mantenuta!" commenta in un breve video postato dall'aereo che lo ha portato a Budapest, il ministro dell'Interno, Matteo Salvini. "Deve smetterla di raccontare bugie agli italiani, perché la proposta sull'introduzione dell'insegnamento di educazione civica, di cui si vanta, è cosa assai diversa da ciò che aveva promesso - attacca la senatrice del Pd Simona Malpezzi, componente della commissione Istruzione -  Il leader della Lega, infatti, si era impegnato, dichiarando che da settembre ci sarebbe stata la materia ad hoc (più di 30 ore obbligatorie), con docenti appositamente formati. Ma non sarà così. Non ci sarà nessuna ora e docente in più e neppure un euro aggiuntivo stanziato". I voti a favore sono stati 451, nessuno contrario, 3 gli astenuti. Il provvedimento passa ora all'esame del Senato. L'educazione civica, si legge nel testo del provvedimento che prescrive almeno 33 ore di studio della nuova materia, "sviluppa la conoscenza e la comprensione delle strutture e dei profili sociali, economici, giuridici, civici e ambientali della società. Iniziative di sensibilizzazione alla cittadinanza responsabile sono avviate dalla scuola d'infanzia". Il provvedimento "è un primo passo avanti" afferma il presidente della Commissione Istruzione e Cultura della Camera Luigi Gallo (M5S). "Mentre prima c'erano solo indicazioni su Cittadinanza e costituzione e non c'era l'obbligo delle 33 ore, nè la necessità del voto, ora ci sarà un impegno su tutta questa materia. Volevamo un'ora in più affidata ai docenti di Diritto ed Economia, ma volendo dare un segnale già da settembre, si è scelto di accelerare la proposta di legge". Sulla cancellazione delle norme del Regio decreto Gallo commenta: "E' un segno di civiltà, stiamo parlando di bambini: il rapporto educativo in questa fascia di età deve fondarsi sulla fiducia e sulla collaborazione". E ancora: "Il problema che vive il mondo della scuola rispetto al bullismo o alla violenza verso il corpo insegnante va affrontato con altre misure. Servono misure per le assunzioni di personale nelle politiche sociali e presidi di legalità sul territorio. Altrimenti, con misure come quella abrogata, ci illudiamo di avere uno strumento che poi, nella realtà, è inefficace".

Degni di nota. Pubblicato venerdì, 03 maggio 2019 da Massimo Gramellini su Corriere.it. La Camera ha messo fuorilegge le note e le altre sanzioni comminate dagli insegnanti ai bambini delle elementari, relitto di un regio decreto del 1928. Ci mancheranno? Alcune facevano molto ridere. Le hanno persino raccolte in un sito. «L’alunna ha offeso ossessivamente la compagna Sabatino Domenica, chiamandola Weekend». «Alla domanda — perché non hai fatto i compiti? — l’alunno rispondeva: “C’ho una vita da vivere”». A me sono state utili: ho imparato a imitare la firma di mio padre, ma soprattutto ad affrontare la sua ira funesta, appena la maestra, accortasi dell’inganno, mi inflisse una seconda nota più minacciosa della prima. Ma il mio era un padre all’antica. Uno di adesso si arrabbierebbe con la maestra per avere osato attentare alla sensibilità dell’erede e al prestigio della dinastia. C’è chi considera la decisione di abolire le note un soprassalto di buonismo montessoriano. Io invece azzardo l’ipotesi che sia stata presa per proteggere gli insegnanti dalle contronote dei genitori. Le cronache narrano di povere maestre di paese costrette ad andare in giro mascherate per non incorrere nel digrignar di denti dei parenti di qualche bulletto a cui avevano osato fare un’osservazione. E non è che le loro colleghe metropolitane se la passino molto meglio. La morale corrente considera l’insegnante che sanziona la marachella di un bambino alla stregua di un provocatore e i genitori del simpatico teppista dei nobili paladini. Forse le note andrebbero fatte direttamente a loro.

·         Le note ai genitori violenti.

Taranto, genitori picchiano e lanciano sedia contro maestra: «Atto ignobile». La solidarietà dei familiari degli alunni della donna. La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Dicembre 2019. Ha provocato sconcerto e indignazione l’aggressione a una maestra di scuola dell’infanzia avvenuta mercoledì scorso nel plesso di un istituto comprensivo di Taranto, notizia che la Gazzetta è stata in grado di rivelare. Due donne (tra cui la mamma di un alunno) e un uomo sono entrati in classe all’orario di uscita pomeridiano e si sono scagliati contro l’insegnante, che sarebbe stata strattonata, malmenata e colpita anche al capo con una sedia secondo le testimonianze ora al vaglio della Polizia. La malcapitata si è poi recata in ospedale per farsi medicare le ferite, giudicate guaribili in 10 giorni dai medici del pronto soccorso. Ma oltre alla violenza fisica c’è da considerare lo choc subito dalla maestra, che ha ricevuto la solidarietà da parte di tutti gli altri genitori degli alunni, i quali parlano di «atto disgustoso» e «difendono con fermezza» l’operato dell’insegnante e dell’istituzione scolastica. La scuola, aggiungono, «è il luogo per eccellenza dove i genitori affidano il proprio bene più prezioso, i propri figli, i cittadini di domani. La tenera età dei bambini e il valore dell’educazione necessitano un costante dialogo tra genitori e scuola, dove molto spesso è difficile operare, lavorare, comunicare: arrivare ad usare violenza nei confronti di una maestra è un atto scellerato, ingiustificabile, infame, soprattutto se perpetrato davanti a innocenti bambini di 5 anni». Gli autori dell’aggressione, a quanto si apprende, si sarebbero scagliati contro la maestra, sostenendo che la stessa avrebbe «trattato male» l’alunno. Testimoni hanno riferito che le conseguenze per la docente aggredita potevano essere anche peggiori se non fosse intervenuta in suo soccorso l’insegnante di sostegno. Anche le altre colleghe di istituto ora temono per la loro incolumità. Le maestre, intanto, hanno deciso di annullare le recite di Natale. I genitori dei bambini del plesso in cui è avvenuta l’aggressione adesso auspicano provvedimenti da parte della dirigente scolastica, che sostengono «in tutte le azioni necessarie che – affermano in un documento – dovrà e vorrà intraprendere nei confronti dei responsabili di questo ignobile gesto, per il bene dei nostri bambini, per rispetto al lavoro quotidiano di tutto il personale scolastico, per il buon nome della scuola. I genitori dei bambini della maestra aggredita sono con lei. Auguriamo alla maestra dei nostri figli una pronta guarigione e di rientrare al più presto al suo posto di lavoro. La violenza – concludono - non deve avere la meglio». 

Benevento, maestra aggredita con calci e pugni dalla madre di un’alunna. La donna è stata bloccata da altri insegnanti, giunti in soccorso della collega, che è stata trasferita successivamente in ospedale. Ignazio Riccio, Mercoledì 04/12/2019, su Il Giornale. È finita in ospedale dopo essere stata aggredita a calci e pugni dalla madre di una sua alunna. L’episodio è accaduto all’interno dell’istituto scolastico “San Filippo Neri” di Benevento, dove ad avere la peggio è stata una maestra della scuola elementare. Non si conoscono ancora i motivi del gesto violento, anche se dalle prime testimonianze il diverbio sarebbe nato per futili motivi. La donna si era recata al “ San Filippo Neri” per prelevare la figlia prima del termine dell’orario scolastico e l’insegnante si sarebbe opposta. Da questo rifiuto sembra sia scaturita la lite. Urla e insulti da parte della madre dell’alunna, la quale, di fronte alla resistenza della maestra, ha cominciato a picchiarla con pugni e calci alla schiena. La donna è stata bloccata da altri insegnanti, giunti in soccorso della collega, che è stata trasferita successivamente in ospedale. Sul posto sono intervenuti gli agenti della polizia, i quali stanno indagando sull’accaduto. Un anno fa un episodio simile è accaduto in un’altra scuola del Casertano, l'istituto comprensivo Edmondo De Amicis di Succivo. In quel caso, un'insegnante di 35 anni è stata picchiata dalla madre di una bambina di 4 anni. La docente è stata aggredita per aver osato correggere un esercizio di ortografia alla piccola alunna Andato a scuola a prendere la figlia, il padre ha trovato la bimba in lacrime proprio a causa delle correzioni subite. L'uomo è quindi andato dalla maestra deciso a coprirla di insulti. Una volta tornato a casa ha poi raccontato l'accaduto alla moglie, che dalle parole è passata ai fatti. La mamma della bambina è infatti tornata a scuola e, trovata la docente, l'ha spinta più volte contro le pareti dell'aula, facendole sbattere la testa. Il fenomeno delle maestre picchiate si sta ampliando sempre più: bambini piccoli e piccolissimi che non sanno riconoscere e controllare la rabbia, l’esagerata reazione a frustrazioni anche minime, che non riescono ad accettare la vicinanza di coetanei con i quali almeno condurre una vita parallela se non di collaborazione, che non tollerano regole pur elementari di convivenza o di gioco, tendono a scappare (dall’aula, dall’edificio scolastico), si ribellano a richieste pur legittime da parte degli adulti, siano insegnanti siano collaboratori scolastici e persino dirigenti scolastici, disconoscendone ogni autorità ed autorevolezza. E genitori che considerano la violenza quale soluzione di controversie e problemi scolastici. Il fenomeno si sta aggravando negli ultimi tempi e andrebbe affrontato in maniera concreta e strutturale.

Valentina Dardari per Il Giornale il 20 settembre 2019. Una lite tra bambini si è trasformata in violenza pura per l'intervento di una madre 31enne. La donna avrebbe incitato il proprio figlio a picchiare due alunni che erano appena stati aggrediti dall'undicenne. Inoltre avrebbe lei stessa minacciato di uccidere l'intera famiglia dei ragazzini. Alla fine è stata denunciata. Come raccontato da Padovaoggi, il fatto sarebbe avvenuto all'interno di una scuola di Padova. Tutto avrebbe avuto inizio verso le 8 di martedì 17 settembre, quando gli studenti di una scuola media di Padova stavano entrando nell'istituto per iniziare le lezioni. Il figlio undicenne della donna , che frequenta la prima media, avrebbe perso un braccialetto dorato, ritrovato poco dopo da due bambini che, non riuscendo a ritrovare il legittimo proprietario, lo hanno portato in aula. Quando la preside è entrata in classe chiedendo se qualcuno lo avesse trovato, i ragazzini lo hanno subito reso. All'uscita della scuola però, invece di ringraziare i compagni di istituto, il bambino che aveva perso il braccialetto ha invece aggredito i due dodicenni, con calci e pugni al viso. Sua madre, poco lontana, avrebbe incitato il proprio figlio, oltre a minacciare i bambini e i loro genitori: "Picchiali ancora" e "Veniamo a casa vostra e vi uccidiamo tutta la famiglia", avrebbe urlato ai ragazzini impauriti. Come logico i due alunni, una volta rientrati a casa, hanno raccontato in famiglia quanto avvenuto poche ore prima. Subito i loro parenti si sono recati dai carabinieri per segnalare la 31enne. I militari hanno svolto le indagini e hanno poi denunciato la donna per istigazione a delinquere e minacce. In seguito a questo triste episodio la preside ha chiesto ai carabinieri di svolgere alcune lezioni nella propria scuola contro il bullismo.

Dopo la lite su Fb, rissa tra mamme  a colpi di mestolo vicino a scuola. Pubblicato lunedì, 23 settembre 2019 da Antonio Mariozzi su Corriere.it. Hanno accompagnato i figli a scuola e subito dopo si sono affrontate in una violenta lite finita a colpi di mestolo. E’ successo nel quartiere San Valentino a Cisterna di Latina, dove tre donne si sono rese protagonista di una baruffa che ha portato all’intervento della polizia. A scatenare il litigio sarebbe stato un forte «contrasto», in atto su Facebook, tra due delle tre mamme culminato con accuse e minacce reciproche. Qualche giorno fa, dopo aver accompagnato il figlio a scuola, una di loro, come ricostruito degli agenti del commissariato di Cisterna, ha così tentato d’investire con la propria auto la «rivale», che non si è però lasciata per nulla intimorire: ha preso un mestolo da cucina, che aveva portato con sé, e l’ha affrontata con decisione, sostenuta anche dalla sorella. In realtà è stata proprio quest’ultima ad essere investita dalla vettura, che le ha schiacciato un piede costringendola a ricorrere alle cure mediche con prognosi di venti giorni. E ciò ha fatto scattare una denuncia in commissariato. La mamma che era alla guida dell’auto, a questo punto, è stata convocata in commissariato, dove i poliziotti le hanno notificato un avviso orale emesso dal questore di Latina. Un provvedimento scaturito anche sulla base dei suoi precedenti comportamenti, che avevano portato la polizia a segnalarne la pericolosità sociale.

Gino Paoli compie 85 anni: una vita di canzoni che partirono da Billie Holiday e tornano piano al jazz. Pubblicato lunedì, 23 settembre 2019 da Giulia Cavaliere su Corriere.it. Gino Paoli nasce nell’ora dello spleen per eccellenza: il tardo pomeriggio – per precisione gli annali riportano le 17.20 – di una domenica di quasi autunno: siamo a fine settembre, precisamente in questa giornata, cioè il giorno 23 di 85 anni fa. Come in un buffo gioco del destino, fuor di maledettismi in aria francese, e fatto per strapparci un sorriso, il piccolo Gino da Monfalcone, figlio della Rina e dell’Aldo Paoli che di mestiere è uomo con mente di mare (ingegnere navale), viene dato alla luce esattamente ventiquattro ore dopo la nascita di una bambina milanese di nome Ornella Vanoni. In casa di Ornella, dopo averla conosciuta nelle stanze della casa discografica Ricordi tra una conversazione e un’altra nel 1960 e aver vissuto quello che lei ha sempre definito come un colpo di fulmine, Gino s’infilerà segretamente parecchie volte, una volta per una notte intera dimenticando, come racconta lui stesso, Adriano Aragozzini (suo manager) ad attenderlo in automobile fino all'alba. Prima dei fasti erotici, del divertimento, della più statuaria presa e fondazione della canzone classica italiana, però, Gino Paoli è circondato dal mondo della guerra, vive a Pegli, ai confini di Genova e nel ’44-’45, con la casa circondata dai carri armati di un conflitto che volge finalmente al termine, con la città presa dai partigiani, aspetta l’arrivo degli alleati e con loro quello di un mondo nuovo. Ad ascoltare gran parte delle evoluzioni contemporanee dell’opera di Paoli si può tornare agilmente a quei giorni, dove la fondazione artistica del nostro cantautore popolare numero uno (preceduto appena da Bindi che popolare purtroppo non fu mai e da Tenco, che ancora non lo è a sufficienza, in quanto lontano lontano dal regno dei juke-box) nasce sotto le stelle dei 78 giri americani, i V Disc, victory disc, riposti negli zaini dei soldati, per cui erano stati esplicitamente concepiti (quattro canzoni a disco) tra un po' di cioccolata e i chewingum - che Gino non aveva mai assaggiato prima. C'è la prima alba che porterà al rock'n'roll in quei dischi, che lui e il fratello di Fabrizio De André ricevono come rubata eredità felice dal momento storico più infelice del Novecento. Il rock'n'roll che sta per nascere, sì, ma soprattutto il jazz, tanto tanto jazz. In questo senso il lavoro di Paoli assume una certa imprevista circolarità, quel suo ritorno al jazz degli ultimi anni è una sorta di cerchio che si chiude, per uno che alla storia è passato come la voce italiana di un certo esistenzialismo francese - non a caso parlammo di spleen -, l'indossatore nazionale per eccellenza di dolcevita neri, già invecchiato nel viso prima di esser vecchio, figlio della chanson e delle sue malinconie amorose, è in realtà figlio delle pacate tristezze viscerali del jazz americano, quelle di Nat King Cole ma soprattutto, dirà sempre lui, quelle della sua dea: Billie Holiday, a cui nel disco Il mio mestiere, doppio album del 1977, dedica anche un brano: Signora Giorno (Lady Day, appunto). E il jazz è la forma prima di imprinting musicale di Gino, che apre a un interessante percorso di destrutturazione e incontri sonori lungo un arco lungo come il viaggio di una vita: dopo essersi dedicato al jazz da ascoltatore, da autore si occupa di rivoluzionare, insieme ai suoi compagni di avventura genovesi e poi non solo, la forma del testo unito alla musica, fondando a tutti gli effetti una nuova tipologia di canzone italiana (ancora rincorsa dai cantautori contemporanei). La sua, però, se osserviamo il percorso dall'alto e nella sua interezza, è una lenta svolta alle origini che dagli anni '70, in congiunzione proprio con la forma canzone, lo riporta lentamente e costantemente al jazz, per finire nel 2018 proprio nella totale destrutturazione di “Appunti di un lungo viaggio”, che come racconta il titolo sembra la crasi della scomposizione del mondo-canzone e insieme del mondo-jazz. Il tutto di fronte agli occhi di una nazione che fa fatica a pensare a questi autori come artisti del presente e che invece costruiscono costellazioni dalla prima all'ultima forma di corpo celeste sonoro.

 “MAMME IN MINIGONNA E CALZE A RETE E POI SI LAMENTANO SE LE FIGLIE VENGONO BULLIZZATE”. Paolo G.Brera per la Repubblica il 4 settembre 2019. Sono schiaffoni a mani aperte, altro che «un breve saluto». «Cari genitori», scrive nella lettera di commiato «al termine di cinque anni di incarico» la preside della Tullia Zevi, una scuola elementare e media di Casalpalocco, periferia romana. E giù accuse alle mamme e alle insegnanti, che si presentano a scuola «in minigonna e calze a rete»; e pure ai papà, che «si azzannano con turpiloquio e minacce» sulle chat. Sono stati cinque anni di rapporti ostili e carte bollate, ma quando finalmente arriva il trasferimento la professoressa Eugenia Rigano non si limita a tirare un sospiro di sollievo: prende carta e penna, e via i sassoloni aguzzi dalle scarpe. «Molti nemici, molto onore», chiosa con un' espressione da ventennio lasciando i genitori a commentare, allibiti e infuriati, sui social network. «I simpatici promotori di chat di classe che appena costituito il gruppo cominciano ad azzannarsi tra loro, perché si lamentano quando tra i figli si producono episodi di violenza e bullismo?», domanda nella lettera. E «le signore âgée che, divorate dal demonio meridiano, e non avendo mai trovato miglior palcoscenico, esordiscono cercando visibilità negli organi collegiali in minigonna e calze a rete, perché si lamentano poi se le figlie, non proprio silfidi, vengono sbeffeggiate dai compagni di classe? Non sono loro che hanno puntato sull' apparenza?». Non sono stati anni facili, per la preside Rigano. Prima il caso del bimbo disabile parcheggiato in carrozzina in un' aula sgabuzzino; poi le liti furibonde che rendono impossibile approvare il bilancio; infine, a giugno, le porte sbarrate all' esame di terza media, sincrono in tutta Italia ma rinviato al pomeriggio alla Zevi. La preside va giù pesante: «Un dirigente troppo amato da docenti e genitori ha lasciato riposare tutti nelle loro cattive abitudini». E «io vi testimonio con orgoglio quali doni ho ricevuto in questi cinque anni: decine di lettere minatorie, il taglio di tre copertoni e una capillare attività diffamatoria ». La scuola «come la caserma, il convento, o il carcere, trae efficacia da un sistema di regole». E «sarebbe bene si fondasse anche su competenze professionali e relazionali. Se un genitore venditore di wc volesse entrare nella governance a scuola sarebbe encomiabile quando volesse esprimersi sulla ergonomicità dei gabinetti, ma se pretendesse di formulare regolamenti interni cosa potrebbe produrre?». «Triste che la signora si esprima su questioni relazionali quando è la prima a non saperle gestire» replica una mamma sui social: «Genitori troppo partecipi? Il plesso Palocco 84 è abbandonato a se stesso, se non ci fossero stati genitori armati di buona volontà i bambini avrebbero sguazzato nell' incuria». «Una lettera davvero spiacevole», «è ora di cambiare pagina », convengono altri genitori. Ma la preside è decisa e rivendica tutto: «Voi giornalisti che mi tormentate - dice - siete l' ultima delle molestie: non sono banali rancori personali, vi rimando ai carabinieri dove sono depositate le mie denunce ». Minigonne e calze a rete? «Si procuri l' annuario della scuola e le vedrà». E i papà violenti? «Lo sono anche a casa loro; picchiano la moglie... Il lavoro del dirigente scolastico è veramente ingrato, ci sono centinaia di situazioni di rischio da arginare. A volte drammatiche». Le mancano due anni alla pensione: li trascorrerà dirigendo un istituto superiore ad Acilia.

Le minacce dei genitori spesso minano la dignità della scuola. Una professoressa scrittrice racconta se stessa, l'importanza della bocciatura e la prepotenza dei familiari degli studenti. Così l'insegnamento diventa specchio del Paese. Lara Cardella il 22 novembre 2019. Eduscopio pubblica la classifica delle migliori scuole d’Italia secondo i suoi parametri e il suo direttore mette in dubbio la necessità di essere severi e, quindi, bocciare. Qui, la testimonianza di chi crede che bocciare sia talvolta un dovere, anche morale, per non lasciare la scuola in mano ai “tuttapposto”, “qual’è “, “pultroppo” , “avvolte” e varie altre quotidiane atrocità.

Ero una docente precaria, capitai in una classe in cui non conoscevo gli studenti, come sempre. E, come sempre, mi legai a ognuno di loro, secondo il mio modo di intendere la scuola: il posto dove s’insegna a diventare cittadini responsabili e maturi, dove si regala sapere e desiderio di conoscenza, rispettando sempre l’altro, non la sua veste. Non ero stata sempre rispettata da studentessa, non l’ho mai dimenticato e, proprio per questo, ho deciso di cambiare parte di quell’istituzione non permettendo che i ragazzi subissero ciò che avevo dovuto sopportare io. Per questo motivo ho deciso di smettere di pubblicare (non di scrivere), di girare trasmissioni: rifiuto ogni proposta, non presenzio da nessuna parte; sono una docente e basta. In questa classe, non diversamente da tutte quelle in cui avevo insegnato, il livello di conoscenza della grammatica era bassissimo e, pur essendo in un Istituto superiore di secondo grado, gli errori di ortografia innumerevoli. Evitando lo scaricabarile che serve solo a non agire, chiarii con alunni e famiglie che avrei ricominciato dall’inizio, con la coniugazione dei verbi regolari, l’analisi grammaticale, l’ortografia, appunto, non nascondendo che ci sarebbe stato molto da faticare, ma dando il mio sostegno continuo e individuale a tutti gli studenti: significò essere presente su una piattaforma, pronta a rispiegare tutto a ognuno in forma privata, per sei ore al giorno circa; mi stancavo, ma vedevo i progressi e andavo avanti, felice della gioia dei miei ragazzi che iniziarono quasi subito a vedere i risultati.

Certo, qualcuno si rifiutò di impegnarsi come gli altri: non voleva saperne di studiare participi e gerundi, del predicato nominale gli importava quanto (ma anche meno) della vita in cattività dell’orso siberiano. Tra questi, c’era Angelo: frequentava le lezioni alternando l’interesse per il proprio ciuffo a quello per tutto ciò che accadeva oltre la finestra, parlava con chiunque (e deve averci provato anche con i termosifoni), riprendeva vita solo durante l’intervallo quando poteva usare il cellulare, conversare anche con studenti di altre classi, ridere di niente. Tutto questo non riusciva a rendermelo antipatico: ero sinceramente preoccupata e dispiaciuta per lui, il legame che ho con i miei studenti mi impedisce di considerare correlati il loro rendimento scolastico e l’affetto che ho per loro. Giungemmo ai Consigli di classe e seppi qualcosa di più non appena parlai della sua situazione: il ragazzo si era sempre salvato da bocciature ineluttabili grazie all’intervento invadente (e persuasivo, evidentemente) della famiglia in extremis e anche quell’anno si avviava verso le modalità note. Parlai con lui e mi stupì: decise di collaborare, di metterci tutto sé stesso per rimediare a danni che non erano effettivamente da addebitare solo a lui, provò a migliorare la sua conoscenza dell’italiano, concludemmo il trimestre con esiti che fecero bene a me e a lui. Ma, a distanza di un mese o poco più, Angelo ritornò come prima e fece perfino in tempo a dimenticare tutto quello che aveva studiato: a nulla servirono le mie lettere, i miei appelli a lui e ai compagni perché lo sollecitassero; i voti sul registro non potevano che testimoniare i dati di fatto e incontrai la famiglia.

Il primo colloquio fu strano: parlavo delle carenze del ragazzo, ma registravo dall’altra parte l’impressione che la famiglia non desse alcuna rilevanza alla conoscenza dell’Italiano; ci lasciammo, comunque, con la promessa che avrebbero seguito Angelo in modo che recuperasse. Non avvenne e, mentre la classe proseguiva il suo cammino, ormai erano così tante le lezioni perse tra uno sbadiglio e l’altro che recuperare diventava impresa titanica per quel ragazzo che non frequentava più neanche i corsi di recupero. E tornarono i genitori, stavolta allarmati: rispiegai tutta la situazione, nonostante, in ogni mio voto, aggiungessi da sempre tutte le motivazioni e chiedessi un intervento della famiglia; era aprile, se avesse provato seriamente a studiare e fosse stato attento in classe, sì, sarebbe riuscito a farcela, ero lì a non aspettare altro, che imparasse. Ma Angelo si limitò a saper coniugare più o meno correttamente un paio di verbi, a studiare qualche complemento, continuando a distrarsi in classe, a non prendere mai la mano che gli avevo offerta e restava lì, tesa, ad aspettare lui; il rendimento era calato decisamente anche in Storia, intanto, e non si decideva a far qualcosa per aiutarmi ad aiutarlo.

Arrivato maggio, la famiglia si ripresentò e stavolta le cose andarono molto diversamente: quel ragazzo, sì, si era finalmente deciso a fare qualcosa, ma la fine della scuola era ormai prossima, non sarebbe stato più intelligente pensare almeno a impegnarsi in Storia dove la situazione non era così tragica? Ogni mia parola veniva fraintesa: stavo, quindi, dicendo, che non doveva più studiare l’italiano? Con un paragone Dio solo sa quanto fuori luogo, specie se detto a me, venni paragonata a chi vede una persona affogare e gli dà un colpo di remo in testa. Fui insultata, venne messo in dubbio il mio modo di insegnare, le grida si sentivano fuori da quell’aula e vedevo gente che guardava allibita questo agitarsi di mani davanti alla figura anche abbastanza minuta di una docente che chiedeva dignità per la sua materia prima ancora che per la sua persona, in maniera pacata. Fino all’intollerabile. «Io la avverto! Stia attenta a quello che potrà capitarle se boccia mio figlio!». Diventai di pietra; seduta al mio posto, dissi: «Questa è una minaccia a pubblico ufficiale, perseguibile per legge. Il colloquio è finito, fuori». Continuarono a inveire, ripetei «Fuori!» e andarono finalmente via. La decisione di non denunciare l’episodio fu frutto di una riflessione essenzialmente basata su un solo fattore: non avevo testimoni. Chi aveva assistito era troppo distante per udire quelle parole, pronunciate con un tono di voce stranamente basso, in mezzo a tutte quelle urla. Feci presente, naturalmente, l’accaduto ai colleghi e alla Dirigente scolastica: i primi non si mostrarono particolarmente stupiti, avevano subito anch’essi minacce e, a parole, giurarono che mai si sarebbero lasciati intimidire o comprare; alla seconda, invece, dissi che non avrei mai più accettato di incontrarli senza un testimone, e si offrì di fare da intermediaria, qualora ci fossimo rivisti. Mi sentii in un mondo che di scolastico non aveva più nulla; noi insegniamo legalità, rispetto: consentiamo che i soprusi avvengano davanti a noi, sulla nostra pelle? Ebbi modo, comunque, di insegnare ad Angelo che cosa era l’onestà: il ragazzo chiese di essere interrogato in Storia e riuscì a recuperare degnamente, non aveva nessuna colpa per le azioni della sua famiglia; tutte le altre insufficienze si trasformarono, invece, in quel numero che valeva quanto la mia vita, sei, tranne Italiano: l’esame si svolse secondo la traccia che io avevo lasciato e Angelo seppe superarlo brillantemente, studiando per tre mesi la grammatica. Spero che almeno lui abbia compreso quanto vale la dignità di un docente, che non creda che la scuola (come la vita) sia formata solo da gente che abbassa la testa né che i soprusi siano destinati al successo, in terre di mafia come in quelle che si dicono estranee alla mafia.

Una nota divertente: pare che per non essere denunciati, i due abbiano detto che quella frase non era una minaccia, ma un volermi augurare qualcosa di brutto; considerato che ho un cancro, l’augurio a me suona ridicolo. Quasi quanto loro.

Scuola: genitori contro docenti. Il diario di un conflitto. Nei casi più gravi diventano vittime di violenza. Sintomo di una crisi profonda dove è in crisi il "patto educativo". Panorama il 14 giugno 2019. C’è la storia della madre che vendica il figlio di 8 anni aggredendo quella cattiva della maestra. C’è lo studente che placca il padre intento a darle di santa ragione al prof che ha osato rifiutargli la promozione. C’è il caso di Lodi, poche settimane fa, con la madre che avrebbe fatto incursione nella stanza della professoressa e vicepreside (sua figlia era stata sospesa), per poi rincorrerla, prenderla per i capelli, lanciarle una serie di oggetti inclusa una sedia, e infine rifilarle un pugno. E meno male che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, all’inaugurazione dell’anno scolastico che ora stiamo salutando, si era raccomandato: «Il genitore bullo non è meno distruttivo dello studente bullo». Invece la lista di questi brutti episodi si allunga sempre di più. Potremmo raccontarne a decine, a centinaia accaduti in Italia nel tempo, ma in fondo si assomigliano tutti. Nella stagione 2017-2018 qualcuno ha calcolato che ogni quattro giorni si è consumato un caso di violenza a opera di genitori o studenti, e per l’anno in corso il numero di denunce non sarebbe da meno. Tanto che il 5 maggio è stato presentata in commissione Cultura della Camera una proposta di legge (primo firmatario il leghista Rossano Sasso) in cui si prevede che vengano «fortemente inasprite le pene per chiunque usi violenze fisiche e verbali nei confronti degli insegnanti durante l’esercizio delle proprie funzioni».

Quanti sono questi casi? Di statistiche ufficiali non ne esistono - i numeri risiedono nelle cronache delle aggressioni fisiche - ma il fatto è che la violenza è solo la componente più visibile di questa crisi dell’alleanza tra scuola e famiglia. Il grosso non si legge sui giornali ma si consuma nel chiuso dei colloqui individuali, quando si alza la voce contro professori e maestri, oppure riversando rabbia, frustrazioni e proteste sul preside di turno. «In Italia ci sono oltre 8 milioni di studenti e circa 800 mila docenti: 30 o 40 episodi violenti l’anno sono una percentuale irrisoria, ma è ciò che esprimono a preoccupare» riflette Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale dirigenti pubblici e alte professionalità della scuola (Anp), la maggiore associazione di rappresentanza dei circa 8 mila dirigenti scolastici italiani. «Oggi la famiglia non attribuisce autorevolezza alla scuola e difende i figli dai suoi giudizi negativi, cioè dalla minaccia alla loro presunta serenità. Decenni fa se un bambino andava male gli si chiedeva conto del suo comportamento, i genitori di oggi - più ansiosi e iperprotettivi - chiedono conto al corpo docente». E così fioccano lamentele, reclami, ingerenze nei metodi di insegnamento. Niente che finisca in tribunale, beninteso. È un conflitto a bassa intensità, capillare, con piccoli episodi in cui incappare è facilissimo. «Isola deliberatamente mio figlio», la lamentela di un genitore alla preside di una scuola elementare di Milano, zona 3, dopo che l’insegnante lo aveva cambiato di posto. «Per colpa vostra non abbiamo più una vita, in classe non spiegate niente mentre noi dedichiamo ai compiti ogni momento libero» l’accusa di un altro. Il professore di italiano di un liceo scientifico emiliano sospira al telefono ricordando quando si è sentito dire: «Il professore di matematica che c’era lo scorso anno era più capace di lei». «Eh sì che lavoro da vent’anni» commenta sconsolato.

Quantificare il fenomeno è davvero impossibile, anche se il portale degli studenti Skuola.net ci ha provato. In una ricerca del 2018 con un campione di 7 mila ragazzi di medie e superiori, è risultato che per l’8 per cento «uno o più genitori hanno insultato un professore». «Io di violenze non ne ho mai viste ma c’è un sottofondo di critiche e accuse continue a docenti e dirigenti, come la goccia che scava ogni giorno» conferma Raffaele Mantegazza, professore di Pedagogia all’università Milano Bicocca. «Quest’anno ho incontrato 5 mila ragazzi, so cosa accade. Ci sono i cosiddetti “genitori spazzaneve”, che si intromettono nella vita dei figli - spesso sono figli unici - per sgombrare la strada dai conflitti e risolverli al posto loro. Persone che si lamentano del metodo di studio del professore di inglese anche se fanno i farmacisti o i ragionieri. Ma come? Lasciamo che nostro figlio si formi per ore guardando stupidaggini su internet e poi ce la prendiamo con gli insegnanti?». «Quando i figli si lamentano di qualcosa che accade in classe, come un rimprovero o una nota» racconta Elena Centemero, preside dei 1.450 studenti dell’Istituto comprensivo di Villasanta, vicino a Monza (due scuole d’infanzia, due primarie e una media), «i padri li spalleggiano. Non li riprendono. Non li accompagnano. E danno addosso al corpo docente, sostenendo che ce l’hanno con loro. Il genitore vuole conquistare il figlio, magari perché nella maggior parte dei casi i coniugi sono separati. Ma è una trappola che crea adulti incapaci di affrontare le difficoltà, le situazioni, la vita. Ci sono anche genitori in gamba, ma per lo più sono “figli con figli”, molto immaturi. Nei casi di comportamenti più gravi? Non si può più lasciar correre, l’Italia non può essere il Paese del buonismo. Ben venga l’inasprimento delle pene». «Una volta c’era un altro rispetto per l’istituzione scolastica, c’era più disciplina» commenta Anna Oliverio Ferraris, psicologa dell’età evolutiva alla Sapienza di Roma e autrice di un libro che affrontava questo problema già nel 2014, Conta su di me. Relazioni per crescere (Giunti). Oggi capita che i genitori riversino sui figli e dunque sulla scuola frustrazioni e nevrosi, per questo sarebbe necessario istituire la figura dello psicologo scolastico». Il tema della psiche, delle nevrosi, dello stress (e delle reazioni anche più disperate, come si è visto nel caso del preside di Venezia morto suicida), è molto presente in questo scenario. Vittorio Lodolo D’Oria, esperto in malattie professionali dei docenti e autore di Insegnanti, salute negate e verità nascoste - 100 storie di burnout in cattedra (Edises), se ne occupa da 27 anni. «È dimostrato che l’80 per cento delle diagnosi che determinano l’inidoneità all’insegnamento per motivi di salute sono di tipo psichiatrico. Di cui un 90 per cento abbondante di tipo ansioso depressivo e 8 per cento a base psicotica o disturbo di personalità. Vanno di pari passo alla situazione mondiale. I francesi nel 2005 hanno dimostrato che gli insegnanti sono la categoria di lavoratori a maggior rischio di suicidio. Nel 2009 l’hanno dimostrato in Inghilterra. Nel 2015 in Germania. L’Italia questi dati non li ha ancora aggregati nonostante le richieste».

Ma al di là dei casi estremi, c’è la quotidianità, e i genitori... «Con un’aggressione verbale il docente arriva a subire la cosiddetta “sindrome post-traumatica da stress”. Inizia ad avere paura, è teso, sta male, si destabilizza». E se si sente abbandonato anche dal suo stesso preside, capita che decida di mollare tutto. Come ha fatto un’insegnante di diritto (ha chiesto di restare anonima), che pressata dalle «intemperanze» dei genitori degli alunni e sanzionata dalla dirigente scolastica, ha preferito licenziarsi e rinunciare alla supplenza annuale. «Parlavo in classe dell’illegalità e degli adolescenti condizionabili per l’uso delle droghe. Un’alunna si è lamentata col genitore perché ci ha letto un’accusa personale e anziché chiarirsi con me è andata dalla dirigente. La quale mi ha mandato una lettera di richiamo senza neanche sentire la mia versione. Non sa quanto mi sono sentita sola. La verità è che purtroppo oggi gli insegnanti non contano più: la scuola è in mano ai genitori». E allora l’abbiamo raccolta, la testimonianza di uno dei genitori che «hanno in mano la scuola». E. D., milanese, 45 anni e un’unica bambina, racconta come ha convinto la maestra di italiano a cambiare idea su sua figlia nel giro di un colloquio. «B. non voleva più andare a scuola, era ossessionata da questa professoressa che l’aveva presa di mira. Per me quelli non hanno passione, non hanno verve pedagogica. Stanno lì a reprimere chi gli sta antipatico, a sfogare complessi e frustrazioni della vita privata. Invece andrebbero scelti i migliori laureati. Andrebbero pagati 6-7 mila euro al mese. Sono loro che accolgono i nostri figli fuori dalla famiglia, che li preparano ad affacciarsi nella società. Nelle loro mani ci sono gli italiani del futuro, oh! Così le dissi con una certa forza: “Lei ha un compito sacro, il suo lavoro è una missione, non un modo per avere un posto fisso con due mesi e mezzo di vacanza l’anno! Farò verificare mia figlia da alcuni specialisti nei prossimi 24 mesi, se dovessi riscontrare la benché minima forma di inibizione mentale, un qualunque problema derivante dal suo operato, le metto addosso un avvocato che la perseguirà legalmente. Non denuncio la scuola, o il ministero. La causa la faccio a lei!”. La maestra abbassò lo sguardo, da colpevole. Le volte successive mi disse: “Sua figlia va benissimo, è brava, partecipa...”. Sono sicuro di averle fatto provare una piccola scossa nella coscienza». Non pensa invece di averla intimorita? «No, no, ha capito».

Maestre d'infanzia, mestiere usurante: "Metà soffre di disturbi psichici". Ricerca della Cgil: il 50 per cento accusa problemi alla schiena o è stato aggredito verbalmente dai genitori degli alunni. Corrado Zunino l'11 maggio 2019. Dice una ricerca della Cgil, che non a caso si chiama "Abbi cura di te", che la metà delle maestre d'infanzia italiane ha la schiena dolorante e la stessa aliquota ha subito l'aggressione verbale di un genitore di un alunno. Sono al centro dell'attenzione sociale, le maestre d'asilo, per i troppi episodi di violenza sui bambini registrati nelle ultime stagioni. Su questa trama da tempo la Lega ha impostato una battaglia - le telecamere in tutte le scuole materne - trovando nel Decreto sblocca cantieri un'idea di finanziamento nel corso degli anni: all'emendamento specifico si è allineato anche il Pd, che pure in passato aveva mostrato ampie riserve sulle telecamere negli istituti d'infanzia. Il sindacato confederale, che da sempre sostiene che le ragioni di troppi episodi sono da cercare nello stato di prostrazione di maestre ed educatrici, è andato ad ascoltare queste maestre sottoponendo loro un questionario attraverso le sue strutture che curano la Funzione pubblica. Hanno risposto 590 lavoratrici (e diciassette uomini). Sono maestre (l'11 per cento), educatrici (il 65 per cento), operatrici (il 12 per cento), addette alla cucina (7 per cento), il resto personale ausiliario. Nelle interviste hanno raccontato le loro giornate "con i bambini in braccio, anche per un quarto della nostra giornata", portate spesso a inginocchiarsi a terra per dovere didattico (lo fa in media il 63 per cento, si sale al 75 per cento tra le educatrici). Il passaggio più difficile della giornata resta l'incontro "con i genitori", che si realizza spesso al momento della riconsegna del bambino, e può diventare conflittuale. Il risultato di questa modalità di lavoro è che tre quarti di chi opera in una struttura d'infanzia è sotto controllo sanitario: si sale all'85,9 per cento con le educatrici e al 90 per cento con il personale ausiliario. La metà delle lavoratrici degli asili nido e delle scuole per l'infanzia "riscontra la presenza di problemi fisici alla schiena e ha vissuto aggressioni verbali". Oltre il 40 per cento soffre di lombalgia acuta. Il 60 per cento lamenta una riduzione sostanziale dell'udito "e il costante contatto con i bambini provoca raffreddori durante tutto l'anno". Un altro ambito rilevante che emerge con la ricerca è quello dei rischi psico-sociali che la professione porta con sé. Si chiama burn out e provoca riduzione dell'energia, una fatica profonda e disturbi del sonno. Più di metà del campione ne è stato colpito. Il 67 per cento di educatrici-maestre nella sua esperienza ha lavorato con bambini portatori di  handicap, il 63 per cento con alunni bisognosi di sostegno. Ecco, questo è un lavoro usurante, sostiene la ricerca Fp Cgil. Eppure, l'85 per cento delle lavoratrici del settore si dichiara "soddisfatta" o "molto soddisfatta" del mestiere. Scrivono gli autori dello studio, Gianluca De Angelis e Daniele Di Nunzio: "Una volta comprese le criticità del settore è necessario elaborare percorsi di tutela delle lavoratrici, sia a livello individuale che collettivo, che comprendano nuove assunzioni allo scopo di suddividere i carichi di lavoro. Bisogna rispettare il rapporto numerico insegnante-bambino, prevedere percorsi di pensionamento specifici per la professione contrastando la tendenza di tante amministrazioni a risparmiare sul costo del lavoro".

Lodi, la figlia viene sospesa da scuola e la madre aggredisce e picchia la vicepreside. La 17enne da ieri doveva restare a casa per 15 giorni. La madre è entrata nella stanza della responsabile della sede distaccata del professionale Einaudi e si è avventata su di lei. La Repubblica 3 maggio 2019. Appena ha saputo che sua figlia era stata sospesa, è corsa a scuola e ha aggredito la professoressa responsabile dell'istituto, tirandole addosso una sedia e gli oggetti che erano sulla scrivania e mandandola al pronto soccorso. E' accaduto a Lodi, giovedì mattina, nella sede distaccata della scuola professionale Einaudi, ospitata all'ultimo piano della scuola media Cazzulani, dove studiano i ragazzi dell'indirizzo Servizi commerciali. Autrice dell'aggressione la madre di una studentessa di 17 anni, vittima la docente di 63 anni responsabile della sede distaccata: una professoressa che non fa neanche parte del consiglio di classe della ragazza e che adesso deve decidere se sporgere denuncia, anche se - trattandosi di un pubblico ufficiale - la denuncia dovrebbe partire d'ufficio. L'aggressione è avvenuta poco dopo le dieci di mattina, quando una volante della polizia e il 118 sono stati chiamati nella scuola dal personale. Poco prima, infatti, era arrivata come una furia la madre di un'alunna, la cui sospensione di 15 giorni era stata decisa all'inizio di aprile dal consiglio di classe e iniziava proprio ieri. La ragazza, pluri-ripetente, è stata punita per una serie di comportamenti giudicati "non idonei" dal corpo docente, che la deciso la sospensione. La donna, ieri mattina, è entrata a scuola, ha strattonato la bidella ed è corsa al terzo piano, entrando direttamente nell'ufficio della responsabile, che ha provato a calmarla, indirizzandola dal preside (che è in un'altra sede). Ma la donna l'ha aggredita, con un pugno in testa e tirandole i capelli. Immediatamente sono arrivati i bidelli e altri professori che hanno tentato di fermarla, ma la donna ha continuato, lanciando una sedia e oggetti vari.

La madre della studentessa è stata rintracciata e sono state prese le sue generalità, in attesa di capire cosa deciderà la questura.

·         Vittore Pecchini e gli altri, presidi sotto attacco.

Vittore Pecchini, un preside sotto attacco. Il suicidio dell'uomo, contestato da studenti, genitori e colleghi, è uno spaccato del malessere della scuola italiana. Panorama il 13 giugno 2019. Ha ammainato le sue vele, stavolta per sempre. A scuola lo chiamavano il «filosofo marinaio». Lui però era un nostromo: quello che conduce le navi in porto e guida gli equipaggi. Aveva salpato i mari più ameni, prima dell’ultimo approdo: Venezia, la città del mare. L’acqua che s’infila sotto gli usci e le gondole pigiate nei canali. Lo scorso settembre era diventato il comandante dei tre blasonati licei riuniti nell’istituto Marco Polo. Anche Vittore Pecchini, 57 anni, era un viaggatore. Un preside giramondo: Scozia, Spagna, Congo, Uganda, Cambogia. Sempre con il timone ben saldo tra le mani. Fino allo scorso 25 maggio. Quando, alle cinque e mezza del pomeriggio, chiama la compagna. Quella telefonata, le dice, è l’ultimo saluto. La donna lo trova agonizzante nel suo camper, parcheggiato al Lido, dove ogni tanto lui viene a suonare il clarinetto. Pecchini ha perso conoscenza. Accanto a lui c’è una confezione di nitrito di sodio. Ne bastano pochi grammi per avvelenarsi. Il camper è chiuso dall’interno. Arrivano i soccorsi. Poi, l’inutile corsa in ospedale. Marinaio, nostromo, comandante. Addio.

Il suo suicidio ha frastornato l’universo scolastico. Il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, esprime cordoglio: «Quando una persona si toglie la vita è sempre una sconfitta per tutti». Il sottosegretario del dicastero, Salvatore Giuliano, aggiunge: «L’episodio deve aprire una riflessione più profonda sulle condizioni lavorative di dirigenti, docenti e personale». L’Associazione nazionale presidi attacca: «La tragica scomparsa del collega impone di affrontare gravi criticità. La complessità organizzativa ha raggiunto dimensioni ingestibili e profondamente insane». Viene perfino lanciata una petizione pubblica, indirizzata al Miur e alla Procura di Venezia. L’hanno già firmata centinaia di capi d’istituto. Vogliono di far luce su eventuali e supposte responsabilità nella morte di Pecchini, che era «in una situazione di stress da lavoro correlato chiaramente insostenibile».

A Campo Santa Margherita, intanto, la pioggia scroscia. Turisti in calzoncini inzaccherano scarpe leggere nelle pozzanghere diventate laghetti. Con un scarno comunicato, alla fine, i sei sindacati hanno annullato la protesta, «in considerazione degli eventi sopraggiunti». Ovvero: la morte di Pecchini. Al telefono un professore del Marco Polo, capintesta della sfumata rivolta, è ancora spaesato: «Ma lei» ruggisce «pensa davvero che un uomo con una figlia di 12 anni si possa uccidere per uno sciopero?». Forse ha ragione. Un capitano non abbandona la nave per un ammutinamento. Però in quei tre licei il clima era fosco e tetro come solo alcune giornate in Laguna sanno essere. Discordie laceranti. Finite perfino tra i post di un agguerrito gruppo sui social: «Per sensibilizzare la cittadinanza sulle iniziative in corso».

Omar Mohamed, 19 anni, è uno dei rappresentanti d’istituto al Marco Polo. Con l’indice della mano disegna in aria i confini della piazza: «È qui che ci saremmo ritrovati» informa mesto. «Davanti a una tragedia del genere, però, non si possono trovare colpevoli. Adesso siamo distrutti, increduli, basiti». Racconta di quel nuovo preside, arrivato all’inizio dell’anno scolastico. Offriva tisane agli studenti e amava Norberto Bobbio. Sempre gentile. Ma anche inflessibile: «Tutto d’un pezzo. Durante un’assemblea abbiamo avuto una discussione molto accesa. Ma alla fine è venuto a complimentarsi: “Bravo Omar, bisogna sempre tenere il punto”». Il clima a scuola era pesante. «Pesantissimo. I genitori minacciavano di ritirare i figli. I docenti avevano paura di essere trasferiti. Il provveditorato non dava risposte. Ma è stata sempre una battaglia di idee, non tra persone». Va bene: cerchiamo allora di dimenticare il tragico epilogo. Nessun rapporto tra causa ed effetto. Però quello che è successo al Marco Polo negli ultimi mesi è l’emblema: la scuola che diventa un campo minato. Con Pecchini le divergenze cominciano subito: contratti collettivi, gestione dei collaboratori, aule che mancano. Ma gli attriti deflagrano in primavera. Quando emerge che il provveditore vuole accorpare alcune classi poco numerose. Così come già fatto negli altri istituti veneziani.

Per i genitori è un inglorioso affronto alla storia del Marco Polo. Il liceo dove hanno studiato l’ex sindaco Massimo Cacciari e il compianto ministro Gianni De Michelis trattato alla stregua di un «nautico» qualsiasi? Giammai. I pargoli del classico hanno bisogno di spazi e dedizione. No ai pollai. Sul Corriere del Veneto, il docente Emilio Raimondi deflagra: «Dev’essere oggetto di discussione pubblica. È condizione di aggravamento della salute di Venezia. La città ci tiene». Il deputato del Pd, Nicola Pellicani, scrive all’ufficio scolastico provinciale: «Non possiamo consentire il declassamento». Il preside però replica: «Decide il provveditore. Se ci sono le risorse per lasciare classi da 16, meglio. Altrimenti si faranno da 24 alunni. Non sono diversi dagli altri». Invece no: il 30 aprile il consiglio comunale di Venezia approva all’unanimità una mozione «contro l’accorpamento delle classi». Per tutelare «un’istituzione storica cittadina e al contempo una palpitante fucina d’intelletti». Pecchini a quell’incontro non partecipa. «Un errore scambiato per vigliaccheria, anche se forse i disagi erano altri» racconta Renata Mannise, che insegna lettere al Marco Polo. «Il preside, di fronte alle critiche, mostrava distacco e superiorità, magari per mascherare. Ma quest’atteggiamento ha esacerbato gli animi. Modi e toni del dissenso, però, a tanti sono sembrati esagerati».

Frattura insanabile. L’assemblea sindacale della scuola decide quindi di scioperare contro la dirigenza. «Un evento eccezionale» spiega Giusy Signoretto, segretario della Flc Cgil veneziana. «In dieci anni di sindacato non m’era mai capitato. Ma i docenti hanno insistito. C’era una forte incomprensione, con accuse dure: perfino sui giornali o su Facebook. E il dirigente non arretrava. Anche se, negli ultimi tempi, qualcosa aveva concesso. Abbiamo pure provato a revocare l’iniziativa. Ma professori e dipendenti volevano andare avanti». Signoretto sospira: «Non credo si sia ucciso per questo, ma qualcuno dovrebbe domandarsi: come si può lavorare in queste condizioni? Otto scuole da gestire, problemi atavici, una grana dopo l’altra…».

Sciopero, dunque. Il combattivo volantino che invita alla protesta è adesso un’amara reliquia. Si scaglia contro «una gestione personalistica», «la mancanza di trasparenza», «i conflitti e le spaccature». E giù con le recriminazioni. Fino alla chiamata a raccolta. «Ci ritroviamo alle 9 in Campo Santa Margherita, il 28 maggio 2019». Ma quella manifestazione non ci sarà mai. Tre giorni prima il «filosofo marinaio» decide che è giunto il momento di salpare. La mattina assiste alla regata tra istituti, a cui partecipa un suo equipaggio. Poi la deriva. Senza rotta. Fino a perdersi nel mare della vita.

TIZIANA COZZI per napoli.repubblica.it il 16 settembre 2019. Nonostante io sia oggetto di linciaggio sui social network, non mollo. Il ragazzo e sua madre sono stati convocati domani a scuola. Finché non toglierà le treccine, non entrerà in classe per rispetto a chi ha firmato il "patto di corresponsabilità". Farà lezione in laboratorio, prove di musica con l'orchestra, palestra con gli altri. Non lo escludiamo ma non tornerò indietro". Rosalba Rotondo, dirigente dell'istituto Alpi-Levi di Scampia non arretra. Anzi. Rincara la dose e annuncia che scriverà al ministro dell'istruzione per spiegare il suo gesto e dimostrare che "dietro ogni regola c'è un valore formativo". Il ragazzo di 13 anni con le treccine colorate di blu, a cui ha impedito l'ingresso a scuola, tornerà nell'istituto domani ma non in classe, tra i suoi compagni. "Lo faccio perché sia chiaro che le regole vanno rispettate - precisa Rotondo - il ragazzo mi ha subito promesso che avrebbe tolto le treccine ma la madre ha aggiunto che ci vorrà del tempo, non si possono asportare immediatamente. Non importa, aspetteremo. Fino ad allora però, abbiamo pensato a un percorso alternativo per lui, per dimostrare a tutti quale ragazzo di talento è. Non ha bisogno di attirare l'attenzione con le treccine. Ha già altre peculiarità: la musica, lo sport, gli piace molto la matematica...Non possiamo lasciare tutto come prima. L'importante è che capiscano il nostro gesto, in primis la mamma". Domani, all'uscita da scuola, la preside ha convocato il consiglio di istituto, l'assemblea di classe e un incontro con i genitori. La polemica esplosa ha scatenato un fiume di polemiche a cui la preside ora tenta di sottrarsi. "Trovo gravissimo che tante associazioni si scaglino contro di me con post sui social apostrofandomi come razzista - spiega - si facessero vedere in faccia, venissero a dare una mano a scuola e ai ragazzi bisognosi di attenzioni e cura. Ma io, nel frattempo, mi rivolgerò all'autorità garante per i minori. Denuncerò tutto questo vergognoso speculare sulla sorte di questo allievo a cui io voglio dare un futuro diverso dal background familiare". La famiglia del giovane è contraria al metodo della dirigente. La nonna del ragazzo Concetta Cerullo l'ha accusata due giorni fa. La donna ha raccontato delle affermazioni della dirigente durante l'accoglienza, davanti ai genitori dell'istituto: "Ha detto: invece di fare le treccine, comprassero i libri, rivolgendosi palesemente a mio nipote che era l'unico ragazzo con quella acconciatura". Poi, il primo giorno di scuola il ragazzo è stato lasciato fuori dall'aula."La preside mi ha dato dell'ignorante - ha raccontato a "Repubblica" la madre del ragazzo Carla, 29 anni - mi sono sentita offesa, sono andata a confrontarmi con lei ma ha chiamato la polizia, dicendo che la volevo aggredire. Mio figlio esprime la sua personalità, è stato discriminato". "Noi non discriminiamo nessuno - conclude la preside - ma educhiamo anche alla serietà. La scuola, come la intendo io, è sacra: possono vestirsi come vogliono ma solo se maggiorenni".

Lino chiede alla mamma di tagliargli le treccine: voglio tornare a scuola. Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 su Corriere.it da Fulvio Bufi. Scampia, passa la linea della preside. E lei: «È stato uno dei momenti più belli della mia vita professionale». Alla fine ha deciso Lino. Ha detto: «Tagliamole queste benedette treccine perché a me interessa solo andare a scuola e non avere problemi». È tornato a casa, e siccome ieri era lunedì e i barbieri erano chiusi, ha preso un paio di forbici e alla mamma ha detto: «Fai tu». Per la verità non è venuto un gran lavoro, un passaggio dal barbiere bisognerà farlo comunque, ma le treccine non ci sono più, e di Lino, studente della scuola media «Alpi-Levi» di Scampia, ci si potrà dimenticare in fretta e lasciarlo in pace alla sua vita di tredicenne che per il compleanno, una decina di giorni fa, aveva chiesto in regalo le extension e le aveva volute blu. E proprio non immaginava che quella sua acconciatura, certo inusuale, ma comunque innocente, a scuola lo avrebbe fatto diventare un caso. E non soltanto a scuola, anche sugli immancabili social e di conseguenza sui media. La «Alpi-Levi» non è una scuola qualsiasi, è un laboratorio di avanguardia non soltanto in un quartiere difficile come Scampia, ma nell’intera città. Perché la dirigente, Rosalba Rotondo, è un vulcano di iniziative. Dal programma Master Class che permette a chi è stato bocciato di recuperare l’anno perso nel primo semestre di quello successivo, ai corsi di musica professionali che hanno consentito di formare un’orchestra di giovanissimi della quale fa parte anche Lino, che pare sia un ottimo pianista, fino all’ultimo progetto che ha portato una delegazione di studenti all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Tutto questo andando spesso a raccogliere i ragazzi in strada, presentandosi dai genitori per convincerli a fare l’iscrizione. Nei campi rom che stanno alla periferia di Scampia — ed è facile immaginare che cosa sia la periferia di una periferia come quella delle Vele e della tragedia dello spaccio — la conoscono benissimo, per quante volte c’è andata e per quanti ragazzini ha portato in classe. Però c’è una cosa sulla quale la dirigente Rotondo non transige: le regole, che lei vuole siano rigorose come nelle scuole dei quartieri bene perché «dal rispetto delle regole si impara a rispettare il prossimo, a non essere bulli». Così ha stilato un decalogo che fa sottoscrivere al momento dell’iscrizione, in cui sono elencate una serie di norme da osservare assolutamente. Norme di comportamento, ma anche di look. E le treccine blu, pure se non espressamente citate, alla Alpi Levi non sono ammesse. Quindi Lino, con quell’acconciatura, non è potuto entrare in classe. Ieri la stessa sorte è toccata a due ragazzini che avevano i jeans stracciati e hanno dovuto aspettare l’orario di uscita senza far niente in sala professori. Ma il divieto alle treccine è finito sulla pagina Facebook dei genitori del tredicenne, e si è scatenata la polemica. Fino a ieri, quando la giornata è iniziata con un accesissimo diverbio tra la dirigente e la madre di Lino, che quell’imposizione non l’ha accettata sin dal primo momento. A scuola è arrivata perfino la polizia, chiamata dalla Rotondo per mettere fine alle proteste, e dalla donna per chiedere che venisse tutelato il diritto allo studio di suo figlio. Quando poi gli adulti hanno finito di litigare, quando la dirigente è tornata nel suo ufficio e la mamma di Lino è andata via, è entrato in scena lui. Ha bussato alla porta della presidenza e le ha chiesto di parlare. «Io alla scuola ci tengo. Le treccine le taglio e chiudiamola qui». E lei si è commossa: «È stato uno dei momenti più belli della mia vita professionale. Anzi, della mia vita e basta».

Scampia, due ragazzini non ammessi a scuola per i jeans strappati. Dopo il caso delle treccine blu, se ne apre un altro alla Carlo Levi. E la madre dei piccoli studenti protesta. Antonio Di Costanzo su La Repubblica il 17 settembre 2019. Si chiude la battaglie delle treccine blu e si apre quella dei jeans stracciati. È un inizio di anno scolastico complicato per la scuola Ilaria Alpi-Carlo Levi di Scampia. Risolto il caso di Lino che ha deciso di tagliarsi le treccine blu per mettere fine alla disputa tra la sua famiglia e la dirigente scolastica Rosalba Rotondo che gli aveva vietato l’ingresso in classe a causa dei quella vistosa capigliatura, si apre quello dei pantaloni. Il dress code stilato dalla preside e approvato dai genitori, prevede abbigliamenti sobri, ma oggi la moda porta i giovani ad acquistare costosi jeans strappati, anche questi banditi dalla scuola di Scampia. Ieri ne hanno fatto le spese un tredicenne, non ammesso in classe per quei pantaloni così come il fratello di 11 anni che però si giustifica: «I mie jeans non sono quelli “tagliati”, li ho strappati accidentalmente all’altezza del ginocchio destro sedendomi. Ma non mi hanno comunque fatto entrare in classe». La mamma dei due ragazzini è furibonda: «La scuola non mi ha neanche avvisato - accusa Maria Bevar - i miei figli hanno passato la mattina in aula dei professori, vi sembra giusto? Per un blue jeans strappato? Dobbiamo utilizzare il burqa?». La donne accusa: «Abbiamo sempre rispettato le regole, i miei figli non hanno mai creato problemi, sono stati sempre promossi e sono educati. Il primo frequenta la terza media, il più piccolo la prima. Se la preside non mi dà una spiegazione valida sono pronta a trasferirli in un’altra scuola».

Qual è l'abbigliamento corretto per la scuola? Quanto deve essere lunga una gonna nella scuola primaria? E quanto bassi un paio di pantaloni a vita bassa? E ancora: abiti e accessori firmati e appariscenti si possono mettere in aula? Il pedagogista Daniele Novara aiuta i genitori a capire. D.Repubblica il 05 Settembre 2019. La moda è un territorio scivoloso dentro le mura scolastiche. Perché l'abbigliamento dei più piccoli è uno degli argomenti più difficili da gestire. Le domande a riguardo, per i genitori, sono molteplici: come vestire i propri figli alle primarie o secondarie (ieri denominate elementari e medie)? Oppure: quali abiti e accessori di moda è giusto o meno concedere? E ancora: come comportarsi alle prime ribellioni o alle prime richieste di minigonne, make-up, rossetti e abiti corti o succinti? "La prima regola da imparare", racconta a D.it Daniele Novara, pedagogista e autore di libri dedicati alla pedagogia, "è che un bambino non andrebbe mai vestito come un adulto. È uno sbaglio comune da cui possono scaturire disagi e problemi. L'abito e la moda, infatti, non sono argomenti superficiali ma parte integrante del processo educativo e formativo dei propri figli".

Attenzione agli influencer. "C'è una questione da cui sento di dover partire", continua Novara. "È il fenomeno degli influencer sui social media: a mio parare non stanno facendo molto bene al dibattito sull'abito e più in generale sul costume infantile e preadolescenziale. Il processo di emulazione di questi nuovi protagonisti dell'informazione non viene mediato e finisce col condizionare i gusti e le scelte nel modo sbagliato. Il rischio è sempre lo stesso: vestire i bambini come fossero adulti, quando invece hanno bisogno di libertà di movimento, di più spensieratezza, di comodità".

Sobrietà, una parola da riscoprire. "A mio parere è importante imporre dei limiti nell'abbigliamento, soprattutto all'interno dell'ambito scolastico. La scuola, infatti, resta un ambiente educativo e di studio che impone una certa sobrietà. La sobrietà, parola antiquata che rimanda a divieti e imposizioni, non è il contrario della libertà di espressione di sé attraverso gli abiti. Rappresenta, al contrario, la necessità di creare un ambiente fisico, quindi estetico, che non sia disturbante o che porti distrazione. Abiti troppo corti, eccessive nudità, trucchi troppo marcati non sono da evitare per imposizione ma per necessità di tranquillità e di concentrazione in un'età che non è ancora pronta a gestire certi impulsi. Questo non significa privare i propri figli della libertà d'espressione di sé attraverso abiti e accessori di moda: a tutto, però, c'è un limite. Bisogna ricordare che il ruolo di genitore, a riguardo, resta un ruolo di educatore e che il ruolo di educatore prevede delle regole. A riguardo, i genitori dovrebbero sempre ricordarsi di valutare il proprio atteggiamento verso la moda perché è questo a condizionare maggiormente i propri figli. I bambini, per esempio, hanno un approccio molto osmotico, di emulazione del costume dei genitori.

Perché il pudore è importante. Quanto deve essere lunga una gonna? E quanto bassi un paio di pantaloni a vita bassa? E ancora: l'ombelico di può mostrare? Le domande più banali in fatto di abbigliamento infantile o preadolescenziale sono, in realtà, dei dubbi leciti e molto profondi. "Io parlo sempre dell'importanza del pudore", termina Novara. "Faccio un esempio chiaro, la minigonna. Strumento di emancipazione delle donne e pezzo storico del guardaroba femminile, questo capo non è sempre indicato per i bambini a scuola. La sua grande valenza storica, infatti, non basta sempre a farlo diventare un pezzo adatto a loro: bisogna, infatti, capire quanto chi la indossa lo faccia per auto-affermazione, per pura necessità narcisistica o per semplice vanità. Gli abiti dei più piccoli devono, invece, diventare strumenti di discussione e di dialogo proprio per capire meglio i propri figli. Tornando al pudore, la scuola a mio parere non va scambiata per una festa di compleanno o per un'occasione di divertimento, eventi che favoriscono maggiormente un abbigliamento più libero. Ancora: l'educazione e le modalità didattiche si svolgono meglio in ambienti che non favoriscono distrazioni, competizioni o impulsi difficili da gestire a questa età. E non scambiate il pudore per castrazione dell'individualità: è al contrario una valore da riscoprire proprio per permettere all'individualità di svilupparsi e di crescere".

·         Non c’è scuola senza autorità.

Non c’è scuola  senza autorità. Pubblicato giovedì, 06 giugno 2019 da Antonio Polito su Corriere.it. Ho appena letto ai miei bambini due brevi brani dell’ultimo libro di Ernesto Galli della Loggia L’aula vuota (Marsilio), dedicato alla scuola. La sera prima avevamo avuto a cena un loro amichetto, e tra maschietti si lamentavano del tempo perso in classe e sui compiti, che vorrebbero utilizzato per cose davvero piacevoli e interessanti. Ho provato a intervenire in difesa del valore della conoscenza. Ma non trovavo le parole giuste. Ci sono nel libro di Galli della Loggia: «La cultura alla fine significa semplicemente la possibilità per ognuno di noi di uscire dalla propria particolarità e di mettersi in relazione con il mondo passato e presente, con tutti i suoi pensieri, i suoi protagonisti, e i suoi fatti, raggiungendo così una pienezza di vita altrimenti impossibile». E poi: «I libri, le idee, possono costituire una ragione di vita, danno significato all’esistenza, e dunque ciò che si fa a scuola, ciò che la scuola è, (…) non costituisce un obbligo burocratico da assolvere più o meno volenterosamente, bensì l’occasione per diventare più capaci di capire il mondo, più consapevolmente umani. Di diventare dei noi stessi migliori». («Conosci te stesso, sii tu. Diventa te stesso, avendolo appreso», scriveva Pindaro). Nato a Roma nel 1942, lo storico Ernesto Galli della Loggia, già docente in diversi atenei, è editorialista del «Corriere della Sera». I miei figli hanno ascoltato senza interrompere, o andarsene, che è già un successo. Ho l’impressione che l’argomento della bellezza abbia sui bambini un effetto maggiore di quello dell’utilità. Ho pensato allora che questo libro di Galli della Loggia, prima ancora di essere un formidabile pamphlet di denuncia dei motivi di decadenza della scuola italiana, è una dolcissima e talvolta perfino commossa dichiarazione d’amore per il sapere. 

Ernesto Galli della Loggia, «L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola» (Marsilio, pagine 239, euro 18) A certo punto lo stesso autore lo dichiara: «Adesso ho più chiaro perché sto scrivendo questo libro… per rendere in qualche modo omaggio postumo a mia nonna, e con lei alle migliaia di maestre che, grazie alla propria fatica, giorno dopo giorno, hanno visto accendersi in tanti dei loro piccoli scolari la luce dell’interesse e dell’intelligenza, la passione di apprendere, il piacere della lettura, il gusto del sapere». La nonna «si chiamava Nerina e insegnava a Napoli, nei Quartieri Spagnoli, allora come oggi tra le parti più povere e derelitte della città. Quando finalmente andò in pensione, nel 1949, le fu consegnato dai colleghi un diploma debitamente incorniciato che oggi è su una parete del mio studio, dove in una prosa ingenuamente aulica che sa ancora di Ottocento si legge: “Educatrice modello, che ha dedicato le sue migliori energie alla formazione dei figli del popolo”».  Se indugio in questi ricordi di una stagione che fu, è per una ragione. La polemica di Galli della Loggia è principalmente contro la «fine del passato», la «gigantesca frattura culturale che si è verificata a partire dagli anni Sessanta». In una scuola moderna, quanto deve contare il passato, si chiede l’autore? «È impossibile immaginare l’istruzione senza collegarla a una forma di trasmissione di valori, di princìpi e di conoscenze, che non abbiano in qualche modo lo sguardo rivolto all’indietro: che cos’è questa lingua che parlo? Che cosa c’è stato prima di me? Che cos’è questo Paese e questo Stato di cui sono cittadino? Che rapporto ha con il mondo?». Spezzandosi la continuità culturale, diviene assai concreto il pericolo — segnalato da Hannah Arendt — «che i nuovi venuti, la generazione più giovane, non sapendo nulla del mondo in cui arrivano lo mettano a soqquadro, lo lascino andare in rovina, e per pura e semplice incoscienza lo distruggano». E invece da decenni la scuola italiana «si sforza spasmodicamente di essere aggiornata e moderna, ma non si accorge che ormai quella modernità che insegue è solo un passato svanito per sempre». Questa consapevolezza non può essere scambiata per «nostalgia del passato». Chi si mostra scettico verso la riformite che ha assalito la scuola italiana (l’«autonomia», il «curricolo», il «portfolio delle competenze», la «cittadinanza», il «learning by doing», il «Pof», il «progetto», l’«inclusione» ecc. ecc.) «può benissimo farlo non perché sia contrario per principio a ogni novità o a ogni riforma (cioè perché è un conservatore incallito), ma molto più semplicemente perché pensa che sarebbe stata meglio una riforma diversa».

L’altro principio in difesa del quale si leva la penna di Galli della Loggia è quello di autorità. In un suo recente articolo sul «Corriere», che aveva avuto ampia diffusione e sollevato molte polemiche, tra i vari consigli rivolti al ministro dell’Istruzione c’era anche il ripristino della predella sotto la cattedra dei professori. Misura che avrebbe il significato di «indicare con la limpida chiarezza del simbolo che il rapporto pedagogico non può implicare alcuna forma di eguaglianza tra docente e allievo». Per questa frase Galli della Loggia è stato accusato di una visione «arcaica», o «autoritaria», o peggio ancora «classista». Ma l’autore ritiene che «la dimensione dell’autorità costituisca un che di ineliminabile dall’orizzonte della scuola. È l’autorità del sapere accumulato nel corso del tempo, incarnato in una persona che trasmette quello stesso sapere a coloro che si affacciano sulla vita. Chi sa e chi non sa, chi insegna e chi apprende, non sono sullo stesso piano». E su questo è davvero difficile dargli torto. A meno di non concludere che, se il giovane non ha bisogno dell’esperienza accumulata, se è solo un «mero discendente» e non un «erede», come scriveva Ortega y Gasset, la stessa scuola sia inutile. 

Galli della Loggia risale dunque alle radici del pensiero che legittima «le mille forme di compiacenza, l’arrendevolezza, l’ideologia dominante nell’organizzazione scolastica», per cui i giovani hanno sempre ragione. E le trova correttamente in Rousseau, esplicitate nel romanzo pedagogico Emilio, o dell’educazione, il rifiuto della mediazione culturale con cui la Società può corrompere il bambino allontanandolo dallo stato di Natura, in cui conta solo la «spontaneità»: «Non gli lasciate nemmeno immaginare che voi pretendete di avere qualche autorità su di lui, non c’è soggezione più perfetta di quella che conserva l’apparenza della libertà». Principio di ogni palingenesi, di ogni pretesa di costruire l’uomo nuovo, dal giacobinismo alla piattaforma omonima. È da lì, «dalla vette utopiche del proto-romanticismo rousseauiano, che nasce il filone dell’anti-culturalismo che da alcuni decenni dilaga anche nel nostro sistema scolastico». La «scuola della riforma», conclude l’autore, che alla fine del percorso fa i conti anche con l’ingombrante eredità della pedagogia di don Milani, ha inteso affermare una sorta di utopia della «liberazione», nella quale l’istruzione «alla fine è null’altro che l’occasione per costruire una comunità di liberi ed eguali intenta ad auto-educarsi». Ad essa Galli della Loggia propone di sostituirne un’altra: «L’utopia della emancipazione, che si proponga di rendere i giovani innanzitutto culturalmente formati, e quindi autonomi e responsabili di sé, premessa per divenire anche liberi e socialmente più uguali possibile. Il tempo è rimasto poco, ma il destino della nostra scuola è ancora nelle nostre mani».

·         L’educazione non è istruzione. Senza il padre non c’è legge nè Stato.

Diciamo più "no" ai nostri ragazzi. La scoperta della chat "The Shoah Party" deve farci riflettere sulla punibilità dei minori. Mario Giordano il 31 ottobre 2019 su Panorama. Tu li guardi ma non ti vedono. Tirano su un muro. Ogni cosa che dici, sbagli. Si assentano. Spariscono. Vivono in un mondo tutto loro, dal quale usciranno solo quando, a fatica, si saranno finalmente trasformati in farfalle e voleranno dentro la vita. Ma finché sono lì, nel loro bozzolo sofferente dell’adolescenza e della preadolescenza, macinati da brufoli e da un corpo che cambia in fretta, schiacciati tra il desiderio di essere grandi e l’illusione di poter restare piccoli, i tredici-quattordicenni sono davvero oggetti misteriosi. Complicati. Come sanno benissimo tutti i genitori che ci sono passati. Li hai accanto ogni giorno e non li conosci più. Non sai chi sono davvero. E così può succedere che dentro quel mondo ragazzino con le tendine abbassate entrino dei mostri che loro manco conoscono. Ma da cui si fanno possedere, affascinati dall’aura di male che li circonda. Mi riferisco, in particolare, alla notizia choc dell’altro giorno, quando è stata scoperta una chat («The Shoah Party», l’avevano chiamata) di minorenni che si scambiavano video inneggianti a Hitler o all’Isis, immagini pornografiche, filmati di bimbe impegnate in atti sessuali, inviti allo stupro, prese in giro di malati di leucemia o di bimbi affamati, bestemmie e altre bestalità. Venticinque persone indagate. Cinque con meno di 14 anni. Base a Rivoli nel torinese, ramificazioni un po’ dappertutto. L’orrore è stato scoperto grazie a una mamma, che ha rotto quel muro di silenzio. E ha varcato la soglia del mondo segreto del figlio, sbarrata dalla sua età oltre che dalla password del suo telefonino. Come ogni volta, quando succede un episodio del genere, i «grandi» rimangono scioccati. Seguono paginate sui giornali, riflessioni come questa, interviste allo psicologo di turno. Dopo di che il mistero dell’adolescenza si inabissa di nuovo dentro il suo oceano oscuro. E quei ragazzini con il corpo che cambia troppo in fretta restano lì da soli, sempre più chiusi dentro nel loro mondo, privi di ogni riferimento  ormai, senza più appoggi né nella famiglia da cui si sentono lontani, né nella scuola che avvertono come nemica, né nella parrocchia che hanno abbandonato dopo la cresima (se mai l’hanno frequentata). Autoreferenziali. Con annesso il telefonino che riassume tutto il mondo che interessa loro. Ovviamente a portata di touch screen. Ma sì, è chiaro: la vita là fuori è così difficile, pretende osservazione di regole, rispetto, studio, impegno. È così facile, invece, la vita dentro Facebook o Telegram, dove l’unica regola è che vale tutto. Farsi volere bene da una persona è una fatica mostruosa, per ottenere un like su Instagram invece basta una foto giusta. Per attirare l’attenzione nella vita reale bisogna essere capaci di fare qualcosa, su WhatsApp invece basta copiare una frase folle sugli ebrei da bruciare. E così che i ragazzini, chiusi nel loro mondo, oggi si sentono fortissimi. Potenti. Addirittura illimitati. Gli strumenti che la tecnologia mette loro a disposizione consentono tutto e dunque sono convinti che tutto sia possibile. Non capiscono che c’è una barriera, o almeno: ci dovrebbe essere una barriera, tra ciò che è possibile fare e ciò che davvero si può fare. Loro questa barriera non la conoscono. Non la vedono. Non l’hanno mai imparata. Non pensano nemmeno che sia possibile. Mauro Querci, nume tutelare del Grillo Parlante, dopo aver letto la notizia scioccante di Torino dice che bisogna ricominciare a insegnare ai nostri ragazzini la storia, iniziando dalla Shoah, magari passando anche per i gulag e le foibe. Ha ragione. Bisogna insegnare loro la storia. E poi anche la grammatica, la matematica, la logica. Bisogna insegnare tutto quello che oggi non sanno. Ma soprattutto dobbiamo insegnare loro ad avere un senso del limite. Bisogna frantumare il muro che ci divide da loro, proprio come ha fatto quella mamma intelligente che ha denunciato «The Shoah Party». E bisogna ricominciare a lastricare la vita dei ragazzini di dolorosi no, di faticose regole, di durissime rinunce. E anche di denunce. Perché se quello che manca è la consapevolezza che per ogni azione esiste una possibile reazione, che a ogni errore deve seguire adeguata punizione, forse è anche il caso di riportare le lancette indietro, reintroducendo il sacrosanto principio che i minori si possono punire. Soprattutto quando entrano dentro il mondo dei social. Proprio così: se si dà loro la possibilità di manovrare quegli strumenti potenti che sono oggi i telefonini, devono anche sapere che se sbagliano a usarli ne pagheranno le conseguenze. In prima persona. Chissà che, insieme alla storia, non possano imparare prima o poi anche il concetto di «responsabilità». Fondamentale eppure del tutto smarrito, ahinoi.   

Scuola, il buonismo dietro la lavagna. Il problema della scuola non sono le note (abolite) ma gli insegnanti che non sanno farsi rispettare. Mario Giordano il 14 maggio 2019 su Panorama. Abolire l’espulsione dalla classe? La sospensione? La nota sul registro? Quando ho sentito quest’ultima geniale trovata del nostro Parlamento, mi è venuto in mente quando, qualche anno fa, lessi un piccolo campionario di un cronista che aveva sbirciato proprio sui registri di classe. Di note ne aveva trovate di tutti i gusti. «M.P. durante la lezione di storia esce dalla finestra». «P.O. telefona mentre è alla lavagna interrogata di matematica». «L’alunno P.T. continua a non presentarsi in classe il mercoledì sostenendo che è il suo giorno libero». «L’alunno C.B. entra in classe vestito da Superman. La classe lo acclama». «G.A. dopo aver espletato le sue funzioni di rappresentante in difesa del Tibet decide di prendere il sole in giardino fino alla fine della terza ora». «La classe si ubriaca con il fragolino». «L’alunno P.P. si mette in piedi sul banco, mi punta una riga contro e urla: è un eretico, catturiamolo!, istigando così la classe al caos e alla violenza». Il problema è che da tempo ormai gli insegnanti non riescono a farsi rispettare. «Una volta quando entravamo in classe gli alunni si alzavano», mi ha raccontato una di loro. «Ora non ce n’è bisogno. Sono già tutti in piedi. Alcuni in piedi sui banchi. Altri aggrappati alle finestre o ai lampadari che usano per dondolarsi come se fossero liane». «In classe – riportava un’altra nota sul registro – si odono versi provenienti da scimmie della foresta pluviale. Sembra di esserci trasferiti nella giungla». E in effetti, come dar torto all’anonimo professore? In molte aule scolastiche sembra essere in vigore le stesse regole della giungla. La disciplina dei bestioni. Anche i professori hanno delle colpe, è chiaro. Per esempio: nei giorni scorsi è stata licenziata la maestra che a Torino insultò i poliziotti, gridando loro ripetutamente «vigliacchi, mi fate schifo, dovete morire». Per fortuna il tribunale ha confermato la decisione dell’ufficio scolastico del Piemonte. Lei ha protestato: «Ho sbagliato, ma il licenziamento non ha senso». E io mi chiedo come abbia potuto insegnare per dodici anni in una scuola elementare una persona che non capisce principi semplici come questo: se tu insulti lo Stato (gli agenti in divisa), lo Stato non può sceglierti come educatrice. Se tuoi vuoi la morte di uno che difende le istituzioni, non puoi essere scelta da quelle istituzioni per trasmettere principi e valori a dei bambini. Non è difficile, no? Ci può arrivare anche una dei centri sociali. Qualche tempo fa un professore con fama di insegnante democratico, fautore delle nuove pedagogie, sempre alla ricerca del dialogo con gli studenti, dello spirito fraterno, del rapporto amichevole, raccontò di aver perso (per una volta) la pazienza e di aver fatto una sfuriata. «La più classica, ruggente e aggressiva sfuriata», come la definì lui stesso. Risultato? Dall’ultimo banco si alzò uno studente, occhiali scuri e bandana in testa, ai piedi stivali da cow boy. Si avvicinò alla cattedra con fare tranquillo, lo guardò dall’alto in basso e lo liquidò così: «Prof, lei deve scopare di più». Attimo di silenzio. Commento del professore democratico: «Nessuno rise per quel consiglio a dimostrazione che era una convinzione abbastanza diffusa. E che, in fondo, mi volevano bene». Contento lui. Ma a me viene un dubbio: come si fa ad avere una scuola forte se si hanno insegnanti così deboli? Dal prossimo settembre, ci dicono le statistiche, nelle aule ci saranno 70 mila studenti di meno. Lo svuotamento delle classi continua. E io mi chiedo perché non si riesca a utilizzare questo svuotamento per arrivare a una selezione degli insegnanti: tenere i più bravi, pagarli meglio (molto meglio), valorizzarli e sostenerli. E indirizzare altrove gli altri, perché la scuola non è un parcheggio e l’insegnamento non può essere una professione per tutti. Non per chi, per esempio, vorrebbe vedere morti i poliziotti. Prim’ancora di questo, però, bisognerebbe ristabilire il sacro principio della disciplina nelle scuole di ogni ordine e grado. E se invece si comincia con l’abolire le sospensioni, le espulsioni e le note sul registro alle elementari, che messaggio si dà? Cresceremo studenti sempre più convinti di poter fare tutto in aula, compreso ubriacarsi di fragolino o telefonare mentre si è interrogati di matematica, senza venire mai puniti. Così lo sfascio continuerà imperterrito, sulle ali del buonismo imperante, come è stato in questi ultimi 40 anni. Per questo mi permetto di dire alta voce: non fatelo. Non rinunciamo alle espulsioni, alle sospensioni e alle note sul registro. Continuiamo ad applicarle. Alle elementari, ovviamente. E magari anche in Parlamento. Per chi ha pensato questa norma così scema, per esempio. 

Da Il Fatto Quotidiano il 3 ottobre 2019. La Scozia sarà con grande probabilità il primo Paese del Regno Unito a rendere illegale, e punibile penalmente, i castighi fisici rivolti dai genitori ai figli. Una normativa ad hoc è stata infatti presentata al Parlamento locale di Edimburgo dal governo guidato da Nicola Sturgeon e si ritiene che sarà ampiamente supportata nel corso della votazione prevista per martedì 8 ottobre. La proposta scozzese di abolizione è stata promossa da un deputato Verde, John Finnie, e ha il sostegno di laburisti e liberaldemocratici, oltre che dello Scottish National Party (Snp) di Sturgeon e di alcune ong per la tutela dell’infanzia. Contrari sono invece i Tory locali, come pure, stando ai sondaggi, una maggioranza popolare di scozzesi, secondo i quali la legge attuale è sufficiente e l’avvio dello smacking ban rischia di criminalizzare alcuni “bravi” genitori. Le punizioni corporali, infatti, non sono mai del tutto sparite dal sistema legislativo del Paese. La Bbc riferisce che i bambini non hanno la stessa protezione degli adulti in materia di aggressioni fisiche, perché un adulto accusato di aver picchiato un bambino può fare riferimento al “castigo ragionevole” (reasonable chastisement) o all’aggressione giustificabile (justifiable assault), sostenendo quindi di aver usato la forza fisica come forma di disciplina sui minori di 16 anni. In genere, i genitori possono colpire i figli sul corpo, ma non sulla testa. Non è inoltre considerato legale scuoterli o usare attrezzi ed è inoltre proibito ogni tipo di punizione fisica nelle scuole o in qualunque altro contesto inerente all’istruzione. Per decidere se il castigo sia stata davvero “ragionevole”, la corte prende in considerazione la natura della punizione, la durata, la frequenza, l’età del bambino e gli effetti che il castigo ha causato su di lui, sia a livello fisico che morale. La proposta di Finnie prevede di togliere del tutto la possibilità di difendersi ricorrendo al “reasonable chastisement”, rendendo quindi i genitori perseguibili per ogni uso delle punizioni corporali: i bambini saranno quindi protetti dalle aggressioni fisiche tanto quanto lo sono gli adulti. Secondo il report Equally Protected? A review of the evidence on the physical punishment of children, pubblicato nel 2015 e firmato da alcune ong per l’infanzia, il ricorso alla forza fisica per punire i figli è stato usato dal 70- 80 per cento dei genitori in Uk. La maggior parte considera la cosa “positiva” e sostiene che spesso “è l’unica cosa che funziona”: le stesse ricerche hanno però messo in luce l’opposto, sottolineando come questi atteggiamenti, oltre a turbare chi li subisce, non sempre riescono a fermare le condotte che sarebbero da correggere. Infine, il ricorso alla forza fisica a scopo punitivo risulta essere più comune in Uk rispetto a Usa, Canada, Italia, Germania e Svezia. Quest’ultima, non a caso, è stata proprio la prima in assoluto a vietare le punizioni culturali in ambito famigliare, nel 1979. La Scozia sarà il 58esimo in ordine di tempo su scala mondiale. L’uso “ragionevole” dei castighi fisici continua, invece, a essere usato nel resto del Regno Unito.

VIETATO SCULACCIARE. RCr. per “il Giornale” il 4 luglio 2019. I francesi un po' si vergognano, perché per molti di loro questa legge è arrivata troppo tardi. Certo, potremmo ricordare loro che in Italia non esiste ancora, ma considerando il complesso di superiorità che nutrono nei nostri confronti la cosa non li solleverebbe. La Francia è da qualche ora il 56esimo Paese al mondo a dichiarare fuorilegge lo scappellotto o la sculacciata. Nessun intento pedagogico può «nobilitare» l' uso della violenza fisica nei confronti dei bambini. Il testo - considerato per lo più simbolico e approvato dal Senato per acclamazione e all' unanimità - riguarda qualsiasi colpo fisico comunque portato nei confronti dei bambini ma anche umiliazioni, insulti, vessazioni e scherni. È inserito nel codice civile, nell' articolo letto anche durante i riti nuziali secondo cui «l' autorità parentale si esercita senza violenze fisiche o psicologiche». Per dare maggiore rilievo alla legge, sarà riportata nella prima pagina dei libretti sanitari dei bambini. Relatrice della legge è stata Maud Petit dei MoDem, che ha assistito al voto dalla tribuna del Senato. L' ex ministro socialista delle Famiglie Laurence Rossignol ha parlato di un «momento storico». Secondo la Fondazione per l' Infanzia, l' 85 per cento dei genitori francesi avrebbe fatto ricorso a violenze presunte «educative». Il primo Paese a varare una legge di questo genere fu quarant' anni fa la Svezia, a cui seguì la Finlandia e poi moltissimi altri Stati tra cui anche la Tunisia, la Mongolia, il Paraguay, perfino la repubblica di San Marino. In Italia invece non esiste una legge ad hoc sulle violenze educative, ma soltanto una sentenza della Corte Costituzionale che risale al 1996 e che si è espressa contro l' uso di percosse nei confronti dei più piccoli. Va detto che nel nostro paese, in base a una ricerca di Save the Children del 2012, la sculacciata è considerata un efficace strumento educativo da un quarto degli italiani. E va detto che nel 2015 fece discutere il fatto che anche papa Francesco aveva in qualche modo sdoganato lo scapaccione «a fin di bene», definendo pieno di dignità un padre che gli aveva raccontato di picchiare talvolta i figli a scopo punitivo ma mai guardandoli in faccia per non umiliarli. Porgi l' altra chiappa.

Sculacciare i bambini: sì o no? I Paesi dove uno schiaffo porta in carcere. Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 da Silvia Turin su Corriere.it. In tutto il mondo, quasi 300 milioni di bambini di età compresa tra 2 e 4 anni ricevono regolarmente un qualche tipo di punizione fisica dai genitori o da chi si prende cura di loro, secondo un rapporto dell’UNICEF. A livello mondiale, circa 1,1 miliardi di genitori (o di chi si occupa dei bambini) considerano le punizioni fisiche necessarie per educare adeguatamente un bambino. Nel complesso, però, la forma più comune di disciplina utilizzata in tutti i paesi è la semplice spiegazione del perché un comportamento è sbagliato. Quello che è interessante è vedere che i genitori usano di solito una combinazione di metodi. I dati Unicef non evidenziano differenze di censo: «Nella maggior parte dei paesi i bambini provenienti da famiglie più ricche hanno le stesse probabilità di sperimentare punizioni violente rispetto ai bambini di famiglie più povere».

Senza il padre non c’è legge nè Stato, scrive Marcello De Angelis il 3 aprile 2019 su culturaidentita.it. L’educazione non è istruzione. Fino a qualche decennio fa a specificarlo erano le professoresse di Lettere. Erano tempi in cui si studiava il latino già alle scuole medie perché, ti spiegavano, già a dodici anni le parole esprimono idee e se non si conosce l’origine delle parole poi non è chiara la cornice in cui maturano le idee e si finisce per pensare male. Educazione, dunque, viene da e-ducere, cioè condurre fuori, mentre in-struire significa, più o meno, mettere dentro. Così ci diceva la professoressa e, a suo merito, precisava che tirare fuori quello che già c’era in natura spettava ai nostri genitori, mentre il suo compito era metterci dentro la testa delle cose, che, nel suo caso, erano il latino e il greco che, ribadiva, servivano non a chiacchierare (essendo lingue “morte”), ma a imparare a pensare. Oramai discorsi del genere non si fanno nemmeno nelle facoltà di sociolinguistica. E non è un bene. La crisi, apparentemente irreversibile e inarrestabile, del sistema dell’istruzione in Italia non si risolve anche perché forse non ci capiamo più sulle parole. Alcuni genitori ritengono ancora che la scuola debba istruire, cioè dare ai bambini, e poi agli adolescenti, gli strumenti per affrontare il percorso cognitivo. Le maestre si sentono offese se si fa notare loro che dovrebbero insegnare agli alunni a leggere, scrivere e fare di conto. Perché avrebbero studiato psicologia e pedagogia se il loro ruolo si riduce a correggere le doppie e gli accenti? A loro hanno spiegato che i bambini – come gli adulti – vanno “formati”. Ma anche qui bisognerebbe ricorrere al dizionario etimologico. Formare è dare forma, plasmare. Come si fa con la creta. Quale sia il tipo di formazione da destinare a bambini e adolescenti è parte di un dibattito irrisolto tra genitori e insegnanti che oggi, per l’assurdo evolversi dei paradossi sociali, talvolta finisce in cronaca, con genitori che picchiano i professori proprio perché cercano di fare il loro lavoro e cioè formare il carattere, veicolare il senso del dovere, imporre un minimo di regole e di disciplina o addirittura esigere buone maniere. Tutte cose che i ragazzi dovrebbero imparare a casa. In questa diatriba tra pretese e aspettative derivanti dal ruolo, ormai non chiaro, di genitori e docenti sfugge a chi non abbia figli in età pre-adolescenziale (categoria del tutto inventata per esigenze di mercato), che mentre si litiga tra educatori e istruttori, i nostri bambini vengono costantemente condizionati da altri, ovvero da blogger, youtubber e serie per adolescenti attraverso tv, tablet e telefonini. Un bravo psicoterapeuta infantile potrà spiegarci che nella maggior parte dei casi i comportamenti per incomprensibili e devianti dei nostri figli di 8/10 anni, provengono dall’inconsapevole identificazione con i beniamini delle serie tv, da cui apprendono non solo il linguaggio, ma anche lo story-telling dei rapporti interpersonali e generazionali. In questi casi, però, la soluzione non è lo psichiatra. Basta spegnere la tv e vietare il tablet. Il bambino piangerà, strillerà e vi dirà che vi odia… ma dopo un paio di giorni tornerà l’angioletto che era.

Fare il padre è un duro lavoro, ma senza padre non c’è autorità, non ci sono regole, non c’è legge e non c’è Stato. Insomma, proprio com’è adesso. Marcello De Angelis

·         La lezione di vita della prof: «Ecco perché il latino ci insegna l’amore».

La lezione di vita della prof: «Ecco perché il latino ci insegna l’amore». Pubblicato giovedì, 03 ottobre 2019 da Corriere.it. Ottomila condivisioni in pochi giorni, oltre 11mila like: a conquistarli su Facebook è una professoressa, siciliana che vive a Roma, che con un post sul latino ha incredibilmente riscosso un successo incredibile, ben oltre la sua platea di amici e conoscenti. L’incipt era proprio questo: «Lezione di latino». Non esattamente un titolo all’ultima moda. Eppure la sua lezione, di studio e d’amore, ha fatto centro. In un’epoca che sta riscoprendo l’importanza della lingua da cui provengono molte lingue europee, torna anche al centro degli interessi lo studio del latino. Nel citare quanto avvenuto in classe, Laura La Torre ha raccontato come prova a far capire ai suoi studenti quanto sia importante studiare il latino, che non è affatto una lingua morta, tutt’altro. «Non è una lingua morta perché nessuno la parla più, come credete voi. Quando una lingua ci parla, e ci parla d’amore, vuol dire che è ancora viva», dice La Torre. Che partendo dai paradigmi dei verbi «aspicio» e «respicio» dimostra ai ragazzi come si possa andare oltre lo studio banale e trovare il significato delle parole. «Questi due verbi si assomigliano perché vengono entrambi dal verbo “specio”, che significa guardare. Da cui anche “speculum”, specchio, un vetro dentro cui ci si guarda o dal quale ci guardiamo (ma non necessariamente ci vediamo, aggiungerei io). Da “aspicio”, come ci dice il paradigma, viene “aspectum”, cioè: che è stato visto. Pensate un po’: una cosa importante come l’aspetto è il riflesso di un’azione, il guardare. Senza sguardo non c’è aspetto o apparenza, perché se non siamo guardati la nostra forma esteriore non ha importanza. Quindi il nostro aspetto dipende dallo sguardo degli altri: non ci cureremmo della forma se gli altri non ci guardassero. Agire sul proprio aspetto significa controllare lo sguardo altrui, dire: ecco, tu vedi questo, perché lo voglio io... «Ora prendete l’altro verbo, “respicio”, che ha lo stesso paradigma. Quindi da respicio cosa viene fuori al supino? - Respectum! Rispetto, prof! - Ecco, un altro inutile paradigma di una lingua che nessuno parla, vero? “Respectum” significa: qualcosa che è stato guardato due volte, perché “respicĕre” indica il volgersi indietro, guardare una seconda volta qualcosa perché ci teniamo, perché ci ha colpito, perché la amiamo. Quel prefisso “re” ci fa tornare sui nostri passi, a ripercorrere un sentiero che ci porta verso ciò che ci interessa. Non si rispetta qualcuno se non pensi che sia importante. Non si guarda due volte qualcosa che non ci ha colpito. Il rispetto ha infatti a che fare con l’amore. Si può rispettare senza amare, ma senza rispetto non c’è amore. Le due cose sono collegate». La lezione va oltre, riportando il dialogo con gli studenti, che è sempre vivace e soprattutto orientato a portare alle cose della loro quotidianità anche il programma scolastico. Proprio come dovrebbe fare un buon insegnante che infonde amore e passione per le materie che porta in classe. Ma lei stessa non si aspettava che un post sul latino potesse riscuotere così tanto entusiasmo: «Sorpresa e gratitudine, questo provo io da qualche giorno- scrive- Il mondo là fuori deve essere un posto meraviglioso, se esistono così tante persone a cui piace il latino, se del latino si ha rimpianto e nostalgia, se la ricerca di senso, partendo dal significato, parla a così tanti cuori. Devo però tornare coi piedi per terra e confessare, soprattutto ai più entusiasti, che, nonostante quella lezione improvvisata ma felice, non tutti i miei alunni hanno ancora imparato i paradigmi di aspicio e respicio. Eppure, mi dico che se prima non si lancia l’amo con l’esca, è inutile tirare la lenza aspettandosi di pescare qualcosa».

·         L’avvento della scuola comunista.

Bocciato dai prof, ma promosso dai giudici: "Non c'è solo il rendimento". L'alunno era stato respinto in prima media, ma il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso: "L'ammissione alla classe successiva deve fondarsi su un giudizio più ampio rispetto al singolo anno scolastico". Giorgia Baroncini, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Era stato bocciato dai suoi professori, ma i giudici del Consiglio di Stato lo hanno promosso. Il caso arriva da un istituto scolastico della provincia di Cremona e vede come protagonista un giovane studente che lo scorso anno, a giugno, era stato bocciato alla conclusione delle lezioni di prima media. Ma il padre dell'alunno fin da subito non ha ben visto la decisione dei docenti e così ha iniziato una lunga battaglia legale contro il Miur e l'istituto scolastico della provincia.

I fatti. Le toghe amministrative del Tar di Brescia, in primo grado, avevano già dato ragione al ministero dell'Istruzione dell'università e della ricerca e alla scuola media cremonese. Poi però è arrivato il colpo di scena quando la sentenza si è ribaltata. I giudici del Consiglio di Stato hanno infatti accolto il ricorso presentato dal legale del padre e hanno promosso alla classe successiva, la seconda media, il giovane studente "bocciato". Ieri, come riporta il sito online La Provincia di Cremona, al ragazzo è stata notificata l'ordinanza pronunciata dalla sesta sezione del Consiglio di Stato. "L'ammissione alla classe successiva nella scuola secondaria di primo grado deve fondarsi su un giudizio che faccia riferimento a periodi più ampi rispetto al singolo anno scolastico, anche nel caso di parziale o mancata acquisizione dei livelli di apprendimento attesi in una o più discipline", hanno spiegato i giudici del Consiglio di Stato. Bocciato in prima media dai suoi professori, lo studente può ora festeggiare la sua promozione alla classe successiva grazie alla decisione dalle toghe. E ora, nonostante le lezioni scolastiche siano già iniziate da oltre due mesi, il ragazzino può decidere se frequentare o meno la nuova classe dove ad aspettarlo ci sono i suoi vecchi compagni.

L'ordinanza. L'ordinanza della sesta sezione del Consiglio di Stato, che si era già occupata di casi simili, ha in questo modo sancito un principio importante: di fatto non è giuridicamente possibile bocciare uno studente che ha concluso la prima media. O almeno non lo è per ragioni attinenti al solo rendimento scolastico: "L'ammissione alla classe successiva - hanno specificato le toghe - nella scuola secondaria di primo grado (in base agli articoli 1 e 6 del Decreto legislativo 13 aprile 2017 n. 62, ed alla circolare n. 1865 del 10.10.2017) deve fondarsi su un giudizio che faccia riferimento unitario e complessivo a periodi più ampi rispetto al singolo anno scolastico".

La scuola del nulla. Francesco Boezi il 2 ottobre 2019 su Il Giornale. Italia, 2050, cronache immaginarie dalla scuola del nulla. Prima ora: lezione di esterofilia. Il programma annuale della materia è bello vasto. “Come cancellare la propria memoria identitaria”: il professore osserva la cartina del mondo piazzata sulla parete e assegna questo compito. Saggio breve su carta riciclabile. C’è ancora l’ombra del crocifisso sul muro, ma solo quella. Da quando le radici cristiano-cattoliche hanno smesso di rappresentare un problema, sradicare il passato è diventato più semplice. Ha la certezza che gli studenti faranno un bel lavoro. Del resto hanno manifestato qualche giorno prima, giustificati, in difesa di un’ideologia, quella ambientalista, che è universale, sconfinata e inattaccabile. E poi il collega di “ecologia integrale”, quello della seconda ora, è il migliore su piazza. Avrà già parlato della necessità di viaggiare per curarsi dal sovranismo. Acqua passata. Sì, l’Erasmus obbligatorio per tutti è roba da universitari, ma questi ragazzi hanno i motori di ricerca a portata di mano: possono già apprendere che quando la nonna parla di acquistare la verdura dal contadino sotto casa sbaglia. Le importazioni dal sud est asiatico, quelle sì, rispettano i dettami del bravo cittadino del mondo. E tutelano l’ambiente, nonostante la cattiveria occidentale. C’è sempre il ribelle che si alza dal banco e domanda: “Non è forse meglio comprare italiano?”. Giurassici novecentismi. Capirà col tempo. Si può pensare ad un Erasmus anticipato: il giovane è intelligente, ma non si applica. E le istituzioni sono chiamate ad intervenire. Il professore ne parlerà con la preside, ma non ora: è impegnata con la “circolare” sull’ennesimo #Friday for future. Deve ricordarsi il cancelletto. Altrimenti il docente di hashtag sottolineerà pure quell’errore. Quell’uomo ha un carattere così algoritmico! E delle gerarchie se ne frega. Il programma è bello vasto – pensa il docente esterofilo – e bisogna arrivare in fretta alla parte anti-genitoriale: il fatto che i cittadini del futuro passino troppo tempo con la propria famiglia può deviare la didattica. Basta pranzi domenicali. Basta discorsi sul luogo di nascita. Come può lo Stato riempire pure quello spazio educativo? La domenica del gender ha cessato di essere utile. Che i generi sessuali non esistano è chiaro a tutti dalle elementari. Vedremo. Suona la campanella. La consegna dei compiti è cosa fatta: il Bluetooth aiuta. Entra quello di “ecologia integrale”. La preghiera iniziale è per Greta Thunberg. Poi ci sarà la ricreazione, equa e solidale, sperando però che lo studente ribelle non abbia portato pure oggi pane e frittata.

Le Università italiane svendute ai centri sociali. La morte dello studente romano che cercava di entrare ad un rave party alla "Sapienza" racconta di una situazione nel complesso molto particolare. Panorama il 27 giugno 2019. Se un giovane muore mentre sta cercando di entrare ad un "Rave Party" siamo già davanti ad un dramma. Se poi scopri che il "Rave Party" (ricordiamolo, una festa dove tutto è concesso e poco se non nulla è legale) è all'interno di una Università allora abbiamo un problema. Ma se, per concludere, capisci che l'ateneo in questione è la "Sapienza" di Roma, una delle principali università d'Italia e del mondo per numeri e prestigio e che feste come queste (ripetiamo, illegali) avvengono con una certa frequenza, sotto gli occhi di tutti e che nessuno, per prime le autorità preposte, sia mai intervenuta allora la situazione è davvero drammatica. Qualcuno dovrebbe spiegare chi autorizza tutto questo. Qualcuno dovrebbe spiegare come sia possibile che centinaia di giovani (e non solo) trasformino gli spazi di un ateneo in una discoteca a cielo aperto dove la droga è a portata di mano e l'alcol free (senza scontrino). Il rettore della facoltà si è difeso: "Ho fatto denunce e segnalazioni. Nessuno è mai intervenuto. Non sono uno Sceriffo". Dalla Prefettura fanno sapere che "per intervenire con la forza dobbiamo avere l'autorizzazione del Rettorato". Insomma, il solito scaricabarile. Che nasconde però una cosa molto grave. Cioè che questi rave party universitari alla fine non danno troppo fastidio, anzi. Ad alcuni piacciono pure. Fino a quando non ci scappa il morto. Il problema in realtà è più profondo. Tempo fa sulla facciata della "Statale" di Milano è comparso uno striscione in cui si inneggiava alla morte di Salvini. Anche alla Sapienza non mancano cori e cartelli poco eleganti verso il Ministro dell'Interno. Dietro tutto questo il solito mondo dei centri sociali che, da anni, gestiscono un certo modo di vivere e pensare anche dentro alle Università. Grazie anche al lassismo di chi fin dal principio avrebbe dovuto fermarli ricordando che esistono delle regole e che queste regole vanno rispettate. Invece, a suon di concessioni (se non di appoggi veri e propri) siamo arrivati alla situazione attuale. Che è grave e necessita di interventi rapidi, decisi, definitivi. Ma semplici. Come dire: no, i Rave Party non si fanno. Soprattutto non dentro una Università. Dove dovrebbero essere formate le persone, prima ancora che dottori o professori.

Maturità 5s: insulti a Fallaci e Zeffirelli. Fra i temi un libro di Montanari, storico dell'arte grillino (e anti-leghista). Vittorio Sgarbi, Giovedì 20/06/2019. Premessa: non c'è competizione. Ieri mattina, il ministro dell'Istruzione Marco Bussetti mi ha telefonato, con autentico compiacimento per la coincidenza, che non si può dire influenza, del suo interesse per il mio libro Il Novecento (da Lucio Fontana a Piero Guccione - La nave di Teseo editore) con la scelta (degli uffici competenti del ministero, non da lui influenzati, come vedremo) di uno dei temi degli esami di maturità su «l'eredità del Novecento», soprattutto dopo l'appello, anche mio, per lo studio della Storia a scuola e la riabilitazione della «traccia di Storia» nella prima prova dell'esame di maturità, come richiedeva anche la senatrice Liliana Segre. Peccato che, alla lettura dei temi, non solo non ho trovato traccia della mia posizione o delle tesi del mio libro sull'arte del Novecento ma ho visto una lunga citazione di un critico d'arte fortemente politicizzato e radicalmente polemico. Certo, una meravigliosa prova dello spirito democratico di questo governo fascista. Se è vero che «Montanari è nominato nel consiglio degli Uffizi su indicazione diretta del governo gialloverde e allo stesso tempo è consulente per la cultura del sindaco (di Sel) di Sesto Fiorentino». E mentre dal suo podio (sul quale io già fui con un brano del mio discorso per il 150º dell'Unità d'Italia per gli esami di maturità del 2016) Montanari scriveva banalità, in una cattiva lingua piena di anglicismi, neologismi e tautologie («palazzo civico», «campagna antropizzata», «attualismo superficiale», breaking news, «intrattenimento fantasy» e ancora «formula di intrattenimento» - dopo poche righe - «relativizza», «cortocircuito col futuro». Brutte locuzioni, fino alla ridicola vanità: «Ogni volta che leggo Dante non posso dimenticare di essere stato battezzato nel suo stesso battistero» e all'immancabile critica alla politica attuale: «Il rapporto con il patrimonio artistico ci libera dalla dittatura totalitaria del presente»), Salvini censurava, con grande dignità, il pensatore proposto agli studenti con le sue facili e prevedibili ovvietà: «Montanari? Chieda scusa per gli attacchi a Oriana e Zeffirelli e lasci ogni incarico». Perché non si parteggi per la vittima, glorificato dal ministero e criticato da Salvini, voglio riportare le sue dichiarazioni dopo la morte di Zeffirelli e la mia risposta (prima di Salvini).

Montanari: Si può dire che il #maestro Scespirelli era un insopportabile mediocre, al cinema inguardabile? E che fanno senso gli alti lai della Firenzina, genuflessa in lutto o in orbace, ai piedi suoi e dell'orrenda Oriana? Dio l'abbia in gloria, con Portesante e quel che ne consegue. Amen.

Sgarbi: Che un modesto critico d'arte adiposo di cui non si conosce nulla di originale e non seducente neanche come divulgatore chiami Oriana Fallaci «orrenda» e approfitti della morte di Zeffirelli per fare lo spiritoso e il bastian contrario dà la misura di una deficienza critica e di una presunta superiorità che è solo un atto di vigliaccheria. Se solo non ti accomodi al pensiero unico, con il coraggio di Zeffirelli, c'è sempre qualcuno che cerca di liquidarti con il disprezzo. La verità è che nella conformità del linguaggio con il suo temperamento Zeffirelli è stato, riconosciuto dal mondo, un grande regista di opera lirica, convivente con uno scenografo allenato da Luchino Visconti. La valutazione liquidatoria, in questo momento, è solo una forma di esibizionismo, nella speranza che qualcuno si accorga di te perché non hai partecipato all'universale compianto «in lutto o in orbace». La verità degli uomini non si misura con un aggettivo assassino. Parce sepultis, che spesso sono più vivi dei loro critici in agonia. Che dire? Un consiglio a Bussetti, anche a mio svantaggio: per le prossime tracce evitiamo i vanitosi viventi alla moda. Possiamo proporre il pensiero di tanti più grandi di noi, che sono nella Storia. Migliori istruzioni per «l'uso del futuro» senza le presunzioni e le isterie di Montanari ci possono venire da Roberto Longhi, Federico Zeri, Giuliano Briganti, Antonio Cederna. E vanno sempre bene Vico, Croce, Leopardi, Montale, Leonardo e Galileo. Da Leonardo a Montanari. Una triste Storia.

Il grecista Lapini: «In Italia l’industria del voto fasullo, senza i classici si torna al Medioevo». Pubblicato lunedì, 17 giugno 2019 da Iacopo Gori su Corriere.it.

Professor Lapini, è vero che nessuno oggi conosce più il greco e il latino come trent’anni fa? 

«È vero. Ma le cose non andavano bene neanche prima. La sofferenza cominciò nel ‘68 con la guerra al liceo classico in quanto scuola dei figli di papà; poi l’eliminazione del latino alle medie; poi la scuola di massa, con la perdita di centralità antropologica del bravo a favore del mediocre; e poi Luigi Berlinguer, l’autonomia, la concorrenza al ribasso. Una serie di disastri di cui gli studi umanistici, ventre molle della scuola, sono stati la prima vittima». 

Perché ventre molle?

«Le discipline umanistiche non producono beni tangibili, non danno nulla nell’immediato, non interessano alle multinazionali. Sono investimenti sulla persona, e a lunga scadenza». 

Walter Lapini, professore ordinario di letteratura greca all’università di Genova, oltre 300 pubblicazioni, uno dei migliori grecisti italiani, ha le idee molto chiare.

Com’è cambiato il modo di insegnare il greco e il latino? 

«Le famiglie vorrebbero il figlio imparato, ma a costo zero. Niente ostacoli, lacrime, bocciature, crisi, vacanze decurtate. Dinanzi a ragazzi sempre più sprovveduti, spesso con alle spalle delle pessime scuole medie, si tentano vie alternative, ad esempio insegnare le lingue antiche come si insegna l’inglese. Io non credo all’efficacia di questi metodi, ma sono pur sempre dei metodi. Quello che non si può ammettere è l’industria del voto fasullo, spesso organizzata dai presidi che ricevono dall’alto l’ordine di promuovere e lo trasmettono in basso. Un tempo i professori si ribellavano, ora fanno a gara per adeguarsi per primi».

C’è chi sostiene che le lingue morte vadano abbandonate perché ci sono le traduzioni.

«Intanto sfatiamo il mito che se si legge in traduzione Tolstoj si può leggere in traduzione anche l’Eneide. Fra noi e i Russi dell’’800, o i Francesi del ‘700, c’è una continuità. Fra noi e gli antichi no. L’Eneide in italiano è brutta. Lo studio dell’antico senza le lingue antiche è un assurdo». 

Pretendere che tutti studino a tal punto di essere in grado di leggere in latino non è una cosa da poco però. 

«Sapere il latino ti fa “vedere” al di là dell’italiano, crea un contatto diretto con il testo. E leggere l’Eneide in italiano riacquista un senso. Altrimenti non fa che approfondire l’estraneità».

Il mondo cambia, è sbagliato inserire materie nuove? 

«Non è sbagliato. Dipende dall’idea di scuola che si ha. O tante materie fatte male o poche materie “universali”. Le esigenze, le tendenze, mutano di continuo: bisogna dare una formazione che sia funzionale a tutto, dunque astratta, non professionalizzante».

Al tempo dei traduttori online, cosa si rischia a non saper tradurre? 

«Pensate a un archeologo greco che non sa il greco. O a un docente di filosofia antica che non sa le lingue antiche. C’è un traduttore dell’Etica Nicomachea di Aristotele che prende un granchio dopo l’altro, ad esempio confonde un verbo che vuol dire ”costringere” con un verbo che vuol dire ”oziare”. Dài dài si tornerà ai tempi di Guglielmo di Moerbeke, un fiammingo contemporaneo di Dante, che traduceva Aristotele in latino prendendo topiche colossali. E poi il mondo antico mica finisce con l’antichità. I filosofi moderni hanno scritto in latino per tutto il ‘600 e oltre. Chi studia Spinoza deve sapere il latino. Non sapendo tradurre rischiamo di perdere un’altra volta i classici e di tornare al Medioevo».

A che cosa serve studiare oggi le lingue morte? 

«L’antichista John Ira Bennett, in un prezioso articolo del 1908, rispondeva a questa domanda con una controdomanda. Perché studiare il greco? E allora perché pettinarsi? Perché usare il coltello e la forchetta? Un tempo non c’erano. E perché la musica, perché la pittura? Tutte cose che non producono, tutte cose inutili. Ma le lingue morte hanno anche un’utilità diretta; creano meccanismi di ragionamento, meccanismi performanti; forniscono strumenti, technicalities, spendibili ovunque, nel pensiero, nella scienza. Piaccia o no, i migliori scienziati vengono da studi umanistici. All’estero hanno soppresso questi studi e non ci hanno guadagnato: hanno delle eccellenze ma tutto intorno il deserto. La nostra scuola è l’unica che possieda il liceo classico. Ed esporta cervelli ovunque. Un caso?»

Siamo diventati un brand da esportare nel mondo? La moda italiana come gli antichisti italiani? 

«Precisamente! Siamo un Paese in agonia, abbiamo perso ogni primato, ogni eccellenza tranne la scuola. Se rinunciamo a quella non c’è scampo».

E perché allora la tendenza è abbandonare lo studio delle lingue antiche? 

«Un po’ perché vogliamo spappagallare l’estero, un po’ perché siamo succubi di un sistema che, volendoci trasformare in consumatori e sudditi, non può che avversare il pensiero critico e gli studi umanistici in cui esso si produce. Le lingue antiche hanno l’aggravante che sono faticose, richiedono pazienza, sono a rischio di insuccesso. Cosa non prevista dai miti di oggi».

Quando si è innamorato del greco? 

«In quarta ginnasio, a prima vista. È come quando ci si innamora di una persona: nessuno sa perché. L’autore preferito? Banalissimo: Omero».

I veri professori insegnano, non manipolano. Stefano Zecchi, Sabato 18/05/2019, su Il Giornale. La cosa più difficile da imparare è ragionare con la propria testa. È necessario il coraggio, l'autostima, la conoscenza. Il coraggio, come spiegava Don Abbondio, o ce l'hai o nessuno te lo può dare; ma autostima e conoscenza si possono apprendere, e gli artefici di questo apprendimento arrivano dalla scuola e dalla famiglia. In questo caso, è più importante la scuola, sia perché è una realtà di socializzazione più complessa di quella che può provenire dalla famiglia, sia perché il suo ruolo essenziale è quello di insegnare, dunque di far conoscere e di sviluppare l'autostima di un giovane attraverso l'apprendimento, attraverso il sapere. Compito molto difficile, certo, ma gli insegnanti vengono pagati per svolgere questo compito. Ciò che ha fatto l'insegnante palermitana, i cui alunni in una video hanno accostato le leggi razziali nazifasciste al decreto sicurezza del ministro dell'Interno Matteo Salvini, è drammatico e grottesco al tempo stesso. Credo profondamente nella libertà di pensiero, quindi se l'insegnante in questione ritiene Salvini non diverso da Hitler, Mussolini, mettiamoci anche Stalin, padrona di pensarlo e di dirlo ma a casa sua, tra gli amici, al bar, anche in un dibattito televisivo. Cioè, libertà di pensiero: poi spetterà ai suoi interlocutori capire, se lo volessero, quali siano i fondamenti di quel pensiero. A scuola assolutamente no, il comportamento deve essere diverso: qui la propria idea politica deve rimanere dietro le modalità dell'insegnamento, perché il compito dell'insegnante è di far conoscere cercando lo sviluppo di una coscienza critica da parte del giovane. L'insegnante palermitana, che Salvini si augura torni presto a scuola («giovedì sono a Palermo e vorrei incontrarla», ha detto) ha fatto questo? No, quindi è stata una pessima docente. Tenere separato il proprio punto di vista dall'insegnare la storia, l'italiano è difficilissimo, ma un insegnante è tanto più bravo quanto più riesce a tenere distinte le due posizioni (come dovrebbe fare un magistrato). Drammatica e grottesca l'insegnante palermitana. Drammatica perché rovina la testa dei suoi studenti, quando dovrebbe proteggerla e aiutarla a svilupparsi nell'autonomia di giudizio: cosa del tutto trasgredita con un'ignorante illustrazione della realtà che non rispetta la storia. Capisco che nel mondo della politica, del dibattito televisivo le associazioni tra passato e presente, tra le vicende storiche di un tempo e la realtà presente possano con semplicistica comunicazione essere mistificate per provocare. Ma a scuola no; questo è il luogo deputato alla comprensione scientifica dei fatti, all'approfondimento del sapere: le banalità non devono trovare spazio tra le mura della scuola, diversamente non è una scuola, ma un bar, un talk televisivo, anche. Poi, dicevo, grottesca: l'insegnante palermitana è una penosa figura grottesca. È la nostalgia del Sessantotto e dei successivi Anni di piombo, quando si era inventato «l'antifascismo militante». Nel suo nome, veniva picchiato o ammazzato chiunque non si schierasse per l'antifascismo militante, che di antifascismo non aveva nulla, ma era il pretesto per l'esercizio della violenza contro un nemico designato. Non è un caso che, chi si è schierato a favore della professoressa palermitana, evochi l'antifascismo militante: cinquant'anni fa tragico, rievocato oggi grottesco.

Ora la prof anti Salvini piange: "Ho speso la vita per la scuola". Parla la professoressa sospesa: "Allontanarmi dalla scuola è la ferita più grande". Francesca Bernasconi, Venerdì 17/05/2019, su Il Giornale. "Mi sento molto amareggiata: la mia è stata una vita dedicata alla scuola". A parlare è la professoressa di italiano, Rosa Maria Dell’Aria, sospesa dall'insegnamento per due settimane, dopo il compito dato agli alunni, che hanno paragonato il decreto sicurezza alle leggi razziali. Si tratta di un video e di qualche slide, nelle quali Matteo Salvini viene accomunato al Duce. A scatenare le verifiche che hanno portato alla sospensione della docente dell'Istituto di Palermo, era stato un attivista di destra, che su Twitter scriveva: "Salvini-Conte-Di Maio? Come il reich di Hitler, peggio dei nazisti. Succede all'Iti Vittorio Emanuele III di Palermo, dove una prof per la Giornata della memoria ha obbligato dei quattordicenni a dire che Salvini è come Hitler perché stermina i migranti. Al Miur hanno qualcosa da dire?". Da qui era partita l'ispezione, che aveva portato alla sospensione della docente, l'11 maggio. Ma ora la professoressa si difende: "Non c'era faziosità politica". Il video che mostra l'immagine di Salvini, accostata a quella di Mussolini, infatti, "è stato il risultato dell'elaborazione dei ragazzi, risultata dal lungo dibattito portato avanti dall'inizio dell'anno". La professoressa spiega, in un video a TgR, ripreso dal Corriere della Sera, come dall'inizio dell'anno scolastico si sia parlato di diritti umani: "Sono emerse diverse opinioni in merito, si è discusso, ma nessuno è stato bloccato, represso o rimproverato". Nessuna intenzione di orientamento politico, secondo Rosa Maria Dell'Aria, ma solamente la libera discussione e il libero pensiero, che nel caso del compito incriminato hanno dato come esito il confronto tra il decreto Sicurezza e le leggi razziali. Diverse le critiche sollevate dall'opposizione contro la decisione presa ai danni della professoressa: "Non è accettabile in un Paese libero e civile, nato su fondamenta antifasciste, assistere a un fatto inqualificabile come la sospensione di una docente da parte degli ispettori scolastici per non aver esercitato una censura preventiva sul lavoro di un suo studente", hanno sostenuto i senatori del Movimento 5 Stelle. Alla prof, intanto, rimane l'amarezza per un provvedimento che non ritiene meritato e conclude: "Allontanarmi dalla scuola è la ferita più grande di questo provvedimento".

La preside sospesa e la politica in prima superiore. Fa discutere quanto avvenuto in un Istituto dove gli studenti hanno paragonato le leggi razziali del nazismo al decreto Sicurezza. Panorama il 17 maggio 2019. Prendete una scuola, un Istituto Industriale; prendete i ragazzi di prima, 14 enni; prendete un compito chiesto dagli insegnanti: un video dedicato alla Giornata della Memoria; aspettate qualche giorno ed ora di lavoro per scoprire che nel filmato le leggi razziali dell'epoca fascista e nazista (1938) sono paragonate ed assimilate al Decreto Sicurezza voluto dal Governo Conte. Aggiungete una segnalazione della cosa che arriva al Provveditorato, la conseguente sospensione della preside (15 giorni, per "non aver vigilato" sull'operato degli studenti) con decurtazione dello stipendio ed avete l'ultima polemica italiana su "clima d'odio e violenza esistente nel paese...". La vicenda avviene in Sicilia. Poco importa quale sia la scuola, la classe e tantomeno la Preside. Importa cosa ci sia "dentro" a questa vicenda. Inutile dire che qualcuno (del Pd) ha già gridato allo "scandalo", al "ritorno dei Balilla", ad un "salto indietro nel passato, pericoloso". Perdite di tempo che distolgono da quello che dovrebbe essere l'unico, vero, tema di discussione: cosa c'entra il decreto sicurezza nel programma di studi di una prima superiore? Come è possibile che un compito dato alla classe, la creazione di un video legata alla Giornata della Memoria, si trasformi in una critica ad un provvedimento del Governo? E' tutto frutto del pensiero particolarmente acuto ed attento degli studenti o qualcuno (leggasi professore) ci ha messo del suo? Sono queste le domande da farsi e che ci obbligano a considerazioni importanti dato che stiamo parlando dell'educazione di ragazzini di 14 anni, dei nostri figli. Quindi: cosa ci fa la politica, peggio, la politica di parte, nelle ore di lezione di una prima superiore? E' giusto che i ragazzi vengano istruiti, educati, cresciuti e responsabilizzati; è giusto parlare con loro di politica (di come funziona, quale sia la sua storia, l'educazione civica). E' giusto spiegare, partendo da una ricorrenza come la Giornata della Memoria, che cosa sia stato quel periodo e perché. Ma arrivare a parificare l'inferno di 80 anni fa con alcune misure del Governo di oggi, 2019, è un'altra cosa. E' usare i ragazzi per fare propaganda politica, ovviamente di parte. Non è aiutarli a crescere, non è insegnare, non è formare persone. E' manipolarle. L'esatto contrario di quello che dovrebbe fare un'insegnante, una preside, la scuola in generale.

Bologna, maestra comunista fa cantare "Bella Ciao" agli infanti: furia della Lega e Forza Italia, scrive il 4 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "Solo a Bologna possono fare ascoltare all'asilo nido Bella Ciao.. e sembra pure normale". Il sottosegretario alla Cultura leghista, Lucia Borgonzoni, dalla sua pagina Facebook, si scaglia contro l'episodio avvenuto in un asilo nido di Bologna, dove il canto popolare della Resistenza, inserito in una compilation di canzoni per bambini fatta ascoltare ai piccoli, ha suscitato la reazione di un genitore che ha scritto al Comune. In effetti, un'idea davvero geniale di qualche maestrino rosso nostalgico. A protestare anche Forza Italia: "Solo nella rossa Bologna il sindaco può considerare 'normale' che in un nido comunale i bambini cantino e ballino sulle note della 'notissima canzone per bambini' Bella Ciao. Bologna, un’altra volta, rossa di vergogna" attacca il consigliere comunale di Bologna Francesco Sassone, dal suo profilo Facebook. 

Cinquant’anni fa morì la vecchia scuola di classe, scrive Lanfranco Caminiti il 24 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Ame ha detto sfiga, io sono di quella generazione che gli esami li ha fatti tutti, che era rimasta intrappolata nella lettera dell’articolo 33 della Costituzione. Ame ha detto sfiga, io sono di quella generazione che gli esami li ha fatti tutti, che era rimasta intrappolata nella lettera dell’articolo 33 della Costituzione: «È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale». Perciò, proprio tutti i gradi – dalle elementari alle medie, dalle medie per accedere al liceo – e Mi è andata bene solo alle elementari, che facevo la Montessori ( ne porto ancora tutti i segni), però avevo il grembiule a quadretti colorati e non il pastrano nero e c’erano dai tavolini bassi e piccoli e non quei banchi enormi e scuri, e venivano psicologi e pedagoghi e aspiranti maestre e era tutto un frullare di oh e ah – ma la maestra menava lo stesso, quando non c’erano gli oh e gli ah, e nascondeva sta sferza lunga di legno in uno sfiatatoio dell’aria e quando lo scoprii gliela nascosi e quando lo scoprì lei che ero stato io me ne diede tante, di quelle bacchettate sulle mani, che levati – che, insomma, un po’ scapocchio ero pure da piccolo eh. Perciò, alla maturità prima che facessero la riforma, io portavo tutte le materie: quattro scritti in quattro giorni, orale su tutte le materie degli ultimi due anni di liceo, un solo membro interno, riparazioni a settembre. Un incubo. Mi andò bene. «Navis quae in flumine magna est in mari parvula est; gubernaculum quod alteri navi magnum alteri exiguum est. Tu nunc in provincia, licet contemnas ipse te, magnus es». È Seneca, le Lettere, e lo so ancora tradurre: «La nave che nel fiume ti sembra grande, in mare ti appare piccola; un timone che può essere grande per una nave, è piccolo per un’altra. Ora tu in provincia, anche se ti compiaci a sminuirti, mi sono fatto pure il latino alle medie, in seconda e terza. E pure la versione dall’italiano al latino, mi sono fatto (oltre quelle dal latino e dal greco all’italiano) alla maturità. E mi sono perso la riforma della scuola media (legge n. 1859 del 31 dicembre 1962, quando finalmente Dc e Psi si misero d’accordo) che aumentava le classi miste maschili e femminili – noi eravamo tutti maschietti, i masculi ccu i masculi, i fimmini ccu i fimmini, e non facevamo che sbucciarci le ginocchia e i gomiti e prenderci a pugni nel naso, rimani grande». Ne ho fatto una massima di vita, non mi sono quasi mai spostato dalla provincia e dai paesi del sud. Per dire poi, come ti rimangono impresse le cose. Ma avevo avuto un grande allenamento: il mio professore di latino e greco – un uomo imponente, dal naso antico, un volto virile, un doppiopetto liso che ci potevi leggere la trama di vetustà gloriose, che andava in giro per il mondo a vincere certamen internazionali di latino, per cui incuteva gran rispetto e gran terrore – ci chiamava alla cattedra per tradurre “all’impronta”, senza vocabolario. I nostri siparietti erano di questo tipo, dopo lettura di un testo e traduzione lì per lì, che io abborracciavo: «Caminiti, lei mette sempre troppi avverbi, i greci no» – dove forse c’era un sottinteso di filosofia della vita e della morte, e l’antichità e la decadenza. Ma io, che tendevo a ammischiarla: «È che cerco di tradurre modernamente». E lui: «Un altro avverbio, Caminiti, vede?» Le tracce di italiano erano tre: la prima: «Significato storico e valore perenne del monito che il Berchet rivolse agli scrittori del suo tempo: “Rendetevi coevi al secolo vostro”» ; la seconda: «Congresso di Vienna del 1814- 15; pace di Versaglia del 1919; due diversi assetti d’Europa: quali?» ; la terza: «Passo da interpretare di Leopardi dal titolo: “Piccolezza e grandezza dell’uomo”». C’era scritto proprio così: Versaglia, non Versailles. Io non me lo ricordo quale tema scelsi. Però mi ricordo che la citazione del Berchet non mi sembrò del tutto estranea a quello che era accaduto al liceo Berchet di Milano. Il 26 gennaio 1968 era un venerdì. E quella mattina si sarebbe dovuta svolgere l’elezione dei parlamentini scolastici, che mimavano i partiti, e successe, invece, che tutti quelli che, per voce comune, sarebbero stati eletti, facevano un passo indietro, rinunciavano. E avevano convocato un’assemblea in palestra. Le classi si svuotarono e la palestra si riempì: e ci fu una votazione e tutti i ragazzi dissero SI, sì all’assemblea, NO ai parlamentini. Dissero: sciopero, e fu il primo in Europa degli studenti medi. Può sembrare niente, ora, e invece era un ribaltamento: tra quei ragazzi, c’era la futura classe dirigente “coltivata e destinata” di Milano, e non solo. Ecco perché mi sembrò un “ammiccamento” quella traccia di tema. Poche settimane dopo l’assemblea del Berchet, il 6 marzo, l’altro pezzo di élite futura di Milano, il liceo Parini, occupò il proprio istituto. E venne la polizia, e i ragazzi bloccavano i cancelli, e quelli picchiavano con i manganelli sulle mani: vinsero i poliziotti, quel giorno. Ma ormai stava arrivando la valanga. Il Parini, era stato, solo due anni prima, al centro di un “caso” nazionale. Il 14 febbraio del 1966 gli studenti Marco De Poli, Claudia Beltramo e Marco Sassano, animatori del giornale studentesco La Zanzara, hanno l’idea di redigere l’inchiesta «Che cosa pensano le ragazze d’oggi». Al centro dell’inchiesta, il ruolo della donna nella società e questioni come l’educazione sessuale nelle scuole, la legittimità o meno dell’uso di contraccettivi e i rapporti prematrimoniali. L’inchiesta diventa una “bomba”, che occupa le prime pagine dei giornali e il dibattito politico e spacca il Paese in due, tra colpevolisti, con la Democrazia cristiana e Movimento sociale italiano appaiati, e innocentisti, la sinistra e cattolici i progressisti, che si mobilitano a difesa dei tre studenti. Il 16 marzo i tre giovani redattori vengono convocati in Questura e denunciati per stampa oscena e corruzione di minorenni. Il giudice – seguendo una legge fascista – ordina di sottoporli a visita medica per «verificare la presenza di tare fisiche e psicologiche». Claudia Beltramo si oppone e pretende di vedere un avvocato. Lo scandalo prenderà forma con un processo per direttissima ai tre giovani. Al processo partecipano oltre quattrocento giornalisti di testate italiane e straniere, mentre nelle strade migliaia di studenti scendono in piazza in segno di protesta, per la prima volta dal dopoguerra. Marco De Poli, Claudia Beltramo e Marco Sassano saranno assolti il 2 aprile 1966, ma le polemiche non si fermeranno. C’era questo nell’aria – e c’era stata la mobilitazione per l’alluvione di Firenze del 1966, e c’era il Vietnam, e il Che, e Berkeley e il Maggio francese – e c’era stata la Lettera a una professoressa di don Milani. In classe con me c’erano i Gianni (figli di operai) e c’erano i Pierini ( figli di avvocati, notai, dottori, commercianti) – e benché si stesse in banchi affiancati la distinzione di classe c’era, eccome. Così, io portavo ancora tutte le materie alla maturità: quattro scritti in quattro giorni, orale su tutte le materie degli ultimi due anni di liceo, un solo membro interno, riparazioni a settembre. Un incubo. Mi andò bene, ma era una roulette russa. Per dire, a Umberto Eco non andò bene, scrisse otto pagine per il suo tema d’italiano ma si ebbe solo un voto discreto. E cito Eco – chissà quanti altri letterati e intellettuali sudarono agli esami di Stato o non eccelsero – perché “da grande” pubblicò poi Come si scrive una tesi di laurea, che fu un buon successo editoriale, un longseller che si vende ancora adesso, e figurarsi se non aveva il suo manuale per sfangare gli esami di maturità alla grande, eppure. Però, ci dovete capire a noi, che facevamo gli esami “alla vecchia maniera”: tra noi maturandi giravano le voci più assurde, che in filosofia ti potevano chiedere di: «Esporre nell’ordine, come le indica Hegel, le categorie della logica», oppure, in italiano: «Siamo nel Paradiso, l’incontro tra Dante e Cacciaguida: quando è nato Cacciaguida? E mi elenchi tutti i discendenti da Cacciaguida fino a Dante», oppure in latino: «Di quanti libri è composto il poema di Apollonio Rodio? E quanti versi in tutto comprende?». C’erano anche le leggende di riscatto; tipo, che a un professore della commissione che aveva chiesto: «Come si chiamava il cane di Pascoli?», la candidata aveva risposto: «Ma lei lo sa come si chiama il gatto di Ungaretti?» Beh, era il Sessantotto, no? L’esame di maturità fu introdotto nel 1923 da Giovanni Gentile, nell’ambito della sua riforma della scuola, «la più fascista delle riforme», come la definì Mussolini. Consisteva in quattro prove scritte più l’orale sul programma degli ultimi tre anni. La commissione chiamata a giudicare era composta interamente da docenti esterni nominati dal ministro e venivano assegnati tanti voti quante le materie affrontate. Erano anche previsti gli esami di riparazione. Nella prima sessione il 75 percento dei candidati risultò bopcciato. Ci fu un gran malumore dei gerarchi e dei genitori, e allora si provò a intervenire per smussare. Nel 1937 Cesare Maria De Vecchi riduce il programma d’esame a quello dell’ultimo anno e nel 1940 Giuseppe Bottai introduce i “giudici naturali”, ovvero la commissione è composta dai docenti dei candidati e solo il presidente (un professore universitario) e vicepresidente (un preside) sono di nomina ministeriale. Ma c’è la guerra e non si cambia nulla. Con Guido Gonnella nel 1947 si ritorna alla forma ante- guerra con due piccole modifiche, ovvero l’introduzione di commissari interni accanto a quelli esterni e la limitazione dei programmi agli ultimi due anni. Nel 1969 cambiò tutto. Fiorentino Sullo nel 1969 ( decreto legge del 15 febbraio), cinquant’anni fa, propone gli esami facilitati: solo due prove scritte, una fissa di italiano e una specifica in funzione del tipo di istituto; una prova orale che verteva su due materie scelte ( una dallo studente e una dal gruppo di professori) fra un gruppo di quattro indicate anticipatamente dal ministero della Pubblica istruzione; aboliti gli esami di riparazione mentre è introdotto il giudizio di ammissione del consiglio di classe. Il punteggio finale è complessivo e è in sessantesimi. Inoltre con la liberalizzazione degli accessi agli studi universitari l’esame è esteso a tutti i corsi di studio dei cicli quadriennali e quinquennali di istruzione secondaria superiore (prima era in vigore solo nei licei). Questa formula, che sarebbe dovuta essere una sperimentazione dalla durata di soli due anni, ne durò trenta. Le tracce di italiano di quell’anno furono quattro, a “tema libero”, e recitavano più o meno così: 1) i ragazzi oggi nel mondo, come si trovano, cosa pensi di poter fare per cambiarlo; 2) come la intendereste voi, una letteratura a sfondo sociale?; 3) la natura da difendere; 4) com’è l’Europa unita e quali possono essere le concrete realizzazioni di oggi e quelle che si potranno attuare un domani. Insomma, lo vedete da voi: una pacchia. Ma la scuola diventava finalmente di massa, e lo studio un diritto. Cinquant’anni fa.

·         Il business delle lezioni private: vale quasi un miliardo ed è quasi tutto in nero.

Il business delle lezioni private: vale quasi un miliardo ed è quasi tutto in nero. Da Milano a Napoli, i costi per le ripetizioni a domicilio. Marco Cimminella su it.businessinsider.com il 31 agosto 2019. L’estate non è sempre sinonimo di vacanza. Lo sanno bene tutti quei ragazzi e ragazze che hanno dovuto approfittare di giugno, luglio e agosto per recuperare i debiti scolastici contratti in una o più materie. Facendo la fortuna di insegnanti e studenti universitari, che con i soldi delle lezioni private arrotondano lo stipendio o, più spesso, ci vivono. Senza però quasi mai emettere fattura. Il business delle ripetizioni vale circa un miliardo di euro all’anno e continua a essere in gran parte sommerso, visto che oltre il 90 per cento delle attività avviene in nero. In genere, questo mercato si concentra proprio nei mesi estivi: molti giovani mettono la testa sui libri nel tentativo di recuperare quello che non si è fatto nel corso dell’anno appena concluso. Ma ci sono anche studenti di medie e superiori che ricorrono alle lezioni a domicilio da settembre a maggio, per non rimanere indietro e rischiare la bocciatura. Un aiuto che pesa in modo diverso sul bilancio familiare, a seconda delle materie, degli insegnanti e della regione geografica. I prezzi infatti non sono tutti uguali. Milano è la città più cara: qui un’ora di lezione di greco o latino con un professore universitario può costare anche 50 euro, rispetto alla media nazionale di 30 euro. Secondo le stime del Codacons, il giro d’affari per il 2018/2019 è stato di 950 milioni di euro, in linea con quello dell’anno precedente e in gran parte sommerso. Per contrastare il nero, all’inizio di quest’anno il governo ha introdotto una flat tax al 15 per cento per i compensi derivanti dalle lezioni a domicilio. La misura inserita nella legge n. 145/2018 (manovra di bilancio 2019) e disciplinata nei commi da 13 a 16, prevede un’imposta sostitutiva che si applica ai redditi generati dall’attività di ripetizioni private, svolta dai docenti titolari di cattedre nelle scuole di ogni ordine e grado. Ma il provvedimento non ha dato gli effetti sperati: “La misura pensata dall’esecutivo non è stata in grado di risolvere il problema. Quando un mercato è sommerso, rimane sommerso”, dice a Business Insider Italia Carlo Rienzi, presidente del Codacons (Coordinamento delle associazioni per la tutela dell’ambiente e dei diritti dei consumatori). Che spiega: “Esiste solo una possibilità per far emergere questi introiti. Bisogna consentire alle famiglie di detrarre le spese per le lezioni private quando bisogna pagare le tasse: solo così avranno interesse a richiedere le fatture”. Secondo l’associazione, questo tipo di agevolazione fiscale potrebbe aiutare a portare il business delle ripetizioni alla luce del sole, considerati anche i limiti della norma giallo verde, che si rivolge solo ai docenti titolari di cattedra: in questo modo, esclude insegnanti precari e studenti universitari che impartiscono lezioni a domicilio, che non hanno interesse a denunciare al fisco la loro attività.

La mappa dei costi delle ripetizioni in Italia. Già qualche anno fa un altro studio della Fondazione Luigi Einaudi, a cura di Lorenzo Castellani e Giacomo Bandini, stimava a oltre 800 milioni di euro all’anno l’entità di questo mercato, presente dal Nord al Sud della Penisola. Come rilevato dal Codacons, in media il prezzo di un’ora di lezione a domicilio per uno studente delle superiori si aggira attorno ai 24-30 euro: la tariffa cresce fino a 40-50 euro se a impartirla è un docente universitario. Più economiche le spese da affrontare per un alunno delle medie: il costo per ogni ora di insegnamento è di 10-15 euro. Se il capoluogo lombardo è la città caratterizzata dai prezzi più alti, le tariffe più economicamente vantaggiose si trovano nel Meridione: le ripetizioni a studenti delle scuole medie o superiori costano a Cagliari 20 euro, a Palermo 19 euro, a Bari 18 euro, a Napoli 12 euro. A Roma, si paga circa 25 euro, mentre procedendo verso Nord bisogna sborsare 23 euro in media a Firenze e Bologna. I prezzi cambiano anche a seconda delle materie di studio. Le lingue antiche, greco e latino, comportano più sacrifici finanziari dell’inglese: le prime richiedono rispettivamente 30 e 28 euro per ogni lezione di 60 minuti; l’altra invece 15 euro. E se ogni ora di studio con il prof di matematica costa 26 euro, per le discipline umanistiche basta meno: 18 euro per filosofiae 17 per italiano.

·         Oltre 600 professori universitari sono sotto inchiesta per il doppio lavoro.

Oltre 600 professori universitari sono sotto inchiesta per il doppio lavoro. Da Genova a Palermo, da Napoli a Bologna: docenti che sotto la dicitura di generiche "consulenze"in realtà hanno un altro incarico pagato profumatamente. E il danno erariale supera i 41 milioni di euro. Antonio Fraschilla il 3 ottobre 2019 su L'Espresso. Per legge i professori universitari possono svolgere solo consulenze occasionali, ma dietro questa formula avviene di tutto e per questo adesso la Guardia di Finanza ha messo sotto inchiesta 600 docenti per molti dei quali la Corte dei Conti ha presentato in queste settimane provvedimenti di condanna che ammontano complessivamente a 41 milioni di euro di danno erariale. I particolari dell’inchiesta sono pubblicati su L’Espresso in edicola da domenica 6 ottobre e già online su Espresso +. Sono coinvolti in questa storia di doppio lavoro docenti delle università di Napoli “Federico II”, dell’Emilia Romagna, di Genova, Cassino, Bari, Palermo. Fra loro c’è il professore di ingegneria a capo di aziende di progettazione che lavorano in mezzo mondo e fatturano milioni di euro, il docente di architettura con partita Iva che fa lavoretti in proprio, il medico che non solo insegna all’università e svolge attività per il suo policlinico, ma riceve anche per i pazienti di aziende private della sanità. La Guardia di finanza e la Corte dei conti hanno indagato per verificare le “incompatibilità” previste per i dipendenti pubblici. All’inizio erano solo 411 i docenti “irregolari", in gran parte degli atenei del Nord. Ma una volta entrati nei corridoi delle università si è scoperto un mondo di finte consulenze, incarichi non dichiarati e altri escamotage per poter avere un reddito parallelo a quello da docente a tempo pieno. L’ultima sentenza della Corte dei Conti è di pochi giorni fa e riguarda un docente dell’Università di Napoli “Federico II” che è stato condannato a restituire all’ateneo 776 mila euro.© Riproduzione riservata.

Università, lo scandalo dei professori con il doppio lavoro che ci costano 40 milioni. Per legge possono svolgere solo consulenze occasionali. Ma dietro questa formula avviene di tutto. E ora 600 docenti sono sotto esame. Ecco cosa sta succedendo. Antonio Fraschilla il 4 ottobre 2019 su L'Espresso. C'è il professore di ingegneria a capo di aziende di progettazione che lavorano in mezzo mondo e fatturano milioni di euro, il docente di architettura con partita Iva che fa lavoretti in proprio, il medico che non solo insegna all’università e svolge attività per il suo policlinico, ma poi riceve anche per i pazienti di aziende private della sanità. Per tantissimi professori degli atenei italiani il doppio lavoro è una consuetudine, grazie anche a leggi dalle maglie larghe, pareri generici, regolamenti interni degli atenei a dir poco lacunosi. Non ultima la legge Gelmini, nata per mettere paletti precisi, vietando il doppio lavoro per i docenti a tempo pieno, e che invece con l’inserimento di una semplice parolina, “consulenza”, ha di nuovo riaperto la partita. E tutti hanno continuato a fare “come ai vecchi tempi”. Peccato però che da due anni a questa parte la Guardia di finanza e la Corte dei conti abbiano messo il becco negli atenei per verificare davvero le “incompatibilità” previste per i dipendenti pubblici. Nel mirino inizialmente erano stati messi 411 docenti, in gran parte del Nord, citati a giudizio per un danno erariale di 41 milioni di euro. Ma una volta entrati dentro i corridoi delle università si è scoperto un mondo di finte consulenze, incarichi non dichiarati e altri escamotage per poter avere un reddito parallelo a quello da docente a tempo pieno. A oggi il numero dei casi sotto esame supera quota 600. Il problema vero, per i professori e alcuni gran baroni universitari, però è un altro: all’inizio qualche saggista scriveva della “giurisprudenza creativa” della Corte dei conti salvo scoprire, in questi mesi, che le “teorie creative” delle procure contabili hanno retto in giudizio e sono almeno sessanta le sentenze pubblicate recentemente che hanno visto condannare professori a restituire cifre a cinque zeri. Con alcuni prof che non hanno atteso la sentenza e hanno restituito le cifre contestate senza battere ciglio. Dopo anni di completo Far West, la legge Gelmini aveva provato a fissare dei paletti. I docenti assunti a tempo indeterminato, secondo la norma del 2010, possono avere consulenze chiedendo una autorizzazione al proprio ateneo, ma non possono guidare aziende o società oppure avere attività privata. La parola “consulenza”, inserita all’ultimo minuto nel testo da una manina amica dei docenti, ha comunque aperto a stravaganti interpretazioni. E i prof hanno in molti casi continuato a svolgere attività privata. Lo scorso anno il Miur ha diramato una circolare per chiarire cosa si intende per consulenze. La circolare del ministero fissa quindi il punto della «natura occasionale e dunque non abituale ma saltuaria» della consulenza e dell’incarico esterno. «A titolo esemplificativo non possono ritenersi occasionali attività di consulenza, anche di modico valore economico, che si ripetono più volte nel corso dell’anno o che comportano una limitata presenza del docente in ateneo», si legge nel documento. Al di là della circolare ministeriale, la Corte dei conti è andata avanti per la sua strada con condanne pesanti e citazioni a giudizio milionarie. L’ultima sentenza è di qualche giorno fa: Vincenzo Rosiello, professore di Ingegneria dell’Università di Napoli “Federico II” è stato condannato a restituire all’ateneo 776 mila euro, dopo che è stato accertato che tra il 2012 e il 2016 con una partita Iva e una impresa individuale ha svolto attività privata. Anche in questo caso i colleghi hanno provato a “salvarlo”, e così in corso di dibattimento davanti ai giudici contabili è saltata fuori una autorizzazione postuma agli incarichi svolti da privato dal docente firmata dall’ex direttore del suo stesso dipartimento. I giudici non ne hanno tenuto conto perché l’autorizzazione in questione era “priva di valenza giuridica, estremamente generica e rilasciata da un organo non competente”. Il direttore del dipartimento aveva firmato una nota in sanatoria con una autorizzazione al docente senza nemmeno una data e il dettaglio degli incarichi autorizzati. A Bologna sono finiti nel mirino una ventina di professori, il primo ad essere stato condannato è stato il noto ingegnere Paolo Vestrucci, che ha risarcito l’Alma Mater con oltre 200 mila euro, altre condanne sono arrivate nonostante gli strani omissis nelle sentenze recentemente pubblicate che non consentono di ricostruire i nomi dei docenti degli atenei dell’Emilia Romagna. Un riguardo davvero curioso, che i colleghi di altre regioni non hanno avuto: le loro sentenze sono pubblicate senza omissioni di dati personali. Come quella che ha condannato il professore di Geotecnica dell’Università di Genova Roberto Passalacqua, ex consigliere di amministrazione di una società privata, a restituire 120 mila euro, o il docente di Ingegneria dell’Università di Cassino, Giovanni De Marinis, a risarcire l’ateneo con 126 mila euro: oltre ad avere una partita Iva per gli incarichi esterni retribuiti, era presidente e direttore della Cspam, società di progettazione. Ci sono storie di doppi lavori che poi hanno sfiorato, si fa per dire, anche il penale. Come la storia della professoressa di medicina preventiva dell’Università di Bari Marina Musti, condanna dai giudici contabili a restituire 121 mila euro in base all’indagine nella quale la Guardia di finanza in cui ha annotato nella relazione che la docente “svolgeva attività libero professionale presso strutture non pubbliche”. In particolare per la Ergocenter, società di consulenza medica del lavoro, amministrata dal marito e posseduta al cinquanta per cento con il figlio. E, ancora, tra le condanne recentemente emesse ci sono quella del professore Vito Nardi dell’Università di Cassino, (danno da 54 mila euro), amministratore delegato e liquidatore di varie società o di Andrea dell’Asta dell’Università di Camerino (danno da 44 mila euro) che ha diretto vari lavori nei comuni di Falconara Marittima e Agugliano. In Sicilia l’indagine delle Fiamme gialle e dei giudici contabili ha portato ad un piccolo terremoto. Lo scorso anno ha lasciato improvvisamente la sua cattedra all’Università di Palermo uno dei docenti più potenti, Nino Bevilacqua: ingegnere, cresciuto professionalmente in maniera esponenziale duranti gli anni d’oro dei governi del centrodestra berlusconiano, grande amico di Gianfranco Micciché, è stato citato la scorsa settimana dalla Corte dei conti per una cifra intorno ai 400 mila euro. “Hanno scoperto l’acqua calda”, hanno commentato in molti dentro l’ateneo. Anche perché Bevilacqua stesso non ha mai fatto mistero dei lavori con sue aziende di progettazione che gestiscono cantieri in mezzo mondo. Secondo i magistrati contabili Bevilacqua nella qualità di professore ordinario della Facoltà di Ingegneria «con più atti e con artifizi e raggiri» non ha mai comunicato il proprio ruolo di amministratore e rappresentante legale delle società Italconsul spa, terrazze dell’Etna trading, Autostrade e strade engineering, inducendo in errore l’Università di Palermo in ordine all’esistenza dei vincoli di incompatibilità”. In alcuni casi avrebbe avuto il via libera dell’allora rettore Roberto Lagalla, altro nome che conta in Sicilia (oggi è assessore regionale all’Istruzione nel governo di Nello Musumeci): per questo Lagalla è stato citato in solido. Pure nell’altro importante ateneo siciliano, quello di Catania, Università già scossa da una mega indagine sui concorsi pilotati che ha visto finire sotto inchiesta sessanta docenti e due ex rettori, le verifiche della Finanza sui doppi incarichi hanno colpito nel segno. E hanno già portato a condanne alle falde dell’Etna, come quella del professore Antonino Risitano, oggi in pensione: docente di Ingegneria dell’Università di Catania. In primo grado è stato condannato a restituire all’ateneo 263 mila euro per aver svolto consulenze in procedimenti giudiziari a favore di Eni e Erg ed essere stato componente di commissione in gare di appalto per l’ospedale Vittorio Emanuele di Catania. Senza aver comunicato nulla alla stessa Università. Giudizio in corso invece per il collega Rosario Lanzafame, per un importo contestato pari a 72 mila euro. In alcuni casi i docenti, ricevuto l’atto di citazione, hanno provveduto a versare le somme contestate: lo hanno fatto i professori Giuliano Cammarata (per 28 mila euro) e il collega Giuseppe Mancini (per 6 mila euro), entrambi dell’ateneo etneo. Attenzione, perché non sempre la procura della Corte dei conti ha avuto ragione. Da Bologna a Catania sono diversi i procedimenti nei quali in giudizio il docente ha dimostrato invece la regolarità delle sue consulenze. Non si può fare di un erba un fascio, dunque. Ma che negli atenei ci sia stato un certo malcostume, con più di un occhio chiuso da chi doveva vigilare, questo è fuori di dubbio. E il numero dei docenti con il doppio lavoro sotto indagine potrebbe ancora salire.

·         Quanto costa una laurea?

Università, perché in Italia gli studenti sono obbligati a stare in famiglia. Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 su Corriere.it da Milena Gabanelli, Daniela Polizzi e Simona Ravizza. Affitti alti e in nero. Negli studentati, dove una stanza costa 250 euro, trova posto solo il 3% contro la media europea del 18. Gli studenti universitari sono 1,7 milioni. Tra chi vive in famiglia: 284 mila (17%) abitano nella stessa città dove studiano, mentre il 49,8% frequenta l’ateneo da pendolare. I fuori sede — la condizione più diffusa all’estero — raggiungono i 570 mila (33,5%). Per un appartamento in condivisione (spesso in nero), tra vitto e alloggio, si arriva a spendere mediamente 650 euro al mese. Il problema è che le alternative abitative meno onerose che il ministero dell’Istruzione, insieme alle Regioni, dovrebbe incentivare in nome del diritto allo studio sono scarse. Stiamo parlando degli studentati, dove gli affitti in media viaggiano intorno ai 200-250 euro al mese, in linea con il resto d’Europa (vedi esempio francese). La differenza è che i posti a disposizione in Italia negli alloggi per il diritto allo studio e nei collegi universitari sono poco più di 48 mila. Un numero irrisorio contro i 165 mila che si contano in Francia e i 192.000 della Germania. In entrambi i Paesi la popolazione studentesca s’aggira sui 2,5 milioni. Di fatto riesce ad entrare in uno studentato solo il 3% della popolazione universitaria totale, contro la media europea del 18%. E anche tra chi ha diritto ad un posto letto per motivi di reddito, solo uno studente su tre riesce ad ottenerlo, gli altri sono costretti a bruciare la borsa di studio in affitto. In Francia e Gran Bretagna per realizzare strutture a sostegno degli studenti fuori sede sono state fatte da tempo leggi ad hoc . In Italia se una società immobiliare vuole costruire uno studentato non c’è una normativa di riferimento e deve mettersi d’accordo con il Comune interessato, che spesso impone limiti di cubatura, e scoraggia l’imprenditore che per tenere i prezzi bassi senza perderci ha bisogno di avere almeno 400 posti letto. Un’alternativa è richiedere una licenza alberghiera. Ma a quel punto la legge prevede la costruzione di ampi spazi comuni, piscina, sale per ginnastica, ovvero una serie di servizi a pagamento ai quali uno studente di solito non è interessato. La catena olandese The Student Hotel nel luglio 2018 ha terminato la ristrutturazione del Palazzo del Sonno a Firenze: 390 stanze. Ma per essere redditizio ha destinato agli studenti il 50%, mentre il 45% è utilizzato come hotel e il 5% per brevi permanenze. Il gruppo immobiliare americano Hines ha in costruzione 1.500 posti letto tra Milano, Roma, Firenze e Venezia con un investimento fino a 3 miliardi. A canoni calmierati agli studenti andrà il 30% delle stanze: 450 euro al mese tutto compreso, da internet alla lavanderia. L’operazione è sostenibile perché gli investitori di Hines sono quelli istituzionali e di lungo termine (fino a 30 anni): dai fondi pensioni alle compagnie di assicurazione. Un’opportunità molto interessante nell’epoca dei tassi negativi, poiché il rendimento è fra il 3-4%, e il rischio modesto. Ad esclusione di queste realtà, tutti gli altri possibili investitori arrancano, proprio per mancanza di una normativa specifica. Nel frattempo gli studenti restano nella stragrande maggioranza dei casi ad abitare in famiglia con le conseguenze evidenziate dal rapporto Eurostudent: «Il localismo forzato è legato anche all’insufficiente offerta di residenze studentesche, che obbliga a ricorrere al mercato privato chi (una minoranza) ha le risorse per affrontare i costi degli affitti, e costringe alla stanzialità o al pendolarismo chi (la maggioranza) non ha risorse economiche sufficienti per affrontare quei costi». Vuol dire non essere messi nelle condizioni di scegliere l’ateneo che corrisponde al miglior progetto di studio per le proprie aspettative di vita. E alla fine li chiamiamo pure «mammoni».

Università, un investimento per la vita: quanto può costare una laurea? La laurea in un'università pubblica può comportare costi diretti e indiretti pari a circa 45.000 mila euro. Quali sono i ritorni attesi a un investimento tanto importante? Scrive Lunedì 25/02/2019 Il Giornale. L’università italiana si contraddistingue, se paragonata alle sue controparti in numerosi Paesi sviluppati e ai vertici dell’economia mondiale, per un elevato grado di accessibilità e per una sostanziale democraticità. I costi per l’accesso, la presenza di agevolazioni legate ad Isee e merito e l’elevata offerta di atenei pubblici concorrono a costruire un sistema che consente al Paese di sostenere un’elevata popolazione universitaria, pari a oltre un milione e mezzo di studenti, di cui circa 600.000 fuorisede. Ciò detto, è necessario sottolineare come la scelta di iscrivere un figlio all’università rappresenti, in ogni caso, uno sforzo non indifferente per una famiglia. Un vero e proprio investimento di lungo termine, da pianificare e portare avanti nella consapevolezza che il ritorno potrebbe essere, per lo studente, l’accesso a un grado superiore di mobilità sociale.

Moneyfarm ha stimato il costo di un ciclo universitario triennale in alcuni tra i principali atenei italiani: il Politecnico e la Bocconi di Milano, le università di Bologna, Pisa, Roma Sapienza, Napoli Federico II. Questo con l’obiettivo dichiarato di “includere atenei di tutte le dimensioni, che fossero rappresentativi di città grandi, medie, piccole, delle aree del Paese dove si concentrano la maggior parte degli studenti, di realtà d’eccellenza pubbliche o private”, considerando non solo i “costi vivi” legati alle rette universitarie, ma anche vitto e alloggio. Il risultato della ricerca segnala come, considerando anche i diversi scaglione Isee, la prima componente sia importante ma non esaustiva dei costi legati all’investimento universitario. Mediamente, il costo annuo di una laurea triennale per uno studente fuorisede in un'università pubblica oscilla tra poco più di 10.000 e circa 15.000 euro l'anno. Un triennio di università pubblica da fuorisede, in altre parole, assorbe per ogni studente da 34mila a 45mila euro. Al confronto, la Bocconi arriva per un ciclo triennale a costare da 53mila a 71mila euro annui.

Uno studente pendolare, in questo contesto, aggiungerebbe ai prezzi della rata annua universitaria un costo di circa 1.000 euro l’anno, voce di spesa sicuramente minore al vitto e alloggio degli studenti fuorisede ma che è compensata da un notevole costo-opportunità e dall’erosione quotidiana di una significativa quantità di tempo per ragioni di trasporto. Dal canto suo, Federconsumatori ha aggiunto ulteriori voci di spesa che non possono essere considerate indifferenti nel computo finale. Una è quella del trasporto pubblico interno alle città per gli studenti fuorisede (per un abbonamento di 10 mesi si va dai 148 euro di Palermo ai 250 euro di Roma e ai 255 euro di Genova. A tale proposito è comunque necessario precisare che alcune città applicano riduzioni e agevolazioni per gli studenti mentre altri comuni non prevedono questa possibilità), a cui bisogna aggiungere quella del rientro periodico a casa (400 euro in media su un arco di 10 mesi) e, soprattutto, quella del materiale didattico per cui, secondo Federconsumatori, “non sono state riscontrate differenze nelle macroaree geografiche del Paese” e che continua a mantenersi elevata, con una stima prudente che aggiunge non meno di 700 euro all’anno contando di spalmare investimenti a lungo termine, come quello per un Pc, sull’intero arco del ciclo di studi.

Non è dunque azzardato ritenere che una laurea triennale, anche in università pubbliche, possa arrivare ad assorbire oltre 50.000 euro per studente. Certamente, una corretta pianificazione e degli investimenti mirati al lungo termine possono aiutare a gestire una voce di spesa tanto rilevante, ma complice la difficile complementarietà tra università e mondo del lavoro e problematiche occupazionali è importante ricordare come anche i ritorni di questo investimento si paleseranno, in diversi casi, nel lungo periodo.

Come ha scritto Milena Gabanelli sulla sezione Dataroom del Corriere della Sera, in Italia lo stipendio medio di partenza di un laureato non supera di molto quello di un diplomato. In questo contesto, subentra la problematica della scarsa spesa media che il sistema Paese dedica all’ambito universitario. Nonostante un terreno socio-economico favorevole alla “democrazia” universitaria, l’Italia spende per ogni studente poco più di 9.000 euro annui, a fronte di una media Ocse superiore ai 13.000. In ogni caso, le prospettive di carriera e avanzamento professionale garantite a un laureato e la maggiore stabilità dei posti di lavoro sono un'ulteriore testimonianza della convenienza dell'università. La soluzione, in questo contesto, non può che arrivare da una più corretta pianificazione strategica degli investimenti in università. Capace di garantire una crescente copertura alle borse di studio per reddito e merito, di ottimizzare la capacità degli atenei di garantire una formazione a tutto tondo e di creare sinergie tra il mondo accademico e quelli ad essi collaterali per garantire l’accessibilità degli atenei nelle grandi città (dal settore dell’edilizia a quello dei trasporti) e, soprattutto, di aprire canali di comunicazione diretta tra università e mondo del lavoro. Senza che uno si ritrovi in una condizione ancillare all’altro, ma nella consapevolezza che proprio nella capacità di un sistema economico di offrire prospettive di carriera, mobilità sociale e retribuzione adeguata ai suoi laureati si misura l’efficienza di un sistema universitario. E la sua capacità di valorizzare quello che per le famiglie è un investimento a dir poco considerevole. Considerato, in ultima istanza, anche il ruolo dell'inflazione, un investimento nell'educazione universitaria dei figli, valutato in un'ottica di lungo periodo (15-20 anni) garantisce un ritorno stimato del 5% annuo. Questo rende plausibile, per un nucleo famigliare, l'idea di affidare le spese per l'educazione universitaria a un sistema paragonabile in tutto e per tutto a un investimento produttivo di diversa natura. Si può ad esempio ipotizzare di accantonare una cifra di poche migliaia di euro, da implementare con un contributo continuativo mensile minimo, dopo aver opportunamente ricevuto i consigli di un analista o consulente indipendente. In questo contesto giocare d'anticipo e pianificare le mosse sin dall'inizio può rappresentare la chiave di volta per una strategia d'investimento vincente.

·         I lasciati indietro. Un sistema dinastico chiamato scuola.

SPROFONDO SUD. Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 10 ottobre 2019. Viene in mente la scena di Paolo Villaggio, alias maestro Sperelli, che nel film «Io speriamo che me la cavo» va a raccattare alunno per alunno tutti i suoi piccoli studenti che bigiano la scuola per lavorare o bighellonare. Quella fotografia di un piccolo paese del Sud, in chiave cinematografica, trova ahinoi riscontro nella realtà, dato che tuttora in molte regioni del Meridione uno studente su tre è vittima, o meglio protagonista, di dispersione scolastica: tradotto in termini pratici, significa che o non termina gli studi della scuola superiore, fermandosi prima (dispersione scolastica esplicita), oppure li finisce ma con conoscenze degne di uno studente di scuola media (dispersione scolastica implicita). E anche alla fine della terza media la situazione è grave, con circa il 30 per cento dei ragazzi al Sud che non hanno conoscenze sufficienti in italiano, matematica e inglese. Come risulta da uno studio Invalsi firmato da Roberto Ricci, il fenomeno raggiunge vette preoccupanti soprattutto nelle isole, in Sicilia e Sardegna, con una dispersione scolastica rispettivamente del 37% (di cui il 24% abbandona fisicamente la scuola) e del 37,4% (qui è circa il 23% a lasciare anzitempo i banchi). Ma anche le altre regioni del Sud vantano numeri sconfortanti: in Campania la dispersione scolastica è al 31,9 (di cui il 20% smette di studiare), in Calabria è al 33,1 (di cui la metà non studia più, l' altra metà continua a studiare ma senza capirci troppo), in Puglia al 26,8, in Basilicata al 25,7. Si tratta di cifre ancor più allarmanti se rapportate alle regioni del Nord, dove la dispersione scolastica, esplicita e implicita, è molto più bassa: in Veneto e nella Provincia autonoma di Trento, ad esempio, è intorno al 10%. E questo in un quadro complessivo in cui tutto il sistema scolastico nazionale arranca: l' abbandono effettivo dei banchi riguarda il 14% degli studenti in Italia, quartultima performance in Europa dietro Romania, Malta e Spagna. C'è da preoccuparsi? Sì, e molto. Ma c'è anche da provare a capire le cause, senza limitarsi a compiangersi o ad additare il Meridione come zavorra d' Italia. Sull' abbandono scolastico anticipato a Sud pesano evidentemente le difficoltà economiche di molti genitori a sostenere gli studi dei figli: dove c'è meno occupazione e meno ricchezza, si fatica anche a garantire il diritto elementare all' istruzione. Ma pesa anche un' immagine della scuola come realtà scollata dal mondo lavorativo: continuare a studiare a Sud viene percepito in molti casi come una perdita di tempo; il legame tra istruzione e avviamento al lavoro qui è debolissimo, e i canali migliori per accedere alla professione, attraverso vie lecite o illecite (il lavoro nero), sono considerati altri. A ciò si aggiunga che lo stato di necessità in cui versano diverse famiglie a Sud induce molti giovani a cercare subito dei lavoretti, anche attraverso il sommerso, pur di portare un po' di soldi a casa e contribuire all' economia domestica. Il problema però riguarda più in generale una questione culturale: in alcune regioni del Sud quello allo studio viene considerato ancora solo come un dovere e non come un diritto da rivendicare. Se la scuola è dell' obbligo, lo stesso studio viene inteso come un obbligo imposto agli studenti loro malgrado, anziché come un' opportunità per crescere, diventare cittadini maturi e migliorare in futuro le proprie condizioni economiche. Il diritto di studio diventa un po' come il diritto di voto: qualcosa che si può benissimo non esercitare, preferendo astenersi. Da ultimo, c' è un problema che riguarda la qualità della classe insegnante: perché, se in Calabria il 16% degli studenti prende il diploma senza riuscire a capire un libretto di istruzioni, e se addirittura uno studente calabrese e siciliano su due - come emerge dai risultati dell' ultima prova Invalsi - finisce gli studi con grossi problemi in italiano, qualcosa non funziona anche in chi dovrebbe fornire loro strumenti e contenuti di apprendimento. Non che i docenti a Sud siano più scarsi, ma forse hanno meno risorse, meno strutture adeguate e meno formazione specifica per offrire un' istruzione di livello. A questo triste scenario sulla dispersione si aggiungono i dati relativi alla desertificazione, cioè alla mancata iscrizione a scuola. Il quadro qui è drammatico sul piano nazionale: nell' anno scolastico 2019-20 risultano iscritti circa 70mila alunni in meno rispetto all' anno precedente, e addirittura 188mila in meno in confronto al 2015. La colpa è soprattutto della crisi demografica che fa nascere meno bambini e quindi meno studenti: a culle vuote corrispondono inevitabilmente aule vuote. Però anche qui i picchi negativi si registrano a Sud che perde 48.570 studenti (il 70% del totale nazionale) rispetto al 2018-19, con la Basilicata fanalino di coda. E ciò si può leggere nell' ottica dell' emigrazione interna al Paese: per le mancate occasioni di lavoro a Sud molte famiglie continuano a spostarsi al Nord, trascinandosi dietro i figli. Lo spaccato è sconfortante: o il Sud perde i suoi giovani, oppure questi si disperdono rimanendo. L' istruzione si è fermata a Eboli.

Un sistema dinastico chiamato scuola: ecco i numeri di un fallimento sociale. A oggi i figli dei laureati si laureano. E tutti gli altri restano indietro. Se vengono da famiglie senza un diploma, Il 30 per cento dei ragazzi che hanno preso dal 90 al 100 alla maturità  non proseguono gli studi. I dati del consorzio AlmaDiploma elaborati per L’Espresso. Francesca Sironi il 9 settembre 2019 su L'Espresso. Un tarlo costante. Una debolezza che rosicchi lentamente, con­tinuamente, l’impegno che la Costituzione impone (o meglio imporrebbe) allo Stato nel «rimuovere tutti gli ostacoli» per lo sviluppo e la partecipazione alla vita comune. Che indebolisce la possibilità della scuola di farsi ponte verso il futuro. Ai bambini e ai ragazzi che stanno prendendo posto sui banchi in questi giorni l’Italia si presenta come un paese saldamente fondato sull’eredità più che sull’attenzione e sul merito. I figli di laureati saranno laureati, dicono loro le statistiche, gli altri faticheranno sempre più a cambiare le premesse familiari: dagli anni ’90 a oggi la possibilità di emergere dai redditi più bassi non ha fatto che diminuire. La nazione che studieranno nelle nuove ore obbligatorie di “educazione civica” sembrerà loro ancora più feudale se guardata attraverso la lente della mobilità nell’istruzione: solo il sei per cento dei giovani i cui genitori non hanno il diploma ottiene una laurea.

Sei ragazzi su 100. È meno della metà della media Ocse. È il sintomo di un sistema bloccato. Dove l’istruzione non ha i mezzi per ribaltare il cognome che gli alunni portano all’appello il primo giorno: due terzi dei figli di non diplomati non si diplomano. La rivista specializzata Tuttoscuola, lanciando un anno di consultazioni, confronti e dibattiti con insegnanti e operatori, propone di ripartire dall’idea di comunità. «Cerchiamo di condividere modelli», invita il direttore Giovanni Vinciguerra: «capaci di rendere la scuola una comunità costruttrice della più ampia comunità sociale». Tesa a valorizzare i talenti diversi e le diverse intelligenze. Partendo da quelle che oggi il sistema perde sistematicamente solo per la provenienza. Il trenta per cento dei ragazzi che hanno preso voti eccellenti alla maturità, fra 90 e 100 lode, e che hanno genitori che avevano la terza media, non si iscrive all’università, mostrano dati del consorzio AlmaDiploma elaborati per L’Espresso partendo dal rapporto sui risultati a un anno del diploma del 2019. Sono ragazzi arrivati alla maturità grazie ai propri sforzi, senza ripetizioni gratis il pomeriggio, senza dinastie di successi alle spalle. Sono i migliori. Ma si fermano. «Noi abbiamo il dovere, in qualità di istituzione universitaria pubblica, di fare tutto quello che possiamo per trovare e offrire un’occasione ai meritevoli, ovunque si trovino. Dobbiamo essere certi di averci almeno provato». Sabina Nuti è rettrice della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa da pochi mesi. «La mia prima iniziativa, quest’estate, è stata una misura per rimborsare, in base all’Isee, il biglietto del treno a chi partecipa alle prove di ammissione. Per molte famiglie può essere una spesa determinante, soprattutto perché la selezione è dura e l’esito incerto. È uno dei tanti ostacoli che abbiamo il dovere di rimuovere, perché non possiamo farci sfuggire alcun talento». Tiziano Terzani, che aveva frequentato la Sant’Anna, era figlio di un panettiere. Nell’irrigidirsi a caste del paese anche il collegio di Pisa rischiava di diventare un luogo chiuso, destinato alle élite culturali. Per evitarlo, ha avviato un primo progetto nel 2013, coinvolgendo scuole di confine dalla Toscana a Scampia: allievi del Sant’Anna, studenti universitari eccellenti, affiancavano ragazzi per aiutarli a riconoscere le proprie aspirazioni e scegliere, magari, l’università. Da quest’anno Nuti ha voluto estendere l’invito a tutte le superiori: i presidi di istituti tecnici e licei riceveranno presto una lettera per suggerire agli alunni eccellenti, provenienti da contesti familiari fragili, la possibilità di un orientamento specifico dopo il diploma; verranno selezionati 120 diciottenni. «Per noi è fondamentale che quanti più ragazzi possano conoscere intanto le opportunità che esistono, qui e negli altri atenei: i collegi di merito, il diritto allo studio», spiega la rettrice: «La disuguaglianza è legata ai soldi, certo, ma in larga parte anche alle conoscenze. L’informazione arriva sempre a chi ce l’ha già. È un’asimmetria che colpisce chi ha meno mezzi. Non possiamo limitarci a subirla». Magari con la stessa rassegnazione indignata con cui vengono accolti ogni estate i risultati dei test Invalsi. Alla pubblicazione del rapporto segue il trasversale necessario sconforto per i divari che le prove standard mostrano: fra Nord e Sud, fra centro e periferia, fra singole strutture e classi in alcuni quartieri. Come notava il magazine di accademici Roars a luglio, però, è difficile usare quei dati come grimaldello per cambiare le cose. Se non si ricorda intanto, ad esempio, quanto la spesa pubblica nell’Istruzione sia crollata ancora negli ultimi dieci anni (passando da 72,7 a 66,1 miliardi, secondo le uscite monitorate dall’Istat). E quanto sia importante la strada compiuta, al di là della risposta momentanea. È proprio sulla capacità di far compiere un salto da situazioni fragili, o marginali, a strumenti di conoscenza, così come da basi solide a prospettive nuove, che si misura invece la capacità di una scuola.

Rosa Luciano è maestra alla elementare Suor Celestina Donati di Roma, un istituto dove si mescolano provenienze sociali e orizzonti diversi, con equilibri sempre da trovare, parenti che devono comprare la carta igienica perché mancano fondi per i materiali didattici ma anche corsi che hanno successo. «In una terza elementare due anni fa è arrivato un bambino Rom; è entrato con lo sguardo triste e spavaldo che gli avevano insegnato i fratelli, un sacco di parolacce da dire, e un panino perché non si fidava della mensa. È partita subito un’insurrezione: gli altri genitori furiosi. Non volevano saperne, dicevano che avrebbe dovuto andarsene», racconta: «Ma io e la collega abbiamo fatto quadrato. Abbiamo spiegato che se la scuola gli avesse chiuso la porta, per lui era già finita. Il compito nostro e di tutti era al contrario convincerlo a restare». È stato difficile, ma ci sono riuscite. «Abbiamo dovuto inventare nuove regole, cercando di premiare la classe, dando la possibilità di fare spesso lezione all’aperto. E poi scoprendo delle capacità che fossero sue da cui partire», continua la maestra: «Lui era proprio fissato con il cellulare, che ovviamente non poteva usare in aula. Allora abbiamo iniziato a fare più uscite didattiche rispetto al previsto, nominandolo fotografo ufficiale del gruppo. Aveva il compito di scattare il reportage. Il giorno dopo, a gruppi, i bambini, lui compreso, ci lavoravano sopra, approfondendo temi, osservando le immagini. Ha frequentato oltre il 70 per cento delle ore. Ma il successo maggiore è stato con i genitori del quartiere. Quando il bambino ha dovuto abbandonare la quinta per motivi legati all’età ci sono venuti a chiedere se potevano fare qualcosa per aiutarlo». Difficile che un test standardizzato possa valutare, e valorizzare, un’esperienza del genere. Che eppure racconta, nel piccolo, il ruolo e le risposte che la scuola deve trovare nei territori dove l’istruzione si presenta come l’unica e più capillare frontiera dello Stato per la coesione sociale. Flavio Makovec insegna italiano e storia alle medie Calderini Tuccimei di Acilia, ai margini di Roma. Anche la sua scuola, come quella di Rosa, partecipa a “Stelle di periferia”, una rete di associazioni nata per rafforzare gli istituti di confine, dove porta interventi, laboratori, attività. Alla Calderini gli studenti hanno realizzato un cortometraggio, di successo, pare, fra i coetanei. La scuola ha organizzato anche un corso di “muralismo” con Groove, uno street artist, corsi di inglese o teatro. E un docente di tecnologia ha aperto uno spazio con stampanti 3D vicino all’aula digitale. «Siamo una bella realtà, insomma, c’è la lavagna luminosa per ogni cattedra, molti progetti. Eppure restiamo “famigerati” per la frequentazione delle classi; perché ci sono ragazzi che arrivano da contesti di disagio profondo, spesso di delinquenza», racconta il prof: «I metodi didattici che usavo prima non servivano a molto, qui. Ho dovuto trovare un nuovo modo per insegnare, per costruire una connessione emotiva. A volte riesco a coinvolgere anche i più ostili e refrattari in discussioni accese. Sui testi di Sferaebbasta, ad esempio, un idolo la cui musica i ragazzi sembrano subire più che scegliere, e che eppure è intoccabile. Oppure sui social network, sulla violenza, sul razzismo. La costante che sento è soprattutto la richiesta di un sistema di regole certo, sicuro, magari da abbattere, ma di una giustizia che valga per tutti, individualmente, le cui scelte vengano sempre motivata». Chiedono cioè le basi di una fiducia che possa scalfire la certezza trasversale che l’Italia sia un paese di raccomandati e corrotti. E che per loro non ci sia spazio. Studiare, per cui, tanto vale. Non è facile convincerli del contrario in un Paese dove la disoccupazione giovanile è al 32 per cento. E il rendimento degli investimenti nell’istruzione superiore è fra i più bassi del confronto internazionale: i laureati italiani guadagnano in media il 40 per cento in più rispetto ai soli diplomati, al contrario del 60 della media Ocse.

Il titolo porta possibilità maggiori comunque, sia in Italia che all’estero, dove fuggono all’anno 30mila giovani, in cerca di una mossa dall’immobilismo che incontrano a casa. Oltre alle culture, agli incontri e alle porte che gli studi possono aprire. Ancora una volta «per chi può permetterselo: perché la scuola è pubblica, ma non gratuita. Già alle elementari si inizia con i materiali extra, gli album, gli astucci pieni di colori che tutti i compagni hanno, oltre all’anticipo per i libri. Dalle superiori in poi l’ostacolo diventa spesso praticamente insuperabile, fra libri, dizionari, attività, pranzi fuori casa», ricorda Mariangela di Gangi, presidente di Laboratorio Zen Insieme, associazione storica del quartiere Zen di Palermo: «Con Save The Children abbiamo aperto qui un “Punto luce” contro la povertà educativa. Aiutiamo le famiglie a orientarsi fra le possibilità che esistono, a fare pressione per ottenere quello di cui hanno diritto, organizziamo corsi proposti dai ragazzi stessi. Dal calcio alla cucina a basso costo». Sono strumenti utili. Anche solo a far capire ai ragazzi che c’è qualcuno a cui importa di loro, che riconosce le loro capacità. Il Comune di Palermo ha investito i fondi per il disagio minorile in un programma che affianca giovani laureati a adolescenti che stanno abbandonando gli studi prima della terza media. I “fratelli” acquisiti li seguono sia a casa che a scuola, dando consigli e supporto. «È una doppia vittoria: per gli adolescenti, che si confrontano con dei pari, e per i laureati, che vengono retribuiti per una missione sociale», spiega Vito Pecoraro.

Dal settembre scorso Pecoraro guida l’alberghiero “Pietro Piazza” di Palermo, un istituto professionale da record: duemila e 800 studenti, 350 docenti, tutti in capo a un singolo preside. Il primato viene segnalato da “Tuttoscuola” in un dossier che L’Espresso anticipa in esclusiva in queste pagine. Il rapporto è dedicato alla «scuola che soffre», allo stress e alle patologie relative in aumento fra operatori, docenti e dirigenti. «Star bene a scuola non è “una questione”, ma è la questione fondamentale di un microcosmo con il quale hanno a che fare ogni giorno il 44 per cento degli italiani, se includiamo i genitori. Paradossalmente la scuola, che proprio per la delicatezza dell’utenza dovrebbe essere uno dei territori più liberi da patologie e da stress cronico, è invece uno dei settori maggiormente a rischio», ricorda Giovanni Vinciguerra, il direttore della rivista. La girandola dei 170mila supplenti precari che dovranno essere chiamati a coprire cattedre e materie altrimenti vuote nelle prossime settimane; le incertezze sul nuovo concorso ;  la vergogna del sostegno che non viene garantito  agli studenti con disabilità; la responsabilità sulla sicurezza degli edifici e delle persone che li frequentano; il controllo di più di sei sedi scolastiche in media contemporaneamente (erano 4 nel 2000), a volte a chilometri di distanza, «sedi che il dirigente deve “presidiare” fisicamente con frequenza», come spiega il dossier: «Oltre all’onere a breve anche del “controllo biometrico” delle presenze», voluto dall’ex ministro Giulia Buongiorno. Per i presidi saranno mesi intensi. Soprattutto considerando che uno su tre ha più di 60 anni. E deve occuparsi in media di 1.194 studenti e relative famiglie: il 55 per cento in più rispetto ai 769 di 19 anni fa. «In Finlandia per legge un dirigente non può seguire più di 500 studenti. Ci sarà un motivo?», domandano gli autori di Tuttoscuola nella ricerca. Vito Pecoraro resta positivo. Ascolta musica francese, Rita Mitsouko e Calogero in testa alla classifica. Domattina prenderà la metro alle sette e 07, come tutti i giorni. Arrivato in classe farà un giro per i corridoi, «perché non sono un burocrate, e voglio essere presente. Alcuni dei nostri studenti si alzano alle quattro del mattino per arrivare in tempo. È uno sforzo che va premiato con un’attenzione concreta. Per gli insegnanti è lo stesso». Il mega-alberghiero è un istituto forte, racconta, ci sono progetti europei avviati da tempo– con i fondi di Bruxelles hanno rifatto due cucine –, programmi con il Comune. Ma la struttura è di un privato, a cui l’amministrazione paga l’affitto, e per le assemblee o la palestra devono prendere a noleggio spazi dalle suore. «Nonostante le difficoltà, miglioriamo: in un anno il tasso di abbandono si è dimezzato, ad esempio. Ho introdotto la pratica di intervenire dopo soli cinque giorni d’assenza, contattando la famiglia, parlando allo studente. Abbiamo adottato i trimestri, al posto dei quadrimestri: ci permette di incontrare i parenti più spesso. È servito. Poi facciamo molti scambi, con alunni di Carpi, Parigi, del Trentino. Cercando di prenotare i voli il prima possibile per risparmiare. Gli altri fondi li troviamo». Per il vero obiettivo: che la scuola resti una possibilità. Per tutti.

·         Disabilità. La scuola non è di “Sostegno”.

Lorenza Castagneri per il “Corriere della sera” il 20 ottobre 2019. «Promuovendo mio figlio, la scuola non ha di certo fatto il suo interesse», ripete adesso Alessandra, la mamma di Edoardo, 14 anni. La sua è una storia che va controcorrente. Di solito, i genitori si arrabbiano quando gli insegnanti decidono che il loro ragazzo deve ripetere l' anno. Non è il caso di Alessandra. Lei, assistente educativa single, la bocciatura in terza media di suo figlio la voleva. L'aveva pure richiesta al dirigente scolastico dell'Istituto comprensivo di Trofarello e credeva di averla ottenuta. Invece, a giugno, è arrivata una promozione inaspettata, anche se Edo non ha nemmeno sostenuto gli esami di fine anno. «Non lo volevano più». C' è un dettaglio che bisogna aggiungere in questa vicenda che sembra così fuori dal comune. Edo è un "alunno speciale". Per l' anagrafe potrebbe frequentare le scuole superiori, ma una grave forma di autismo gli ha bloccato la crescita ed è come se fosse rimasto un bambino dell' asilo. Con scatti d' ira e atteggiamenti autolesionistici. «Lo sviluppo di mio figlio è fermo ai tre anni - ammette Alessandra, che di cognome fa Rubiolo - Edoardo parla a stento, non sa né leggere né scrivere. In terza media, ci siamo accorti che non era pronto per fare il salto al liceo e così ho chiesto al dirigente scolastico che venisse fermato un altro anno alle medie per restare in un ambiente a lui già conosciuto. Su suo invito, abbiamo anche consegnato la lettera scritta da un esperto, uno psicologo. Ma alla fine non se n' è fatto nulla». Eppure non promuovere i ragazzi con gravi disabilità perché possano accrescere le loro capacità restando il più possibile in un luogo e tra persone che già conoscono è un' abitudine diffusa anche in Piemonte. Lo conferma l' Anffas, associazione che esiste da sessant' anni e che ha affiancato Alessandra nella battaglia per la bocciatura di Edo. Che, tra l' altro, non ha nemmeno sostenuto gli esami di terza media. «Convinta che mio figlio avrebbe ripetuto l' anno, il giorno della prima prova non l' ho portato a scuola, salvo poi ricevere la telefonata degli insegnanti che mi domandavano perché fosse assente. A quel punto, ho capito che lo avrebbero promosso, perlopiù, senza alcun progetto ponte con la scuola superiore scelta, l' istituto "Marro" di Moncalieri. Edoardo ha dovuto iniziare a seguire le lezioni gradualmente, oggi va a scuola soltanto due ore al giorno ed è sempre nervosissimo. Ringrazio di avere i miei genitori in pensione che si possono occupare». Intanto la scuola di Trofarello si difende. Gli insegnanti sanno bene che Alessandra è una donna sola, in una situazione complessissima, ma spiegano che Edoardo avrebbe vissuto un trauma anche se fosse rimasto un anno in più alle medie: senza i suo compagni e i suoi vecchi professori sarebbe comunque stato tutto diverso. «Era utile che potesse proseguire il suo percorso scolastico». Però la scuola non nasconde che l' atteggiamento a volte aggressivo di Edo ha in parte inciso sulla decisione di promuoverlo. Anche perché nell' intervallo, tutti i bambini, anche i piccoli di prima media, sono insieme. Alessandra ora sta valutando se presentare ricorso al Tar.

«Per mio figlio disabile il sostegno a scuola è un terno al lotto». Davide ha 12 anni, deve cominciare le medie ma non gli è ancora stato assegnato un insegnante specializzato. E nella sua situazione ci sono migliaia di ragazzi in tutta Italia. Federico Marconi il 12 settembre 2019 su L'Espresso. Potrebbe essere uno dei modelli più all’avanguardia d’Europa. Potrebbe, ma non lo è per carenze di organico, inaccessibilità degli istituti, strumenti inappropriati. Ma anche perché la legge che nel 1977 ha istituito la “scuola integrata”, quella che permette ai bambini diversamente abili di frequentare le stesse classi e gli stessi corsi di tutti gli altri, non è mai stata applicata fino in fondo. Sono oltre 272mila i bambini e i ragazzi con disabilità che tra pochi giorni torneranno a scuola. Davide, 12 anni, è uno di questi. È affetto dalla nascita da tetraparesi spastica distonica, una disabilità motoria e del linguaggio, dovuta a un errore dei medici durante il parto. È da poco tornato dalle vacanze con la famiglia e ha poca voglia di leggere i libri consigliati dalle maestre, ma preferisce godersi gli ultimi giorni d’estate. Lunedì prossimo inizierà la prima media: nuova scuola, nuovi insegnanti, nuovi amici. «Ancora non gli è stata assegnata l’insegnante di sostegno, non sappiamo se avrà la fortuna di avere già da subito quella che l’accompagnerà per tutto l’anno», racconta la mamma Carmela. La sua è una preoccupazione condivisa da migliaia di famiglie in tutta Italia. «Bisogna avere la fortuna di avere da subito la maestra, di averne una con la specializzazione, di vedersi garantita la continuità di insegnamento per tutti gli anni del ciclo di studi. Quasi un terno al lotto», afferma lei che pure si dice fortunata perché «alle elementari abbiamo cambiato solo tre maestre». Per i 272mila studenti che ne avrebbero diritto ci sono solamente 156mila insegnanti di sostegno, secondo le ultime stime del Ministero dell’istruzione. Una situazione ancora più grave se si considera che circa 40mila insegnanti sono “in deroga”, ovvero senza studi di specializzazione. «Manca un piano programmatico. Viviamo una criticità a cui si sopperisce solamente con l’impegno e la buona volontà dei docenti», dichiara Manuela Calza del comparto scuola della Cgil. «Sono sempre più i genitori costretti a fare ricorso ai giudici per garantire ai figli il diritto al sostegno», continua. Le carenze di organico e la mancanza di specializzazione incidono soprattutto sulla continuità: il 41 per cento di studenti cambia insegnante rispetto all’anno precedente, il 12 addirittura durante lo stesso anno, scrive l’Istat nel report 2019 sull’inclusione scolastica. Il rapporto evidenzia anche un altro grande problema: quello delle strutture. Solo il 32 per cento degli istituti è accessibile dal punto di vista delle barriere fisiche, mentre appena il 18 per cento lo è per la presenza di ostacoli senso-percettivi. «Nonostante sia un diritto, io ho dovuto lottare per permettere a Davide di accedere alla sua nuova scuola», afferma Carmela. «Non avrei permesso che entrasse da un’entrata differente da quella degli altri». E così per quasi un anno ha dovuto combattere tra e-mail, riunioni e tavoli tecnici con chi doveva sistemare l’edificio nella periferia nord ovest di Roma. «Solo così siamo riusciti a ottenere una rampa che non è solo per Davide, ma per tutti. Un genitore deve poter scegliere la scuola che vuole per il figlio, a prescindere dalle barriere architettoniche, che devono essere abbattute». L’esperienza quotidiana di migliaia di ragazzi e delle loro famiglie rivela come la retorica della “istruzione inclusiva”, un modello per l’Europa dove ancora esistono le classi separate, non sia supportata dai fatti. «L’integrazione degli alunni con disabilità è un vanto per la scuola italiana, ma non si possono ignorare limiti», spiega Dario Ianes, professore di didattica e pedagogia speciale dell’Università di Bolzano. «L’integrazione e l’inclusione sono una responsabilità per tutti i docenti, mentre con la presenza dell’insegnante di sostegno si ha spesso un meccanismo di delega molto evidente. Avere il sostegno spesso legittima una sorta di esclusione dello studente, quando invece dovrebbe diventare cotitolare della didattica ed essere d’aiuto a tutti». E per questo, afferma Ianes, ci dovrebbe essere la piena applicazione della legge del 1977 «che prevede l’istituzione di un supporto socio-psico-pedagogico nelle scuole, ancora non presente». Una legge di 40 anni, ma ancora fondamentale per lo sviluppo di tutti gli studenti: «Il confronto è il motore dell’apprendimento, la diversità è una risorsa. Non solo per gli studenti disabili, che si confrontano con un modello competente, ma anche per i compagni che li aiutano. Un gruppo eterogeneo, se ben gestito, può essere d’aiuto a tutti».

SOStegno. Rai Report PUNTATA DEL 25/11/2019 Giulia Presutti. Secondo l'Istat, gli studenti con disabilità sono 270 mila: il 3,1% degli iscritti nelle scuole italiane. Ad accompagnarli nel percorso formativo c'è l'insegnante di sostegno, una figura necessaria a garantire l'inclusione scolastica. Ma i docenti di ruolo sono solo 100 mila e non bastano a coprire le esigenze. Così, a settembre le classi sono scoperte e le famiglie sono obbligate a rivolgersi ai giudici: è il Tar a raddrizzare la situazione, costringendo il Ministero a provvedere. Il Miur con una deroga nomina d'urgenza oltre 60 mila supplenti. Ma il diritto all'istruzione viene così garantito? E questo sistema emergenziale quanto pesa sulle casse dello Stato? SOStegno Di Giulia Presutti. SARA MORMANDO LIVE Mi dicono che ho delle belle mani, proprio da artista. Cerco semplicemente di trovare il mio stile da disegno. Sperimento provando a fare cose un po’ diverse, per esempio nel modo in cui disegno il corpo o il viso o soprattutto gli occhi.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Sara è affetta da un disturbo dello spettro autistico ed è una dei 270mila studenti con disabilità che frequentano le scuole italiane. Gli insegnanti di sostegno che li seguono sono 100mila, ma non bastano. E con una deroga vengono nominati 75mila supplenti.

SARA MORMANDO LIVE Il mio sogno, appunto, è quello di diventare una fumettista, creare dei personaggi, soprattutto di far felice la gente e far sentire loro qualcosa.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chi è che ruba i loro sogni? Buonasera. L’insegnante di sostegno è il tema dell’anteprima. È una figura fondamentale per l’inclusione del ragazzo con disabilità nella sua classe. Favorisce il rapporto con l’insegnante, con il compagno, favorisce la frequenza e anche lo aiuta a migliorarsi. Ma per assolvere al proprio compito deve essere innanzitutto presente, formato a trattare un tema particolare come la disabilità e deve garantire la presenza tutto l’arco dell’anno scolastico, garantire la cosiddetta continuità. E invece a ogni inizio di anno scolastico si assiste al déjà-vu. Mancano gli insegnanti, si ricorre ai supplenti, che passano magari da una cattedra all’altra come se la formazione di un alunno con disabilità fosse la porta girevole di un albergo. La coperta è corta e tutto questo umilia ragazzi e famiglie, che sono spesso costrette a rivolgersi a un tribunale per avere riconosciuto un diritto. Eppure è tutta una questione di conti. La nostra Giulia Presutti.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO I docenti assunti dal Ministero non bastano a coprire le esigenze. Bisogna far ricorso ai supplenti, che cambiano scuola ogni anno.

SARA MORMANDO Mi ha sempre dato fastidio che ogni anno dovevo cambiare professoressa, per poter ricominciare tutto da capo, conoscerla, spiegarle qual è il mio problema.

GIULIA PRESUTTI La professoressa non lo sa cos’hai, magari all’inizio pensa “a questa ragazza subito le facciamo fare tutto”.

SARA MORMANDO Sì magari mi vedono che sono perfette, ma in realtà qualche problemino ce l’ho.

STEFANIA CUCCIARDI - INSEGNANTE DI SOSTEGNO La conoscenza di ogni singolo individuo nei suoi punti forti così come nei punti deboli, ti fa la differenza.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Nei casi gravi, l’insegnante dovrebbe seguire un unico bambino per 25 ore a settimana nella scuola dell’infanzia e nella primaria. E per 18 nella secondaria. Le ore necessarie le stabilisce un gruppo di lavoro composto da docenti, famiglie e neuropsichiatri della asl.

LEONARDO ALAGNA – FEDERAZIONE ITALIANA RETE SOSTEGNO E TUTELA Quando c’è qualcosa che non va comincia un iter per realizzare quello che viene chiamato il PEI, cioè “programmazione educativa individualizzata” dell’alunno. L’insieme delle ore previste all’interno di ogni singolo PEI arriva all’ufficio scolastico provinciale che quindi definisce l’ammontare di insegnanti necessari a livello provinciale.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Ma qualcosa va storto. È il caso della sorella di Sara, Giulia, affetta da una forma di autismo molto grave.

LINDA MORMANDO Lei che dovrebbe partire con le 18 ore invece si ritrova con un’insegnante di sostegno che in questo momento non gliele può garantire tutte le 18 ore. Quindi invece di andarla a prendere per l’una sono costretta ad andarla a prendere per le 11 e mezza.

WALTER MICELI - RESPONSABILE LEGALE ASSOCIAZIONE PROFESSIONALE SINDACALE I genitori portano i propri figli disabili a scuola e non trovano l’insegnante di sostegno. A questo punto si rivolgono al TAR o al giudice ordinario, spesso addirittura invitati dallo stesso dirigente scolastico che dice per avere l’insegnante di sostegno devi fare ricorso.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Su Roma e provincia, a metà ottobre mancano ancora 1300 insegnanti di sostegno.

IMPIEGATA UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE Se una scuola ha bisogno di 5 cattedre, di 5 insegnanti e noi gliene diamo 3 perché il Ministero ce ne dà tre, poi loro le devono dividere.

GIULIA PRESUTTI Quando lei dice arrivano tre su cinque, perché?

IMPIEGATA UFFICIO SCOLASTICO PROVINCIALE Tagli. È una questione economica alla fine. Quest’anno arriveranno fiumi di sentenze e poi lì il Ministero deve provvedere: comunque gliela deve fornire al bambino, magari togliendola anche a un altro. Insomma, sono logiche un po’ assurde.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO É assurdo che in vicende come queste debbano intervenire i giudici. Le famiglie che si rivolgono alla magistratura vincono il ricorso nel 100% dei casi. E il ministero dell’Istruzione è costretto a nominare 75mila insegnanti precari da aggiungere a quelli già in organico.

GIULIA PRESUTTI Il diritto allo studio dal posto “in deroga” viene garantito in extremis, ma in realtà la continuità didattica e il buon funzionamento sarebbe un altro: avere l’insegnante dal primo giorno di scuola.

LORENZO FIORAMONTI - MINISTRO DELL’ISTRUZIONE Assolutamente, noi idealmente vorremmo avere posti in organico di diritto costanti per tutto il fabbisogno nazionale; questo ovviamente significa un costante investimento da parte dello Stato, quindi da parte del ministero dell’Economia e delle Finanze.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Invece, se al Sud ogni insegnante di sostegno si occupa in media di 1,3 studenti, al nord va anche peggio: in Lombardia ogni docente segue, in media, 1,7 alunni. Gli insegnanti di sostegno in organico sono 13.500, ma per coprire le esigenze ne hanno aggiunti altri 6800. Non si capisce perché a ogni inizio di anno scolastico si parte sempre sotto organico. Accade anche all’Istituto di Istruzione superiore di Pavia.

GIULIA MAJORANA - INSEGNANTE DI SOSTEGNO IPSIA PAVIA Abbiamo iniziato in uno stato di emergenza. Attualmente io seguo sei ragazzi: un monte ore per questi ragazzi almeno dovrebbe essere diviso in due insegnanti.

MARIA LAURA FREGA - RESPONSABILE SOSTEGNO IPSIA PAVIA Noi siamo partiti a settembre con nove docenti di sostegno di ruolo di cui però 4 hanno ricevuto l’assegnazione provvisoria in altra sede e pertanto di fatto ci siamo trovati a settembre con cinque docenti di ruolo a fronte di ben 62 alunni.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Solo cinque docenti su 28 necessari. Tutto perché ancora oggi il Ministero si basa su un calcolo errato.

GIULIA PRESUTTI Negli anni i precari sono stati stabilizzati sulla base del numero degli studenti che c’erano nel 2006/2007. Il numero degli studenti con disabilità è raddoppiato, ma non è stato cambiato il criterio di base.

LORENZO FIORAMONTI - MINISTRO DELL’ISTRUZIONE C’è un problema di risorse vero e proprio perché ovviamente l’organico di diritto significa che noi dobbiamo stanziare più risorse per avere personale regolare a tempo pieno presso le scuole che fa questo di mestiere. Io ora glielo dico, ovviamente un insegnante in deroga allo Stato costa di meno di un insegnante di ruolo. È un servizio di qualità non sempre all’altezza.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO E infatti quando la scuola convoca i supplenti in deroga non trova insegnanti specializzati. Al nord, il 49% del personale di sostegno non ha conseguito l’abilitazione. I corsi di formazione delle università sono a numero chiuso e i posti sono pochi.

LORENZO FIORAMONTI - MINISTRO DELL’ISTRUZIONE Nell’arco dei prossimi 3 anni 40mila nuovi docenti si specializzeranno, questi sono docenti già abilitati, 14mila di questi entreranno in servizio già a maggio dell’anno prossimo.

GIULIA PRESUTTI Però è sempre una coperta corta perché 40mila su 70mila deroghe fatte già quest’anno…

LORENZO FIORAMONTI - MINISTRO DELL’ISTRUZIONE Certo, a finanziamenti fermi, anche le università hanno difficoltà a fornire i corsi di formazione che poi ci permettono di formare gli insegnanti di sostegno.

GIULIA MAJORANA - INSEGNANTE DI SOSTEGNO IPSIA PAVIA Si attinge a quelle che sono le graduatorie di terza fascia che appunto raccolgono docenti che non hanno effettuato un corso. Per loro il sostegno non è una scelta, ma spesso diventa un’occasione per ottenere la supplenza.

GIULIA PRESUTTI FUORI CAMPO Nel frattempo, le famiglie degli alunni che non hanno il sostegno fanno ricorso al tribunale e il MIUR viene sistematicamente condannato a risarcire le famiglie.

LORENZO FIORAMONTI - MINISTRO DELL’ISTRUZIONE Alla fine dell’anno noi tra posti in deroga, supplenze che dobbiamo poi alla fine pagare, noi andiamo costantemente in deficit.

GIULIA PRESUTTI Se si facesse una stima di quanti soldi si spendono probabilmente vi rendereste conto che vi conviene stabilizzare i precari.

LORENZO FIORAMONTI - MINISTRO DELL’ISTRUZIONE Ci conviene sicuramente. Ora che questo convinca necessariamente il ministero dell’Economia e delle Finanze su alcune cose è più difficile da stabilire.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il ministro Fioramonti almeno c’ha messo la faccia. Dovrebbe essere la normalità, ma non è così. La Corte dei Conti, che ha analizzato le gestioni precedenti, quinquennio 2012-2017, ha rilevato omissioni da parte del Miur, la difficoltà a ottenere informazioni sulla gestione della disabilità, anche a stabilire gli effettivi costi. Ecco, ricapitolando: perché mancano gli insegnanti di sostegno? Perché un ministro nel 2006 ha deciso di contare quanti disabili sono presenti nelle nostre classi. Una volta stabilito il numero, ha deciso quanti insegnati inserire in organico. Solo che hanno impiegato 10 anni per assumerli e i numeri stimati sono fermi a 13 anni fa. I disabili sono aumentati. Ecco, e che cosa fanno per coprire le esigenze? Spostano gli insegnanti da una parte all’altra, cominciano un indecente carosello di cattedre, tante volte sottraendole a chi ha bisogno. Ma può uno Stato risparmiare sui più deboli? Ecco, che poi non è neanche tanto così. Perché, che cosa succede? Che quando una famiglia non vede riconosciuto il sostegno al proprio figlio ricorre in tribunale e il magistrato gli dà ragione nel 100% dei casi. E così il Miur deve pagare risarcimenti, spese legali e anche mettere a disposizione l’insegnante di sostegno. Si stima che per la sola Sicilia il Miur nel 2017 abbia pagato i risarcimenti circa 15 milioni di euro. Ecco, insomma, in questi anni pensate a immaginare questa stima estesa in tutta Italia. Quanti insegnati di sostegno si potrebbero assumere in organico? I vari governi, Renzi prima, poi il primo governo Conte, hanno tentato di riformare la legge sul sostegno, ma poi la montagna ha partorito il topolino. In questi giorni è in discussione la legge di bilancio. Sono previsti 11 milioni di euro per la formazione di insegnanti di sostegno. Sono meno dei risarcimenti pagati in Sicilia. Ecco, se questa è la strada che continua a percorrere il ministero delle Finanze e il ministero dell’Economia, cioè spendere più in risarcimenti che in inclusione, viene il sospetto che i limiti li abbia chi dovrebbe assistere i più deboli. Se poi il tema è invece quello di risparmiare, qualche suggerimento ve lo diamo anche stasera.

·         Scuola. Non c’è più la foto ricordo.

SCUOLA. NON C’È PIÙ LA FOTO RICORDO DI UNA VOLTA. Silvia Pedemonte e Simone Rossellini per “la Stampa” il 19 settembre 2019. Niente foto e video del primo giorno di scuola. Oppure sì, ma limitando l' inquadratura sui propri figli. E "allargando" sull' amichetto del cuore se e solo se i genitori - dell' amichetto - sono d'accordo. Armadietti che non hanno più la fototessera del bimbo che qui appoggia grembiulino e scarpe: resta il nome scritto in piccolo e poi un disegno fra sole, stelle, animaletti vari. Nuove figure, nell' organico scolastico: come il responsabile della protezione dei dati. Anno scolastico 2019/2020, la campanella suona e nel Levante ligure porta circolari, richieste e provvedimenti nel nome della privacy. E, in particolare: del Gdpr - General Data Protection Regulation - il regolamento europeo Ue 679/2016 sulla protezione dei dati personali (entrato in vigore lo scorso 25 maggio). Il caso più eclatante stava per scoppiare sul finire dello scorso anno scolastico: nel nome della privacy, a Rapallo, in certe classi sembrava in bilico pure la tradizionale foto di classe. Ora le norme della privacy dettano la linea. C' è un vero vademecum, che si può trovare su garanteprivacy.it. E ci sono, a cascata, le prime circolari e le prime linee da seguire. A Rapallo, alla scuola paritaria Gianelli, il primo giorno di scuola la preside Franca Castiglione ha chiesto ai genitori di non fare scatti "generalizzati", nel cortile scolastico. «Ogni anno facciamo firmare i moduli per le autorizzazioni su foto e video che vengono effettuate nell' ambito delle iniziative scolastiche. E qualche genitore non ha piacere - spiega la preside -. Proprio per questo, avendo presente che c' è chi non vuole, ho chiesto di non fare scatti di gruppo. Poi ognuno, ovviamente, poteva fare la foto del proprio figlio». Guido Massone, dirigente dell' Istituto Comprensivo Santa Margherita Ligure, ha dedicato al tema la circolare numero sei dell' anno scolastico appena iniziato. Con deroga per le foto per il primo giorno di scuola, richiamando però tutti a binari precisi: «Il primo giorno di scuola rappresenta per molte famiglie un' occasione speciale che merita un ricordo da fissare nel tempo» è l' incipit della circolare. Che traccia questa linea: foto sì, ma solo del proprio figlio. O, se gli scatti coinvolgono anche altri bimbi, deve esserci il via libera dei genitori. «Quello che può sembrare una limitazione della libertà in realtà è una garanzia dei diritti di tutti - afferma Massone -. Deve vigere il sentimento di prudenza e non di proliferazione bulimica dei dati e della pubblicazione degli stessi. È una tutela anche per i genitori che non sanno che, in caso di diffusione di foto senza il consenso, potrebbero avere problemi». Comprensivo di "Santa" che è già dotato di garanti interni, sul tema privacy e dati. Sempre nel nome della normativa europea a Rapallo sono sparite le fotografie dei bambini dagli armadietti della scuola d' infanzia Rainusso, che fa parte dell' Istituto comprensivo Rapallo-Zoagli. Resta il nome e un disegno. In ogni caso non è più possibile associare il nome al volto: «La raffigurazione fisica è il dato personale per eccellenza, perché per dato personale si intende ciò che consenta l' identificazione della persona», spiega Andreino Garibaldi, ingegnere informatico e referente per la privacy del Comprensivo Rapallo Zoagli. Che evidenzia: «Le immagini dei bambini non devono poter essere acquisite perché possono essere oggetto di trattamenti illegittimi. Si sono verificate anche truffe o false adozioni proposte con immagini di minori». Al Comprensivo Rapallo-Zoagli la dirigente è Elisabetta Abamo: «Seguiamo da tempo molti accorgimenti di tutela delle privacy. Gli elenchi dei componenti le classi non sono più visibili dall' esterno ma il genitore, qualificatosi, deve entrare per consultarli. Certo, poi, ci sono delle contraddizioni».

·         A scuola col cellulare.

«A scuola col cellulare silenziato ma non spento». Così fanno gli studenti. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 da Corriere.it. Il dibattito sui telefonini a scuola è annoso e confuso. Da un lato c’è la circolare dell’ex ministro Fioroni, datata 2007, che ne vieta l’uso a scuola , dall’altro c’è il «decalogo per un uso responsabile del telefonino a scopo didattico» varato un paio di anni fa dall’ex ministra Fedeli; infine ci sono i regolamenti di ciascun istituto che stabiliscono norme e sanzioni, compresa quella del sequestro temporaneo, da parte dell’insegnante, in caso di uso scorretto. Ma cosa ne pensano gli studenti della questione? Canale Scuola di Corriere.it e Laboratorio Adolescenza lo hanno chiesto a un campione di 780 alunni delle scuole superiori di Milano nell’ambito di una inchiesta sul mondo dell’istruzione visto dai ragazzi. Questa è la seconda puntata. La prima aveva per argomento il rapporto con gli insegnanti. L’autore, Maurizio Tucci, è presidente del Laboratorio Adolescenza.Naturalmente non ci ha meravigliato trovare una maggioranza bulgara di studenti pro telefonino, con il 98,8% di contrari al divieto di portarlo a scuola; ma qualche sfumatura sull’utilizzo è risultata esserci anche tra di loro. Ad esempio, viene fatta una sottile ma significativa differenza sulle modalità del non-uso. Spento o silenziato durante le lezioni? Se il 20% considera che sarebbe più giusto spegnerlo, il 78,2% ritiene che vada soltanto silenziato. Un furbo distinguo, visto che la loro versione di «silenziato» significa senza la suoneria ma libero di vibrare ad ogni messaggio Whatsapp e a ogni like sul proprio profilo Instagram. «Ok tenerlo spento durante le lezioni – dice Carlo (nome inventato, ndr) -, ma non farcelo utilizzare durante le pause o la ricreazione è un sopruso». Peccato che l’utilizzo improprio dei telefonini – si vedano i casi anche gravi di bullismo e cyberbullismo a mezzo di foto e video – si pratichi prevalentemente durante gli intervalli. A rendere ancora più spinosa la situazione – riferiscono presidi e docenti – è che spesso sono proprio le famiglie a volere che i figli portino il cellulare in classe. «Io ho il diritto di comunicare con mio figlio anche quando è a scuola», mi dice una mamma che vuole rimanere anonima. Il problema è che dietro questa incredibile simbiosi adolescente-telefonino ci sono anche dei risvolti di tipo psicologico: «Il telefonino sta all’adolescente come l’orsacchiotto di peluche sta al bambino che se lo trascina costantemente all’asilo – afferma Alessandra Marazzani, psicologa di Laboratorio Adolescenza –. E’, come diciamo in gergo, un oggetto transizionale (termine introdotto dal pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott, ndr) , ovvero un oggetto fisico, che fornisce conforto psicologico in potenziali situazioni di stress come quelle che talvolta può riservare la scuola. Il dramma è che mentre l’orsacchiotto prima o poi il bambino lo abbandona, il telefonino - a giudicare dai comportamenti di noi adulti - appare destinato ad accompagnare gli adolescenti come oggetto di una transizione senza fine». Vero è che lo smartphone è anche uno strumento con delle potenzialità per quanto riguarda lo studio. La maggioranza degli studenti intervistati – soprattutto le ragazze - dichiara di utilizzare il telefonino per scopi didattici «spesso» (29,4%) o almeno «qualche volta» (47,1%). E a farlo maggiormente sono gli studenti che dedicano più ore allo studio: segno che l’utilizzo dello smartphone non è solo una scorciatoia per fare delle ricerche su Wikipedia con il «taglia e incolla», ma una reale fonte di approfondimento. Inoltre – e anche questo è un dato positivo – per il 64,8% l’invito all’utilizzo del telefonino per scopi didattici arriva proprio dagli insegnanti. Solo il 12% lo fa «off label», ovvero sapendo che i prof sono contrari. Segno che ormai anche i docenti ritengono insensato immaginare un processo formativo completamente impermeabile alle nuove opportunità che la tecnologia mette a disposizione.

·         Le okkupazioni educative.

Gli studenti occupano il Caetani: aule danneggiate e libri distrutti. L'incursione nel liceo di viale Mazzini, nel centralissimo quartiere Prati, è partita all'una di notte. L'occupazione lampo è stata sgomberata nelle prime ore del mattino dalle forze dell'ordine. E ora si contano i danni alle aule. Cristina Verdi, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. Sedie e banchi usati come barricate per bloccare porte e finestre. Lavagne spaccate, maniglie divelte, armadi buttati a terra, libri stracciati e sparsi ovunque: all’indomani dell’occupazione lampo nel liceo Caetani di viale Mazzini, nel quartiere Prati, a Roma, si fa la conta dei danni. Le foto pubblicate dal quotidiano Il Messaggero parlano chiaro. A forzare una delle porte di sicurezza della scuola, manomettendo gli allarmi sono stati una decina di studenti. Ma è come se nelle aule fosse passato un esercito di barbari. Non c’è un’ala della scuola che non sia stata messa a soqquadro o vandalizzata. Ad evitare conseguenze peggiori è stato il blitz della polizia, arrivata nelle prime ore del mattino dopo la denuncia sporta dal preside dell’istituto, Marco Guspini. È stato lui a chiedere lo sgombero dopo aver cercato di trovare un accordo con i ragazzi. Al quotidiano di via del Tritone ha detto di essere stato costretto a farlo nell’interesse della maggioranza degli studenti, che invece avrebbero voluto frequentare le lezioni. La didattica, con tutta probabilità, potrebbe riprendere già nella giornata di mercoledì, dopo le operazioni di bonifica delle aule. Per il dirigente scolastico si è trattato di una mossa pretestuosa, visto che d’accordo con gli studenti, aveva già acconsentito allo svolgimento di una settimana di didattica alternativa. Forse anche per questo motivo alla chiamata degli studenti di domenica scorsa non hanno risposto in molti. A testimoniare il calo generale di interesse verso le occupazioni ci sono anche i dati forniti dalle associazioni di categoria. Sempre al Messaggero, Mario Rusconi, rappresentante dei presidi di Roma e del Lazio testimonia come dalle circa 25 occupazioni annuali degli scorsi anni si sia passati alle 10 scuole occupate nel 2018. Numeri che sarebbero ulteriormente in calo nel 2019. Nell’anno scolastico in corso si contano per ora soltanto cinque occupazioni. Si è trattato per lo più di blitz durati poche ore, come quello al Caetani. Sia le modalità, sia i contenuti proposti dagli studenti più attivi nelle proteste non fanno quasi più presa. E a scoraggiare questo tipo di iniziative c’è anche la linea di condotta dei dirigenti scolastici che ora, nella stragrande maggioranza dei casi non esitano ad allertare le forze dell’ordine. La tolleranza zero, insomma, paga. E così anche al Virgilio, il liceo del centro di Roma che era salito all’onore delle cronache per i festini a base di sesso, droga e alcol, andati in scena proprio durante le autogestioni, l’occupazione di quest’anno non è stata tra le più partecipate. La protesta degli studenti contro la costruzione del parking di via Giulia, che ha sottratto alcuni locali alla scuola, è partita domenica sera e sta andando avanti anche oggi nonostante la denuncia della preside che però sembra non aver chiesto alle forze dell’ordine di sgomberarli. E ieri in classe a parlare di “femminismo e patriarcato” c’era anche la scrittrice Michela Murgia, che ha definito l’occupazione “un’esperienza educativa”. Occupare è “una delle esperienze più scolastiche, nel senso pedagogico del termine, che vi capiterà di fare”, assicura. Con buona pace di chi i libri vorrebbe leggerli anziché distruggerli.

La Murgia elogia le okkupazioni: "È una esperienza educativa". La scrittrice Michela Murgia al liceo Virgilio occupato dagli studenti: "Una scuola che non ha mai fatto un’occupazione non sa cosa si perde". Giuseppe De Lorenzo, Martedì 03/12/2019, su Il Giornale. Le okkupazioni? "Educative". Anzi: una delle "esperienze più scolastiche nel senso pedagogico del termine". Parola di Michela Murgia. E noi che pensavamo di formare i ragazzi con compiti a casa, regole, rispetto delle gerarchie, verifiche, interrogazioni, bocciature più severe e - magari - servizio civile o militare obbligatorio. Che sbadati. Per educare i nostri figli o alunni non c’è niente di meglio di una tre giorni di autogestione. Il liceo Virgilio di Roma da ieri è in stato di agitazione per via di un’area in cui fino al 2010 gli studenti potevano fare educazione fisica, poi "ceduta per la costruzione" di un parking mai realizzato. La protesta è rivolta "alla sovrintendenza" nella speranza "di ottenere un incontro". Nell’attesa, gli studenti si sono organizzati per affrontare nelle aule okkupate "le tematiche che ci caratterizzano a livello politico": antifascismo, femminismo, immigrazione, ambiente, giornalismo e via dicendo. Il primo ospite di peso, subito dopo la rassegna stampa mattutina, è stata proprio Michela Murgia. Aula 66. Tema: "Femminismo e patriarcato che opprime la nostra società". Non entreremo nel dettaglio di quanto detto a scuola dalla scrittrice. Quel che merita una riflessione, infatti, sono piuttosto le frasi rilasciate in un’intervista pubblicata sulla pagina Facebook del Collettivo Autorganizzato Virgilio. Passi pure (anche se non condividiamo) la scelta di prestarsi ad iniziative durante l’occupazione di un edificio pubblico, che di norma rende complicato lo svolgimento delle lezioni ed il normale apprendimento scolastico. Ma descriverla come la più educativa delle pratiche ci pare esagerato. Un tantino fuori dal tempo. E pure sbagliato. "Io credo che una occupazione come quella che state facendo - dice la scrittrice - sia una delle esperienze più scolastiche, nel senso pedagogico del termine, che vi capiterà di fare. La capacità di interagire e autoregolarsi è una competenza che nessun sistema gerarchico è in grado di darvi". Per imparare l’autonomia meglio allontanare gli insegnanti per entrare in un "meccanismo di relazione" tra pari. Ecco perché "una scuola che non ha mai fatto un’occupazione, e non l’ha mai fatta in questo modo, non sa cosa si perde". Non va criminalizzata, anzi: "È una esperienza educativa". Chi scrive, purtroppo, da giovane ha partecipato a (futili) settimane autogestite. E ne riconosce l’inutilità educativa. Non ha però mai sostenuto l’occupazione di una scuola, decisione che tuttavia non ne ha limitato lo sviluppo formativo. Il più delle volte infatti okkupare diventa un modo per cazzeggiare allegramente un paio di giorni sfruttando un pretesto qualsiasi. Gli studenti del Virgilio riconoscono che il gesto può apparire "ripetitivo e scontato". Ed è proprio così, checché ne dica la Murgia. Okkupare non è "educativo", non più di mandare a memoria una poesia o imparare a rispettare le gerarchie. Fidatevi: invece di scimmiottare il '68, è meglio studiare e apprendere un mestiere. Perché nella vita il giovane studente di oggi sarà probabilmente l’impiegato di domani, dovrà sottostare alle regole del mondo del lavoro. Cercherà di scalarne la piramide (di potere) e se diventerà un manager non favorirà certo un "contesto di totale partirà" con dipendenti e colleghi. Toc toc, direbbe Nicola Porro. La savana del mondo reale è molto meno fricchettona di un giardino dell’Eden okkupato.

Ps: due anni fa, sempre al Virgilio, durante l'occupazione successe di tutto: rave party, consumo di droghe, bombe carta e rapporti sessuali filmati coi telefonini. Alla faccia dell'iniziativa educativa.

·         La dittatura delle minoranze. Quando a condizionare la vita sono i pochi.

"Niente scuola a causa dei no vax" interviene la Regione Lazio: "Sanzioni se bambino non rientra a scuola". Il piccolo di otto anni dopo una leucemia ha sviluppato una immunodepressione. Ma non può tornare in classe perché ci sono cinque alunni non vaccinati. L'assessore D'Amato: "E' un fatto di civiltà". Asl 2 faccia le dovute verifiche, scrive il 22 febbraio 2019 La Repubblica. "La Regione Lazio ha chiesto alla Asl Roma 2 di attivarsi presso la dirigenza scolastica dell'istituto di via Bobbio a Roma per verificare le condizioni di accesso a scuola in piena sicurezza per il bambino immunodepresso". E' quanto afferma in una nota l'assessore alla Sanità della Regione Lazio Alessio D'Amato. D'Amato fa riferimento a una vicenda, pubblicata stamattina dal 'Corriere della Sera', che vede protagonista un bambino di otto anni, che dopo una leucemia ha sviluppato una immunodepressione. Ma non può tornare a scuola perché nella sua classe, riporta ancora il quotidiano, ci sono cinque alunni non vaccinati, di cui "due figli di mamme che si dichiarano no vax". Il bambino dopo la chemio non può essere sottoposto a vaccinazioni, hanno disposto i medici, per cui il contatto con una malattia potrebbe essergli fatale. I genitori hanno incontrato la preside e hanno diffidato la scuola, nel quartiere di San Giovanni di Roma; sempre stando al quotidiano i dati Asl segnalerebbero che il 30 per cento dei bambini di quell'istituto sarebbero non vaccinati. "E' un fatto di civiltà - afferma ancora l'assessore D'Amato - Non possiamo accettare che il piccolo non possa frequentare regolarmente le lezioni con i suoi amici e con i suoi insegnanti perché non sussiste una situazione di sicurezza per la sua salute. La Asl Roma 2 attiverà tutte le procedure previste dalla legge in accordo con l'autorità scolastica per richiamare le famiglie dei bambini ancora non vaccinati e fornire loro tutte le informazioni necessarie in merito all'assoluta sicurezza dei vaccini. Se persisterà una situazione che pregiudica il diritto ad accedere a scuola in piena sicurezza per la salute del bambino di 8 anni - conclude - scatteranno le sanzioni pecuniarie previste dalla normativa. Confidiamo nel buonsenso e ci auguriamo di non essere costretti ad utilizzare tutti gli strumenti di legge".

Firenze: giudice chiuse wi-fi a scuola, genitori chiedono riaccenderlo. Il provvedimento dello scorso gennaio per proteggere una bimba con problemi di epilessia dalle onde elettromagnetiche, scrive il 22 febbraio 2019 La Repubblica. "Ridateci la linea wi-fi". E' la richiesta che viene dalle famiglia di una scuola fiorentina off line dallo scorso gennaio. Per proteggere una bimba con problemi di epilessia dalle onde elettromagnetiche, in un istituto nella zona di Gavinana, il tribunale di Firenze ha disposto, "inaudita altera parte" e cioè senza contraddittorio in via precauzionale, lo spegnimento del sistema wi-fi. Il ricorso era stato presentato dai genitori della piccola, il cui padre è fondatore del comitato toscano "No wi-fi". Ora, a quasi un mese dalla decisone e a due settimane dall'udienza nella quale si entrerà nel merito della questione, secondo quanto riporta il Corriere Fiorentino, sono scesi in campo i genitori degli altri bambini secondo i quali "si è resa impossibile la normale attività didattica, suscitando gravi disagi all'interno dell'istituto". Sono loro che chiedono che il tribunale disponga il ripristino del servizio e che "ogni ulteriore provvedimento venga preso sulla base di una perizia al di sopra delle parti e validamente motivata". L'udienza è fissata per il 6 marzo quando il giudice, sentite le ragioni della scuola, potrà revocare, modificare o confermare il dispositivo. Il servizio internet, secondo quanto disposto dal giudice, può essere garantito anche da impianti via cavo che non producono campi elettromagnetici. La bambina, durante le lezioni di informatica accusava malore davanti allo schermo del pc. Gli altri genitori vogliono capire quanto sia fondato il problema della salute dei figli. "Se è fondato allora il rischio vale per tutti, se non lo è stanno subendo tutti un danno", dice un altro genitore secondo quanto riportato dal quotidiano e chiede "se si tratti di un caso di diritto alla salute" o "sia sia di fronte a un ennesimo no vax-tecnologico".

Ecco la lettera dei genitori del Consiglio di Istituto Botticelli di Firenze: "Quali membri rappresentanti dei genitori all’interno del Consiglio dell’Istituto Comprensivo Botticelli di Firenze, intendiamo esprimere il nostro dissenso e la nostra preoccupazione per la decisione assunta dal Tribunale di Firenze, che il 12 dicembre scorso ha imposto l’immediata rimozione degli impianti wi-fi presenti all’interno della Scuola elementare Pertini.  Il provvedimento, assunto senza che sia stata ascoltata la Direzione scolastica, è stato adottato nell’ambito di un procedimento conseguente alla denuncia di un genitore, che lamenta possibili danni fisici al figlio in conseguenza della diffusione delle onde elettromagnetiche. Non riteniamo possibile che la decisione sia stata assunta sulla base di quanto dichiarato da un medico di parte, senza che esista alcuna evidenza scientifica al riguardo. In tal modo si è resa impossibile la normale attività didattica, suscitando gravi disagi all’interno dell’Istituto.  In assenza di wi-fi si precludono le normali attività previste, che vanno dalle procedure di registrazione delle assenze e di comunicazione dei pasti alle mense, fino all’impossibilità di usare le lavagne interattive multimediali e all’interruzione dei supporti didattici per i bambini con dislessia certificata. Il danno, insomma, lo stanno pagando tutti gli alunni indistintamente, mettendo in grande difficoltà gli insegnanti nel loro lavoro quotidiano.  Chiediamo al Tribunale di Firenze di rivedere la propria decisione nell’immediato oppure in occasione della prima udienza del procedimento, prevista per i primi giorni del mese di marzo.   Chiediamo che ogni ulteriore provvedimento vengo preso sulla base di una perizia al di sopra delle parti e validamente motivata".

Lorena Loiacono per ''Il Messaggero'' 2 febbraio 2019. Docenti all' università a tempo pieno, con consulenze esterne all' ateneo: i professori potranno lavorare anche con enti privati, riconoscendo però all' università una percentuale dei guadagni per finanziare la ricerca e le borse di studio destinate agli studenti. È questa la soluzione proposta dalla Lega ai problemi sorti per centinaia di docenti universitari che, accettando di svolgere consulenze esterne pur lavorando a tempo pieno per l'università pubblica, si sono ritrovati nelle indagini della Guardia di finanza e sotto la lente di ingrandimento della Corte dei Conti. Si tratta infatti di una situazione critica per tanti professori che va avanti da anni tra leggi, tra cui la 382/1980 poi estesa anche dalla 240/2010 dell'allora ministro all' istruzione Gelmini il cui intento era proprio quello di regolamentare le consulenze, e interpretazioni varie. Ora con una proposta, di cui è primo firmatario il senatore Mario Pittoni della Lega, presidente della Commissione istruzione, si prova a fare chiarezza sulla liberalizzazione delle consulenze mantenendo sempre il rispetto dell'impegno preso con l'Ateneo dove si insegna a tempo pieno. Vale a dire che, prima di svolgere attività esterne, bisogna assicurarsi di poter garantire le ore previste dal contratto, vale a dire oltre alle lezioni, anche i colloqui e gli incontri con gli studenti, e soprattutto l'attività di studio e di ricerca. «Ai professori ed ai ricercatori a tempo pieno, nel rispetto degli obblighi istituzionali si legge nel testo che prima dello stralcio di tutto il pacchetto Scuola era contenuto in un emendamento al ddl Semplificazioni - è liberamente consentito lo svolgimento di attività di consulenza extraistituzionali realizzate in favore di privati, enti pubblici oppure anche per fini di giustizia. Tali attività possono essere svolte anche in regime di partita Iva, senza necessità di iscrizione ad albi professionali, fatta eccezione per le professioni sanitarie». Il lavoro di consulenza deve essere preventivamente comunicato al Direttore del Dipartimento in cui insegna il docente e al Rettore. Una volta ottenuto il via libera, il docente destinerà una quota pari al 10% del compenso all' attivazione di posti di ricercatore, di borse di dottorato, di assegni di ricerca e di borse di studio per studenti universitari. Spetta comunque al singolo Senato Accademico deliberare la ripartizione del contributo alle diverse destinazioni. «Abbiamo dato voce a una richiesta che arriva direttamente dal mondo universitario spiega il senatore Mario Pittoni vogliamo dare un'interpretazione autentica per far sì che i docenti non si trovino a dover rispondere alla giustizia per aver dato un'interpretazione sbagliata alla norma. Oltre al fatto che, regolamentando le consulenze, arriveranno anche nuovi introiti alle università che da anni ormai fanno fatica a trovare nuove risorse da investire sulla ricerca e sulle borse di studio. Si tratta di un percorso già ben avviato all' estero su cui l'Italia è rimasta sempre indietro». Si tratta infatti di una realtà che va chiarita: di fatto la legge 240 sanciva la legittimità del diritto dei docenti a svolgere attività esterne all' Ateneo. Un lungo lavoro della Guardia di Finanza portò nel maggio del 2018 ad un totale di ben 411 docenti universitari indagati. Nel mirino dei militari c'era il dubbio del doppio lavoro, ritenuto tale perché i docenti erano impiegati a tempo pieno all' università ma avevano accettato anche impegni esterni. La Corte dei Conti individuò su 172 casi un danno erariale per 42 milioni di euro, ritenendo in alcuni casi che il limite massimo di guadagno non dovesse superare i 5mila euro lordi annui. Tanti di quei casi, che investirono gli Atenei dal Nord al Sud di Italia coinvolgendo docenti di facoltà come ingegneria e architettura, chimica, giurisprudenza ed economia, vennero poi archiviate dopo diversi mesi di indagini serrate. A dimostrazione del fatto che, su quella norma, serve chiarezza. Per questo il testo di riforma proposto dalla Lega dovrebbe fare una volta per tutte chiarezza delle situazioni assai frequenti nelle Università di tutta la penisola.

·         Quelli che non sono laureati…e fanno la morale.

Così Briatore asfalta Gramellini: "Non sei laureato e fai la morale". Flavio Briatore replica al commento di Massimo Gramellini: "Fai parte di colore che si sono trovati a lanciare i sampietrini protestando in favore della cultura", scrive Anna Rossi, Sabato 12/01/2019, su "Il Giornale". Solo qualche giorno fa, Falvio Briatore ha difeso con le unghie il figlio Nathan Falco dagli haters che gli davano del "ciccione". Dopo averli messi al loro posto e zittiti, l'imprenditore è passato a parlare del futuro del ragazzino. Intervistato dal settimanale Oggi, ha spiegato che non intende mandarlo all'università perché "sarò io a formarlo". "Se uno ha una vocazione deve essere libero di assecondarla - ha continuato - ma a me non serve un laureato, mi serve uno che porti avanti quello che ho costruito: se mi serve un commercialista o un avvocato lo chiamo e gli pago la parcella". L'imprenditore è stato chiarissimo. Questa è la sua posizione che evidentemente non è andata a genio ad alcuni. E fra questi alcuni c'è il vice direttore ed editorialista del Corriere della Sera, Massimo Gramellini. Nella sua rubrica Il caffè ha puntato il dito contro Briatore. Prendendola alla larga, ha colto l'occasione per paragonare le idee dell'imprenditore "al politico contemporaneo che considera le competenze uno sfizio da tecnici e le conoscenze un impaccio al dispiegarsi della creatività". Un attacco bello e buono anche al governo, quindi. Da qui, poi, Gramellini ha iniziato a parlare dell'importanza della cultura, del pensiero di Sergio Marchionne e di come "il virus dello studio" debba "diffondersi anche tra i figli di papà". Cita Marchionne, ma le parole sono scelte con cura. E dopo la ramanzina, Gramellini si è preso pure la briga di fare un augurio a Briatore. "L'augurio migliore che si possa fare al figlio di Briatore come a tutti i figli del mondo - conclude - è di non incatenarsi alle pianificazioni paterne, di seguire la propria stella e, prima ancora, di dotarsi degli strumenti per scoprire qual è". Ramanzina finita, Flavio Briatore replica a tono: "Vorrei ricordare a Massimo Gramellini che lui non si è mai laureato...fonte Wikipedia e per ora figli non ne ha... Presto sarà papà (auguri). Gramellini fa parte di coloro che si sono trovati in piazza a tirare sampietrini protestando in favore della cultura per tutti... Oggi a farsi una cultura sono i figli di chi ha poche possibilità perché non c'è lavoro e nessuno capisce a cosa serva farsi un mazzo così per poi se ti va bene trovarsi a fare consegne pony express...". E dopo la premessa, l'imprenditore chiarisce ulteriormente la sua posizione in merito all'università. "L'università - aggiunge sempre su Instagram - è un parcheggio per ventenni privi di futuro. I genitori, non sapendo dove piazzarli, li iscrivono a bizzarre facoltà dove hanno professori come tate! Poi imparano cose che nella vita non serviranno a meno che non abbiano uno zio cardinale o un cugino editorialista del Corriere. La condizione oggi per fare carriera è avere uno in casa che abbia fatto carriera ieri!!! Ho preso per questo Instagram spunti da Picca".

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·         Le Svolte storiche.

Torre di Pisa, un’epigrafe rivela il nome dell’autore. Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Corriere.it. Il suo nome era rimasto sepolto nei secoli in quel luogo oscuro della storia nel quale la memoria si perde e si confonde nella gloria e nella vergogna. Era veramente Bonanno Pisano, l’antico costruttore della Torre di Pisa come ci aveva raccontato Giorgio Vasari? Oppure, come sostenevano altri studiosi, la paternità del campanile più famoso al mondo, era da attribuirsi ad altri? Un enigma che, dopo 846 anni, è stato probabilmente risolto da Giulia Ammannati, fiorentina, ricercatrice e docente di paleografia latina alla Scuola Normale Superiore di Pisa. E’ stata lei a decifrare un pezzo di pietra trovato nell’Ottocento vicino al monumento pendente e che erroneamente si credeva fosse l’iscrizione sepolcrale della tomba di Bonanno. Non era una lapide bensì la firma del maestro. «Che si sarebbe dovuta murare sulla Torre – spiega Ammannati – per ricordare e glorificare il suo autore. Quando però il monumento iniziò a inclinarsi e i lavori si fermarono, Bonanno preso dallo sconfortò abbandonò quell’iscrizione tra gli scarti di lavorazione e il tempo in parte la distrusse». Quando fu ritrovata, diversi secoli più tardi (siamo nel 1838) e murata sulla parete sinistra dell’ingresso del monumento credendola appunto un’iscrizione funebre, era quasi illeggibile. Ma c’era una parola visibile che da tempo “tormentava” Giulia Ammannati: opus, opera. «Che non poteva appartenere a un’iscrizione funebre – spiega la studiosa – ma a qualcosa di concreto, a un progetto, a un’opera appunto». Così è iniziato il lento e prezioso lavoro di ricostruzione dell’epigrafe. Un testo in metrica latina, come la più incredibile delle poesie: Mirificum qui certus opus condens statui unum, / Pisanus civis Bonannus nomine dicor. Che tradotto in italiano significa Io che sicuro ho innalzato, fondandola, un’opera mirabile sopra ogni altra, sono il cittadino pisano chiamato Bonanno. «Eccola qua la prova della paternità dell’autore – spiega Ammannati -. Una firma che Bonanno aveva già preparato prima della conclusione dei lavori e certamente precedente all’inclinazione della Torre che gettò nello sconforto il suo costruttore». E allora sembra di vederlo, in Piazza dei Miracoli, Bonanno Pisano, già apprezzato autore delle porte di bronzo della cattedrale, muoversi inquieto e disperato e lanciare tra i detriti quella pietra che avrebbe dovuto glorificarlo nei secoli dei secoli. La storia spesso sa essere beffarda. Il campanile è un capolavoro assoluto ma la sua fortuna mondiale la deve anche a quel difetto costruttivo: la sua pendenza. Ma nell’anno del Signore 1173, data d’inizio dei lavori e nell’epoca di massimo splendore e perfezione della Repubblica marinara pisana, nessuno avrebbe potuto immaginare che la “malformazione” del campanile avrebbe significato altra gloria e non vergogna. La scintilla, quella che gli scienziati chiamano eureka, a Giulia Ammannati è arrivata nel settembre dello scorso anno mentre dal suo studio leggeva e rileggeva quei resti dell’epigrafe. E con essa anche le Vite del Vasari dedicate ai «più eccellenti pittori, scultori e architettori» dove per altro si racconta che alla costruzione della Torre lavorò anche un altro autore oggi sconosciuto: un certo Guglielmo il tedesco. Sarà questo il nuovo compito della professoressa Giulia che sull’argomento ha appena scritto un libro? «Non sono una storica ma cercherò di dare il mio contributo», risponde con uno di quei sorrisi che promettono nuove ricerche e nuove rivelazioni.

Da “il Giornale” il 13 dicembre 2019. A prima vista sembra un bufalo inseguito da strane creature solo in parte umane armate di lance. Ma non è tanto importante dove va ma da dove arriva, dalla mano di un uomo vissuto 44mila anni fa. Hanno trovato il dipinto sul muro di una grotta indonesiana e diversi ricercatori pensano che la scena ritratta potrebbe essere la storia più antica del mondo. E forse è solo l'inizio: ci sono almeno 242 grotte o rifugi con immagini antiche nella sola Sulawesi, nel Borneo, e nuovi siti vengono scoperti ogni anno. Il disegno indonesiano, non la storia ritratta, non è il comunque più antico del mondo. L' anno scorso un gruppo di di scienziati certificano di averlo trovato su un frammento di roccia in Sudafrica, risalente a 73.000 anni fa. I risultati sono stati presentati sulla rivista Nature dagli archeologi dell' Università Griffith di Brisbane, in Australia. Adam Brumm, uno di questi studiosi, racconta che il dipinto è stato trovato in una grotta chiamata Leang Bulu' Sipong, quattro chilometri a sud di Sulawesi, un' isola indonesiana a est del Borneo. Il pannello è largo quasi cinque metri e sembra mostrare, oltre al tipo di bufalo chiamato «anoa», maiali selvatici e figure più piccole che sembrano umane, ma hanno anche caratteristiche animali come code e musi. «Mai visto nulla di simile prima - ha dichiarato Brumm - cioè abbiamo visto centinaia di siti di arte rupestre in questa regione ma non abbiamo mai visto nulla di simile a una scena di caccia». A rivelare l'età del dipinto un processo che attraverso la calcite accumulata è in grado di stabilire l'età del disegno. Altri ricercatori avanzano un' ipotesi suggestiva: che il pannello si sono chiesti se il pannello non rappresenti una singola storia ma che faccia parte di una serie di immagini dipinte per un periodo più lungo. Quasi una storia a fumetti. «In precedenza, l' arte rupestre trovata in siti europei risalenti a circa 14.000-21.000 anni fa era considerata la più antica opera narrativa del mondo» spiega Nature anche se l' anno scorso, una pittura rupestre nel Borneo, ritenuta la più antica di un animale, risulta abbia almeno 40.000 anni. E questo bufalo, dietro, potrebbe avere una mandria.

Svolta in archeologia: il tempio delle Cariatidi è il vero Partenone. Pubblicato mercoledì, 18 dicembre 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. Il vero Partenone molto probabilmente non è l’edificio che tutto il mondo conosce come tale, cioè il grande tempio della dea greca Atena che sorge sulla sommità dell’Acropoli di Atene. Lo sostiene l’archeologo olandese Janric van Rookhuijzen, dell’Università di Utrecht, in uno studio in uscita sul numero di gennaio 2020 della prestigiosa rivista «American Journal of Archaeology». A suo avviso, è più corretto attribuire il nome Partenone a un altro tempio dell’Acropoli, quello chiamato comunemente Eretteo, e in particolare alla sua famosa Loggia delle Cariatidi, la cui funzione è stata sempre un enigma. Janric van Rookhuijzen lavora dal 2018 all’Università di Utrecht, in OlandaVan Rookhuijzen ricorda che il grande edificio oggi conosciuto come Partenone era chiamato dagli antichi Greci Hekatompedon, cioè tempio «lungo cento piedi». Questo nome è menzionato in antiche liste d’inventario per designare la sala dove si trovavano l’enorme statua crisoelefantina (cioè di oro e avorio) della dea Atena, alta undici metri, e altri oggetti preziosi. Ma bisogna aggiungere che negli stessi documenti compare anche il nome Partenone, riferito tuttavia a un altro tesoro, comprendente antiche offerte del più vario genere, tra le quali spade persiane e strumenti musicali. Gli archeologi hanno sempre ritenuto che anche il secondo tesoro si trovasse da qualche parte nel grande tempio oggi noto come Partenone, ma van Rookhuijzen, alla luce di testi e reperti antichi, ritiene di poter affermare che si tratta di una tesi insostenibile. In particolare l’archeologo olandese osserva che un antico testo romano, un itinerario di viaggio, si soffermava sull’attuale Eretteo e citava alcuni eccezionali oggetti custoditi al suo interno, dei quali abbiamo notizia solo nella già citata lista d’inventario del tesoro detto Partenone. Nessuno ha mai notato questa connessione, sostiene van Rookhuijzen, perché si dava per scontato che la sala del Partenone fosse nel tempio grande. A suo avviso però, di fronte a questo riscontro, «non c’è altra conclusione possibile: il Partenone era parte del tempio piccolo». Quindi l’edificio comprendente le statue di alcune vergini, la famose Cariatidi, che sorreggono il tetto di una loggia, sarebbe stato indicato per secoli con un nome errato. «È estremamente logico — scrive l’archeologo olandese — che gli antichi Greci chiamassero una porzione di questo tempio Partenone, ossia “casa delle vergini”». In attesa di vedere come sarà accolta la tesi di van Rookhuijzen dalla comunità accademica, un’altra studiosa dell’Università di Utrecht, Josine Blok, sostiene che questa scoperta può avere l’effetto di un «piccolo terremoto» sugli studi classici riguardanti Atene, poiché l’Acropoli era non soltanto il cuore della città sotto il profilo religioso, ma aveva anche una grande importanza politica. Attribuire una nuova identità ai suoi edifici può dunque determinare ripercussioni incalcolabili su piano scientifico.

Da repubblica.it il 19 dicembre 2019. Una distesa di anfore romane è stata scoperta dagli archeologi dell'Università di Patrasso davanti alle coste di Fiskardo, cittadina sull'isola di Cefalonia. Sono ancora intatte e, sotto la sabbia - secondo i ricercatori - ce ne sarebbero altre, nascoste insieme ai resti di una parte dell'imbarcazione che affondò tra il 100 a.C e il 100 d.C. Gli studiosi stimano che siano circa seimila, un calcolo cui sono giunti grazie a un particolare: nonostante il tempo, il vasellame ha conservato la sagoma dell'imbarcazione che le trasportava. Da ciò sono riusciti a dedurre la grandezza della nave che, attraversando il Mediterraneo, non arrivò mai a destinazione. Per George Ferentinos, ricercatore dell'Università di Patrasso, si tratta di "uno dei quattro naufragi più grandi ritrovati nel Mar Mediterraneo e il più grande mai trovato nel Mediterraneo orientale".

 Laura Larcan per il Messaggero il 20 dicembre 2019. Nel 2000 si perdono le sue tracce, sparisce letteralmente nel nulla anche perché quella scomparsa potrebbe addirittura non essere stata mai denunciata dagli uffici del Museo Nazionale del Risorgimento nel Vittoriano. Non se ne sono mai accorti prima? «Una stranezza nella stranezza», la definiscono i carabinieri dal reparto operativo della Tutela patrimonio culturale. Eppure lo scudo di Garibaldi, un manufatto scolpito in bronzo risalente al 1878, appartenuto all'Eroe dei due mondi, donatogli dal popolo siciliano in segno di riconoscenza dopo lo sbarco dei Mille a Marsala, pesa la bellezza di oltre cinquanta chili per un diametro perfetto di quasi un metro e venti centimetri. Insomma, difficile da mettere in borsa o sotto il cappotto per farlo uscire dai corridoi dell'Altare della Patria. Ci deve essere stata ben altra operazione, con un probabile basista nel museo (il condizionale resta ancora doveroso). Un oblio finito ieri, quando i militari hanno annunciato il suo ritrovamento e recupero.

·         Bronzi di Riace: è stato rubato qualcosa prima o dopo la scoperta?

“Siamo gli eroi dell'archeologia”: il mondo dei tombaroli. Le Iene il 24 novembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, dopo aver raccontato i troppi misteri sul ritrovamento dei Bronzi di Riace, ci fanno entrare nel mondo dei tombaroli, che per vivere trafugano reperti archeologici. Li seguiamo “all’opera” e ci facciamo raccontare come funziona questo lucrosissimo mercato. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti , nel servizio in onda questa sera a Le Iene su Italia1, tornano a parlare di reperti archeologici, dopo l’inchiesta sui troppi misteri nel ritrovamento dei Bronzi di Riace. Solo qualche giorno fa i carabinieri hanno smantellato un traffico di beni archeologici dalla Calabria al resto del mondo, arrestando 23 persone e recuperando reperti per un valore di diversi milioni di euro. Antonino Monteleone ci porta all’interno del mondo dei tombaroli, ovvero chi quelle opere le recupera materialmente per poi venderle al mercato clandestino di opere d’arte antiche. Un mestiere assolutamente illegale, ma molto redditizio. Li incontriamo e li seguiamo, durante una delle loro “scorribande”. “Sono tombarolo da quando so piccolo, 14 anni”, ci racconta uno di loro. “È una passione, cioè questa è la storia nostra, ti viene naturale, per me è stata na chiamata!”.

“Si guadagna bene?”, chiede Antonino Monteleone.

“Sì, prima era… c’era molto più guadagno, adesso la crisi sta pure qua… “. L’uomo rifiuta con forza la definizione di “bandito dell’archeologia”: “Beh io invece penso che siamo gli eroi dell’archeologia, perché tutto quello che viene trovato è grazie a noi, non agli archeologi”.
Quando gli facciamo notare che, però, ciò che lui trova non può essere visto in un museo, risponde: “Eh, perché nessuno me dà la possibilità di farlo vedere al museo. Perché se qualcuno me dicesse a me “scavame una tomba e porta al museo che te pago la roba” io non c’ho problemi… perché me devi fà fare il bandito, io non lo voglio fà il bandito”.

Bronzi di Riace: “Ho venduto io l'elmo scomparso”. Le Iene il 18 dicembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti intervistano in esclusiva un uomo che dice di avere trafugato e venduto al Getty Museum di Malibù uno degli elmi sottratti alle celebri statue, ritrovate ufficialmente dal sub romano Stefano Mariottini il 16 Agosto del 1972: “L’ho venduto per 23mila dollari, convinto che poi avrei venduto anche i bronzi”. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano a occuparsi del ritrovamento di 50 anni fa dei due Bronzi di Riace, una vicenda ancora piena di misteri. Nei documenti originali redatti all’epoca dallo scopritore ufficiale, Stefano Mariottini, e dal responsabile delle operazioni di recupero, l’archeologo professor Pietro Giovanni Guzzo si parla letteralmente di “un gruppo di statue”, di uno scudo, di un elmo, che poi però non sono mai stati rinvenuti dai sommozzatori dei carabinieri di Messina. Vi abbiamo anche raccontato di alcune testimonianze, che parlano di ripetuti tentativi di trascinare via qualcosa di pesante dal fondo del mare da parte di una barca a motore proprio nei giorni del ritrovamento e addirittura di uno scudo e di una lancia che sarebbero stati portati via dalla spiaggia da alcune persone, a circa 700 metri dal punto dove furono tirate su le due statue. Vi abbiamo infine fatto ascoltare le dichiarazioni di un uomo, che racconta di aver saputo della storia di una statua che sarebbe stata trafugata in Calabria e portata in una villa a Roma, dove sarebbe stata comprata da un mercante d'arte che poi l'avrebbe a sua volta venduta ad un emissario del Getty Museum di Malibù, in California. Ma fin qua si è trattato di racconti di seconda mano. Adesso invece vi facciamo ascoltare la testimonianza diretta clamorosa di un uomo, che se fosse vera metterebbe in discussione la storia ufficiale di uno dei ritrovamenti archeologici più importanti di tutti i tempi. Era il lontano 1981 quando il settimanale Oggi raccontava di un mercante clandestino di reperti archeologici che ammetteva: “Ho venduto io al museo Paul Getty uno degli elmi sottratti agli eroi”. Una storia riportata qualche tempo prima con diversi articoli anche sul quotidiano il Messaggero, dal collega Mimmo Calabrò, oggi scomparso, negli articoli “I guerrieri avevano elmo e scudi: sono stati rubati”, “In azione i carabinieri il museo Getty nega” e “Museo Getty prove di commerci irregolari”. Di quel presunto venditore, aveva parlato anche il giornalista del Tgr Calabria Franco Bruno, che di lui aveva raccontato: “Era sicuramente una pedina in questo grande traffico di opere d’arte. Mi fece vedere due fotografie, una con uno scudo e un’altra con la lancia… i due oggetti che sosteneva che erano stati trovati, presi dove c’erano i Bronzi e poi venduti al Getty Museum”. Insomma, stando a quella testimonianza, i reperti dei bronzi mancanti sarebbero finiti al Paul Getty Museum di Malibù, che porta il nome del noto collezionista miliardario americano Paul Getty. Un museo che più di una volta ha comprato ed esposto importantissimi pezzi di dubbia provenienza, come nel caso dei meravigliosi Grifoni di Ascoli Satriano, o dell’incantevole Venere di Morgantina, tutte opere che poi il Getty Museum ha acconsentito alla restituzione all’Italia, ammettendo il loro trafugamento clandestino. Proprio Mimmo Calabrò, prima di morire all’età di 55 anni, aveva dato al nostro autore Marco Occhipinti un nome e un numero di telefono, che era rimasto però sempre muto. Le tracce di quest’uomo misterioso sembravano perdute del tutto, fino a quando l’archeologo di Reggio Calabria Daniele Castrizio, di cui vi abbiamo già parlato, non ci parla di un personaggio che sembrerebbe corrispondere proprio all’uomo che cercavamo da anni. “Si mormora da tanto tempo di alcune anomalie che riguardano queste parti mancanti dei bronzi... mmm… C’è una storia che potrebbe riguardare lo scudo, la lancia, l’elmo”. “Per quanto riguarda l’elmo, probabilmente l’elmo del bronzo B, invece, c’era una denuncia particolareggiata da parte di una persona la quale aveva dichiarato alla stampa e poi se n’era assunta le responsabilità, di avere venduto l’elmo al Paul Getty museum”. Castrizio prosegue nel suo racconto: “Questa persona a cui avevo fatto una perizia tecnica per un processo come numismatico eravamo rimasti in buoni rapporti, mi disse ‘lei studia i Bronzi di Riace professore, avrei ancora la foto di questo… di questo elmo… solo che non sono più in grado di prenderla…’” “Non le è sembrato un mitomane?”, chiede Antonino Monteleone. “No, no, no… questa persona tutto può essere meno che un mitomane, è una persona… se dice una cosa è quella”. Castrizio nega di sapere se si tratti di un trafficante d’arte, ma ne conferma l’affidabilità: “No, è affidabile come persona, tutto quello che poi nella nostra conoscenza mi ha detto, le informazioni che mi ha dato, cioè che… sono sempre così. Io per mia natura mi sono sempre tenuto lontano da tombaroli e collezionisti per cui non ho mai approfondito… Non l’ho mai fatto, per cui a Reggio sanno che io non sono molto avvicinabile, non fornisco prezzi, non do expertise, non faccio niente… Lo definirei una persona ricca di interessi. Per me è una persona competente della materia”. Quest’uomo, spiega ancora Castrizio, “mi ha inquadrato tutta la storia in un contesto della sua vita precedente che faceva ste cose…”. Insomma, Castrizio crede al suo racconto. Monteleone gli chiede: “Uno potrebbe dire, se questo ha venduto l’elmo dei Bronzi, dov’è esposto l’elmo dei Bronzi?” “Il problema è oggi, stroncare il collezionismo internazionale. Per un collezionista internazionale prendere una statua che è stata sul palatino e mettersela nel caveau, è una soddisfazione enorme, la fa vedere agli amici. Aspetterà cent’anni o andrà in prescrizione, duecento anni, ma ha acquisito una cosa di un valore inestimabile, quindi siamo noi Stato italiano che dobbiamo cercare di verificare, di bloccare tutto quello che possiamo”. Ci mettiamo sulle tracce di questo misterioso uomo, che dice di sapere che fine ha fatto l’elmo di uno dei bronzi di Riace e dopo lunghe ricerche e appostamenti lo raggiungiamo. L’uomo conferma di essere stato intervistato dal giornalista Mimmo Calabrò, e aggiunge di più: “L’elmo l’ho venduto io!!”. E racconta che quell’elmo sarebbe andato a prenderselo da solo, nella zona di Riace. “Io già quella zona lì la facevo dalla mattina alla sera, specialmente durante l’inverno. Mariottini quando ha notato quel casino che hanno fatto quei due ragazzi in quei minuti, un morto un morto un morto, perché l’avevano preso per un morto, incomprensibile, io conoscevo già quella zona, perché durante l’inverno andavo e i pescatori mi davano le monete queste cose qui perché io le monete diciamo uscivo pazzo in quei tempi… “ “Chi è che si è immerso e l’ha preso?”, gli chiede la Iena. E l'uomo risponde: “Uno di quelli, uno dei pescatori che stavano lì...Era distaccato, era a tre quattro metri, io avevo anche le foto dei bronzi”. E prosegue, accusando il sub che ufficialmente ha ritrovato i due Bronzi: “Mariottini… ha tentato di fregarseli lui prima… ha bruciato due o tre mo..., adesso non mi ricordo sono passati più di quarant’anni, sono stato interrogato anche eh, proprio per il fatto dei cosi mi hanno interrogato”. Ad interrogarlo, spiega l’uomo, sarebbe stato il capitano Giovinazzo. “Io non è che ho parlato con i carabinieri, i carabinieri me li hanno mandati”. L'uomo dice di avere confermato a Giovinazzo il suo racconto: “Allora il ministro era, quello romano come si chiama lo voglio tanto bene… Rutelli Rutelli!! Lui era ministro dei Beni culturali, avrà fatto la sua relazione, tanto il reato era caduto in prescrizione esatto e quindi non mi potevano fare niente, però a me… diede e mi dà ancora fastidio il fatto che Mariottini risulta quello che ha scoperto, quello ha bruciato due motori d’altobordo, quando ha visto che lui con i suoi mezzi non poteva fare niente, si è messo d’accordo con un suo parente che era capitano della Finanza, per farsi, per rafforzare il fatto che lui risultasse diciamo…”. Lo scopritore ufficiale dei Bronzi, quello che incassa il premio milionario, intende dire l'uomo. Si tratta, vogliamo sottolinearlo, di circostanze e valutazioni riferite da questo testimone, che non è possibile verificare del tutto. Ma continuiamo però ad ascoltare la sua versione: “Allora i due bronzi sono stati valutati 1 miliardo, lui si è preso 125milioni, 10%, 100milioni, detratte le tasse 85, io 85 milioni un piede mi vendevo... invece vendettero all’epoca… Non ha scoperto un cazzo perché è stato un farabutto che ha tentato prima di fregarci, non ci è riuscito e poi…”. I carabinieri, racconta ancora l’uomo, gli avrebbero mostrato alcune foto: “Della persona con la quale io trattavo, mi hanno messo 9 foto di pregiudicati, hehehe, e la foto di questo qui… “ “Ma questo nella foto chi era?”. Gli chiede Monteleone. “Era quello con il quale io avevo un rapporto lì a Riace e dintorni, quando mi diceva vieni che c’è qualcosa… è uno che non c’è più, che te lo dico a fare, è morto, da almeno 15 anni… un bidello… Quando mi chiamava lui da quelle parti vuol dire che c’era qualcosa di vecchio cose… Quando c’è mare forte e che si trovano le monete… Questo era un bidello in una scuola della Locride…”. L'uomo racconta di avere venduto l’elmo a 23mila dollari:” Perché sapevo che poi avrei venduto i due Bronzi, e invece so’ rimasto con le foto perché, e ancora oggi non riesco a trovare queste foto perché mi piacerebbe darle...”. Racconta che quelle foto subacquee sarebbero del 1972. “Quindi a Mariottini gliel’hanno preso sotto al naso quest’elmo?” “Sì perché lui non, lui pensava… allora, i ragazzi combinano quel casino, Mariottini capisce e Mariottini scopre quello che scopre… nel frattempo lui si organizza, nel frattempo qualcuno di là cerca di capire quello che questo Mariottini stava combinando… qualcuno scende e prende l’elmo…” Stando dunque al suo racconto, la scoperta dei Bronzi sarebbe avvenuta con un certo anticipo rispetto all’effettiva denuncia di Mariottini e dalla data della  denuncia ufficiale a quando i carabinieri arrivano sul posto tirando su i Bronzi, sarebbero passati altri 4 giorni. Il tempo sufficiente a far sparire un elmo, una lancia, uno scudo e chissà cos altro ancora? L'uomo racconta di avere portato l’elmo trafugato a Roma, al ristorante La Parolaccia, all’epoca gestito da un italoamericano, per farlo vedere a un tale di nome Jiri Frel. Un nome conosciuto, ovvero quello del famoso archeologo che tra il 1973 e il 1986 è stato curatore proprio del Paul Getty Museum. Il Bronzo, racconta ancora, sarebbe infatti finito al Junior Paul Getty Museum di Malibu, in California. “Gli americani pagavano in contanti, qualunque cifra… sai come se ne andavano da qui queste cose verso l’America? Con le navi… chi è che fermava una nave americana…” Paul Getty, racconta l'uomo, avrebbe avuto un grande potere all’epoca. “Era molto amico di Kissinger, Henry Kissinger, se tu ti ricordi il nipote di Paul Getty quando l’hanno rapito e non voleva pagare il nonno, è andato Kissinger a prenderlo… su pressione della madre, ha detto vai a pagare…”. Successe poi, dopo l’articolo di Mimmo Calabrò, che l’archeologo americano Frel fu intervistato sulla vicenda, ma negò di avere mai avuto a che fare con i tombaroli italiani. Il nostro testimone conferma che l’elmo in questione era proprio quello della statua B e così commenta l'affare concluso. “Non mi sono pentito, gliel’ho quasi regalato, perché sapevo che poi avrei venduto i due Bronzi no? Ho detto ‘dietro di questo c’è anche qualche altra cosa più importante’, senza specificare”. Insomma l’uomo racconta di essere stato sicuro  che poi avrebbe tirato su anche gli stessi Bronzi. L'uomo dice di non riuscire più a trovare la foto di quell’elmo… "Sono andato a controllare un paio di volte però le cose ho visto che non erano per come le avevo lasciate quindi o sono casa casa, o sono da qualche altra parte, non lo so nemmeno io”. Racconta anche del contatto con Jiri Frel. “Me l’aveva lasciato un antiquario di Roma, perché io una volta a Roma a via del Babuino, a via dei Coronari, ero di casa… Oggi ci sono tutti quelli che non capiscono un cazzo, sono nati ricchi tutti gli antiquari… sì tutti li conoscevo, facevano il retrobottega…”. “Quando io comunicavo che avevo qualcosa, veniva lui, veniva lui con la sua segretaria, una stangona bionda…” Se quello che ci ha raccontato quest’uomo fosse vero, avremmo finalmente trovato un testimone diretto di quello che è successo ad almeno uno dei reperti dei Bronzi di Riace di cui si parla sui documenti ufficiali. Reperti che poi però non sono mai stati effettivamente recuperati dalle autorità in quel lontano 1972. E se tutto ciò che il presunto venditore dell'elmo ci ha detto fosse vero, la storia dei Bronzi di Riace, una delle scoperte più importanti dell’archeologia di tutti i tempi, sarebbe tutta da riscrivere.

Bronzi di Riace e mercato nero: ecco come lavorano i tombaroli . Le Iene il 25 novembre 2019. Nella quinta puntata dell’inchiesta sui bronzi di Riace, Antonino Monteleone e Marco Occhipinti incontrano e seguono alcuni tombaroli romani, che da anni trafugano reperti archeologici e li vendono al mercato nero. La stessa fine dei presunti Bronzi di Riace mancanti? Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ci portano a conoscere il mondo dei tombaroli, ovvero le persone che scavano di notte illegalmente per trovare reperti archeologici da vendere al mercato clandestino di opere d’arte antiche. Di reperti archeologici forse trafugati vi abbiamo già parlato nel servizio sul ritrovamento di 50 anni fa dei due Bronzi di Riace, che vi riproponiamo qui sotto. Attorno al loro recupero è nato un vero e proprio giallo, ambientato nella stessa regione, in Calabria, dove recentemente i carabinieri hanno sgominato con una maxi operazione un traffico clandestino di reperti archeologici, che dal sud Italia finivano in paesi stranieri di tutto il mondo. I misteri riguardanti i Bronzi di Riace sono davvero tanti. Nei documenti originali redatti all’epoca dallo scopritore ufficiale, Stefano Mariottini, e dal responsabile delle operazioni di recupero, l’archeologo professor Pietro Giovanni Guzzo si parla letteralmente di “un gruppo di statue”, di uno scudo, di un elmo che poi però non sono mai stati rinvenuti dai sommozzatori dei carabinieri di Messina. Vi abbiamo anche raccontato di alcune testimonianze, che parlano di ripetuti tentativi di trascinare via qualcosa di pesante dal fondo del mare da parte di una barca a motore proprio nei giorni del ritrovamento e addirittura di uno scudo e di una lancia che sarebbero stati portati via dalla spiaggia da alcune persone, a circa 700 metri dal punto dove furono tirate su le due statue. Vi abbiamo infine fatto ascoltare le dichiarazioni di un uomo, che racconta di una statua che sarebbe stata trafugata in Calabria e venduta a Roma ad un emissario del Getty Museum di Malibù, in California. Con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti torniamo a parlare di reperti archeologici e lo facciamo incontrando in esclusiva e seguendo sul campo alcuni tombaroli. “Faccio il tombarolo da quando so piccolo, 14 anni. È ’na  passione, cioè questa è la storia nostra, ti viene naturale, per me è stata ’na chiamata! Prima c’era molto più guadagno, adesso la crisi sta pure qua…”, racconta un tombarolo. Rifiuta l’etichetta di “bandito dell’archeologia” e dice: “Beh, io invece penso che siamo l’eroi dell’archeologia, perché tutto quello che viene trovato è grazie a noi, non agli archeologi… se qualcuno me dicesse a me ‘scavame una tomba e porta al museo che te pago la roba’ io non c’ho problemi… perché me devi fa’ fare il bandito, io non lo voglio fa’ il bandito”. l mestiere, sostiene il tombarolo, farebbe addirittura risparmiare soldi pubblici: “Comunque sia per scavà una tomba loro impiegano 100-150 mila euro quando noi magari co 4-5 ore la pulimo, allora daccene a noi 30-40 a noi ce sta bene, io sarei più contento eh…”. L’uomo racconta ad Antonino Monteleone del suo primo ritrovamento, un’urna del settimo secolo che conteneva le ceneri di un morto e un rudimentale rasoio. E poi spiega: “La squadra nostra è composta da quattro persone, poi ce stanno squadre da sei, squadre da tre, prima ce ne erano molte di più…”Monteleone gli chiede quale sia la cosa più bella che ha trovato e lui risponde di getto: “Un’idra, è tipo un boccale gigante a doppia tecnica, era de maestro”. Ma chi compra le opere d’arte trafugate? A spiegarlo è ancora il tombarolo: “Da me comprano privati, per fare un regalo così, possono spenderti millecinquecento euro… poi quando c’è un pezzo importante che vale soldi, c’è il collezionista che compra...”. Un bel guadagno, ma anche un bel rischio: “Penso che qualche annetto se me chiappano me lo fanno fa, guarda anche se c’era na pena severa, queste cose le devi provà. Io quando me c’ha portato la prima volta il mio maestro, nonché mio padre, io non mi interessava questa cosa..”. “Ti è mai venuto in mente che stavi di fatto rubando?”, gli chiede Antonino Monteleone. La risposta è netta: “Ma perché sto rubando? A chi sto rubando? Perché, a noi non ce rubano? Noi troviamo le tombe, troviamo la roba e loro vengono sempre dove abbiamo scavato noi..”. E loro, spiega ancora l’uomo, sono archeologi, carabinieri e “sta gente così che poi va a fare i recuperi… a chi rubo? Questa è roba nostra, perché è dello stato?”L’uomo ci racconta un po’ della sua vita: “Io c’ho na’ famiglia, e devo ringrazià sta terra, perché specialmente in momento di crisi se non c’avevo sto secondo lavoro, andavo a rubà. Le rapine non le faccio, non me piace fa del male alla gente, vado a piglià quello che m’hanno lasciato, che c’è de male scusa eh…”. Il tombarolo racconta che il pezzo più bello l’ha venduto a 180mila euro e che le transazioni, ovviamente, sono tutte in contanti. E ci spiega come funziona la trattativa. “So loro che vengono da me, io non vado a prende soldi… vengono a trovarti, c’hai niente? Sì, na cosetta… gliela fai vedé e ti ci metti d’accordo…”. A un certo punto, mentre stiamo parlando con questo tombarolo, si sente un rumore di elicottero. E siamo costretti a spegnere la telecamera. “So due… potrebbero esse pure carabinieri”. E racconta: “Una sera… stavamo a scavà e so passati due elicotteri e poi dopo so’ venuti subito la finanza o i carabinieri… “. Poi si sfoga con la Iena: “Di tutta ’sta storia sai che me fa girà più er cavolo? Che tutte quelle tombe che stanno a trovà le avemo trovate noi... Loro per trovà una tomba spendono 100 -200mila euro, capito? Per fa’ gli scavini col pennello e tutte le tarantelle, e poi dopo capito? Noi se dovemo fa un culo come un secchio per piacce du baiocchi, poi fanno quelli bravi, che so stati loro a trovalli, capito?”. Mentre parliamo, i tombaroli trovano alcuni reperti: “Eccolo, oh, eccolo oh, che cos’è? Questo è l’orla, vedi? Il frano ha spostato in avanti l’oggetto”. “Adesso qui intorno ci deve essere il corredo, ma queste so…”. “Ma questa che facciamo la portiamo al museo adesso?”, chiede Monteleone. La risposta è secca: “See col cazzo”. Ma di reperti, a quanto pare, ce ne sono anche altri: “Questo qui è greco… è della Grecia, di importazione… è il pozzetto vedi? Ce l’ho tutto davanti perché il morto sta là… Mo delle volte se trovano delle ossa, delle volte no… questo è bello eh, bello… eh! questo è bello davero”. Proviamo a fargli due conti in tasca. “A naso quando ti sei fatto co sta scavatina?” “Al prezzo de oggi? 1500 euro… “. “Sta necropoli so anni che gli stavamo appresso e c’ho messo parecchi anni per trovalla, però tutte le sere venimo, scavamo e trovamo, perché è piena… Cioè fino ad adesso qua c’avemo fatto 40 lavori, 40 tombe a stanza, a camera, c’hanno dato bei risultati, bella roba è scappata, vedi? Ecco un altro oggettino, te l’avevo detto che c’è sempre il compagno… Queste c’hanno sempre il compagno, sempre. Eccolo qua…”. E siamo a 1.700 euro di valore trafugato… L’uomo sembra conoscere molto bene ciò che ha ritrovato: “Un pezzo etrusco, settimo avanti Cristo… questo er dell’usanza funebre…questo qui ci beveva, ci metteva dell’acqua, mettevano la roba loro… Non si vergogna affatto del suo mestiere. “Perché me dovrei sentì in colpa? Perché tiro fori delle cose? e quelli che ammazzano la gente, quelli… ma tu che pensi del fatto che in molti musei stranieri ci sono delle opere pazzesche che potrebbero essere…”. Il tombarolo spiega alla Iena quali sono gli altri soggetti che popolano questo mondo molto particolare. “Sopra de me ce sta il commerciante… Sopra il commerciante? Che ne so io, non lo posso sape’, non lo so, io so quello più piccolo, so quello che guadagna meno de tutti…”E aggiunge: “Io penso che se ce facessero scavà tutti i giorni, penso che ce n’avemo pé fa altri 100 anni de scavi… 100 anni? Sììì, forse anche di più, cioè ce so zone dove hanno scavato i nostri nonni zii, noi c’annamo e trovamo la roba…”. Il tombarolo, che abbiamo seguito durante un trafugamento, non ha paura delle pene che lo attendono: “Se ci fosse una pena minima di 6 anni e un massimo di 20 anni sei sicuro che lo faresti ancora?”, gli chiede la iena. “Ehhh sì, perché me piace… che t’ho da dì? Se io a te ti dicessi se vai co na donna te dò 20 anni de carcere c’andresti co na donna? Hahaha ci penso, ci penso però ce vai”. E poi lancia un’ultima stoccata polemica: “Perché lo fa sparì lo Stato nostro, perché non se tiene cura de sta roba? Perché l’altri stati ce fanno i soldi co la roba nostra e noi invece no?”

FACCE DI BRONZO. Dagospia il 4 ottobre 2019. Antonino Monteleone approfondisce il giallo dei Bronzi di Riace, raccontando quella che si potrebbe rivelare una delle sparizioni più clamorose di opere d’arte dell’antichità. Nel farlo si è beccato anche un’aggressione con minaccia! Stefano Mariottini è l’artefice della scoperta archeologica più clamorosa del secolo scorso. È l’uomo che il 16 agosto del 1972 ha scoperto i famosissimi Bronzi di Riace, esposti al Museo Archeologico di Reggio Calabria. Grazie a questa scoperta il sub romano ha incassato il premio del ritrovamento di 125 milioni di lire. Ma il merito di quella scoperta fu contestato da quattro giovani del luogo. Una controversia risolta dal Giudice che ha stabilito il primato del sub romano. Nel servizio di questa sera a Le Iene, Antonino Monteleone approfondirà il giallo dei Bronzi di Riace, raccontando anche la storia di quella che si potrebbe rivelare una delle sparizioni più clamorose di opere d’arte dell’antichità. Le due statue, ammirate dai turisti di tutto il mondo, sono le uniche bellezze che si trovavano sul fondo del mare di Riace? La Iena è andata a parlare con Stefano Mariottini, ma non è sembrato molto contento di vederci. Mentre stiamo semplicemente facendo delle domande a chi ha scoperto i Bronzi, un uomo gli chiede se lo stiamo infastidendo e ci aggredisce. Come potete vedere nel video qui sopra il nostro Antonino si è beccato pure delle minacce per niente velate. Perché se uno prova a fare qualche domanda a chi ha fatto quella clamorosa scoperta non viene accolto per niente bene? Ma soprattutto, c’erano altri pezzi spariti nei momenti precedenti o immediatamente successivi al ritrovamento? Sono solo alcune delle domande sulla controversa storia del ritrovamento delle statue a cui proveremo a rispondere nel servizio di questa sera, dalle 21:25 su Italia1.

Bronzi di Riace: è stato rubato qualcosa prima o dopo la scoperta? Le Iene il 4 ottobre 2019. Affrontiamo uno dei più famosi gialli della storia dell’archeologia del Novecento con l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: il ritrovamento dei Bronzi di Riace. Le due statue, ammirate dai turisti di tutto il mondo, sono davvero le uniche bellezze che si trovavano sul fondo del mare al momento della scoperta? Chi ha scoperto davvero i Bronzi di Riace, il più grande ritrovamento archeologico di tutti i tempi? Stefano Mariottini, il sub romano che ha riscosso il premio per il rinvenimento, pari a 125 milioni di lire, o i 4 ragazzi calabresi che avevano tra i 12 e i 16 anni e che ritengono di aver denunciato la scoperta per primi? È vero, come raccontano ancora oggi, che c’erano delle persone che stavano provando a portar via qualcosa dal fondo del mare di molto pesante tanto da fondere il motore di un’imbarcazione? Dove sono finiti la lancia, lo scudo, l’elmo e il terzo bronzo che sembra descritto nella denuncia di ritrovamento firmata dallo scopritore ufficiale Stefano Mariottini? E perché mai quando il nostro Antonino Monteleone lo raggiunge per chiedergli il perché di tante contraddizioni nei documenti ufficiali, tra quanto era stato denunciato e quanto poi è stato effettivamente recuperato, il nostro inviato viene accolto con insulti minacce e botte? Tutto questo e altro ancora cercano di scoprire Marco Occhipinti e Antonino Monteleone in questa loro inchiesta alla ricerca dell’arte perduta. Il 16 agosto del 1972 un sub romano di nome Stefano Mariottini fa una meravigliosa scoperta: il ritrovamento dei Bronzi di Riace. Per questo incassa il premio del ritrovamento di 125 milioni di lire. Anche se c’è chi sostiene che non fu il sub romano a scoprire quel tesoro, ma quattro ragazzi del posto. La questione è arrivata in un Tribunale, che ha stabilito il primato del sub romano. La paternità del ritrovamento non è l’unica controversia che si è sollevata attorno alla scoperta dei due Bronzi attualmente esposti al Museo Archeologico di Reggio Calabria. Nell’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti approfondiamo infatti anche un’altra questione. Alcuni sostengono che quei due splendidi bronzi, raffiguranti guerrieri greci e realizzati nel V secolo avanti Cristo, non siano proprio tutto ciò che sarebbe stato recuperato in quel lontano 1972. “Nessuno mai aveva visto quei documenti”, dice Giuseppe Braghò, studioso appassionato di archeologia che ha dedicato gran parte della sua vita a raccontare una storia dei bronzi di Riace diversa da quella ufficiale. Lo studioso si riferisce ai documenti sul ritrovamento dei Bronzi. “Il signor Mariottini, parlando di una delle due statue dice: ‘Al braccio sinistro presenta uno scudo”, racconta Braghò. “Chiunque capisce che questa statua, da lui scoperta, al braccio sinistro presentava uno scudo”. Di questo scudo, però, non c’è alcuna traccia. E non ci sono tracce neanche di un’altra parte dell’armatura: l’elmo, elemento di cui parla l’ispettore ministeriale Pietro Giovanni Guzzo nella sua relazione. Nella denuncia, inoltre, Mariottini parla di un “gruppo di statue”, espressione non usuale per chi vuole indicare la presenza di due sole statue. E non è finita qui: la prima statua, per come è descritta dal sub nella sua denuncia di rinvenimento, sembra molto diversa per posizione di gambe e braccia rispetto ai due Bronzi che tutti conosciamo. “Mariottini mente!”, dice Braghò ad Antonino Monteleone. “Perché descrive una statua che lì non c’è”. Così Monteleone va a parlare direttamente con chi ha scritto di suo pugno quel primo documento: Stefano Mariottini. Ma lo scopritore dei Bronzi non ci accoglie molto bene: “Ho evitato qualsiasi confronto richiesto e qualsiasi intervista sull’argomento”. Quando un altro uomo si avvicina chiedendo a Mariottini se lo stiamo infastidendo, scoppia il putiferio. “Vi ammazzo tutti quanti”, dice quest’uomo avvicinandosi in maniera minacciosa alla Iena. Perché se uno prova a fare qualche domanda a chi ha fatto quella clamorosa scoperta viene accolto così? Alla fine di un’accesissima discussione in cui intervengono altre persone, proviamo a riprendere il discorso. E uno dei presenti si lascia sfuggire qualcosa: “Alla fin fine il discorso è questo: i bronzi ha detto che li ha trovati lui, i soldi se li è presi lui, che cazzo devi fare di più? Però c’erano lance e scudo.” Alla domanda della Iena su chi possa essersi presi questi reperti, risponde: “C’era altra gente prima di lui”. “Lui è stato furbo quel giorno, ha sfruttato la situazione, questo è culo!”. Insomma, anche i pescatori del luogo sanno la storia della lancia e lo scudo, ma più che essere indignati sembrano provar invidia per chi si è aggiudicato il premio e per chi eventualmente si è portato a casa quei preziosissimi reperti. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti stanno provando a raccogliere delle testimonianze inedite sul campo per risolvere questo mistero, perché se davvero ci fossero alcuni pezzi dei Bronzi mai denunciati alle autorità si potrebbero riportare a casa, al museo di Reggio Calabria. Chi sa qualcosa su questo giallo parli e non esiti a contattarci, anche perché i Bronzi di Riace sono di tutti i calabresi, sono di tutti gli italiani.

Bronzi di Riace: “La terza statua esiste, fu trafugata e venduta”. Le Iene il 28 ottobre 2019. Antonino Monteleone, nel corso della terza puntata della sua inchiesta, raccoglie le confidenze esclusive e clamorose di un uomo: “Il terzo bronzo di Riace fu portato a Roma da alcuni calabresi e venduto”. Il terzo bronzo di Riace esiste davvero ed è stato rubato e poi venduto all’estero? Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano ad occuparsi dei troppi misteri nel ritrovamento dei Bronzi di Riace. Lo fanno con una testimonianza esclusiva, che sarebbe clamorosa perché se vera accrediterebbe la storia di uno dei più incredibili trafugamenti di opere archeologiche di tutti tempi. Possibilità di cui si dice fermamente convinto Giuseppe Braghò, uno studioso appassionato di archeologia che da anni si batte per scoprire la verità sul ritrovamento dei Bronzi di Riace: “Nessuno è mai entrato nell’archivio del museo storico, di questi grandi scienziati, accademici… a nessuno è venuto in testa di andare dove? alla fonte!!! Lì ho scoperto che qualcosa non, non, qualcosa non andava…”. Antonino Monteleone ha raccolto le confidenze di un presunto testimone della compravendita di un terzo bronzo, che racconta: “A Roma c’era un’altra statua che veniva da Riace, che avevano portato su i calabresi... Una cosa bella, di bronzo… so che se la sono venduta”. Nel primo capitolo della nostra inchiesta ci siamo domandati se le due statue siano davvero gli unici reperti trovati in quei fondali o se, accanto a questi, c’erano anche uno scudo e forse un terzo bronzo, come si evincerebbe dalla denuncia del ritrovamento compilata dal sub romano Stefano Mariottini, lo scopritore ufficiale dei due bronzi. Nel corso della seconda puntata di questa inchiesta esclusiva, Le Iene avevano poi raccolto la testimonianza dello stesso Braghò, che sostiene di aver conosciuto una testimone, Anna Diano, che avrebbe visto con i suoi occhi qualcuno portare via uno scudo e una lancia spezzata in due proprio dalla spiaggia di Riace e proprio nei giorni del ritrovamento delle due statue, a circa 700 metri da dove sono stati recuperati i bronzi. Ora arriva la clamorosa testimonianza di un uomo, che al nostro Antonino Monteleone racconta di sapere che il terzo bronzo fu trafugato, portato in una villa a Roma e venduto agli americani poco dopo il suo ritrovamento. Non perdete martedì sera a Le Iene su Italia1, a partire dalle 21.15, la terza puntata dell’inchiesta sui Bronzi di Riace, con tutte le incredibili rivelazioni raccolte da Antonino Monteleone e Marco Occhipinti.

Bronzi di Riace: “La terza statua è stata venduta e trafugata”. Le Iene il 30 ottobre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti, nella terza puntata dell’inchiesta sui bronzi di Riace, raccolgono la clamorosa testimonianza di un uomo che racconta: “Alcuni calabresi portarono a Roma la terza statua. Che era stata trafugata da Riace, e la vendettero negli Usa, al Getty Museum di Malibù, in California". Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano a parlare del mistero del ritrovamento dei Bronzi di Riace e lo fanno con una testimonianza inedita e clamorosa: potrebbe davvero esistere un terzo bronzo, che sarebbe stato trafugato e venduto illegalmente all’estero. Una versione questa, che ci arriva da un appassionato di archeologia, che frequenta tombaroli e mercanti d’arte a Roma e che se fosse vera potrebbe rivoluzionare la storia di una delle più importanti scoperte archeologiche di tutti i tempi. Nel primo capitolo della nostra inchiesta ci siamo domandati se le due statue siano davvero gli unici reperti trovati in quei fondali o se, accanto a questi, c’erano anche uno scudo e forse un terzo bronzo, come si evincerebbe dalla denuncia del ritrovamento compilata dal sub romano Stefano Mariottini, lo scopritore ufficiale dei due bronzi. Nel corso della seconda puntata di questa inchiesta esclusiva, Le Iene hanno poi raccolto la testimonianza dell’appassionato d’arte ed esperto dei bronzi Giuseppe Braghò, che sostiene di aver conosciuto una testimone, Anna Diano, che avrebbe visto con i suoi occhi qualcuno portare via uno scudo e una lancia spezzata in due, proprio dalla spiaggia di Riace e proprio nei giorni del ritrovamento delle due statue, a circa 700 metri da dove sono stati recuperati i bronzi. Anna Diano fu ritenuta attendibile anche dai carabinieri che la sentirono, ma che non riuscirono a scoprire nulla di più. Ora arriva questa clamorosa testimonianza esclusiva, che confermerebbe i dubbi che lo stesso Braghò aveva già avanzato: “Nessuno è mai entrato nell’archivio del museo storico, lì ho scoperto che qualcosa non andava…”

A parlarci, chiedendo ovviamente di rimanere anonimo, è un uomo che dice di sapere qualcosa del terzo bronzo scomparso. “Praticamente uno, che qui a Roma faceva sto lavoro… un mercante che pigliava la roba e poi se la rivendeva, c’aveva i clienti buoni… c’è stata una persona che conoscevo bene, a cui era capitata in mano (la statua, ndr)… sarà stato il '72-‘73 la portano dentro la villa di un dottore che sta a Casal Palocco, e portano questo compratore… era uno che comprava, pagava lui con i suoi soldi e poi se la rivendeva, agli americani, ai musei…” Antonino Monteleone gli chiede di descrivere la statua che sarebbe stata trafugata e venduta: “era la statua di un uomo a grandezza.. come me, fa conto… non era una cosa romana, ma greca, quindi importante…” “A quanto l’avrebbe acquistata?”, gli chiede la Iena e lui risponde: “a quattrocento milioni di lire”. Il terzo bronzo, spiega ancora l’uomo, sarebbe stato venduto subito a degli americani, che “venivano a cercare queste cose, le cose più belle…”.

Oggi quella statua, spiega ancora l’uomo, non sarebbe esposta, ma quando gli chiediamo degli acquirenti, non sembra avere dubbi e fa riferimento addirittura al Getty Museum di Malibù, in California. Ma è possibile che un museo di fama internazionale acquisti o esponga opere di provenienza illecita? 

A risponderci è il giornalista e scrittore Fabio Isman, esperto di arte: “Ho calcolato che almeno 47 musei del mondo siano entrati in possesso, sapendolo, di materiale proveniente da scavi illegali in Italia. Anche il Louvre! Anche il British. Il Getty ha restituito una cinquantina di pezzi, ne aveva almeno 350 di provenienza italiana e dagli stessi mercanti sotto processo in Italia”.

Siamo andati allora dall’ex ministro della Cultura Francesco Rutelli per chiedergli come si ottiene la restituzione di un’opera che un museo straniero ha comprato clandestinamente. “Mi ricordo che una sera mandai a questo grande museo, Getty di Malibu, Los Angeles, una mail in cui gli comunicavo che dal giorno dopo l’Italia non avrebbe più collaborato, non avrebbe più mandato opere in prestito dai suoi musei pubblici perché loro evidentemente non volevano collaborare nel restituirci delle opere che con anni di lavoro era documentato, erano documentato state trafugate in Italia. Incluso la Dea di Morgantina, incluse decine di opere, i cervi che adesso si trovano ad Ascoli Satriano, insomma delle cose meravigliose. Quando sono arrivato l’indomani in ufficio preparandomi al braccio di ferro per dire allora annulliamo una mostra importante sul Barocco, ed altri, con una collaborazione già iniziata, arrivo in ufficio e trovo la mail del direttore del Getty che comunica "restituiamo tutto". Tutto. Ancora mi emoziono a ricordarlo. Tutto, e hanno pagato anche il viaggio”. 

Dopo questa inedita e clamorosa testimonianza sulla vendita, dopo il trafugamento, del presunto terzo bronzo, stiamo lavorando a verificare altre testimonianze che potrebbero cambiare la storia di uno dei ritrovamenti più incredibile dell’archeologia di tutti tempi. Continuate a seguire a Le Iene l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sui Bronzi di Riace.

Bronzi di Riace, parla un archeologo: “Le statue erano 5”. Le Iene il 3 novembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sul mistero del ritrovamento dei bronzi di Riace. Le Iene intervistano un archeologo e docente universitario, secondo il quale “i bronzi erano 5”. Quello con le braccia aperte, di cui parla Mariottini nella denuncia di ritrovamento, potrebbe essere la madre di Eteocle e Polinice, di cui ci parla il professor Castrizio. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti continuano a occuparsi dei troppi misteri nel ritrovamento dei bronzi di Riace, nella quarta puntata dell’inchiesta che potete vedere qui sopra. Siamo ritornati sulla questione della denuncia fatta dal sub romano Stefano Mariottini, che ha ufficialmente ritrovato le due statue, una delle quali viene da lui descritta come “a braccia aperte”. Statua che, stando alle nuove testimonianze raccolte, potrebbe essere un bronzo non ancora ritrovato, e forse trafugato e venduto a un museo americano, come vi abbiamo raccontato nell’ultima puntata dell’inchiesta. Per valutare questa ipotesi, abbiamo incontrato Daniele Castrizio, un archeologo e professore ordinario di numismatica all’università di Messina. Uno che i Bronzi di Riace li ammira e li studia da tempo, e a cui chiediamo: “Se io dicessi che i bronzi di Riace esposti al museo hanno le braccia aperte lei mi correggerebbe?” “Assolutamente. Non hanno le braccia aperte. Sono in una posizione tipica del guerriero per cui il braccio sinistro è tenuto ad angolo retto perché deve sostenere il peso dello scudo. Ed  entrambi tengono una lancia”. Il professore, sulla possibile esistenza di altre statue oltre alle due ritrovate ufficialmente da Mariottini, ha le idee molto chiare: “La mia teoria è che ci siano 5 bronzi, di cui uno è la madre che divide Eteocle e Polinice con le braccia aperte”. Antonino Monteleone è quindi tornato a sentire, anche alla luce di queste nuove dichiarazioni, il sub romano Stefano Mariottini. E ha scoperto anche un’altra circostanza legata a una persona vicina a Mariottini e al momento del ritrovamento dei due bronzi, che è assolutamente incredibile. 

“I bronzi di Riace erano 5 e uno aveva le braccia aperte”. Le Iene il 4 novembre 2019. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano ad occuparsi dei troppi dubbi nella ricostruzione ufficiale del ritrovamento dei bronzi di Riace. Lo fanno intervistando un archeologo calabrese che sostiene che il gruppo originario era composto da cinque statue. La Iena scopre poi che un parente del sub romano Stefano Mariottini, che trovò le due statue, era stato fermato dai finanzieri, che a casa avevano trovato reperti storici mai dichiarati. Antonino Monteleone e Marco Occhipinti tornano sul caso del ritrovamento dei bronzi di Riace, nella quarta puntata dell’inchiesta de Le Iene. Lo fanno dopo che, nelle scorse puntate, avevano mostrato le moltissime incongruenze nel racconto ufficiale del ritrovamento delle due statue. Questo racconto si basa sulla denuncia di ritrovamento del sub romano Stefano Mariottini, a cui è attribuita ufficialmente la scoperta dei due bronzi e a cui è andata la ricompensa di 125 milioni di vecchie lire. Un racconto nel quale troppe cose non tornano, a cominciare dal fatto che una delle statue ritrovate viene descritta come “a braccia aperte”. Mariottini poi parla di “un gruppo di statue” invece che di una coppia e descrive nel dettaglio anche uno scudo sul braccio sinistro di una di queste. Uno scudo che però non è stato mai ritrovato. Su quante possano essere davvero le statue appartenenti al gruppo dei bronzi, Antonino Monteleone ha sentito Daniele Castrizio, un archeologo e  professore ordinario di numismatica all’università di Messina, che ha una sua personale teoria. Castrizio, alla domanda secca di Monteleone, dice che, dovendoli descrivere, non direbbe mai che i due bronzi ritrovati da Mariottini siano “a braccia aperte”. “Assolutamente no. Non hanno le braccia aperte. Sono in una posizione tipica del guerriero per cui il braccio sinistro è tenuto ad angolo retto perché deve sostenere il peso dello scudo. Ed  entrambi tengono una lancia”. L’archeologo racconta una storia molto diversa da quella ufficiale: “La mia teoria è che ci siano 5 bronzi di cui uno è la madre che divide Eteocle e Polinice, con le braccia aperte”. Secondo il professor Daniele Castrizio dunque i bronzi di Riace farebbero parte di un gruppo di statue. “Sicuramente c’è il bronzo della madre dei due fratelli, una donna inginocchiata con le braccia aperte nel tentativo di fermare i figli. Ho semplicemente messo i due bronzi al posto di queste due statue di questo gruppo importantissimo, i fratricidi di Pitagora. Corrisponde l’anno, corrisponde il posto, corrisponde tutto. Corrisponde la terra di fusione, quindi corrisponde veramente tutto”. E così Antonino Monteleone decide di tornare proprio da Stefano Mariottini, per chiedergli conto ancora una volta di ciò che scrisse sulla denuncia ufficiale di ritrovamento dei due bronzi. L’uomo all’inizio dice di non voler parlare e di non essere disposto a rilasciare alcuna intervista,  ma di fronte all’insistenza della Iena sbotta: “L’ho scritto e allora? se l’ho scritto vuol dire che l’ho visto, una fesseria una cavolata dai… è come quello che state a fa’ qua voi, una cavolata…” E poi fa dell’ironia: “Eh e io non so un archeologo, a me sembrava uno scudo, a lei che sarebbe sembrato, un aeroplano?” “Io non mi immergo”, risponde Monteleone. “Ah e fa male, perché sott’acqua è bellissimo, non sa quello che perde… potrebbe trovare un altro bronzo, che ne so, altri cinque, dodici… fa molto male, sott’acqua glie farebbe bene, un pochetto…” Ma sulla storia del ritrovamento dei due bronzi e sul ruolo del sub Mariottini, dovete sapere ancora una cosa, che potrebbe essere solo l’ennesima “strana e casuale” coincidenza. Il sub romano aveva un parente, tale Alcherio Gazzera, che era professore di storia dell’arte in un liceo calabrese. Un uomo al quale proprio Mariottini chiese aiuto quando scoprì i Bronzi di Riace, coinvolgendolo nelle operazioni di recupero, qualche anno dopo quel ritrovamento, ebbe qualche problema con la giustizia. A raccontarcelo è Bruno Di Iacovo, il finanziere che materialmente sequestrò reperti di dubbia provenienza in casa di Alcherio Gazzera, zio della moglie di Stefano Mariottini. “Sono riuscito un po’ a ricostruire alcuni di questi rinvenimenti, facevano capo a questo professore, Alcherio Gazzera, dopodiché facemmo una serie di indagini e quindi una perquisizione a casa del professore. Abbiamo trovato circa un centinaio di monete dell’epoca greco romana, una specie di bassorilievo, raffigurante una donna con un bambino che si recava a prendere l’acqua a una fonte… e poi vari reperti diciamo”. Tutti reperti, va sottolineato ancora una volta, non denunciati alle autorità al momento del ritrovamento. Di Iacovo, però, ci tiene a precisare una cosa: “Se ero in grado in quel momento di conoscere i rapporti che potevano legare il Mariottini al professor Gazzera, quantomeno un’ipotesi investigativa l’avrei fatta”. E quando Antonino Monteleone gli fa notare che nei documenti ufficiali del ritrovamento compare il nome di Gazzera come l’uomo che mette in contatto Mariottini col sovrintendente Foti, dice: “Questo lo apprendo proprio in questo momento, l’avessi saputo subito guardi ci sarebbe stata un’immediata ipotesi investigativa, si è parlato di questo scudo, etc. etc. all’epoca in effetti non si parlò di questi reperti mancanti. Nulla fu detto”. Mariottini, su quello zio dal passato “scomodo” dice: “Alcherio essendo un esperto di…venne a vedere con la barca per riconoscere se erano effettivamente opere d’arte o se erano dei pupazzi di carnevale…” “Ok, poi 8 anni dopo gli hanno sequestrato 150 reperti..”, gli fa notare la iena Antonino Monteleone. “Ma questo è un problema di Alcherio Gazzera non lo dovete chiedere a me… Se lei per caso sua zia fa un mestiere diciamo la prostituta, lei per caso è un pappone?” Continuiate a seguire le nostre inchieste sul ritrovamento dei Bronzi di Riace, segnalandoci eventuali informazioni in vostro possesso. Noi non ci fermeremo fino alla verità.

“I Bronzi di Riace erano 5”: l'inchiesta de Le Iene arriva in Parlamento. Le Iene l'8 novembre 2019. Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini ha risposto a un’interrogazione del senatore Iannone dopo l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti: “Se ci fossero elementi nuovi rilevati dalle indagini, informerò immediatamente il Parlamento”. L’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti sui bronzi di Riace smuove non solo le autorità giudiziarie, ma anche la politica. Il senatore Antonio Iannone di Fratelli d’Italia ha presentato un’interrogazione parlamentare al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini (Pd) per chiedere spiegazioni sulle rivelazioni andate in onda a Le Iene. “Le sconcertanti rivelazioni, denunciate dalla trasmissione, riguardano le clamorose incongruenze tra la documentazione relativa al ritrovamento e i reperti effettivamente rinvenuti e oggi conosciuti”, ha detto il senatore Iannone. “Nelle carte si parla di ritrovamento, cito testualmente, di un gruppo di statue, presumibilmente di bronzo e non solo di due. La descrizione delle statue fatta dal subacqueo, che le scoprì, non coincide con quelle a noi note”, ricorda l’onorevole citando l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti di cui qui sopra potete vedere l’ultima puntata. “Inoltre mancherebbero, tra i reperti pervenuti, almeno uno scudo, un elmo e una lancia che sono invece citati nei documenti di ritrovamento. Dall'inchiesta televisiva sembra anche esistere un testimone oculare che parla della vendita di un terzo bronzo ad acquirenti americani”. Il ministro Franceschini ha risposto sostenendo che dal 1972 a oggi non sono mai emerse conferme circa l’ipotesi dell’esistenza di altre statue, aggiungendo però: “La Direzione generale archeologia, belle arti e paesaggio del Ministero, unitamente alla Soprintendenza e al comando Carabinieri, comunque valuteranno con tutta l'attenzione necessaria gli elementi che dovessero emergere in riferimento alla trasmissione andata in onda recentemente e che siano innovativi rispetto a quanto analizzato negli anni precedenti”. Franceschini aggiunge anche altro. Le forze dell’ordine e la magistratura si stanno infatti muovendo dopo i nostri servizi: “Aggiungo che questa mattina (ieri, ndr) dovrebbe esserci stato un incontro tra il suddetto Nucleo insieme ai comandanti del gruppo della compagnia dei Carabinieri del luogo con il procuratore di Locri al fine di avviare le prime indagini riferite alla trasmissione e l'autorità giudiziaria ha già chiesto la consegna dei video delle puntate per procedere ad una disamina completa di quanto emerso nel corso del programma”, ha detto il ministro. “Ovviamente, se ci fossero elementi nuovi rilevati dalle indagini, informerò immediatamente il Parlamento”. Noi de Le Iene ci stiamo occupando del caso dei Bronzi di Riace. Nelle prime puntate abbiamo parlato delle moltissime incongruenze nel racconto ufficiale del ritrovamento delle due statue. Nel quarto episodio dell’inchiesta invece Antonino Monteleone ha sentito Daniele Castrizio, un archeologo e  professore ordinario di numismatica all’università di Messina, che ha una sua personale teoria. L’archeologo racconta una storia molto diversa da quella ufficiale: “La mia teoria è che ci siano 5 bronzi di cui uno è la madre che divide Eteocle e Polinice, con le braccia aperte”. Secondo il professor Daniele Castrizio dunque i bronzi di Riace farebbero parte di un gruppo di statue. “Sicuramente c’è il bronzo della madre dei due fratelli, una donna inginocchiata con le braccia aperte nel tentativo di fermare i figli. Ho semplicemente messo i due bronzi al posto di queste due statue di questo gruppo importantissimo, i fratricidi di Pitagora. Corrisponde l’anno, corrisponde il posto, corrisponde tutto. Corrisponde la terra di fusione, quindi corrisponde veramente tutto”.

·         Antonio Canova vs Bertel Thorvaldsen.

CANOVA VS THORVALDSEN. Antonio Pinelli per “la Repubblica” il 28 novembre 2019. Nella grande bouffe canoviana imbandita dal recente calendario espositivo, questa mostra plutarchiana che mette in scena alle Gallerie d' Italia a Milano le vite parallele e il dialogante antagonismo tra i due mattatori della scultura neoclassica, Antonio Canova (1757-1822) e il danese Bertel Thorvaldsen (1770-1844), è senz' altro uno dei bocconi più prelibati. Sia perché questo tema è inedito sul piano espositivo, sia perché - grazie all' ingente impegno economico richiesto dallo spostamento di grandi sculture e al determinante apporto dell' Ermitage di San Pietroburgo, del Thorvaldsen Museum di Copenaghen e della gipsoteca canoviana di Possagno - i due curatori, Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca, hanno potuto apprestare un eccezionale percorso espositivo, che permette di seguire, passo dopo passo, il serrato confronto tra i marmorei capolavori dei due artisti, mettendone a nudo la matrice dialettica e di reciproca sfida, ma anche di registrarne il riverbero nella scultura e nella pittura contemporanee. Il caso Canova/Thorvaldsen appartiene alla categoria delle rivalità artistiche alimentate dalla critica contemporanea, che non mancò di schierarsi a favore dell' uno o dell' altro, o quanto meno a ricavare il giudizio sull' uno dal confronto con quello sull' altro. Un tale clima, naturalmente, non mancò d' influenzare i diretti interessati, che reagirono in modo diverso, in ragione del proprio temperamento e della differente età e condizione. Ma andiamo per ordine. Quando Thorvaldsen giunge nel 1797 a Roma, capitale delle arti e meta ineludibile del pellegrinaggio laico di un Grand Tour in cui divampa la febbre dell' Anticomania, Canova, che vi si era stabilito da tempo, era già aureolato dalla fama. Nel 1783 Quatremère de Quincy, esaltando il suo Teseo sul Minotauro, lo aveva incoronato come quel "continuatore dell' Antico" di cui Winckelmann aveva profetizzato l' avvento. Nel 1787, lo straordinario monumento funebre di Clemente XIV in SS. Apostoli ne aveva proclamato urbi et orbi la rivoluzionaria capacità di far rivivere, per dirla con il filosofo Rosario Assunto, l'"antichità come futuro", consacrandolo caposcuola della nuova scultura. Così come David, con il Giuramento degli Orazi (1784), lo era divenuto della nuova pittura. Canova, che era d' indole generosa, poté pertanto mostrare una benevolenza verso il giovane nordico, al quale, invece, essendo agli esordi, toccò il ruolo di sfidante. Tutto era cominciato nel 1801, quando Canova, ligio al precetto di Winckelmann che occorre imitare i capolavori greci per divenire inimitabili, ma che imitare significa analizzarli criticamente, espose nel suo studio il marmo del Perseo trionfante accanto a un gesso dell' Apollo del Belvedere . Invitando implicitamente a un confronto sul filo, non dell' identità, come avviene per una copia, ma dell' analogia, com' è giusto che sia davanti a un' interpretazione critica incarnata da una "ripetizione differente". Pio VI, com' è noto, si affrettò ad acquistare il Perseo e a farlo installare nel Cortile del Belvedere sul vuoto piedistallo dell' Apollo, che era emigrato al Louvre, con gli altri 100 capolavori vaticani ceduti in base alle sciagurate clausole del Trattato di Tolentino. Ma, benché altissimo, il coro delle lodi al Perseo non era stato unanime, perché un manipolo di critici di area tedesca, o comunque nordica, il cui portavoce era Karl Ludwig Fernow, sostenne che l' indebita attrazione del modello aveva indotto nelle slanciate movenze del Perseo una morbida e giovanile agilità, inadatta alla virile attitudine di un "mortale guerriero". Dietro l' accusa di Fernow c' era, da una parte, un' intuizione critica non banale, e cioè che il genio canoviano è insuperabile nel genere "gentile e amoroso", mentre quando affronta quello "eroico" (considerato allora il più nobile in assoluto) trapela «il disagio di chi vuole ottenere a forza, tramite l' arte, ciò che la natura gli ha negato», dall' altra l' ambizione di contrapporre all' incontrastata fama del novello Fidia mediterraneo, il promettente talento del giovane Thorvaldsen, ancora oscuro borsista dell' Accademia di Copenaghen. Questi, infatti, pungolato dal Perseo, gli contrappose un baldanzoso e virilissimo Giasone, il cui compimento fu finanziato dalla poetessa Friederike Brun. Di qui il coro compatto di osanna dell' intera colonia dano-tedesca a Roma, in cui spiccavano l' archeologo Zoega, il barone von Humboldt e i fratelli Schlegel, che aveva trovato il suo nuovo Fidia venuto dai mari del Nord. Da allora Thorvaldsen affrontò, uno dopo l' altro, tutti i generi artistici frequentati da Canova, opponendogli una sua versione più casta e sobria, rigorosamente frontale e ligia al canone policleteo, ma anche più in linea con il freddo accademismo delle copie romane di quegli originali greci che né Winckelmann né Quatremère avevano mai visto. Ma che a Canova erano ben presenti fin dalla sua formazione veneziana, quando ne aveva ammirato alcuni nella collezione Farsetti e se n' era nutrito al punto che quando, ormai anziano, poté vedere a Londra i marmi di Fidia, acquistati da Lord Elgin ad Atene, scrisse a Quatremère, rivendicando di aver sempre covato nel cuore la convinzione che il Bello ideale dei sommi maestri greci non era incompatibile con una lavorazione capace di rendere il marmo «viva carne». Nella scultura di Canova, l' Antico si proietta nel futuro, ma portando con sé la conquista dello spazio di Giambologna e il colore di Tiziano, per cui ogni figura, come scriveva Dolce, «è viva, si muove, e le carni tremano». Anche Thorvaldsen produce alcuni capolavori, quali lo stesso Giasone, il sentimentale Adone e le Grazie. Compete alla pari con i colossi del Canova, trasferendo in modo genialmente innovativo nell' iconografia del Gesù e degli Apostoli della Chiesa di Nostra Signora a Copenaghen quella tipizzazione dei caratteri che gli antichi avevano coniato per ogni divinità o eroe mitologico. Ma eccelle soprattutto nel bassorilievo, in cui rifulge la casta essenzialità del suo ritmico e bidimensionale rilievo, isolato rispetto al fondo astratto da un leggero sottosquadro. Come intuì Francis Haskell, egli fu il primo ad avviare la gara e l' ultimo a chiuderla quando, morto Canova e universalmente considerato suo erede, tornò in patria, trionfalmente accompagnato dal lungo corteo delle sue sculture, e si fece erigere un Museo-Mausoleo, a imitazione di quello che si era fatto innalzare Canova nella natìa Possagno davanti alla sua casa- museo.

·         I Falsi d'arte.

Vincenzo Trione per “la Lettura - Corriere della sera” il 16 ottobre 2019. Chi è stato davvero Modì? Un grande isolato del XX secolo, distante da gruppi e da movimenti, abile nel captare suggestioni spesso dissonanti, dedito a una personale e ossessiva ricerca poetica: «La sua storia inizia e finisce con lui», ha scritto Giuliano Briganti. Inventore di un codice inconfondibile, ha saputo essere, insieme, antico e contemporaneo. Barbarico e sofisticato. Il suo obiettivo: elaborare un arcaismo moderno, denso di rimandi alla statuaria primitiva e di echi classici, medievali, rinascimentali. Con controllata lentezza, Modigliani si fa aedo di una figurazione primaria. In bilico tra realismo e visionarietà, ricorrendo a una sintassi minimale, lascia affiorare dal nulla divinità di un mondo lontano. Apparizioni ieratiche. Nasi simili a frecce, occhi privi di pupille, palpebre serrate, colli allungati. Corporeità statiche, imperturbabili.  Monumentalità mistiche, indifferenti a ogni sperimentalismo. Una purezza metafisica, libera da ogni riferimento alla cronaca, ricca di rinvii alle semplificazioni di Brâncusi. Come Picasso e Apollinaire, Modigliani sa che la bellezza, nella modernità, non si offre più come armonia solenne, ma come necessità ferita, equilibrio infranto. Peccatore che consumava tutto rapidamente, Modigliani ha condotto un' esistenza bohémienne in quel meraviglioso laboratorio di intelligenze che è stata la Parigi primonovecentesca, in costante dialogo con Apollinaire e Cocteau. Un eroe maledetto: anarchico, folle, violento, alcolizzato, drogato, attaccabrighe, irascibile, irresponsabile, dissipatore, egocentrico, frequentatore di prostitute, appartenente alla genia dei «suicidati della società» di cui ha parlato Artaud. A 35 anni, in Francia, affetto da tubercolosi, Modigliani muore. È il 24 gennaio 1920. Il giorno del funerale, racconterà la sorella Margherita, intorno a lui inizierà a svilupparsi una pericolosa speculazione ordita da una cinica macchina del malaffare. Di questi scenari inquietanti ora si fanno attenti cronisti una giornalista e un poliziotto, membri della Fondazione Antonino Caponnetto: Dania Mondini, giornalista della Rai (che nel 2018 ha curato una puntata di TV7 intitolata «Giallo Modigliani»), e Claudio Loiodice, ex ispettore di Polizia, impegnato in operazioni contro il crimine organizzato, specializzato in riciclaggio e frodi internazionali. Mondini e Loiodice hanno scritto un libro appassionante, in uscita da Chiarelettere, L' affare Modigliani (postfazione di Pietro Grasso, ex magistrato, ex presidente del Senato). Un volume che - ne siamo certi - sarebbe piaciuto a Federico Zeri, detective sapiente nel distinguere le opere d' arte vere da quelle false, straordinario conoscitore, con un occhio prodigioso: di lui si potrebbe dire quello che esclamò Cézanne a proposito di Monet, «non è che un occhio, Dio mio, ma che occhio!». Denuncia «senza timori o remore», che non inciampa mai nella calunnia o nella diffamazione; inchiesta criminologica, nella quale si fanno nomi e cognomi e si riportano informazioni, notizie e dati sempre documentati; spy story ricca di misteri, di errori, di omissioni, di sviste, di alibi, di collusioni; infine, giallo scandito in otto «scene del crimine»: Parigi, place Denfert-Rochereau; Chiasso, porto franco; ancora Parigi, 55 Boulevard Saint-Michel; Livorno, quartiere Venezia Nuova; Genova, Palazzo Ducale; Londra, Piccadilly; di nuovo Parigi, 205 Boulevard Vincent Auriol; infine Worldwide Interbank Financial. Rispetto a queste scene del crimine, un momento laterale ma significativo del libro è rappresentato dal viaggio nel «più segreto dei musei del mondo»: il porto franco di Ginevra, nel quale sono conservati «miliardi di euro di dipinti, sculture e reperti archeologici». Una fonte rivela agli autori del volume che lì è custodito anche il Salvator Mundi , il dipinto - attribuito a Leonardo - acquistato nel 2017 per 450 milioni di dollari dal principe saudita Mohammad bin Salman. Ecco L' affare Modigliani . Battendo piste inattese, i nostri investigatori ricostruiscono il caso-Modì. Siamo invitati a entrare in una drammaturgia abitata da tante voci. Un involontario romanzo di spionaggio basato su dati accuratamente raccolti e verificati, segnato da tanti colpi di teatro. Un «pasticciaccio», i cui protagonisti sono - tra gli altri - Jeanne, figlia di Modigliani, e Christian Parisot, archivista. Ecco come viene presentato Parisot dai due autori: «Esperto di storia dell' arte. Sul suo conto pesano inchieste per falso, ricettazione, truffa e reati specifici relativi alle violazioni delle norme del codice dei beni culturali. Condannato nel 2008 in Francia per falso e truffa. Arrestato in Italia nel 2012 per falso e ricettazione, poi assolto nel 2019 per la ricettazione mentre il reato di falso è caduto in prescrizione». Intorno a loro, si muovono comparse e burattinai: magistrati, avvocati, uomini d' affari, collezionisti, criminali, storici dell' arte. Attori di un teatro della disonestà. Figlio di Adrien, pittore cresciuto negli ambienti milanesi del MAC (Movimento Arte Concreta), studente di storia dell' arte, nel 1974 Christian Parisot lascia il Piemonte per trasferirsi a Parigi. Si iscrive alla Sorbona. Lì incontra Jeanne Modigliani, all' epoca docente di Lingua e letteratura italiana. I due cominciano a frequentarsi con assiduità. Christian diventa l' ombra di Jeanne. La corteggia, quasi la venera. Ne diventa l' uomo di fiducia, il factotum. Sin dalla prematura scomparsa di suo padre, Jeanne - che morirà nel 1984 in circostanze misteriose - si dedica a raccogliere con amore materiali di ogni tipo, strumenti di lavoro, lettere, appunti e fotografie, dando vita agli Archivi Legali Modigliani. Un modo per difendere la memoria di un artista con un temperamento incostante, portato a distruggere disegni e quadri, morto giovane, senza lasciare firme depositate, né un elenco con la descrizione delle opere dipinte e scolpite. «Gli Archivi - ricordano Mondini e Loiodice - rappresentano il tentativo di cristallizzare tutto ciò che può dare un' identità certa al patrimonio artistico di Modì. Chi li possiede ha in mano gli strumenti per fare expertise e quindi decretare se un' opera è vera o falsa, o quantomeno se un determinato quadro si porta in dote una storicità. Spesso, invece, sarebbero stati utilizzati per costruire cronologie o matrici fasulle, dando il via a fabbriche di falsi». È quel che accade al «povero» Modigliani, la cui eredità artistica, negli anni, è stata tradita e violata da tanti loschi figuri, disinvolti nell'«abusare» degli archivi per legittimare opere di dubbia qualità. Cominciano a circolare disegni non fatti da lui, autenticati e poi rivenduti; fotocopie ad alta definizione di schizzi falsi, in seguito ritoccati con il colore, per renderli più verosimili al tatto; quadri realizzati da esperti falsari; infine, nuove opere, «magari ingrandimenti di figure che da mezzobusto passano a primi piani». Tra i principali responsabili di questo «mercato», a lungo considerato «un' indiscussa bocca della verità» cui si rivolgono critici e poliziotti, Parisot sarebbe riuscito anche a farsi «garantire» da autorevoli esperti d' arte, i quali non si sono preoccupati di riconoscere con onestà critico-filologica l' autografia di determinate opere, ma per superficialità o peggio per interessi personali sono diventati suoi complici. Tra le persone vicine a Parisot, gli autori del libro indicano anche uno studioso colto come Claudio Strinati, che si è spinto «alla compilazione di documenti ufficiali, stilati e firmati nella sua qualità di soprintendente del Polo museale romano, con i quali certifica il valore e la rilevanza degli Archivi Legali Amedeo Modigliani su richiesta di Parisot». Alcuni fotogrammi di questa sorta di film, che ci riserva tante sorprese. 1984, nel Foro Reale di Livorno, vengono ritrovate due teste. Grandi storici dell' arte (come Argan e Ragghianti) sostengono che Modigliani aveva deciso di liberarsi di quei blocchi ancora incompiuti, gettandoli in un fossato. «A me paiono dei paracarri», dice invece Zeri, secondo qualcuno tra gli ispiratori di quella beffa degna di Amici miei , ordita da un piccolo gruppo di studenti universitari. Solo una bischerata? Non solo. 2010. In una mostra allestita al Museo archeologico di Palestrina, sono esposte ventinove opere attribuite a Modì: come viene subito certificato, croste create ad hoc dal «gotha dei falsari romani». Una vicenda simile si ripeterà nel 2017, quando, in un' esposizione al Palazzo Ducale di Genova, verranno presentati venti quadri (su 21) grossolanamente falsificati. Una pericolosa commedia degli equivoci, che ripropone una liturgia ampiamente diffusa. Conosciamo falsi Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Picasso, de Chirico, Dalí e, appunto, Modigliani; mentre difficilmente ci imbattiamo in falsi di Leonardo da Pistoia o di Zoran Muic. Perché? Semplice: i falsari scelgono le celebrity ; trovano terreno fertile dove c' è carenza di originali, cercando di venire incontro alle richieste del mercato, che vive sulla quantità dell' offerta. Il fine di queste azioni è chiaro: un quadro non vero non vale niente; nel momento in cui entra in un museo o in un luogo espositivo istituzionale, viene legittimato e acquista un valore sempre crescente. Nell' affaire -Modigliani, questo business, gestito con la complicità della criminalità organizzata e dei riciclatori internazionali di denaro, è stimato in almeno undici miliardi di euro. Pochi hanno cercato di combattere l' azione di personaggi come Parisot: tra gli altri, il «cacciatore di falsi» Carlo Pepi; e Isabella Quattrocchi, tra i più accreditati periti di tribunale nei procedimenti su falsi e falsari nel mondo dell' arte. Tenaci «eroi», che hanno cercato di difendere la grandezza di Modigliani, ormai irrimediabilmente «stravolta e disonorata». Un' impresa disperata. «Dell' opera di Amedeo Modigliani oggi non è rimasto granché», scrivono Mondini e Loiodice. I falsi sono ovunque. Se ne calcolano circa mille, disseminati tra musei e collezioni private di tutto il mondo. Persino nel catalogo generale curato da Ambrogio Ceroni (nel 1972) sono riprodotti quadri ritenuti non autografi dalla figlia dell' artista. Difficile, forse impossibile, dipanare questa matassa di omertà e di interessi malavitosi. «Attenzione, chiunque si occupa di Modigliani viene colpito da una sorta di maledizione!», amano spesso ripetere tanti storici dell' arte con rassegnata ironia.

·         Orologi. Le leggende al polso.

LA LEGGENDA AL POLSO: ROLEX DAYTONA. Elettra Thanatos per Dagospia il 17 ottobre 2019. "Prima degli anni 80 era un orologio disgraziato”: questo il commento dell’orologiaio Gino Guglielmo per raccontare superbamente la nascita di un mito: Rolex Daytona Cosmograph, oggi l’orologio più famoso del mondo in prima pagina sulle copertine dei più famosi libri di orologi. Già perché il mito non nasce sempre in un nanosecondo, ma impiega anni di storia e di storie per crescere e consolidarsi e il Daytona è la testimonianza più forte per chi pensa che il successo mondiale possa essere ottenuto subito. Quando nasce nel 1963 sulle ceneri del pre-Daytona referenza 6238 costa qualche centinaio di dollari e gli appassionati di orologi lo comprano poco o affatto perché troppo grande, troppo tecnico, insomma troppo… A questo va aggiunto il fatto che non risponde nemmeno bene alla prova dei 10 metri, cioè quella che vuole che un Rolex sia riconoscibile al polso da una persona almeno a 10 metri di distanza. E nemmeno al fatto che nasce in onore del circuito automobilistico americano “Daytona”, bensì il nome originale era “Le Mans”: la referenza 6239 (ovvero quello che oggi tutti chiamano Daytona) arriva in America successivamente e Rolex USA chiede la scritta Daytona per i modelli americani dato che Rolex era lo sponsor ufficiale della Corsa 24 Ore di Daytona. Il nome non cambiò fino al 1964 e da quell’anno in poi tutti i vincitori della defatigante gara ricevettero in premio uno di questi modelli. Ma la leggenda era molto lontana e il momento forse di svolta arrivò nel 1968 con il regalo da parte della moglie Joanne Woodward a Paul Newman di un esemplare con una scritta sul fondo della cassa: “DRIVE CAREFULLY ME”. Quell’orologio aveva anche una particolarità, tipica di quella serie: gli indicatori dei secondi erano rappresentati da piccoli quadratini nelle sfere sul quadrante, una particolarità che manda in visibilio gli appassionati. Da quel momento il cronometro fa un salto e comincia ad essere desiderato ma solo da pochissimi. Oggi è leggenda e quel Rolex di Paul Newman venne battuto pochi anni fa ad un’asta della Phillips di New York ad un prezzo totale di 17,8 milioni di dollari, una quantità di dollaroni monstre per un orologio da polso unica nella storia dell’orologeria mondiale. E pensare che fino al 2000 il Rolex Daytona DENTRO non è nemmeno un Rolex, bensì ha un movimento svizzero Valjoux 72. Solo nel 2000 lascia il posto a movimenti originali Rolex, con la versione più vicina ai giorni nostri. Le copie si moltiplicano, tutti i marchi del mondo copiano Rolex Daytona: anche questo alimenta il mistero e la leggenda. Oggi ne fanno uno, bellissimo, che gli assomiglia molto tutto nero che è della casa sorella, la Tudor. Alcuni altri sono desideratissimi e importantissimi. Ma nessuno come lui. Solo nel 1988 il mito cresce e viene introdotto il movimento a carica automatica anche questo non Rolex bensì Zenith calibro 400 modificato e anche l’estetica cambia: a proteggere la corona vengono costruite le famose spallette di protezione e il quadrante diventa più grande, da 37 mm a 40. Il modello con movimento Rolex del 2000 prende il nome di referenza 4130 e la sfera dei piccoli secondi passa da ore 9 a ore 6: un altro piccolo cambiamento per un mito ormai consolidato. Oggi è il cronografo sportivo per eccellenza. Ma perché il Rolex Dayotna è il più collezionato del mondo e più bramato da chi vede nei segnatempo oggetti erotici e portatori di emozioni? Forse per tutti questi motivi o per nessuno. Ne esistono tante versioni, è cambiato nel tempo ed è stato al polso di attori, politici, registi, corridori o solo gente ricca. Ma il suo fascino è misterioso come la rappresentazione che quella parola Cosmograph voleva suggerire: il tempo è la misura del cosmo nella sua interezza e questo ammasso di ingranaggi, acciaio e bachelite (all’ora) ne è il testimone più perfetto. 

·         La Stretta di Mano.

Margherita Cicchetti per Donna Moderna il 13 ottobre 2019. La stretta di mano dice molto di noi e di chi abbiamo di fronte: ecco come interpretarla e i consigli per fare una buona impressione... alla prima stretta! In soli 90 secondi riusciamo a farci una prima impressione del nostro interlocutore e, se è vero che molto dipende dal sorriso, dallo sguardo e dalla postura, è altrettanto confermato che molte informazioni vengono trasmesse dal modo in cui stringiamo la mano. Questo gesto, spesso sottovalutato perché ormai considerato una consueta modalità di saluto, non solo genera (o meno) una buona impressione nell’altro, ma fornisce anche molte informazioni su di noi. Dimmi come stringi la mano e ti dirò chi sei? Beh…in parte è così. Ecco gli elementi da tenere in considerazione.

Attenzione alla pressione utilizzata. Effettuare la stretta di mano con sentita partecipazione è sicuramente la prima cosa a cui prestare attenzione. E non è scontato come potrebbe sembrare, anzi. Esistono strette poco sentite, che trasferiscono un basso entusiasmo e rispetto. Sappiamo che bisogna porre attenzione alla “stretta”, ovvero alla pressione utilizzata per stringere la mano, ma non dobbiamo eccedere con la forza (trasferiremmo aggressività o bassa flessibilità), né rendere la stretta eccessivamente “molle” (in questo caso comunicheremmo timidezza, introversione o mancanza di personalità) o peggio, dare l'impressione di volersi sottrarre alla stretta. In generale è bene cercare sempre di valutare il tipo di stretta che gradisce il nostro interlocutore aggiustando la nostra pressione: per cui se ci accorgiamo che la stretta è forte potremo a nostra volta effettuare la stessa forza, rendendogli una stretta che troverà sicuramente piacevole. Al contrario, se ci accorgiamo che la stretta è debole, dovremo ridurre al massimo la pressione. Un occhio di riguardo anche alle strette di mano con le persone anziane o le più giovani, la stretta in questo caso dovrà essere meno forte rispetto a quella resa con un uomo.

L’orientamento del palmo. Impariamo ad osservare il modo in cui le mani vengono strette. Nel contesto lavorativo, le persone dello stesso livello si stringono la mano in modo simmetrico, ovvero i loro palmi si toccano in verticale: questa stretta comunica parità. Se qualcuno stringe invece la mano partendo dall’alto, tenendo quindi il proprio palmo rivolto verso il basso, sta comunicando forza, autorità e predominio. In modo speculare, chi porge la propria mano tenendo il palmo verso l’alto, trasferisce sottomissione e passività.

Significato dei tipi di stretta di mano:

La stretta con la mano molle. Questa stretta indica una personalità sfuggente ed evasiva e trasmette remissività e scarsa energia. Non è generalmente gradita.

La stretta stritolatrice. Anche se chi effettua questa stretta vorrebbe trasmettere sicurezza e positività, trasferisce al contempo aggressività e non è affatto piacevole per chi la riceve.

La stretta clericale. Può essere effettuata lasciando prendere solo le falangi delle dita, oppure l’intera mano, piegando il dorso. Questa stretta trasmette distacco, altezzosità e basso interesse relazionale.

La stretta prolungata. La stretta giusta dovrebbe durare non più di quattro/cinque secondi, con massimo tre oscillazioni. Oltre questo tempo, o superato il numero delle oscillazioni indicato, la stretta potrebbe sembrare forzata e trasferire invadenza.

La stretta a sandwich. Detta anche stretta doppia perché effettuata con entrambe le mani, comunica affetto e partecipazione. È un modo gentile (anche se non sempre apprezzato) per aumentare le zone di contatto fisico.

Consigli per stringere la mano in modo efficace. Le mani trasmettono messaggi importanti durante una stretta, ecco quindi alcuni punti da tenere a mente per dare una buona impressione e trasferire le corrette informazioni su di noi.

Spontaneità e partecipazione:

la stretta deve far passare il nostro piacere nell’incontro;

Adeguare la pressione a quella del proprio interlocutore è la stretta migliore: non esiste la stretta perfetta. Per ognuna di noi la stretta giusta è molto vicina al tipo di pressione che noi stesse utilizziamo;

I palmi devono toccarsi e non rimanere “distanti”, così la stretta sarà piena: dare solo la punta delle dita comunica distacco e scarsa partecipazione;

La stretta deve essere simmetrica: posizioniamo la nostra mano allo stesso livello di quella del nostro interlocutore, non spingiamoci in alto (comunicheremmo dominio e prepotenza), né in basso perché trasferiremmo sottomissione e passività;

Curare la distanza durante la stretta: dovrebbero esserci almeno 50 cm fra noi e il nostro interlocutore: non invadere il suo spazio prossemico altrimenti potresti risultare inopportuna;

Non eccedere con la durata della stretta: la stretta deve durare non più di 3 secondi per non risultare invadente.

L'ultimo importantissimo consiglio è quello di sorridere e guardare negli occhi durante la stretta: la stretta è un gesto cordiale e di affetto e deve trasferire la voglia di entrare in relazione con l’altro.

Gaia Cesare per ''il Giornale'' il 27 ottobre 2019. Stop agli applausi nella culla mondiale del sapere. Non incoraggiano, anzi possono scatenare ansia. Perciò gli studenti dell' Università di Oxford smetteranno di battere le mani durante le conferenze e i dibattiti che organizzano nell' ateneo, finito anche nel 2019, per il quarto anno consecutivo, in cima alla lista delle migliori università mondiali. Per mostrare approvazione e consenso - è la decisione presa con una mozione votata dalla Oxford University Student Union - i ragazzi agiteranno entrambe le mani, come nella lingua dei segni per i sordomuti (gli inglesi le chiamano «jazz hands»). Palmo aperto come per fare il cinque e mani che ruotano in senso circolare, con le braccia a fare da perno. «È un modo per andare incontro non solo a chi ha problemi di salute, coloro che soffrono di sordità oppure autismo - ha spiegato Roisin McCallion, la studentessa che ha promosso la mozione -. Vogliamo che i nostri eventi siano più accessibili e inclusivi per tutti, comprese le persone che soffrono di ansia». Un principio che era già stato difeso dagli studenti dell' Università di Manchester, i primi a inaugurare il cambio di rotta l'anno scorso. «Battere le mani può scoraggiare chi vuole partecipare a eventi democratici» aveva spiegato Sara Khan, precisando che nell' ateneo del nord dell' Inghilterra sarebbero spariti anche gli urletti di sostegno e il più generico tifo tipico degli eventi di gruppo. «Ho notato che molto spesso, anche durante i dibattiti parlamentari, tutti questi rumori alimentano un' atmosfera non rispettosa». Eppure, già allora, si erano levate le prime voci polemiche. Quella dell' arcinoto Piers Morgan, giornalista e star televisiva inglese, che lo scorso settembre, disse chiaro e lapidario, come nel suo stile: «La Gran Bretagna sta perdendo la testa». La notizia era arrivata anche all' orecchio di Jeb Bush, fratello dell' ex presidente Usa George W. Bush, anche lui critico. «Not cool, University of Manchester. Not cool», aveva commentato la scelta, a dir poco condivisibile. Le polemiche non si sono fermate neanche questa volta. E c' è chi punta il dito contro un' intera generazione. «Ragazzi ipersensibili», dicono. «Coltivare ed esporre le loro fragilità è diventato parte integrante del tipo di identità che celebrano», ha spiegato Frank Furedi, docente di sociologia all' Università del Kent. La pensa allo stesso modo la psicopedagogista e psicoterapeuta Maria Rita Parsi. «Ma allora il pubblico dovrebbe presentare un attestato medico ogni volta che partecipa a una conferenza. Oppure dovrebbe firmare un consenso informato e accettare di voler incorrere nel rischio di un applauso. Sarebbe l' unico modo per tutelare le persone che soffrono di problemi di udito o autismo - spiega la Parsi - Ma lo stop totale mi sembra eccessivo. Chi organizza e partecipa a una conferenza, deve sapere che corre il rischio che la platea si lanci in un applauso spontaneo, la naturale conseguenza di un' emozione. L' applauso gratifica l' oratore, ma anche chi lo ascolta ed è un' emozione reciproca, non di una sola persona. Mi piacerebbe anche capire su quali basi scientifiche si poggia questa posizione». Quanto alla generazione di ragazzi ipersensibili. «È vero, i giovani di oggi lo sono molto di più. Anche per quello che viene loro proposto. Sono esposti a un bombardamento di videogiochi, ai pericoli gravissimi della società virtuale. E gli adulti autorevoli, genitori ed educatori, li difendono poco da questi rischi. Compreso l' inquinamento visivo e uditivo delle nostre città, altro che applausi», conclude Parsi. Ma la domanda che mette a nudo la questione, alla fine, è quella che gira tra i nickname e i loro messaggi feroci e ironici sul web. «Va bene sventolare le mani per andare incontro a chi soffre di autismo, problemi sensoriali e di udito. Ma allora, come la mettiamo con chi è cieco?».

·         Il significato dei simboli.

Il significato nascosto di 20 simboli che usiamo tutti i giorni. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it da Diana Cavalcoli. Tra cartelli, icone e immagini di ogni tipo i nostri occhi incontrano centinaia di simboli al giorno. Ma sappiamo veramente qual è la loro origine e i loro significato a volte nascosto? Ecco in rassegna i 20 simboli più comuni e utilizzati dalle persone nel mondo.

Lo Smile.  Stiamo parlando di uno dei simboli più diffusi a livello mondiale. Introdotto negli anni Settanta in ambito elettronico, lo Smile è un’immagine stilizzata di un volto sorridente. È composto da un cerchio giallo con due puntini che rappresentano gli occhi mentre un semicerchio indica la bocca. Il simbolo è attribuito all’artista americano Harvey Ball, che inventò la faccina sorridente nel 1963 per una compagnia di assicurazioni di Worcester. Si dice che in circa dieci minuti Harvey Bell abbia abbozzato il volto sorridente che doveva poi essere stampato su alcuni poster da appendere negli uffici. L’idea era sollevare il morale dei dipendenti dell'azienda durante gli appuntamenti con i clienti. Negli anni a seguire Ball non ha mai registrato il marchio e anche per questo lo smile si è diffuse negli Stati Uniti in maniera capillare. Il disegnatore non ha quindi tratto alcun profitto per l'immagine iconica, creata per un prezzo iniziale di 45 dollari.

La chiocciola @. Oggi è comunemente usata negli indirizzi email di miliardi di persone. Nell’antica Grecia, la @ però indicava la parola «anfora» nel suo valore specifico di unità di misura, di capacità e di peso. Si diffuse poi con lo stesso significato nel VI secolo dopo Cristo tra i mercanti veneziani e cominciò a essere usata nella contabilità per indicare «al tasso di».  Venne così inserita nella tastiera di una delle prime macchine da scrivere nel 1884. La consacrazione si ebbe però cent'anni dopo nel 1972 quando l’ingegnere e programmatore americano Ray Tomlinson la scelse per il significato di «presso», in inglese at, per indicare gli indirizzi di posta elettronica di Arpanet, la rete da cui è nata Internet. È quindi conosciuta in inglese col nome at, mentre in francese come «arobase» e in spagnolo come «arroba».

Il simbolo maschile. Noto anche come il simbolo astronomico che indica il pianeta Marte, l’emblema è composto da un cerchio e da una freccia obliqua che punta verso Nord Est. L’immagine richiama le divinità dell’antica religione greca (Ares) e romana (Marte) a cui i pianeti vennero associati prima della nascita di Cristo. Secondo il sito della NASA infatti il simbolo è costituito da due elementi: il cerchio rappresenterebbe lo scudo mentre la freccia la lancia del dio. Gli astronomi della Mesopotamia in particolare furono i primi ad associare il pianeta Marte al dio del fuoco e della guerra, probabilmente per via della colorazione rossa del pianeta. In seguito l’accostamento è stato tramandato nei secoli fino all’epoca rinascimentale, periodo in cui il simbolo è stato usato per evidenziare il genere. In chimica l'immagine è invece usata per indicare il ferro.

Il simbolo femminile. Utilizzato fin dall’antichità dagli astronomi per indicare il pianeta Venere è oggi usato per rappresentare la femminilità in senso lato. Il simbolo è una rappresentazione dello specchio della divinità greca dell’amore, della bellezza e della fecondità. L’immagine deriverebbe dalla stilizzazione dello specchio della dea (il cerchio) e del manico (la croce ribaltata). Il cerchio richiama inoltre al ciclo infinito del giorno. Venere veniva vista dai Sumeri come la stella del mattino e della sera: era il primo astro che compariva al sorgere del sole e l'ultimo a restar visibile al tramonto. È interessante notare che il simbolo di Venere è anche un simbolo alchemico che rappresenta il rame, materiale con cui venivano forgiati gli specchi nell’antica greca. Inoltre Cipro, isola da cui secondo la leggenda sarebbe nata Venere, era in passato un grande esportatore di rame.

L'infinito. ll simbolo a otto «sdraiato» è utilizzato oggi per indicare l’infinito in ambito matematico. La figura appare per la prima volta sulla croce di San Bonifacio, avvolta attorno alle braccia di una croce latina. La paternità scientifica è però attribuita al matematico inglese John Wallis che introdusse il simbolo dell’infinito nel 1655, nel suo «De sectionibus conicis». Lo studioso non motivò la scelta ma è stato ipotizzato che derivasse dalla consuetudine romana nello scrivere mille in questo modo: CIƆ o anche CƆ. Il simbolo  veniva spesso utilizzato per indicare enormi quantità. Nel misticismo moderno l'immagine è stata utilizzata come variante dell’Uroboro ovvero il serpente che si mangia la coda, emblema della ciclicità della vita. In geometria esiste anche un termine per definire il simbolo: la parola «lemniscàta» si riferisce a ogni curva a forma di otto rovesciato.

L'Ok (a gesti). I gesti delle mani hanno significati diversi in base alle differenti culture. Negli Stati Uniti e in gran parte d'Europa il gesto dell'Ok è usato per indicare approvazione. In altre culture è invece visto come osceno. In Brasile e Russia ad esempio è giudicato un insulto mentre in Francia indica qualcuno che vale «zero». Il termine «Ok» invece si è diffuso in Italia a partire dal 1943, anno in cui le truppe statunitensi sbarcarono in Sicilia e iniziarono a risalire verso il Nord  Italia. La popolarità del termine crebbe poi negli anni Settanta con il diffondersi delle radio private e a opera di alcuni Dj che abituati ad ascoltare canzoni inglesi adottarono questa locuzione. Una curiosità: nel satanismo le tre dita erette a ventaglio simboleggiano la trinità profana dio, dea e l'anticristo. Alcuni studiosi sostengono che le dita collegate al cerchio composto da indice e pollice raffigurerebbero per tre volte il numero del diavolo, il sei.

Le dita a V. In inglese «V-Sign», è un gesto in cui si alzano l'indice e il medio in modo da formare l'omonima lettera con le dita. Alcuni storici ritengono che il gesto derivi dal fatto che i francesi avessero l'abitudine di tagliare ai prigionieri inglesi le dita usate per tirare con l’arco. In epoca contemporanea il gesto è stato reso celebre dal tennista e ministro belga Victor de Laveleye. Venne utilizzato in segno di vittoria dopo la campagna politica della seconda guerra mondiale. In seguito è stato usato da altri politici, come Winston Churchill o Richard Nixon. Il simbolo in genere indica la vittoria ma se si rivolge il dorso della mano verso una persona simboleggia un insulto. Una volgarità in Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica, Irlanda e Regno Unito. Il suo significato letterale è «vai al diavolo». Il V-Sign può anche significare pace e amore. Era usato ad esempio nelle manifestazioni dei movimenti pacifisti degli anni Sessanta per celebrare la non violenza. Nel saluto scout dei Lupetti invece le due dita tese simboleggiano gli impegni presi e le orecchie del lupetto.

Il simbolo della pace. Il simbolo della pace fu creato dal disegnatore e pacifista Gerald Holtom nel 1958 e raggiunse la massima diffusione tra gli anni Sessanta e Settanta durante la campagna per il disarmo nucleare e le manifestazioni contro la guerra del Vietnam. Il simbolo all'epoca fu interpretato erroneamente come stilizzazione di un amplesso. Una versione iconica dello slogan sessantottino: «Fate l'amore, non fate la guerra». Holtom spiegò poi di essersi ispirato all'alfabeto semaforico utilizzato nelle segnalazioni nautiche: il simbolo rappresenterebbe le lettere N e D, appunto Nuclear Disarmament. Nella codifica Unicode il simbolo della pace è U+262E, e può quindi essere inserito in un testo HTML come entity ☮ o &#9774.

Riciclaggio. Il simbolo di riciclaggio indica che il produttore o l'azienda che lo esibisce aderisce ai consorzi, previsti dalla legge, per organizzare il recupero e il riciclaggio degli imballaggi. È composto da tre frecce che formano un nastro di Möbius. Disegnato nel 1971 da Gary Anderson, il logo venne inviato ad un concorso indetto dalla Container Corporation of America. Una variante del logo è il triangolo composto da tre frecce  simbolo del materiale riciclabile. «Mi ci vollero un giorno o due per farlo, odio persino ammetterlo ora» ha commentato Anderson che per la sua idea vinse il concorso e guadagnò 2000 dollari cedendo i diritti sul logo oggi di pubblico dominio.

Il caduceo delle farmacie. Il caduceo è un simbolo di pace e prosperità, associato al dio greco Hermes (Mercurio per i Romani) e usato oggi sulle insegne di tutte le farmacie italiane. Il simbolo, composto da due serpenti avvolti a spirale, è la rappresentazione fisica del bene e del male, forze tenute in equilibrio dalla bacchetta del dio Ermes. Mercurio era noto anche come dio del commercio e intelligentissimo contrattatore. Il caduceo in Italia è il simbolo del farmacista e può essere interpretato in questo modo: i due serpenti rappresentano uno la dose terapeutica e l'altro la dose tossica, il veleno. Il farmacista è così rappresentato con il bastone alato perché si eleva sopra le parti in quanto conoscitore dell'una e dell'altra. In breve è l'unico in grado di frapporsi tra il farmaco e il veleno dato che conosce il giusto dosaggio.

Il cuore con le mani. Si tratta di un simbolo utilizzato a livello internazionale per rappresentare l’emotività dell'essere umano. Ma qual è l’origine del cuore di oggi? Per scoprirlo bisogna risalire all’epoca romana. Tra le testimonianze che possono aver influenzato la stilizzazione si segnala quella del medico Galeno che parla del cuore «come di una sorta di foglia d'edera capovolta». Il simbolo del cuore come lo conosciamo compare poi nel 1200, in un manoscritto «Il romanzo della Pera», in cui due amanti sbucciano insieme una pera con i denti. La consacrazione arriva però nel 1500 con la diffusione delle carte da gioco francesi e i vari semi.

Il teschio dei pirati. Il teschio che sovrasta due ossa incrociate o due spade è un simbolo piratesco e massonico che simboleggia la vittoria dello spirito sul corpo. Il teschio rappresenta infatti la saggezza e lo spirito dell'uomo. Si tratta di un simbolo diffuso in diversi contesti ma sempre in collegamento con il concetto di morte. È ad esempio usato nei simboli di rischio chimico e nei cartelli per il trasporto di merci pericolose o per indicare la presenza di sostanze tossiche. Storicamente il teschio con le tibie incrociate disegnato in bianco su fondo nero era usato dai pirati sulle proprie bandiere e in questo contesto era chiamato «Jolly Roger». Lo scopo di questa immagine era terrorizzare le vittime e indurle alla resa senza nemmeno combattere. Il simbolo è stato utilizzato anche dai sommergibilisti, dalla marina inglese e dall'aviazione statunitense.

Pericolo radiazioni. Il simbolo «pericolo di radiazioni» o «Trefoil» è costituito da tre lame d'elica che si irradiano da un punto centrale. Fu ideato a Berkeley presso il Radiation Laboratory della University of California nel 1946. L'immagine descrive la radiazione che si estende partendo da un atomo e il suo ideatore è lo studioso Nels Garden, allora responsabile del reparto di Chimica del laboratorio. All’inizio il Trefoil, «trifoglio», viene realizzato in rosso magenta su fondo blu. Ma nel 1948, il simbolo è adottato da un gruppo di scienziati dell’Oak Ridge Lab che non è convinto dei colori. Il team decide così che la combinazione giallo/magenta è la migliore in termini di visibilità. Questo schema di colori è ancora oggi lo standard negli Stati Uniti mentre nel resto del mondo il Trefoil si è diffuso nella variante nero su sfondo giallo.

Play (a triangolo). Cliccato da milioni di persone in tutto il mondo è utilizzato per avviare video o apparecchi elettronici. Il triangolo «che punta a destra» è tanto famoso da essere diventato addirittura il logo di una piattaforma da miliardi di visualizzazioni come Youtube. Secondo il sito Gizmodo il pulsante risalirebbe agli anni Sessanta, quando l'audiovisivo era ancora in nastro: allora si pensò che una freccia (ovvero il triangolo) fosse il simbolo più adatto indicare il verso di andamento della bobina ovvero verso destra. Questo spiegherebbe anche il verso delle frecce per riavvolgere i nastri o per mandare avanti la registrazione presenti sulle tastiere dei vecchi stereo.

Accensione. Il simbolo di accensione, in inglese «power» è ormai conosciuto da chiunque  abbia un elettrodomestico in casa. Se in passato si è sempre optato per l'utilizzo delle parole «On» e «Off» in corrispondenza della relativa funzione oggi esiste solo un pulsante. Ma che significato ha questo simbolo?  Le origini risalirebbero alla Seconda Guerra mondiale quando gli ingegneri militari cominciarono a usare, 0 e 1, cifre del sistema binario per indicare l'accensione e lo spegnimento di un determinato apparecchio. Nel 1973, la Commissione Elettrotecnica Internazionale ha poi scelto il simbolo dato  dall'unione dei due numeri  come standard. Ecco quindi spiegato il cerchio aperto con una linea al suo interno. Un'icona che indica «power» appunto «accensione». 

Bluetooth. Il secondo re di Danimarca Harald Bluetooth è passato alla storia per aver tentato di unire la Scandinavia sotto un'unica bandiera nel decimo secolo. Dal monarca danese prende il nome il Bluetooth,  una tecnologia che consente di unire il telefono al pc e all’auricolare. Inventata da Ericsson nel 1994 la nuova soluzione mette in contatto due dispositivi vicini senza dover per forza allineare due porte ottiche. In linea con la scelta del nome anche il simbolo è ispirato alla corona di Danimarca: è una fusione grafica delle iniziali del re, H e B, in caratteri runici.

Uscita d'emergenza. Il simbolo «uscita di emergenza» è un segnale che indica la presenza di un'uscita di sicurezza. Il simbolo, adottato internazionalmente nel 1985, è stato creato dal designer giapponese Yukio Ota negli anni Settanta. Secondo la normativa europea il simbolo può essere rivolto a destra o a sinistra ed essere accompagnato da frecce addizionali che indicano la direzione. Il simbolo può presentare la dicitura supplementare «USCITA DI EMERGENZA». Negli Stati Uniti d'America e in Canada l'uscita di emergenza è indicata con una scritta di colore rosso «EXIT». La dicitura può essere occasionalmente di colore verde o, nel caso del Canada, recare il testo «SORTIE».

L'Euro. Ideato da Arthur Eisenmenger, un designer tedesco nato nel 1914 e morto nel 2002, il simbolo è oggi usato per  indicare la moneta dell'Unione europea. Nel 1975 il famoso designer era a capo del reparto grafico della Comunità Europea e ricevette il compito di disegnare un simbolo che rappresentasse l'Europa stessa. Eisenmenger spedì una proposta alla Commissione europea di Bruxelles che era chiamata a scegliere tra oltre dieci progetti e aspettò  per vent'anni il verdetto. Nel 1997 la Commissione presentò il simbolo alla stampa di tutto il mondo per la prima volta ma Arthur Eisenmenger non ricevette alcun riconoscimento ufficiale per la creazione del simbolo dell'euro.

Usb. È uno dei simboli che maggiormente fa discutere la comunità web. Perché? In pochi ne conoscono l'origine e la sua storia rimane tutt'ora avvolta nel mistero. Secondo la maggior parte degli esperti di tecnologia si tratta di una rappresentazione stilizzata del tridente del dio greco del mare Nettuno. Il fatto che su ogni punta ci sia una diversa figura geometrica (un cerchio, un triangolo e un quadrato) vuole indicare che attraverso il collegamento Usb si possono connettere tra loro dispositivi di natura diversa.

Dito medio. Nell'antica Roma il gesto del dito medio alzato era accompagnato dalle parole «digitus impudicus», traducibile come «dito impudente». Il rimando è infatti ai genitali maschili.  Il gesto, considerato volgare tanto in Occidente quanto in Oriente, sottintende la sottomissione dell’interlocutore nei confronti di chi insulta. Secondo gli storici la pratica nasce nell’area del Mediterraneo, forse in Grecia, per poi diventare popolare nelle città stato prima e nelle province romane poi. In particolare diversi documenti testimoniano l'uso del gesto tra le popolazioni germaniche. Solo in epoca moderna il simbolo si è diffuso in America: secondo diverse ricostruzioni «per merito» degli immigrati italiani negli Usa. Il 24 settembre 2010 a Milano il celebre artista Maurizio Cattelan del dito medio ne ha fatto un'opera. Una gigantesca statua che svetta di fronte a Palazzo Mezzanotte, sede della Borsa.

·         Tirchi o contro lo spreco?

Daniela Mastromattei per “Libero Quotidiano” il 5 novembre 2019. Giorgio Armani detesta lo spreco: «Odio girare per i miei uffici e vedere che la luce è accesa inutilmente quando i miei collaboratori sono andati via». Chiara Ferragni e Fedez non lasciano mai la mancia: parola di rider, che portano loro spesso (e poco volentieri, si presume) a domicilio la cena o il pranzo. Paolo Bonolis «fatica a offrire un caffé malgrado gli ingaggi faraonici», dicono i bene informati. Anche Beppe Grillo da buon genovese passa per essere un un po' taccagno. Indimenticabile la cena per festeggiare l' ottimo risultato dei 5 Stelle alle regionali e amministrative del 2013: ognuno pagò per sé. Non mancò neppure la richiesta di uno sconto alla cassa e un ammonimento ai giornalisti: «La prossima volta venite già mangiati o col pranzo al sacco». Come ha raccontato Novella 2000 di recente. Sono loro, i moderni avari, a provare tutte le preoccupazioni del ricco e tutti i tormenti del povero. Si riconoscono subito. Sono quelli che dopo una cena con quattro amici pagano esclusivamente quello che mangiano e sono capaci di farsi mettere sul conto «un quinto di focaccia». Gli stessi che in vacanza discutono per ore sulla cassa comune. Ridicoli. Appartengono alla categoria dei tirchi subdoli invece quelli che ordinano il dolce anche se non gli va perché «tanto si divide alla "romana"». I più insidiosi sono gli spilorci che al momento del conto spariscono fingendo un'inesistente telefonata al cellulare. Poveretti, sono pervasi da tanta insicurezza, dal timore per il futuro e dalla paura di perdere tutto. Sospettosi e preoccupati di essere raggirati dal prossimo. Sono sempre all'erta. Atteggiamento tipico di chi un tesoretto ce l'ha ed è convinto di essere ricco proprio perché ha il braccino corto. C'è chi pensa possano in qualche modo rappresentare il motore per lo sviluppo dell' economia (nel capitalismo la cupidigia coincide con un atteggiamento virtuoso), chi li critica duramente perché estremamente immorali ed egoisti a scapito degli altri come Arpagone e chi li giudica duramente perché empi. Sono effettivamente stigmatizzati da tutte le religioni. Non dimentichiamo che per i cristiani l' avarizia è uno dei sette peccati capitali; San Paolo sosteneva che l' amore per il denaro è la radice di tutto il male. Mentre per il buddismo è uno dei tre veleni che creano un cattivo karma. Eppure ci sono scuole psicologiche che ritengono l' avarizia insita nella natura umana e che tutti, chi più chi meno, ne siano colpiti. Secondo alcuni ricercatori, autori di uno studio sull' argomento, pubblicato qualche anno fa sul Journal of Travel Research, è stata l' avidità cieca (in quanto avarizia, cupidigia, ambizione sfrenata o ingordigia) a far sì che alcuni banchieri si siano comportati in maniera così rischiosa da scatenare la crisi finanziaria. Dalla quale dobbiamo ancora riprenderci. In teoria, secondo gli esperti, «le persone più predisposte verso il guadagno e l' accumulo di quante più risorse possibili potrebbero essere quelle che se la passano meglio e che quindi hanno un vantaggio evolutivo in grado di promuovere l' auto-conservazione». Eppure il gretto raramente è felice proprio a causa della sua insaziabilità che tende a renderlo insoddisfatto. Ciononostante persiste nel vizio. Toglierselo è difficile. «Non è mai successo che qualcuno si sia rivolto a uno psicanalista perché si sentisse avaro», spiega a Libero la dottoressa Miolì Chiung, direttrice dello Studio di Psicologia Salem. «È invece possibile che, nel corso di un trattamento richiesto per altre ragioni, emergano tratti di carattere o comportamenti tipici dell' avaro». Che talvolta può risultare anche altezzoso e superbo da voler dire: «Perché devo pagare io? Devi essere onorato tu della mia presenza». E qui entriamo nel campo del "tirato" non solo con il denaro, ma anche con i sentimenti. «Parliamo di persone aride che non riescono ad avere dimostrazioni di affetto» dichiara la psicoterapeuta. «Sono insensibili e a volte non se ne rendono neppure conto, non hanno slanci, sono anaffettive. Spesso manipolatrici nei rapporti con gli altri. Capaci di farsi amare senza contraccambiare. O viceversa di condurre una vita in solitaria per proteggersi dall' ambiente esterno, visto come una possibile minaccia». E se incontrano qualcuno che cerca di sollecitarle a un cambiamento, scappano a gambe levate. Spesso, ma non è la regola, la tirchieria economica coincide con quella emotiva, svela la Chiung. «Sono uomini e donne figli di modelli familiari legati al risparmio, con un approccio alla vita costruito in modo esasperante sul sacrificio e sulla rinuncia. Il darsi agli altri può essere irrazionalmente visto come uno spreco del proprio patrimonio emozionale. Dietro ci sono quasi sempre mamme anaffettiva, con la mania del controllo, che non sono state in grado di educare all' amore», fa notare la psicologa. Vivere accanto a un "braccino corto" deve essere un inferno: niente fughe romantiche, niente cene fuori, niente regali, niente coccole e zero attenzioni. Lo stitico sentimentale non riesce a empatizzare con i desideri del partner, perché è troppo concentrato a proteggere se stesso. Purtroppo esiste pure una tirchieria sessuale, un tipo di egoistica conservazione che sotto le lenzuola si manifesta con apatia, passività e freddezza. E non mancano neppure gli spilorci digitali, quelli che reputano ogni loro clic un dono, che rispondono soltanto con un sì o un no, che scrivono massimo tre parole. Chissà se l' avarizia, vista come un' insanabile tendenza ad accumulare denaro, o l' avidità questa inguaribile predisposizione a non donarsi, siano sintomi di una malattia psichiatrica oppure solo di un peccato capitale? Vero è che viviamo in una società tendenzialmente single e il ben amministrare e difendere non soltanto ciò che si ha, ma anche ciò che si è, il non concedersi mai completamente appartiene sempre di più a chi vive da solo e tende a proteggere la nicchia che si è costruito giorno dopo giorno dalle incursioni che arrivano dall' esterno. Non si spende e spande nemmeno a Buckingham Palace, dove troviamo Elisabetta d' Inghilterra, regina della parsimonia: ricicla abiti e fiocchi dei pacchi regalo, utilizza i giornali vecchi per farne giacigli per i cavalli reali. E d' inverno nella stanza dove accoglie gli ospiti preferisce ricorrere a una stufetta anziché accendere il riscaldamento (la fortuna personale di Sua Maestà ammonta a 375 milioni di sterline). E chissà se pure con i sentimenti è morigerata?

·         I Maligni.

Come capire quando una persona è maligna: i 10 segnali. Hanno caratteristiche che non possono mascherare. Tg24-ore.com il 25 settembre 2019. Per stare bene bisogna sempre evitare ciò che fa stare male. Bosogna circondarsi di persone positive e allontare quelle negative. Ma come riconoscerle, ecco alcune caratteristiche che queste persone possiedono. Esistono persone che emanano un’energia negativa che influenza il nostro stato, di certo non positivamente. Ecco come riconoscere quelle che vengono definite le persone maligne, dalle quali sarebbe opportuno mantenersi a distanza. Di seguito vi elenchiamo le 10 caratteristiche che le contraddistinguono:

10. Hanno tante facce. Sanno adottare un attegiamento diverso con ogni persona, sono camaleontiche. Possono coportarsi benissimo con le persone dalle quali pensano di trarre qualche profitto e avere un atteggiamento arrogante con altre. Riescono a fare buon viso a cattivo gioco. E non si fanno scrupoli se devono parlare alle vostre spalle.

9. Vogliono tenere tutto sotto il loro controllo. Se i piani non sono come loro vogliono, riescono a tirare fuori una cattiveria mai vista. Sono esseri possessivi e cercano di imporre sempre il loro punto di vista. Credono che la loro opinione sia sempre quella giusta e non gli interessa quella degli altri.

8. In ogni cosa che fanno cercano sempre il beneficio. Nessuna cosa viene fatta in modo disinteressato. Bisogna sempre trarre un vantaggio da ciò che fanno. Nulla viene lasciato al caso ma tutto è sempre ben programmato e analizzato nei minimi dettagli.

7. Hanno una certa capacità di manipolare gli altri. Riescono a manipolare a loro piacere le persone. Sono come dei ragni che riescono a catturarti nella loro rete senza che te ne accorgi. Sanno essere subdoli e manovrare le persone come vogliono, usano spesso quella che viene definita la psicologia inversa.

6. Sono dei bravi imbroglioni. Sono egoisti ed egocentrici e manipolano le tue emozioni per raggiungere i loro obiettivi. Puoi diventare una pedina del loro sporco gioco. Riescono a girare le cose come vogliono loro, senza darlo a vedere platealmente.

5. Sono dei veri bugiardi. Non si preoccupano se le loro bugie possono provocare dei danni. Anzi, solitamente, lo fanno per piacere e divertimento.

4. Omettono spesso delle informazioni importanti. Nascondono cose che dovrebbero essere dette e se vengono scovati si scusano come niente fosse. Prendono scuse e riportano il discorso dove vogliono loro, sono capaci di rigirare la frittata facendoti addirittura sentire in colpa, affermando che sei tu che non riponi fiducia in loro.

3. Non dicono mai come stanno le cose. Quando raccontano qualcosa non dicono mai le cose come sono realmente. Sminuiscono sempre o “costruiscono” le storie come conviene a loro.

2. Negano i fatti anche se sono ovvi. Pur se avete chiara la verità delle cose, loro cercano di cambiare la versione dei fatti con false interpretazioni. Costruiscono e vivono in un mondo proprio che non può che cozzare con il vostro, tanto da causare attriti nelle vostre vite.

1. Non chiedono mai scusa quando sbagliano. Le persone cattive generalmente si legano alle persone, tranquille e gentili, perchè sono quelle più facili da sfruttare. Il loro rapporto con la gente è sempre calcolato, cercano di sfoggiare le migliori mosse per ottenere il massimo da chi vogliono loro. Il loro atteggiamento può sicuramente rovinare la vita di chi li circonda, i loro atteggiamenti negativi e le loro cattive energie possono influenzare negativamente chi cade nella loro rete.

I quattro pilastri della coscienza di sè ma il problema è che l’Io ce li disperde. Giorgio Villa, psichiatra e psicoterapeuta, il 2 ottobre 2019 su Il Dubbio. Il sè costituisce il 98% di quello che siamo, siamo stati e forse saremo. La nostra continuità è in movimento e il cambiamento può opprimere. Pensiamo di conoscerci abbastanza bene e diciamo spesso “Io faccio questo, Io penso quest’altro”. Presi incessantemente dalla propaganda di una minuscola parte di noi: cioè l’Io. “La legge non ammette l’ignoranza ai suoi dettati” e questa massima è ben comprensibile se, ad esempio, violiamo un articolo del codice della strada e veniamo, giustamente, multati. Ma se, d’improvviso, ci vergogniamo perché siamo stati tutto un giorno in mezzo alla gente con la patta dei pantaloni aperta o con due calze di diverso colore, ciò che svela la sua fragilità, tramite il sentimento della vergogna, è il Sé non l’Io. Il Sé costituisce almeno il 98 per cento di quello che siamo, siamo stati e potremo o potremmo essere. Ha una struttura psico- fisica potente e merita di essere esplorato attraverso, almeno, quelli che definiremmo i suoi Pilastri, cioè la dimensione strutturale che lo attraversa.

Vediamo, dunque, quali possono essere i Quattro Pilastri del Sé partendo dal primo di questi: la continuità. Noi siamo qui perché il nostro cuore batte continuamente ed anche i polmoni non cessano nemmeno per un istante di fare il loro essenziale lavoro, ma anche le cellule epiteliali e quelle delle mucose continuamente si rinnovano. La sera basta passarsi un asciugamano candido e umidificato sul viso, sulle mani e sul corpo per accorgerci che questo è diventato grigio e non solo per lo smog, ma per le cellule di desquamazione che, dopo aver garantito la nostra protezione idrorepellente, pian piano se ne vanno. Sembrerà banale, ma non lo è affatto. Il movimento continuo dei pianeti e degli astri, l’alternarsi delle stagioni, il nostro ciclo di vita e infiniti altri aspetti sono caratterizzati dalla continuità in movimento così come gli orari dei treni, la disciplina e la ripetizione rituale delle preghiere. Anche nella dimensione narrativa della nostra esistenza spesso ci stupiamo delle numerose fratture che la continuità del Sé cerca di riparare talora con racconti ad hoc, oppure con storie inventate, forse perché è proprio il peso inevitabile della continuità che ci opprime.

Il secondo pilastro del Sé è costituito dalla Coesione delle parti in un tutto. Ciò vuol dire anzitutto che le parti del nostro corpo e della nostra psiche “in qualche modo” vanno d’accordo le une con le altre. Un mio paziente schizofrenico spesso indossa con un braccio una camicia e con l’altro la manica di una giacca con il bel risultato che non ci si raccapezza e il vestirsi diventa una faccenda molto laboriosa e, dall’esterno, persino buffa. Si può dire che per lui “la mano destra non sa quello che fa la sinistra”. Allo stesso modo se la memoria ha uno sviluppo mostruoso ( come in Funes o della memoria di Jorge Louis Borges) e non ha una limitazione da parte delle altre funzioni cerebrali superiori non aiuta a vivere meglio, anzi. Una personalità armoniosa probabilmente si sviluppa su un Sé che possiede un buon livello di coesione.

Il terzo pilastro è definito dalla affettività per cui noi agiamo nel mondo non per noi stessi, bensì “per qualcun altro” come se il nostro Sé avesse una dimensione intrinsecamente altruistica. È molto probabile che questa dimensione si costruisca nel piccolo bambino molto precocemente come testimoniano le sue giubilazioni quando, sin dal terzo mese di vita, accoglie l’immagine della mamma che gli si accosta. Quando un bambino non vuole mangiare l’adulto che lo imbocca spesso gli dice: “Ancora quattro cucchiai: uno per la mamma, uno per il papà, uno per la nonna e uno per il nonno” e, così, il bambino mangia “per affetto” e non per sé.

L’ultimo pilastro del Sé è costituito dalla volitività e si pone, forse, su un piano leggermente diverso dai precedenti. Voglio dire che l’essere umano è essenzialmente un Homo Faber, nel senso della volitività, cioè nella diuturna sua capacità di fare dei minimi progetti che attivino contemporaneamente tutti e quattro i pilastri del Sé. La dissociazione di questa funzione segna spesso alcuni passi essenziali dell’umorismo.

In Ma che cos’è questo amore? (1927) Achille Campanile esordisce in questo modo con il suo primo ( e fortunato) romanzo comico: “Alle 7 del mattino Carl’Alberto entrò nella stazione di Roma e un facchino lo accompagnò al treno di Napoli. “Veramente” osservò il giovane “io debbo andare a Firenze”. “Salga” disse il facchino. “Sempre prepotenze” mormorò Carl’Alberto, prendendo posto nel treno di Napoli. Naturalmente tutta la successiva e strampalata vicenda del romanzo si svolge, poi, nella città di Napoli. Consiglio al lettore di fare un piccolo esperimento, dopo aver letto questo breve articolo. Cerchi di ricordare quali siano questi quattro pilastri del sé. Molti noteranno che avranno qualche difficoltà a rammentarli tutti ed è questa l’ennesima prova che il nostro Sé non è controllabile al 100 per cento; che l’Io ci disperde e che siamo “stranieri in Patria”. Vi è un quadro di Lorenzo Lotto che mi ha sempre sconcertato e che, probabilmente, è la sua ultima opera. Si trova a Loreto dove l’anziano pittore, triste e depresso, si era ritirato presso il convento dei Frati Minori. Il quadro rappresenta la circoncisione di Gesù e vede la scena svolgersi in uno spazio singolare che è marcato da un tavolo rettangolare disposto in primo piano. Il fatto curioso è che le quattro gambe del tavolo sono gambe umane. Se superiamo la prima impressione, che è quella che Lotto fosse impazzito, possiamo immaginare che questa scena si svolga di fronte ad una rappresentazione di un Sé cosmico, di quattro “gambe” che, per funzionare, devono potersi muovere, cioè essere gambe umane, così come gambe umane sono quelle del nostro Sé psicofisico.

·         “Conosci te stesso”, mistero e alla precarietà dell’esistenza.

DAGONEWS il 18 ottobre 2019. Ti sei mai chiesto cosa dicono di te le tue foto di Instagram? Ovviamente stiamo parlando di un mondo in cui ognuno cerca di mostrare la parte migliore di sé, celando gli aspetti più brutti e che esulano dalla vita patinata che viaggia sul binario social. È l’immagine migliore di noi che vogliamo dare agli altri. La dottoressa Elena Touroni, psicologa consulente e co-fondatrice della Chelsea Psychology Clinic, a Londra, ritiene che le «foto che pubblichiamo sui social sono quelle che descrivono gli aspetti più idealistici della vita, la versione di noi stessi che riteniamo "perfetta". In questi casi, può essere usata come una strategia – una sorta di conferma dall’esterno - per aumentare l'autostima, in particolare se qualcuno sente di non essere completamente soddisfatto nella vita di tutti i giorni. Lynn Morrison, direttore della società di marketing The Marketing Chai, rivela cosa dicono di noi le foto che pubblichiamo.

Foto di paesaggi. Sei mai stato in vacanza e non vedevi l’ora di potertene vantare con gli amici al posto di goderti il momento? Lynn crede che questo potrebbe significare che stai cercando una conferma di uno status da chi ti è più vicino. «Le foto dalle vacanze sono il modo migliore per evidenziare il tuo stato sociale e il tuo conto in banca, senza risultare odioso. Quando tutti gli altri stanno sgobbando in un ufficio triste, la tua foto sulla spiaggia al tramonto è destinata a ispirare un minimo di invidia».

Selfie. Che piacciono o no non ci libereremo mai dei selfie su Instagram. «Nessuno pubblica un brutto selfie. Per farlo ci sono 30 minuti di preparazione al trucco, 15 pose con la bocca a culo di gallina e sguardo intelligente. Sono le foto che, secondo noi, mostrano il lato migliore. Anche se dopo i filtri e le modifiche a stento ci riconosceranno. È un modo per dire sono intelligente, eccentrica e vivo la mia vita nel modo migliore. Inoltre, il mio trucco sembra essere perfetto».

Una foto di uno nostri successo. Quando pubblichiamo foto vantandoci di aver corso una maratona o di aver partecipato a un evento vip per gli esperti c’è solo la ricerca di un premio per aver ottenuto un qualcosa. E in questo caso si parla di like. «Per impostazione predefinita, quando pubblichiamo sui social media, stiamo cercando un'affermazione per qualcosa che stiamo facendo. Come spettatori ci piacciono perché sappiamo che duro lavoro ci è voluto per arrivarci».

Immagini in azione. Sia che siate sciando o che stiate girando un film d’azione, chi mostra queste foto vuol dimostrare di sapere “giocare duro”. In ogni caso che si tratti di un selfie, di una foto in o solo di una foto del cane, entro certi limiti, queste foto sono normali e sane. «Diventano negative solo quando l’autostima ci si impiglia e serve una conferma esterna per sentirci bene con noi stessi». Insomma c’è vita oltre i like.

 “Conosci te stesso”, la sfida dell’essere umano davanti al mistero e alla precarietà dell’esistenza. Giorgio Villa, Psichiatra e Antropologo, l'11 Settembre 2019 su Il Dubbio. Le varie possibilità attraverso cui l’individuo può raggiungere I suoi obiettivi interiori: dall’essere fedele alla propria indole al suo capovolgimento. L’incertezza di fronte al mistero della morte e la percezione della propria fragilità hanno da sempre spinto l’uomo a interrogarsi sul senso della esistenza e, nella antichità, a rivolgersi ai santuari nei quali oracoli e sacerdoti potessero, almeno parzialmente, dare sollievo al senso precario della esistenza. Il famoso tempo di Apollo a Delo recava, scolpito sull’architrave al suo ingresso, il motto Gnòzi seautòn ( conosci te stesso!). Elio Aristide, famoso retore del secondo secolo dopo Cristo, nativo della Misia, in Asia minore, esemplifica l’incessante ricerca della salute fisica e mentale nei suoi Discorsi Sacri (Ieròi Lògoi) attraverso infinite peregrinazioni alle quali era indotto, a ben vedere, da una invincibile ipocondria dalla quale fu assediato per tutta la sua vita.

Ma cosa significa, più propriamente “conosci te stesso”? Questa esortazione sembra essere in sintonia con la parabola evangelica sui talenti, nel senso che in prima istanza possa essere letta come l’esortazione: Diventa quello che sei! Con una certa cautela possiamo dire che dobbiamo innaffiare i semi delle nostre dotazioni naturali al fine di potenziarle. Tanti anni fa, quando ero al primo anno della specializzazione in psichiatria, mi accordai con Temistocle, un collega/ amico per ripetere insieme prima degli esami. Costui, in un calda domenica di luglio, mi chiese a bruciapelo: «Come pensi che si possa fare per diventare primario il prima possibile?». Scoppiai a ridere e risposi: «Certo, amico mio, che ti vengono in mente delle idee veramente buffe. Non sappiamo ancora neppure lontanamente cosa voglia dire fare lo psichiatra e pensi già a comandare». Temistocle mi guardò un po’ storto, forse pentito per il fatto di avermi palesato un suo desiderio profondo. Da quel momento la nostra frequentazione si fece sempre più rarefatta anche se fui invitato al suo matrimonio e, nel tempo, i nostri incontri divennero molto formali con un’ombra di imbarazzo da parte di entrambi.

È probabile che in quella domenica Temistocle avesse voluto condensare in una battuta non solo l’espressione di un suo desiderio, ma anche la base di un progetto comune (“aiutiamoci a fare carriera”) e un patto di non conflittualità reciproca nella comune ricerca del potere. La mia ambizione era, al contrario, tutta su un altro piano: cercare di diventare un bravo psichiatra ( almeno nei limiti delle mie possibilità). Mentre io mi barcamenavo in sostituzioni di colleghi in tutta Roma e in attività che spaziavano dalla guardia medica ai servizi per tossicodipendenti, Temistocle raggiungeva i suoi obiettivi utilizzando tutti i mezzi a sua disposizione, ad esempio cambiando spesso partito politico a seconda dei maggiori successi elettorali o delle “mode” dei tempi. Passò, così, da Rifondazione Comunista a Forza Italia fino a diventare, come desiderava, primario e, poi, perfino direttore di dipartimento. A un livello più basilare si potrebbe dire che il motto “Diventa quello che sei” ha a che fare col riconoscimento di alcune doti naturali che, in certi casi, sono palesi. Ad esempio chi possiede l’orecchio assoluto ( cioè la capacità di distinguere nettamente le note musicali di un brano che sta ascoltando) può accedere ad una professione che ha a che fare con la musica. Sicuramente Bach, Mozart e Beethoven ne erano in possesso, ma anche Jimi Hendrix e Michael Jackson. Una predisposizione alla empatia e ad immedesimarsi nelle sofferenze altrui può essere alla base della scelta professionale di un medico o di uno psicoterapeuta. Nelle mie ricerche in Nepal sulle pratiche estatiche e sugli sciamani di quella stupenda zona geografica ho discusso più volte con il direttore della ricerca, Romano Mastromattei, sulle caratteristiche personologiche dei numerosi operatori estatici da noi incontrati. Pur tra notevoli diversità sembrava che il carattere comune fosse costituito dal superamento di una “malattia iniziatica” che avesse svelato una basilare vocazione filantropica.

La seconda accezione del “conosci te stesso” è anch’essa facilmente intuitiva. Si tratta di seguire il motto: “Diventa quello che non sei”. Seguendo, ad esempio, il temperamento di una persona possiamo osservare come chi sia, in origine, trascurato e pigro possa applicarsi a diventare attivo e attento al suo decoro personale liberandosi, talora, dai condizionamenti del proprio ambiente natale. Beppe, mio fratello maggiore, durante gli studi liceali ebbe a cuore più il gruppo dei suoi amici e le attività sportive piuttosto che gli studi anche se era dotato di una intelligenza viva e facile all’apprendimento; forse anche per questo, come diceva nostra madre, “si cullava troppo sugli allori”. Con l’inizio degli studi di medicina costruì una personalità ferrea basata sulla dedizione e la tenacia che sembrava non aver fino ad allora destinato allo studio. Si laureò, quindi, col massimo dei voti alla prima sessione del sesto anno di Medicina e fino alla pensione fu sempre il primo a prendere servizio all’ospedale e, spesso, l’ultimo ad andarsene dopo il suo turno.

Le vicende della vita possono, poi, portare alcune persone a sviluppare doti di consapevolezza e compassione che, da giovani, sembravano in loro del tutto assenti. Le conversioni rientrano in questa categoria. Nei Promessi Sposi il Manzoni descrive in pagine mirabili il tormentoso processo che porta l’Innominato alla conversione. Si può dire che, in questo caso, il “diventa quello che non sei” sia il prodotto di un radicale processo nel corso del quale la vergogna assale la persona portando ad un vero e proprio collasso della precedente struttura. Il processo è così terribile da indurre, in taluni casi, al suicidio. La terza declinazione del “conosci te stesso” potrebbe compendiarsi nel “non diventare quello che sei”. Ciò potrebbe essere esemplificato per tutte le persone che avvertono dentro di sé un potente impulso violento e predatorio, perfino omicida. Sono le persone caratterizzate dalla presenza di molti elementi presenti nella cosiddetta Costellazione di Morte ( 1. Predominio dell’odio sull’amore, 2. Invidia primaria molto violenta, 3. Mancanza di una madre sufficientemente buona, 4. Mancanza di figure buone nei primi mesi di vita. 5. Violenze subite nella infanzia, 6. Malattie dolorose e di lunga durata. 7. Avere assistito nella infanzia a uccisioni o a episodi di crudeltà. 8. Legame con la Costellazione di Morte e la sessualità pervertito dalla vita alla morte. 9. Struttura e organizzazione narcisistica della personalità, 10. Arroganza, 11. Sottomissione a un leader sadico e omicida, 12. Incapacità di trattenere dentro di sé l’immagine di persona che contiene.) La presa di coscienza, naturalmente dolorosa, di tutto ciò può portare queste persone a riversare questa energia distruttiva nell’arte oppure in una attività socialmente utile come ad esempio – faccio per dire – il chirurgo, l’anatomopatologo o il giudice penale.

Nella mia limitata esperienza di perito presso il Tribunale di Roma ho dovuto prestare la mia opera nel caso di alcuni omicidi e ho riscontrato in me una profonda avversione nello scorrere questi tremendi fascicoli che con il loro linguaggio burocratico descrivevano orrendi crimini impietosamente documentati da crude fotografie e dialoghi surreali.

Infine “Non diventare quello che non sei” si rinviene nella seconda metà della vita di molte persone che hanno disperatamente raggiunto a prezzo di grandi sacrifici una posizione sociale ben diversa da quella delle loro origini. Ad esempio nei Buddembrock Thomas Mann rappresenta la parabola della borghesia di Lubecca che si faceva costruire nelle proprie ricche case una galleria di “antenati” fittizi, ma dipinti da pittori che traevano spunto dalle fisionomie dei loro committenti. Gli artisti, poi, provvedevano perfino ad “anticare” questi quadri. In tal modo il declino della borghesia si sovrappone all’antico declino della nobiltà che l’ha preceduta.

È noto che i borghesi di Lubecca intentarono un processo a Thomas Mann dal momento che si scoprirono impietosamente descritti nel suo capolavoro. Per la cronaca il giudice assolse lo scrittore sancendo l’autonomia dell’opera d’arte. Quanti uomini politici, dirigenti, capitani di industria, direttori, primari abbiamo conosciuto che, forse, sarebbero stati più opportunamente per loro e per i loro sottoposti dei “semplici” quadri di partito, capi ufficio, medici di reparto, artigiani o anche amministratori di condominio o contadini? Perché leggiamo racconti come questo? Forse perché siamo assetati di un senso più profondo che utilizzi, per esprimersi, parole semplici, ma dirette al cuore dei problemi che ci assillano. Ad esempio nella psicoterapia la relazione emotiva intersoggettiva consente spesso di riparare i traumi relazionali passati e i legami di attaccamento spezzati. È un po’ come se il processo comportasse la creazione di nuove connessioni neurali; almeno credo che per me come paziente sia accaduto proprio questo.

·         Non sappiamo chiedere scusa.

«Da Fonzie ai nostri figli, ecco perché non sappiamo più chiedere scusa». Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 da Leonardo Caffo su Corriere.it. L’attore Henry Winkler nei panni di Arthur Fonzarelli nella serie tv Happy Days«Scusa», quasi una formula magica. Fa invece parte di quelle entità che in filosofia si chiamano “atti linguistici” e con cui, per citare il titolo del famoso libro di John Langshaw Austin, possiamo fare cose con le parole (il libro s’intitola proprio Come fare cose con le parole, Marietti). Forse è più che una formula magica, dunque, perché funziona davvero. Secondo Austin, il nostro linguaggio non ha la sola funzione di farci dire delle cose, ma anche quella di costituire azioni che hanno degli effetti. Questi atti linguistici - di cui forse «scusa» è il più poetico ed elegante - oggi, all’epoca delle relazioni scritte e mediate dai social, iniziano a scarseggiare: quanto è difficile fare qualcosa di sbagliato e chiedere, semplicemente, «scusami»? Non è retorica, è sociologia della comunicazione: se la comunicazione si trasferisce sempre più in un medium, e questo medium ci impone delle griglie reattive che possono far oscillare le nostre emozioni da un “mi piace” a un “blocca il contatto”, altre reazioni non previste piano piano, semplicemente, scompaiono. Alle scuse, per esempio, che spesso scaturiscono da una vergogna per un’azione o pensiero offensivo si è oggi sostituita la possibilità di cancellare o rimuovere ciò che si è fatto: una mutazione, per così dire, assai più antropologica che tecnologica. Chiedere scusa implica aver accettato, e dunque anche accertato, un errore il cui unico rimedio, se possibile, è dato appunto dall’assunzione di colpa e dalla comprensione degli effetti; cancellare o rimuovere, invece, significa tentare di non somatizzare o comprendere un accaduto. Winfried G. Sebald, nel suo meraviglioso Storia naturale della distruzione (Adelphi, 1999), discute di come, per moltissimi anni, vi sia stato in Germania un argomento tabù per eccellenza, ovvero la distruzione, durante la Seconda guerra mondiale, subìta dai tedeschi a causa dei bombardamenti degli Alleati: colpevoli della Shoah, i tedeschi non potevano discutere della violenza che hanno ricevuto in risposta. Ma rimuovere, secondo Sebald, non ha niente a che fare con l’affrontare né le colpe né le punizioni che a queste colpe seguono: rimuovere significa, entro un meccanismo tipicamente freudiano, lasciare in ebollizione una pentola che prima o poi rischierà di saltare per aria. «Scusami» sembra essere una parola con una semantica chiara (se non mentiamo) che esprime una proposizione che funziona pressoché così: «Ho fatto o detto una cosa X che riconosco essere sbagliata e ti chiedo di provare ad andare avanti tenendo conto che so che questa cosa è sbagliata e cercherò di non rifarla». Crea un’azione, perché dovrebbe produrre futuro a ciò che poteva spezzarsi, ma crea anche un riparo: un rifugio che faccia pensare a chi ha subìto il torto che la regola ordinaria funziona proprio perché quella che è stata un’anomalia viene riconosciuta come tale. Non rimossa, ma appunto ri-conosciuta: la si riporta a galla, conoscendola ancora una volta, fino a che ogni pezzo dell’ingranaggio relazionale tra due o più entità possa essere risaldato di nuovo. Se è vero che inizialmente i social network riproducevano in modo stereotipato e per comodità algoritmiche le reazioni base dell’Homo Sapiens, oggi, al contrario, è l’Homo Sapiens a mimare sempre più relazionalmente la gabbia algoritmica del social: le cose o piacciono o si ignorano, perché lo spazio per il dissenso è ridotto a turpiloquio, e ciò che si è fatto o detto sbagliando genera cancellazioni, rimozioni, blocchi. Cosa succederebbe se Facebook introducesse la funzione “clicca su scusa” nelle sue procedure? Cosa cambierebbe se una possibilità come il chiedere scusa diventasse una norma al pari del “mi piace” entro uno scambio di discussione e commenti? «Scusa» scompare dai vocabolari della pragmatica, ancor prima che da quelli della semantica, soprattutto perché oggi l’Homo Sapiens della società multi-mediatica è soprattutto lo specchio di ciò che è previsto egli faccia e non di ciò che si può o si sente di fare. «Scusa» svanisce dal dizionario politico, dove non erra mai nessuno, da quello relazionale e amoroso, dove al massimo si “sbaglia in due” (un modo atroce per non assumersi responsabilità), ma anche da quello personale: dove nessuno chiede più scusa a sé stesso per come ha abusato, consumato, o appunto eliminato qualcosa di importante per la fretta di stare al passo con la griglia sociale che è stata scelta per noi. Fare cose con le parole implica capire che parlare non significa descrivere ciò che si sta facendo, ma farlo effettivamente: «scusa» non designa un oggetto ma racconta una volontà di potenza. Ma perché le parole possano funzionare come azioni, ci racconta Austin in quel libro da cui siamo partiti, è necessario che le scuse vengano pronunciate e accolte nelle circostanze opportune: il campo di senso è importante. Serve dunque un campo di senso per ricominciare a chiedersi scusa e per ritornare a capire il valore di una scusa. Il contesto è quello della fragilità: non c’è nessun fascino in chi non sbaglia mai, perché non lo ammette; il fascino è diverso dalla bellezza proprio perché implica l’errore e l’imperfezione. Le scuse, del resto, stanno alla grammatica delle emozioni umane come il restauro alla sintassi dell’arte: non si nasconde un danno o un’erosione del tempo da un capolavoro ma lo si sistema, lo si riporta alla luce. Riparare la vita Come un quadro, così l’umanità: e il contesto? La cornice, per continuare con la metafora? Le possibilità delle scuse stanno nella possibilità di sbagliare, cose che sono in un campo semantico che è quello del perdono, ovvero il dono all’ennesima potenza. All’interno della Pinacoteca di Brera, nel centro di Milano, è presente una stanza trasparente concepita da Ettore Sottsass in cui il lavoro dei restauratori sulle opere è visibile ai visitatori del museo anche durante il processo: così ci abituiamo all’errore e all’usura, ma anche all’eroe che il quadro ripara. Immagino una stanza in cui possiamo osservare cosa succede ai volti e ai corpi delle persone che si chiedono scusa: come a una parola può seguire un abbraccio, come possiamo riavere un sorriso dopo che una colpa è stata assunta e compresa. Anche la vita, come ogni opera d’arte, deve essere riparata: solo nello spazio immaginario della vita digitale possiamo rimuovere ciò su cui non sappiamo chiedere perdono. Ma l’immaginario crolla, e il corpo trema: è il tempo di imparare a dirsi «scusa».

·         Siami senza amici.

La confessione del manager inglese: "Non ho amici". Mark Gaisford, amministratore delegato di un'azienda londinese, ha postato un video su Linkedin in cui ammette di non avere amici. Il suo sfogo diventa virale. Francesca Bernasconi, Venerdì 20/12/2019, su Il Giornale. "Nessuno vorrebbe ammetterlo, ma non ho amici". La confessione choc arriva dalla Gran Bretagna, dove vive Mark Gaisford, l'amministratore delegato di un'azienda di Londra. A fine novembre, il 52enne aveva condiviso un video su Linkedin, in cui confessava di sentire la mancanza di amici, con cui condividere parte del suo tempo. "A 52 anni sono fortunato ad avere molti colleghi- ha spiegato nel filmato- ma con loro non faccio le cose che gli amici fanno tra loro". Mark, infatti, racconta di trovarsi bene coi colleghi di lavoro, con cui condivide la propria vita ma, ammette, "non usciamo a cena e non faccio lunghe passeggiate in loro compagnia. Non faccio cose con loro come fanno gli amici". "Questo video è stato il più difficile da fare finora", ha ammesso Mark nel commento che accompagna le immagini condivise su Linkedin. "C'è ancora uno stigma legato agli uomini che condividono i loro sentimenti- spiega- Ma dobbiamo imparare ad essere vulnerabili, ammettere come ci sentiamo e capire che non è una debolezza. Sto bene anche senza avere amici, dando il mio cuore e la mia anima nel mio business e lo adoro. Ma sono sicuro di non essere l'unico a dire che mi piacerebbe incontrare nuove persone al di fuori del lavoro". Poi, il manager allarga il tema allontanandosi da sé stesso e spiega: "Come il 18% degli uomini nel Regno Unito, non ho amici". Secondo uno studio, infatti, sono numerosi, gli uomini che dichiarano di non avere un migliore amico, un amico intimo o anche semplicemente un amico. Così, Mark decide di provare a incontrare una persona e, successivamente spiega, sempre su Linkedin: "Lo faremo di nuovo la settimana dopo la prossima settimana! Devo ammettere che la pubblicazione di quel video è stata dura, ma sono così felice di averlo fatto. Ho trovato un amico". Intervistato da Repubblica, il Ceo inglese ha voluto precisare di non sentirsi affatto solo: "Sono felicemente sposato, ho due figli, dirigo un’azienda di successo. Sento tuttavia la mancanza di amici maschi con cui andare al pub o allo stadio", ha spiegato. Ma, "attenzione, io non soffro di solitudine".

Valerio Berra per open.online il 18 dicembre 2019. «Non ho amici». Lo ha detto Mark Gaisford, un uomo di 52 anni che ha pubblicato un video su Linkedin visto nell’ultimo mese da circa un milione di utenti. Ma lo hanno detto anche migliaia di altri utenti, nei commenti e nei messaggi privati. Gaisford vive nel Regno Unito, si occupa di marketing creativo e ha raccontato una situazione che, a quanto si vede dall’accoglienza del video, è comune a molti. «È qualcosa di difficile da ammettere soprattutto qui su Linkedin. Ma è vero». Gaisford spiega che ha colleghi di lavoro, persone con cui condividere la sua vita, ma non amicizie vere. Non qualcuno con cui fare una gita in campagna e nemmeno una cena. E alla fine del video decide di incontrare qualche persona nuova attraverso la piattaforma Meet Up, come consigliato da sua moglie. Non è la prima volta che Mark racconta la sua vita attraverso un video. Ha un canale YouTube molto prolifico, ma poco visualizzato, attivo dal 2016. Secondo le informazioni fornite dalla piattaforma di Google, in oltre due anni di attività i suoi video hanno totalizzato in tutto meno di 30mila views. Anche se questo suo ultimo video ha generato parecchie interazioni, dal suo profilo premium di Linkedin ha condiviso spesso altri video diventati virali, da quelli sul suo deficit di attenzione ai consigli per creare delle campagne di advertising. Anche lo stesso video sulla mancanza di amici rispetta tutte le regole per creare un video online. Non è un semplice sfogo ma un contenuto costruito con grafiche, sottotitoli e arricchito da dati. Nella sua clip Mark cita infatti i risultati di un sondaggio secondo cui il 18% degli uomini dichiara di non avere amici stretti. E poi un altro articolo di The Times sullo stesso tema. Forse però il dato da notare di più è che mentre su YouTube il video è stato visto da circa 6mila persone, su Linkedin ha superato abbondantemente il milione. E mentre la piattaforma di Google ha una vocazione più generalista, Linkedin è molto più orientato al mondo del lavoro. Insomma, virale sì. Sincero forse. Spontaneo un po’ meno.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 180 dicembre 2019. Ci vorrebbe Dickens per scrivere un Controcanto di Natale sul nuovo Scrooge: Mark Gaisford, il manager inglese di cinquant' anni che ha ammesso in un video di non avere neanche un amico. È solo, ma a giudicare dalla risonanza planetaria del suo appello, non dev'essere l'unico. Rispetto al bisbetico protagonista del racconto, Gaisford possiede una scorta considerevole di autoironia - altrimenti non avrebbe postato la sconsolante ammissione proprio sui social - e una altrettanto cospicua di coraggio. Nell' epoca in cui tutti gli aspetti privati dell' esistenza, comprese le malattie, sono oggetto di confessioni pubbliche, la solitudine era rimasta l' ultimo tabù che finora nessuno aveva avuto la forza di violare. Il nuovo Scrooge non ha detto nulla di straordinario. Ha soltanto raccontato, attraverso la sua, l' esperienza di coloro che, pur vivendo in un ambiente di lavoro affollato e talvolta persino piacevole, si ritrovano senza nessuno con cui parlare «di cose serie», come le chiama lui, cioè della vita vera. Quella che scorre fuori dall' ufficio e oltre le maschere che ciascuno indossa davanti agli altri. Il fatto che nessun adulto di successo avesse ancora avuto la temerarietà di denunciare la propria condizione esistenziale sembra suggerire che la mancanza di amici viene considerata una colpa. Un sintomo di fallimento da nascondere dietro una raffica di frequentazioni superficiali.

·         I Mozart.

Sandro Cappelletto per “la Stampa” il 13 dicembre 2019. Si fermeranno mai, questi Mozart? Sono appena tornati da un viaggio lunghissimo - Austria, Germania, Belgio, Olanda, Inghilterra, Svizzera, Francia - e già parlano di ripartire. Voci insistenti dicono che andranno in Scandinavia, in Russia, perfino in Cina». Padre Beda Hübner, giovane bibliotecario dell' Abbazia di San Pietro a Salisburgo, è sgomento. In città non si è mai visto qualcosa di simile: Leopold Mozart, un violinista stimato, che porta in giro in Europa per tre anni la moglie e i due figli, la più grande Anna Maria detta Nannerl e il fratellino Wolfgang. Padre Beda esagera solo con la Cina, perché in Scandinavia e in Russia i Mozart erano stati davvero invitati, e dimentica di aggiungere che il punto d' arrivo di tutto quel peregrinare sarà l'Italia. Leopold ne parla da anni e finalmente la decisione è presa: il 13 dicembre 1769, 250 anni fa, padre e figlio, che deve ancora compiere 14 anni, montano in carrozza, lasciano Salisburgo e iniziano il primo dei tre viaggi italiani. Resteranno nel nostro paese due anni, percorrendo 3300 km e cambiando 200 volte cavalli ai cambi di posta. Entrando dal passo del Brennero, attraverseranno la Repubblica di Venezia, il Ducato di Milano, il Regno di Sardegna, il Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, il Granducato di Toscana, lo Stato della Chiesa, il Regno di Napoli. L'Italia di allora, come ha scritto lo storico Stuart Woolf, era un «pezzo sulla scacchiera della diplomazia europea; ma a quel pezzo non fu mai attribuito maggior valore di una pedina». Eppure, la sua attrattiva verso gli artisti rimaneva irresistibile. Tutte le testimonianze concordano: se la fama di Wolfgang era già grande in Europa, è in Italia che avrebbe preso la laurea. La prenderà infatti, superando l' esame di ammissione all' Accademia Filarmonica di Bologna. Leopold punta talmente sul viaggio che si è messo in aspettativa dall' incarico nell' orchestra di corte di Salisburgo. Sarà il figlio a dargli le soddisfazioni che non è riuscito ad avere? Da Bressanone a Verona, da Milano a Bologna, poi Firenze, Roma, Napoli e risalendo, Torino e Venezia. Ricevimenti, riconoscimenti, concerti, guadagni, fatica, malattie, l' incontro a Roma con il Papa, che lo nomina Cavaliere dello Speron d' oro, lui così piccino che per arrivare a baciare il piede della statua di San Pietrova preso in braccio. Wolfgang mai si lamenta, mai rimpiange l' assenza così lunga dall' abbraccio di sua madre e dai giochi con la sorella, sempre pronto ad ubbidire ai progetti del padre. Oggi Leopold verrebbe interrogato da un giudice del Tribunale dei Minori, che gli chiederebbe: ma è tuo figlio che lavorando mantiene tutta la famiglia? Sì, lui. Il primo viaggio durerà fino al 28 marzo 1771, il secondo dal 13 agosto al 15 dicembre 1771, il terzo dal 24 ottobre 1772 al 13 marzo 1773. Per Milano, Wolfgang - che inquel periodo ama firmarsi Amadeo in Italia De Mozartini - scriverà tre opere: Mitridate, re di Ponto, Ascanio in Alba e Lucio Silla. Tre opere in tre anni: un tale investimento di fiducia verso un adolescente rimane episodio eccezionale. E ancora: sette quartetti per archi, tra cui il meraviglioso Adagio del Quartetto K 156, alcune sinfonie e arie da concerto, musica sacra e il mottetto Exsultate, jubilate, vertiginoso di fascino vocale.

Roma lo incanta: «Ho visto tante cose belle che se dovessi scriverle tutte non mi basterebbe questo foglio»; a Napoli visita il Vesuvio, Pompei, Ercolano, e si fa cucire un abito in amoerro marezzato: una stoffa di seta cangiante; a Venezia si mette in maschera e giocando con delle coetanee scopre la sessualità. Quando si tornerà a Salisburgo , scrive il padre alla moglie, dovrà dormire in una stanza tutta per lui. La lunga metamorfosi da bambino prodigio ad artista consapevole conosce una decisiva progressione. Frequenta i migliori compositori, violinisti e cantanti, conosce Giuseppe Parini e gli ambienti illuministi, impara la nostra lingua e sarà questa confidenza con l' italiano a permettergli di far esplodere di senso i libretti che per lui scrive Lorenzo Da Ponte. Impressiona la nettezza, già da ragazzo, dei giudizi: il canto degli evirati cantori gli è venuto a noia quanto l' opera barocca, che contribuirà a mandare in soffitta. In Italia sarebbe rimasto forse per sempre, se l' imperatrice Maria Teresa d' Austria non avesse inviato da Vienna, in un ruvido francese, un dispaccio al figlio Ferdinando, arciduca a Milano: stai attento a mettere al tuo servizio queste persone inutili che girano il mondo comme des gueux, come dei mendicanti. Wolfgang trattato da pezzente solo perché era alla ricerca di un lavoro fisso.

Vergogna all'Imperatrice. Poco tempo prima, il compositore Johann Adolph Hasse si era lanciato nella più esatta delle profezie: «Questo ragazzo ci farà dimenticare tutti».

·         Staino.

Marina Corradi per “Avvenire” il 17 dicembre 2019. «Se quel giorno del processo a Gerusalemme in piazza c' erano loro, io rimanevo vivo», dice a Pietro il Jesus di Sergio Staino, sul Corriere dell' 8 dicembre scorso. Dove «loro », sono le Sardine. Il Jesus di Staino è sempre dentro l' attualità. Sempre paragonato con l' oggi. Disegnatore e regista, classe 1940, in gioventù marxista-leninista, poi storico collaboratore di Linus, l' Espresso e l' Unità e del giornale fondato da Antonio Gramsci infine direttore, Staino per un anno ha collaborato anche con Avvenire: con «Hello Jesus», amato da moltissimi lettori e da altri contestato. Ora torna con queste strisce in libreria: Hello Jesus, Giunti, 40 vignette da Avvenire e 100 inedite. È molto amaro, da anni, Sergio Staino, quando si parla di politica. Spesso si infuria, e decide di restituire la tessera del Pd. Poi, ci ripensa. Eppure in questo pomeriggio di dicembre pare attraversato da un soffio di speranza. È entusiasta, il padre di Bobo - il robusto militante comunista che nelle sue vignette da decenni sta a osservare i cambiamenti del Partito - dell' embrionale principio che va riempiendo le piazze italiane. «Quella delle Sardine - dice - mi pare un' idea bellissima, un' alternativa concreta, nel suo richiamo a dialogare, ad ascoltare l' altro con attenzione. Mi meraviglia, il sorriso di Mattia Santori. Questa proposta è esattamente l' opposto a 180 gradi del "vaffa" di Beppe Grillo. Il "vaffa", era già in sé la fine del dialogo».

Staino, come sta il suo Jesus in questo 2019 che secondo qualcuno sarebbe stato «un anno meraviglioso», e che invece non pare esserlo tanto?

«Quando ho cominciato a disegnare Jesus, un' estate al mare, dieci anni fa, Grillo muoveva politicamente i suoi primi passi. Avvertendo cosa andava preparandosi, il senso di quelle mie strisce era un invito al dialogo, ad ascoltarsi fra parti lontane. Questo nuovo movimento che si affaccia sulla scena lo sento affine al mio Jesus, e sono contento».

Sarà anche contento che il M5S si sia parecchio sgonfiato.

«Certo. Ma chi ci ha portato nella prospettiva di Salvini premier al prossimo governo, è il M5s. Sono stati loro a generare il rancore popolare e gli egoismi che ora alimentano il consenso alla Lega. E rimango allibito da vecchi amici e compagni che buttano a mare i valori di una vita, penso per esempio alla riforma della prescrizione, per tenere in piedi un' alleanza di governo sbilenca... Eppure questo allargarsi nelle piazze di facce nuove mi pare un giro di boa. Sono stato l' altra sera a Carpi, a presentare il libro. Nel mio pubblico - gente di sinistra, cattolici, democratici - mi è sembrato di cogliere un' atmosfera rinfrancata, quasi allegra, rispetto a poche settimane fa. Come se si avvertisse la possibilità della fine di un rancore e di una rabbia dilaganti. Non si deve mai cadere nella trappola dell' odio: non è mai da un "vaffa", che si parte per cambiare il mondo».

In una striscia del libro un apostolo dice allarmato a Jesus: «La paura snatura e genera cattiveria»...

«Vedo la paura e l' odio contro gli immigrati, come in questi mesi si sono alzati. (E apprezzo sempre di più Avvenire, l' attenzione che avete ai poveri e ai diseredati, e quella prima pagina in cui è evidente che il mondo è ben più grande del- le nostre beghe romane). Anche la sinistra, quando era al Governo, non ha fatto abbastanza: non è sufficiente spedire i nuovi arrivati dal Prefetto, trovargli un tetto. Occorre insegnare loro l' italiano, mandarli nelle scuole a raccontare ai ragazzi da dove vengono, la loro sofferta storia. Perché questa paura e inizio di razzismo per me, in Italia, sono solo una crosta. Non siamo affatto nella società dell' indifferenza totale. Ci sono modi per superare l' ostilità e la diffidenza. Nelle strisce per Avvenire parlavo molto di immigrati, ricordavo che la stessa famiglia di Gesù era stata senza un tetto, e perseguitata. Paradossale: nell' Italia che allestisce milioni di presepi, questa memoria viene da alcuni, e anche credenti, come cancellata».

Nelle prime pagine c' è una vignetta in cui Jesus dice a Che Guevara: «Ti invidio, vorrei tanto che rappresentassero anche me ben vivo, sorridente e con il sigaro in bocca...». È questo il suo Gesù, soltanto uomo, ma profondamente uomo?

«Come sa io sono ateo, non riesco ad avere fede, a credere in un aldilà. Sì, il mio Gesù è dunque solo un uomo, ma un uomo straordinario. Nelle scuole, quando vado a parlare, lo ripeto sempre: «Ragazzi, non mi dovete toccare Gesù».

Eppure lei è tuttora il presidente onorario dell' Uaar, la battagliera Unione atei agnostici razionalisti italiani. Non è anche questo ateismo predicato con passione una forma di fede, di fede nel nulla?

«Può esserci questo rischio. La sola ragione per cui ho personalmente aderito all' Uaar, su invito di Margherita Hack, è l' intenzione di mantenere la laicità dello Stato. Non certo il partecipare a forme di un proselitismo ateo. D' altronde il mio lavoro è la satira, e la satira cos' è, se non andare seminando dubbi in chi ti legge, contro le certezze intoccabili di ogni fondamentalismo?»

Un Gesù solo uomo, il suo. Che però nel Vangelo dice di sé: «Io sono la Verità»...

(Staino: «Ma lo dice in modo astratto...») e afferma di essere il Figlio di Dio (Staino sorride: «Lo ripeto sempre, se solo non avesse avuto questa piccola mania... »). 

Insomma, per lei tutto in Cristo è buono e condivisibile, eccetto ciò che noi credenti chiamiamo Mistero: l' Incarnazione, la Resurrezione. L' essere stato concepito, nel ventre di una donna, da Dio, l'essere risorto dalla morte. Su tutto lei conviene e tratta, ma non accetta di discutere il Mistero, l' origine e la natura divina di Gesù.

«È vero, sul Mistero non tratto. Sono stato educato nella fiducia nella scienza e nella ricerca, e credo che ogni cosa sia accessibile e spiegabile per la mente dell' uomo. Adesso, certo, non sappiamo ancora quasi nulla, ma un giorno l' uomo avrà decrittato l' Universo».

Anche se così fosse l' urgenza maggiore dell' uomo, mi pare, non è decrittare l' Universo, ma fare fronte alla sofferenza, al male e al dolore. A cosa giova tutto il sapere della scienza di fronte allo strazio di chi perde un figlio?

«Su questo sono d'accordo: chi non crede si trova assolutamente solo con il suo dolore. Davanti alla perdita di chi ci è molto caro verrebbe naturale di aggrapparsi alla speranza di un' altra vita. Ma io, non ci riesco. Non ho fede».

Non l' ha, o non la vuole avere? Se potesse premere un bottone e ritrovarsi a credere che Cristo era il figlio di Dio, premerebbe quel bottone?

Riflette un attimo. Poi: «No. Non sarei più libero. Non sarei più io».

Eppure Staino, toscano verace e irridente, ex sessantottino, "compagno" di lungo corso, da dieci anni continua a proiettare nel presente il "suo" Jesus. A domandarsi: cosa farebbe lui, cosa direbbe lui, adesso? Come in un ininterrotto, quotidiano dialogo con un amico.

·         Il Doping delle autocitazioni.

I professori si citano da soli. Cosi si gonfia la ricerca professori. Il «doping» delle citazioni, Il miracolo italiano dei ricercatori. Così l’autopromozione falsa i parametri. Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Gian Antonio Stella su Corriere.it. «Come ho scritto io, scritto io, scritto io, scritto io...» L’eccesso di vanità rischia di creare qualche problema alla comunità scientifica italiana. Un monitoraggio di tre studiosi intitolato «Citarsi addosso» mostra come buona parte della prodigiosa impennata tricolore nelle citazioni sulle riviste scientifiche mondiali sia dovuta a una crescita esponenziale delle auto-citazioni. Lo studio Citation gaming induced by bibliometric evaluation: a country-level comparative analysiss, pubblicato dalla rivista scientifica «Plos One» della Public Library of Science di San Francisco e firmato da Alberto Baccini, Eugenio Petrovich e Giuseppe De Nicolao, i primi due dell’Università di Siena, il terzo di quella di Pavia, è micidiale. E accusa il sistema della ricerca italiano, ridisegnato dalla riforma Gelmini del 2010, di esser infettato da un vizietto sempre più diffuso. In pratica ammassare nel curriculum più citazioni possibili «per superare le cosiddette “soglie bibliometriche”» e guadagnarsi l’Abilitazione Scientifica Nazionale indispensabile per il reclutamento e la promozione, ha dato vita a un fenomeno abnorme.

«A dispetto dei pesanti tagli ai finanziamenti e al personale», dice lo studio dei tre docenti, «la ricerca italiana ha compiuto una specie di miracolo: il suo impatto, misurato in termini di citazioni e produttività, non solo non è diminuito, ma è addirittura aumentato. Nel 2012, in termini d’impatto citazionale pesato (field-weighted citation impact), non solo le pubblicazioni italiane hanno superato quelle statunitensi ma l’Italia è salita al secondo posto nella classifica dei Paesi G8, appena dietro al Regno Unito. Di questo passo, secondo uno studio commissionato dal governo britannico l’Italia finirà per scalzare la Gran Bretagna dal primo posto. Anche Nature, in un recente editoriale, ha riconosciuto il continuo miglioramento della performance italiana, nonostante il basso livello di spesa pubblica in ricerca e sviluppo, ampiamente al di sotto della media europea».L’ultimo Annuario Scienza Tecnologia e Società di Observa curato da Giuseppe Pellegrini e Barbara Saracino conferma: nel panorama mondiale per gli investimenti in ricerca e sviluppo in percentuale sul Pil, il nostro paese arranca. La classifica, influenzata anche dal peso del comparto militare, vede in testa Israele col 4,3% e noi al 27° posto con l’1,3%, quota quasi dimezzata rispetto quella media dell’Ocse (2,3%) e nettamente più bassa di quella dell’Unione europea pari al 1,9%. Numeri che si rispecchiano nella percentuale di ricercatori nel settore R&S: ogni 1000 occupati ce ne sono 17,4 in Israele, 14,9 in Danimarca, 14,4 in Svezia, 8,1 nella Ue a 28 e 5,1 da noi.

Sia chiaro: la quota di scienziati italiani che riescono a ottenere finanziamenti internazionali alla ricerca è altissima. A dispetto di quanto spendono (poco) lo Stato, le università e le imprese, i nostri giovani sono storicamente ai primissimi posti a livello mondiale. Ed è giusto che l’Italia vada orgoglioso di loro. Quella delle citazioni, però, è un’altra faccenda. Denunciata già cinque anni fa, ad esempio, da Francesco Margiocco. Che su Il Secolo XIX raccontò il caso di una piccola casa editrice che aveva esagerato nelle autocitazioni al punto di spingere «il colosso Thomson Reuters che, fra l’altro, stila ogni anno l’elenco delle riviste scientifiche più prestigiose» a radiare per un anno tre pubblicazioni mediche. «Più una rivista si autocita», scriveva l’autore della denuncia giornalistica, «più cresce il suo impact factor. Thomson Reuters se n’è accorta anni fa e ha cominciato a radiare dal suo albo, annualmente, chi pratica l’autocitazionismo fraudolento». O il fittissimo scambio di citazioni reciproche. Così «l’impact factor cresce, e molto. Cresce anche, di pari passo, l’autorevolezza dei loro autori (se sono citati così spesso, vorrà dire che sono bravi) e dell’Università» di riferimento, in quel caso quella di Chieti e Pescara.

Un caso, dice la ricerca di Baccini, De Nicolao e Petrovich, niente affatto isolato. Anzi. Tanto che l’Italia risulta ora una «vera e propria tigre della scienza europea»: «Per la prima volta, il nostro studio mostra chiaramente che la recente impennata dell’impatto citazionale dell’Italia è essenzialmente un miraggio, prodotto da un cambiamento del comportamento citazionale dei ricercatori italiani dopo la riforma. Per dimostrarlo, abbiamo ideato un semplice indicatore di auto-referenzialità della ricerca (Inwardness). Tale indicatore misura quale proporzione delle citazioni totali ricevute da un Paese provengano dal Paese stesso, cioè quanto dell’impatto totale di un Paese sia dovuto a citazioni «endogene». In questo modo, l’indicatore è sensibile sia alle autocitazioni che ai cosiddetti «club citazionali» intranazionali — gruppi di ricercatori che si scambiano opportunisticamente citazioni tra di loro — in quanto entrambi i tipi di citazione provengono dal Paese stesso». Grazie a questo indicatore, «abbiamo osservato che dopo il 2009 l’autoreferenzialità italiana compie un vero e proprio salto nella grande maggioranza dei settori di ricerca, distaccandosi nettamente dai trend degli altri membri del G10». Certo, come dicevamo davanti stanno sempre gli Stati Uniti. Ovvio: hanno la maggior parte dei premi Nobel nella chimica, della fisica, della medicina... Una potenza di fuoco imbattibile. Ma «dietro gli Usa, nel 2016 l’Italia diventa, sia globalmente sia nella maggior parte dei campi di ricerca, il Paese col più alto indice di autoreferenzialità citazionale».

In pratica, è la tesi dei tre studiosi, «la necessità di raggiungere gli obiettivi bibliometrici fissati da Anvur ha creato un forte incentivo all’autocitazione e alla creazione di club citazionali. Tali comportamenti sono diventati così pervasivi da alterare sensibilmente e rapidamente il valore di Inwardness su scala nazionale, sia globalmente che nella maggior parte dei settori. L’incremento dell’impatto italiano registrato nei ranking risulta così essere il frutto di un doping citazionale collettivo». Rileggiamo l’accusa: «doping citazionale collettivo». In pratica, «dietro il miracolo italiano non ci sono politiche della scienza miracolose, ma una gigantesca mascherata bibliometrica». Potete scommetterci: nel nostro mondo scientifico scoppieranno polemiche a non finire. Ma sarebbe il caso di chiederci: non sarà il sistema di reclutamento, così come fatto, ad essere sbagliato? 

·         «Quella forza chiamata leggere».

Claudio Plazzotta per ''Italia Oggi'' il 26 novembre 2019. Le case editrici di libri in Italia non amano svelare quante copie dei loro titoli vendano nell' arco di un anno. Ci sono classifiche pubblicate su giornali, blog, siti web, ma praticamente mai si fa accenno al numero delle copie. Si sottolinea, più semplicemente, la posizione in graduatoria, il più venduto, il secondo, ma senza entrare nello specifico dei numeri. Da un lato, abbastanza paradossalmente, le case editrici si appellano a una sorta di «segreto industriale» da tutelare, dall' altro, probabilmente, non è stato ancora raggiunto tra tutti gli attori un accordo globale sui parametri condivisi per compilare quelle classifiche. Il mercato, tuttavia, fa riferimento al panel Gfk. E proprio sui dati di Gfk ItaliaOggi è in grado di squarciare il velo e di fare un po' di chiarezza su questo comparto così popolare e amato, ma anche così poco esplorato dal punto di vista numerico. Tra i dati raccolti da Gfk ve ne sono pure alcuni relativi a offerte commerciali, due libri a 9,90 euro, blocchi di titoli a prezzi scontati, che un po' sporcano la classifica, come Universale Economica 1+1 di Feltrinelli, Gli Insuperabili Gold di Newton Compton, Leggimi una fiaba di Edibimbi, Le storie più belle di Gribaudo, Splash 1+1 di Piemme. Ma, al netto di queste eccezioni, lo scrittore che ha venduto di più in Italia nei primi dieci mesi del 2019 in termini di copie cartacee è il grande Andrea Camilleri (scomparso nel luglio di quest' anno) con le 254 mila copie de Il cuoco dell' Alcyon edito da Sellerio. Il secondo autore più venduto è Stefania Auci, con I leoni di Sicilia. La saga dei Florio (Editrice Nord) a quota 212 mila copie. E il terzo è Gianrico Carofiglio, con La versione di Fenoglio (edito da Einaudi) a 161 mila copie Tanto per fare un piccolo paragone, nei 12 mesi del 2018 il titolo più venduto era stato L' amica geniale di Elena Ferrante, con 234 mila copie (sull' onda del successo della serie tv, poiché il romanzo di E/O era stato pubblicato nel 2011), seguito da Andrea Camilleri (Il metodo Catalanotti, edito da Sellerio) a quota 191 mila copie. Tornando alla Top20 dei libri più venduti in Italia nel periodo gennaio-ottobre 2019, ecco Rien ne va plus (di Antonio Manzini, Sellerio) a 133 mila copie, che precede il premio Strega M. Il figlio del secolo (di Antonio Scurati per Bompiani) a quota 130 mila. Peraltro il volume di Scurati dedicato a Benito Mussolini è l' unico titolo della cinquina Strega a essere nelle prime 20 posizioni. Anche Fedeltà di Marco Missiroli (Einaudi), che alcuni davano per favorito allo Strega, per ora non è andato molto oltre le 50 mila copie. In Top20 ci sono invece gli youtuber e gli influencer, tutti pubblicati da Mondadori Electa. Ad esempio Entra nel mondo di Lui e Sofi. Il fantalibro dei me contro te, a quota 129 mila copie e Divertiti con Lui e Sofi. Il fantalibro dei me contro te aveva venduto 107 mila copie pure in tutto il 2018); oppure Giulia De Lellis e Stella Pulpo, con Le corna stanno bene su tutto. Ma io stavo meglio senza! , che ha venduto 106 mila copie; e il duo Valerio Mazzei e Sespo, che con #valespo, in dieci mesi del 2019, ha raggiunto 81 mila copie. Qualcuno si chiederà come mai in classifica non appaia Fabio Volo: il suo Una gran voglia di vivere è uscito a fine ottobre, e quindi non compare nella graduatoria di Gfk che si ferma, appunto, a ottobre. Ma sarà sicuramente tra i libri di maggiore successo del 2019, così come il nuovo titolo della Ferrante. Tuttavia la Ferrante è già nella Top20, con L'amica geniale, che dopo il successo 2018 ha venduto 89 mila copie anche nel periodo gennaio-ottobre 2019, così come KM 123 di Andrea Camilleri (Mondadori).

L'uomo che aveva letto tutti i libri del mondo. Francesco Perfetti, Giovedì 21/11/2019, su Il Giornale. Nel 1750, quando iniziò le pubblicazioni del periodico bisettimanale The Rambler da lui interamente scritto, Samuel J. Johnson aveva appena superato i quaranta anni d'età, ma era già un protagonista del mondo intellettuale britannico. Aveva pubblicato, fra l'altro, una biografia del poeta Richard Savage, suo grandissimo amico, come lui squattrinato, compagno di avventure bohémien, di bevute in taverne londinesi e vagabondaggi alla ricerca di giacigli di fortuna. Quel saggio, Vita di Richard Savage, costruito sulle confidenze dell'amico, salutato con favore dal pubblico e visto come innovativo del genere biografico, accrebbe la notorietà del «dottor Johnson», per la verità piuttosto ampia anche per la collaborazione al The Gentleman's Magazine. Già da qualche anno Johnson, poi, aveva cominciato a dedicarsi alla stesura della sua opera più importante, che gli avrebbe assicurato un posto di rilievo nella storia lessicografica del suo paese: il Dizionario della lingua inglese, redatto col proposito esplicito, nella convinzione che l'idioma inglese avesse raggiunto la perfezione lessicale, di far piazza pulita di barbarismi, in particolare francesi, e di deturpanti licenze idiomatiche. Anglicano osservante e conservatore convinto, il «dottor Johnson» (1709-1795) ebbe una vita relativamente lunga che coincise col regno dei primi sovrani della dinastia Hannover Giorgio I, Giorgio II e Giorgio III subentranti agli Stuart. Che fosse un'epoca, quella, molto vivace dal punto di vista intellettuale non v'è il minimo dubbio. Operarono, in quel periodo, scrittori come Jonathan Swift e Olivier Goldsmith, filosofi come David Hume e Adam Smith, storici come William Robertson ed Edward Gibbon, pensatori politici come il padre del conservatorismo Edmund Burke e via dicendo: una specie di età d'oro, insomma, della cultura inglese. Johnson era un uomo piuttosto alto dall'aspetto robusto, ma portava sul corpo le cicatrici deturpanti della scrofola ed era affetto da una strana malattia che gli provocava scatti convulsi e un gesticolare ridicolo che suscitava sorpresa e ilarità. Il pittore William Hogarth, che lo incontrò per la prima volta a casa di Samuel Richardson, vedendolo scuotere la testa e muoversi in modo strano e ridicolo, ebbe l'impressione che si trattasse di un «idiota» messo sotto tutela presso lo scrittore, ma rimase ammirato quand'egli si unì alla conversazione. Dotato di una cultura enciclopedica, di una memoria prodigiosa e di un eloquio forbito, il «dottor Johnson», malgrado l'aspetto e l'incontrollabile gesticolare, affascinava coloro che avevano occasione di frequentarlo. La signora Porter, una bella vedova col doppio dei suoi anni e destinata a diventarne moglie con scandalo generale per la differenza d'età, confessò alla figlia: «È l'uomo più intelligente ch'io abbia mai conosciuto in vita mia». Del resto, di lei Johnson il quale, per la rigida educazione religiosa, non aveva mai ecceduto in facili licenze e passioni giovanili, preferendo alle donne, piuttosto, qualche buon bicchiere di vino si era subito, davvero, innamorato. Il fascino della sua conversazione era dovuto alle doti oratorie, alla vastità delle citazioni (Adam Smith disse di lui che era «l'uomo che aveva letto più libri al mondo»), alla capacità di argomentare, alla ricchezza di battute frizzanti che ne infioravano i discorsi. Non mancava, infatti, Johnson, di sense of humor e di una buona dose di autoironia. Lo si evince, per esempio, dalla definizione che egli dette, proprio del Dizionario della lingua inglese e pensando evidentemente a se stesso, del «lessicografo» come di «uno sgobbone inoffensivo». Che egli fosse uno «sgobbone», almeno dal punto di vista della scrittura, non è neppure da mettere in discussione sol che si guardi alla mole della sua produzione: migliaia e migliaia di pagine, scritte quasi tutte di getto, talora neppure rilette, ma sempre eleganti e raffinate. Il culmine dell'attività di saggista fu raggiunto negli oltre duecento articoli scritti per The Rambler, il bisettimanale pubblicato a Londra dal 20 marzo 1750 al 14 marzo 1752. Che a quegli articoli, in realtà brevi saggi, Johnson tenesse in maniera particolare lo fanno intendere queste parole: «i miei altri scritti sono come vino annacquato, ma il mio The Rambler è vino puro». La raccolta completa di questi saggi è stata ora pubblicata nel volume in due tomi di Samuel Johnson, Il Viandante (Aragno Editore, pp. LII-1432, euro 75), impeccabilmente curato dal punto di vista filologico da Daniele Savino che è anche autore della fine traduzione. La scelta del titolo del periodico, The Rambler, che significa «viandante» o «girovago», non fu per Johnson semplicissima: «mentre ero in procinto di pubblicare il giornale non avevo idea di come chiamarlo. La notte me ne restavo seduto a letto deciso a non prendere sonno fino a che non avessi trovato il titolo. Il Viandante mi sembrò quello che faceva al caso mio, e da allora non cambiai più idea». Il titolo rispondeva benissimo allo spirito del periodico che non intendeva occuparsi di temi di attualità ma proponeva in ogni numero una articolata riflessione su un qualche argomento letterario, filosofico, morale. Quel periodico ottenne largo successo e consacrò il «dottor Johnson» come per usare le parole del suo più celebre biografo, James Boswell «maestro di saggezza morale e religiosa». A leggerli sistematicamente o, anche, a scorrerli in maniera rapsodica, i 208 apparsi sul periodico danno l'impressione di un'opera, per qualche verso, assimilabile a un capolavoro del pensiero filosofico, gli Essais che Michel de Montaigne aveva scritto nella seconda metà del XVI secolo nella Francia dell'epoca delle guerre di religione. Il paragone è ardito perché lo scetticismo di Montaigne ha ben poco a che fare con lo spirito illuministico di Johnson, ma entrambi appartengono al grande filone del moralismo. Che un pizzico di scetticismo, poi, retaggio del tradizionale empirismo inglese, ci sia anche in Johnson è evidente. Lo si vede, per esempio, nella sua convinzione che la storia non insegni nulla agli uomini: «ogni giorno che passa ci dimostra che l'uomo non ha ancora imparato nulla dai propri errori o che, se lo ha fatto, le sue azioni non ne risentono minimamente». Per quanto non si occupasse di politica in senso stretto, pur se in realtà scrisse qualche pamphlet politico, Johnson era un conservatore liberale alla maniera di Burke e diffidava dell'uso del potere senza contrappesi: «non esiste una forma di oppressione più pesante o duratura di quella che deriva dall'esercizio perverso e sfrenato di un legittimo potere». E ciò anche se, con una punta di amaro realismo, ammetteva la fascinazione esercitata dal potere: «il potere e il prestigio ci lusingano e ci deliziano a tal punto che, per quanto siano intrisi di tentazioni ed esposti ai pericoli, persino la virtù più guardinga o la prudenza più timorosa farebbero fatica a rinunciarvi». L'idea che aveva del governo ideale, il «dottor Johnson» la vedeva incarnata nella monarchia dell'età georgiana, seguita all'assolutismo degli Stuart. Emblematica in proposito è questa battuta pronunciata durante una conversazione con Boswell: «più il potere è concentrato, più è facile abbatterlo. Un paese governato da un despota è come un cono rovesciato. Il governo non può esservi così saldo come quando si fonda su un'ampia base che va gradatamente restringendosi: il governo della Gran Bretagna, per esempio, si fonda sul Parlamento, su cui si colloca il Consiglio privato e poi il Re». Una immagine suggestiva che sembra dettata, più che da una riflessione di natura politologica, dal buon senso. Quel buon senso che percorre tutte le tante, tantissime pagine de Il Viandante e che le trasforma in un contenitore di grani di saggezza.

Mattarella all’Associazione editori  «Quella forza chiamata leggere». Pubblicato mercoledì, 11 settembre 2019 da Sergio Mattarella su Corriere.it. Rivolgo a tutti un saluto molto cordiale, al ministro e agli ambasciatori presenti e a tutti i protagonisti di questo appuntamento così significativo e importante. Centocinquant’anni sono una lunga storia che gli editori, gli stampatori, hanno avuto la capacità di costruire insieme ai tanti autori — poeti, narratori, scienziati — a cui hanno dato la possibilità di esprimersi, di far conoscere il frutto della loro creatività e i risultati della loro scienza e dei loro studi. La vicenda, che Gian Arturo Ferrari ha così brillantemente illustrato, è uno dei pilastri della storia del nostro Paese. Non è un caso che l’Associazione librai italiani — progenitrice dell’Associazione italiana editori — sia sorta negli anni in cui si andava componendo l’unità del nostro Paese. I libri — i classici, i romanzi, i saggi, i manuali per la scuola, i volumi per le università — sono stati vettori di sviluppo e di diffusione della cultura del nostro Paese. È anche una storia di libertà. Libertà che vuol dire anche confronto, dialogo, apertura di orizzonti. Sappiamo tutti che in latino liber, libro, e liberum, libero, sono due etimi differenti: da un lato, l’interno della corteccia degli alberi su cui scriveva, dall’altro la condizione di libertà. Ma l’identità del suono trasmette una suggestione davvero molto grande: avvicina i libri alla libertà. È una storia anche di crescita civile. I libri sono stati un presidio per la difesa della libertà e dei diritti. La storia del nostro Paese, dal Risorgimento alla costruzione dell’unità, alla Resistenza, alla Repubblica non è immaginabile senza il contributo dello sviluppo culturale che libri hanno arrecato al nostro Paese. Elena Cattaneo ha illustrato, con grande fascino, il valore e lo sforzo della ricerca. Una comunità si sviluppa, crescendo, attraverso la ricerca oltre i confini di quello che già si conosce, attraverso la comprensione dei sentimenti, l’osservazione del mondo; esprimendo idee nuove, pensieri critici, chiavi interpretative nuove. I libri sono stati e sono propulsori di questa crescita del nostro Paese. Viviamo in un tempo di trasformazioni straordinarie — come sempre, in realtà, nella storia — ma con un ritmo di gran lunga più incalzante che Alessandro Baricco ha indicato, accorciando la durata di un secolo e mezzo a trent’anni. È così. Cambiano rapidamente gli strumenti, i paradigmi, gli stessi linguaggi. Si presentano nuove piattaforme e nuove tecniche e costringono a correre. I prossimi centocinquant’anni saranno un’avventura affascinante, in ampia misura inimmaginabile per noi. Ma della lettura avremo sempre bisogno. Si affermerà sempre. La forza della cultura è insuperabile, in tutte le sue varie espressioni, con tutti i mezzi che vi sono e vi saranno. La forza della cultura, che passa anche dalla lettura, è insuperabile. Certo, da imprenditori, vi occupate, necessariamente, anche di questioni materiali che possano rendere i vostri lavori e i vostri prodotti più facili da distribuire e più agevoli da acquistare per il pubblico. La politica, le istituzioni, hanno il dovere di confrontarsi con voi e di approntare le misure più idonee per diffondere i libri e per far sviluppare la lettura. Si legge ancora troppo poco in Italia. Dobbiamo migliorare: leggere è una ricchezza immateriale della quale non possiamo fare a meno. La scuola resta un bacino decisivo in cui seminare. Per l’attenzione alla formazione del lettore, come ha detto Ricardo Franco Levi. È, del resto, anche l’ambito dei vostri futuri lettori. Voi editori siete imprenditori di una particolare specie, con una particolare missione. I conti in ordine, la capacità di innovare, sono condizioni essenziali di ogni impresa. Levi ha parlato dell’equilibrio finanziario delle aziende. Ma non svolgereste questa attività senza la passione per la conoscenza, per la cultura, per la collettività di cui siete parte. Non si è editori senza questa passione. È tempo di riapertura delle scuole; questi sono i giorni dei libri di testo. Tante famiglie si stanno misurando con le difficoltà di assicurare ai propri figli tutto quel che occorre per l’istruzione. L’istruzione dei ragazzi è interesse primario della Repubblica. Desidero quindi sottolineare il valore sociale — l’alto valore sociale — dei libri di testo. Va ricordato alle pubbliche istituzioni e, insieme, va richiamata la necessità di scelte editoriali coerenti con quel valore sociale. Non tutto quello che c’era da scrivere e da pubblicare è stato già pubblicato e scritto. Anche per l’editoria vi è sempre un giacimento inesplorato da scoprire, nuovi autori da far emergere. Si tratta di potenzialità che il diffondersi della lettura e della cultura può accrescere ulteriormente. Vale come un augurio per voi. Ma anche come un incoraggiamento: il vostro lavoro è strumento di libertà e di crescita civile. Complimenti e auguri per Parigi 2021 e per la Buchmesse di Francoforte 2023. Grazie per la vostra attività. L’Italia ha bisogno di voi.

·         Alla caccia del libro… 

Miriam Romano per “Libero quotidiano” il 26 ottobre 2019. La sua voce è calma, le parole si incatenano chiare e precise l' una all' altra. Pacato, ma indecifrabile. Un certo fremito, leggero, in quest' uomo tutto d' un pezzo, però, lo si avverte lo stesso. Quando enuncia le date, snocciola i titoli dei libri, ricorda edizioni dimenticate da chiunque, tranne che da lui. Simone Berni, 54 anni, ha un piccolo sito internet, una piccola libreria nascosta, una fama di nicchia di cui poco gli importa. Ha, però, anche una gran mole di lavoro che ogni giorno gli piomba addosso. «Sono da sempre un cacciatore di libri», si racconta così. Semplicemente e di getto. «A scuola procuravo libri di testo e vecchie edizioni a compagni e insegnanti». Scova i libri, setaccia siti internet, blog, mercatini dell' antiquariato per riportare alla luce i volumi sepolti. Quelli che un tempo si leggevano, o sono stati pubblicati a piccole dosi, talmente residuali, che sono spariti. Lui li rintraccia come si fa coi criminali che si sono nascosti talmente bene da aver lasciato ben poche tracce in giro. Prima era una passione, ora è un mestiere. «Mi sono ispirato ai cercatori di libri professionisti americani». È dal 2001 che è scoccata la freccia fatale nella sua testa. «Appena dopo l' attentato dell' 11 settembre 2001, i mei colleghi americani erano già ritornati alle loro cacce senza sosta e rispondevano ai miei fax di allora come se niente fosse successo». E proprio qui, forse, sta la chiave. «Si diventa un cacciatore di libri quando l' ebbrezza per la caccia diventa un momento irrinunciabile della nostra esistenza». Simone, con le mani in tasca e lo sguardo leggero, attraversa le strade di Siena, dove abita. I saliscendi, le chiese, i palazzi, prende «l' antica via Cassia che da Siena procede verso la Capitale» e arriva nella sua libreria, il suo ritaglio di mondo nascosto, dove tutto sparisce dietro gli scaffali, memorie dei suoi ritrovamenti. Un locale «anonimo e insospettabile», lo definisce. È un detective che per cercare non dev' essere trovato. «La mia libreria personale non è immensa; mi sono contenuto in circa tremila volumi che per gli standard bibliofili è una assoluta miseria». Ma tutti i volumi sono pezzi pregiati. È inutile provare a strappargli di bocca un esempio, è usanza custodirli gelosamente, perché il mondo dei bibliofili è anche quello degli sgambetti improvvisi, dei furti inaspettati e leggendari. Si siede alla sua scrivania e comincia la ricerca. Attiva la sua squadra di cercatori seriali, maghi dei mercatini di libri, nelle principali città italiane, e poi Londra e Parigi. Mattinieri, scarpinano. Ed eccoli che silenziosi sfogliano libricini, pagine gialle e consumate. Le bocche che si incurvano in un sorriso quando afferrano il pezzo raro. Le gambe che ciondolano quando se ne tornano a casa mani vuote. Dei ritrovamenti avvisano Simone. «Per una ricerca importante si attivano loro; come terzo atto c' è il ricorso ai "vecchi saggi", 4/5 librai di provata esperienza che danno il loro parere di fattibilità sulla ricerca. Dopo circa 48 ore si hanno in genere i primi risultati o le prime impressioni di ricerca. Se un libro sfugge a questa organizzata pesca d' alto mare, significa che è molto ben nascosto o che non esiste». L' abilità e il fiuto di Simone sono molto richiesti. E le tariffe sono top secret. Si sono rivolti a lui anche personaggi famosi, affannati perché incapaci di ritrovare un certo volume. Giampiero Mughini, per esempio. «Dieci anni fa mi ha chiesto un libro, che non ho ancora trovato», ammette. «Ci sono molti bibliofili che nessuno sa essere tali. Un comico milanese che va per la maggiore, presenza fissa alla Libreria Pontremoli, un ex calciatore romano...». E poi ci sono gli studiosi famosi. «Ad Umberto Eco trovai (e regalai) un' edizione di semiotica che lui stesso non conosceva. Il suo grande sogno era mettere le mani su una edizione clandestina de Il nome della rosa (sicuramente esistente) in versione pornografica, che si intitolava I segreti del convento, probabilmente uscita in lingua araba. Mai rintracciata, ma ci sto ancora lavorando». O Licio Gelli che gli commissionò un libro «che forse non è mai esistito, ma di cui lui era assolutamente sicuro». E poi c' è la parte più segreta del suo mestiere. Quella legata ai libri proibiti. «Sono volumi che non dovrebbero circolare, per questioni legate ai diritti, o a rastrellamenti sistematici per difendere l' onorabilità di persone eventualmente citate negativamente nel libro stesso. Mi vengono in mente pagine contro Berlusconi, Susanna Tamaro, Vittorio Sgarbi, Maurizio Costanzo, Romano Prodi e l' elenco potrebbe essere lunghissimo. Poi ci sono testi dal contenuto pornografico ed osceno. O manuali di guerra urbana, veri e propri "come si fa a costruire bombe, esplosivi, ecc.", "Come si organizza un atto terroristico". Tutto seppellito fino a quando Simone non ci mette lo zampino...

·         I venerati maestri ci lasciano. E quelli nuovi non arrivano.

Giordano Tedoldi per “Libero Quotidiano” il 18 novembre 2019. Che cosa fa, oggi, un intellettuale? La risposta potrebbe indurre dei brividi, o anche il sonno. Oceani di conformismo si spalancano allo sguardo. È allora interessante confrontare i "maestri" di oggi con quelli antologizzati in un libro, da poco uscito, che si intitola eloquentemente Indispensabile (Tipografia Helvetica, 314 pagg., 18 euro) in cui Marco Sommariva trasceglie opinioni e sentenze sparse di alcuni giganti del ventesimo secolo: Orwell, Huxley, Adorno, senza trascurare le voci minori, e più vicine a noi, di pensatori anarchici come il teorico del "primitivismo" John Zerzan, e Hakim Bey, fautore delle T.A.Z., ovvero Zone Temporaneamente Autonome, piccole bolle anarchiche destinate a scoppiare dato che la durata le trasformerebbe in potere costituito. Ciò che tiene insieme, nella loro diversità, i pensatori citati da Sommariva, è il loro essere, potremmo dire, dei buoni "cattivi maestri". Nulla a che fare con gli alfieri della rivoluzione armata o del terrorismo, convertitisi in tarda età a ingenue forme di pacifismo utopistico; quando diciamo "cattivi maestri" intendiamo quelli che, pur praticando un insegnamento duro, aspro come la verità, privo di sconti e consolazioni, non hanno mai imbracciato il mitra per affermare le loro idee né giustificato l' omicidio del nemico di classe. Se avanziamo l' ipotesi che, oggi, non ci siano né cattivi maestri ideologizzati, né cattivi maestri buoni, ma soltanto chiacchieroni insipidi, tornare agli autori raccolti in Indispensabile ci mostra la misura del declino culturale. Ad esempio, leggiamo: «La colpa di tutte le persone di sinistra dal 1933 in avanti è di aver voluto essere antifasciste senza essere antitotalitarie». Lo affermava Arthur Koestler, il grande autore del (pochissimo letto, ormai) Buio a mezzogiorno, e chissà cosa ne pensano gli attuali ossessi dell' antifascismo, che non spendono mai una parola di condanna per altre forme meno senili di oppressione e violenza. Ecco invece un passo da L' isola, ultimo romanzo di Aldous Huxley: «I corollari dei consumi di massa sono le comunicazioni di massa, la pubblicità di massa, gli oppiacei di massa sotto forma della televisione, del meprobamato (un tranquillante), del pensiero positivo e delle sigarette. E ora anche l' Europa è arrivata alla produzione in serie, a che cosa servirà la sua gioventù? Ai consumi di massa e a tutto il resto: precisamente come la gioventù americana». Questa profezia fu formulata da Huxley nel 1962: basta vedere l' attuale orgia di esibizionismo da social, consumi di cocaina e altre droghe fin dalla prima gioventù, l' uso abbondante di psicofarmaci come mai prima nella storia, per constatare che lo scrittore britannico aveva colto nel segno. Non perché avesse evidentemente una sfera di cristallo, ma perché era un intellettuale al modo in cui oggi non lo è più nessuno: spregiudicato, indipendente, libero di seguire le proprie intuizioni senza i vincoli di un potere accademico, editoriale, economico, politico. Oggi si dice «facciamo rete» e in realtà vuol dire: «nessuno abbia più un pensiero individuale». Ed ecco ancora Huxley, in Ritorno al mondo nuovo, la postfazione che scrisse nel 1958, quasi trent' anni dopo la pubblicazione della sua famosa distopia, Il mondo nuovo: «può darsi benissimo che un uomo sia fuori del carcere, eppure non libero; che non subisca alcuna costrizione fisica, eppure sia psicologicamente prigioniero, costretto a pensare, sentire, agire come vogliono farlo pensare, sentire, agire i rappresentanti dello Stato nazionale, o di un qualche interesse privato entro la nazione». Sembra parli proprio a noi, che cerchiamo di evitare il carcere tutte le volte che è possibile, giudicandolo afflittivo; che proteggiamo i diritti di tutti contro varie forme di violenza e coercizione, ma non abbiamo fatto alcun progresso nel senso di quella libertà psicologica e mentale di cui Huxley parlava, e che è non meno preziosa di quella esteriore e fisica. Eppure chi, oggi, tra gli intellettuali, si batte per queste libertà? Di campagne per i diritti di questa o quella minoranza trabocchiamo, ma sono sempre battaglie volte a consentire una libertà meccanica, fisica, esteriore (ad es. su comportamenti sessuali, diritti politici o del lavoro ecc) ma mai a evitare che si sia «costretti a pensare, sentire, agire» come «lo Stato» o «un qualche interesse privato entro la nazione» vuole che si pensi, senta, agisca. In altre parole, la diagnosi di Huxley e, dunque, la sua denuncia, era molto più radicale perché non voleva solo liberare i comportamenti degli uomini ridotti in schiavitù, ma anche i loro pensieri e sentimenti. Chi oggi oserebbe assumersi tale compito, di fronte a una cultura che è diventata tanto più arrogante quanto più popolata di mediocri senza scrupoli? Non si può nascondere che dai tempi di Huxley, Orwell, Adorno, si siano registrati passi avanti grandiosi in campo scientifico, eppure la mancanza di quelle menti spigolose, ruvide, chiaroveggenti si sente ancora di più in questo tempo di continui allarmi sociali che si rivelano poco più che mode esibizionistiche. Sentiamo che il nostro tempo è, a suo modo, gravemente malato, ma manca colui che ci dica con precisione di che male si tratti, trascurando tutte le sue manifestazioni secondarie. Questo è l' intellettuale. Un tempo c' era. Ora vediamo solo i suoi imbranati e vanitosi assistenti.

I venerati maestri ci lasciano. E quelli nuovi non arrivano. La recente scomparsa di molte figure di riferimento causa un vuoto culturale. In ritardo il ricambio generazionale. Luca Beatrice, Venerdì 06/09/2019, su Il Giornale. Alessandro Mendini è scomparso in febbraio. Quest'estate se ne sono andati Marisa Merz, Eliseo Mattiacci, Antonio Trotta e la visionaria gallerista bolognese Ginevra Grigolo. L'anno scorso ci avevano lasciati, tra gli altri, Mauro Staccioli, Getulio Alviani, Valentino Vago, Nagasawa, Nicola Carrino, Piero Guccione, Giancarlo Vitali, Marco Gastini. Senza contare i grandi storici Gillo Dorfles, Vittorio Fagone, Enrico Crispolti. Non vuole questa essere un Spoon River dell'arte italiana, ma certo l'elenco fa impressione, anche se si parla di persone non giovani, che passarono la boa degli ottant'anni e che dunque ebbero una vita piena di soddisfazioni, ricca di incontri, fino all'ultimo protagoniste o comunque in scia a quella che è stata considerata, unanimemente, la nostra miglior stagione creativa dal dopoguerra. Chi più chi meno, si parla di donne e uomini dentro le svolte del loro tempo: tra Arte Povera, Op Art e programmata, concettuale, design, pittura colta ed essenziale, non erano certo loro estranei i «luoghi del dibattito», i nodi di discussioni anche aspre, le battaglie per affermarsi, una certa idea politica e militante dell'arte e della cultura che sarà stata unilaterale e a tratti conformista, ma certo non estranea al fermento della loro gioventù.

Da questo punto di vita si discostava dal gruppo Antonio Trotta, lo scultore cilentino cresciuto in Argentina e a lungo vissuto a Pietrasanta, morto alcuni giorni fa, convinto fautore della bellezza del marmo, nostalgico difensore dei valori della scultura, profondo contestatore di ciò che emerse dal '68 e tendenzialmente destrorso almeno di letture. Sarà questo il motivo per cui la notizia del suo addio al mondo è passata sotto silenzio? Il punto è però un altro. Se quella generazione di artisti ha indubbiamente tracciato un solco, dopo di loro chi saranno i nuovi «venerati maestri»? Oppure, come sosteneva Edmondo Berselli nel lontano 2006, non ce ne sono davvero più? È chiaro che agli intellettuali servono come il pane i cosiddetti grandi temi per poter pontificare meglio e se li hai vissuti in prima persona la resa finale risulterà più realistica e convincente. Però a loro fu già estraneo sia il fascismo, sia la Seconda guerra mondiale, eppure ne parlarono a sfinimento, cominciarono le proprie carriere ai tempi del rilancio economico del Paese, cavalcando prima il boom e poi la contestazione, militanti tra '68 e '77, disincanti e ludici negli anni '80, fortunati ad attraversare il periodo più interessante dell'Italia, capaci di capire stimoli e insidie del tempo. Proprio per aver attraversato gli anni migliori sono riusciti a lungo a vivere di rendita e ogni volta che uno se ne va è come se si staccasse un altro pezzo di noi, della nostra gioventù. Dire addio a un maestro è triste, non trovare nessuno che prenda il suo posto addirittura tragico. «E adesso che tocca a me?» si chiederebbe Vasco Rossi, e spero che citare un suo passaggio non gli dia fastidio. Perché in effetti i nuovi venerati maestri andrebbero cercati tra di noi, tra i cinquantenni-sessantenni i quali, pur non essendo stati troppo coinvolti ai tempi delle mancate rivoluzioni, di cose importanti ne hanno comunque vissute: il crollo del Muro di Berlino, la nuova carta geografica del mondo, la globalizzazione, le migrazioni, il terrorismo internazionale, il web, i social. Insomma, non è che gli ultimi decenni siano stati proprio così noiosi. E allora? È come se fossimo diventati più timidi e insicuri, quasi che il minimalismo domestico e grunge degli anni '90 ci avesse abituati a raccontare i fatti nostri senza particolari prospettive universali e condivisibili oltre il condominio. Da non sottovalutare la questione mercato: negli anni '80, in particolare i pittori della Transavanguardia vendevano tutti, poi sono sopraggiunte diverse crisi, ma soprattutto i collezionisti hanno scelto la strada internazionale e gli artisti italiani hanno perso quei sostenitori militanti che contribuirono, per esempio, al successo iniziale dell'Arte Povera. Tornando a chi aspirerebbe al ruolo di venerato maestro, Maurizio Cattelan è stato schiacciato dal suo successo e dalla sua solitudine; Rudolph Stingel passa per essere un straniero anche perché vive a New York; Vanessa Beecroft ha esaurito i temi alimentari che fecero tanto parlare; Francesco Vezzoli si è divertito molto, ma è un altro che va per i fatti suoi. Eppure l'arte italiana produce opere di qualità e anche con una certa tenuta formale e intellettuale. Bisogna munirsi di coraggio e cercare con più attenzione, approfittando anche del mercato relativamente basso e ricordandoci che buona parte dei «venerati maestri» scomparsi fino a pochi anni fa costavano pochissimo, rilanciati dai periodici revival e dalle mode. Se gli interessi speculativi si mettono in moto soprattutto alla fine della vita e della carriera di un artista, chi fosse avveduto dovrebbe giocare d'anticipo, perché maestri italiani negli anni '90 ce ne sono parecchi e sarebbe ora di difenderli dall'avanzata del nulla.

·         I Libri dei Vip.

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 14 ottobre 2019. C'è un'invasione di libri che metà basta. E voi direte: «Non è mica una novità». E in effetti è così, a momenti sono più le pubblicazioni delle copie vendute. Scrivono tutti: cuochi, passanti, esperti, preti, casalinghe, ingegneri, puttane, santi, eroi, calciatori, veline, eccetera. Tutti sognano di vedere il loro volume nel cestone dell' autogrill, è una specie di traguardo auto-imposto per conquistare una sorta di "eternità" e pazienza se poi il manoscritto non lo leggono neppure i parenti stretti. Negli ultimi tempi, tra l' altro, il fenomeno è esploso a livelli inverosimili, in particolare nel mondo dello spettacolo. Abbondano le firme, abbonda la varietà di argomenti, abbonda la disponibilità delle case editrici che sperano di fare il colpaccio con qualche firma televisivamente esposta «così magari si vende qualche copia in più». Accade di rado, a dirla tutta. Ma andiamo a raccontare l' invasione vipparol-editoriale. Per dire, Francesca Barra e Claudio Santamaria, lei giornalista lui attorone, coppia nella vita reale e ora perfino nella scrittura. Il loro romanzo si intitola La giostra delle anime (261 pag., Edizioni Mondadori, 19 euro) e racconta la storia di due bimbe nate in Lucania e cresciute in orfanotrofio tra «indicibili orrori» al punto di essere «odiate come streghe dalle suore per via dei loro capelli, lunghi e rossi come fiamme». Beh, interessante. Oppure Vanessa Incontrada, la regina della tv che piace a tutti e, quindi, magari funzionerà pure in libreria. Insieme a Alicia Soler Noguera ha pubblicato Le bugie uccidono (283 pag., Edizioni La nave di Teseo, 18 euro), altro romanzo, altra storia particolare, quella di Victoria Neri, fotografa spagnola che il 29 maggio 2012 viene informata dal commissario Carrara della dipartita di Bibiana, sua amica trovata morta dopo aver ingerito una dose di barbiturici. Iniziano le indagini che porteranno Victoria a inseguire una verità nascosta da far venire i brividi. E ve lo ricordate Andrea Pezzi? Vj, autore e conduttore di Mtv, simbolo di una generazione. Negli ultimi anni si è reinventato imprenditore e pure scrittore. Io Sono è il suo quarto libro e in questo caso andiamo oltre il semplice romanzo, qui... si tratta di trattato (del resto il Pezzi è laureato in psicologia a indirizzo filosofico presso l' Università di San Pietroburgo, mica pizza e fichi). Il volumetto (157 pag., Edizioni La nave di Teseo, 14 euro) «è un libro che nasce dal desiderio di rimettere l' umano al centro del dibattito culturale, ridefinendo nel mondo della vita il senso stesso dell' intelligenza». Porca malora, alla faccia del dj...Ma c'è pure Sandra Milo che a 86 anni ha pubblicato Il corpo e l' anima - Le mie poesie (104 pag., Edizioni Morellini, 9,90 euro), un concentrato di versi su «passione, amore, attaccamento alla terra, malinconia, tra potenti suggestioni, tributi a illustri personalità (come Marina Ripa di Meana) e riflessioni su temi attuali». A naso meglio Pezzi, ma magari ci sbagliamo. Chiudiamo con due pezzi da novanta. Il primo è Matteo Campese, speaker di Radiofreccia conosciuto come "Nessuno" che ha appena pubblicato il suo primo romanzo (Contro il vento alta è la sua fronte, 169 pag., Edizioni Mursia, 17 euro) «uno scritto psicologico, a tratti esistenzialista, che cattura il lettore pagina dopo pagina portandolo a interrogarsi sul senso stesso della vita». L'altro è nientepopodimeno che Paolo Bonolis, in libreria da qualche giorno con Perché parlavo da solo (336 pag., Edizioni Rizzoli, 19 euro) autobiografia di un fenomeno della tv che ripercorre la sua carriera tra ricordi e confessioni inedite («Incontrai Mercury a 25 anni a una cena a Londra. Iniziammo a chiacchierare. Dopo un po' capii che avrebbe voluto che andassimo da qualche altra parte... Io misi subito le cose in chiaro: "Freddie, adoro la sua musica, ma davvero... non è roba per me"». Che meraviglia...).

Pasquale Chessa per il Messaggero il 14 ottobre 2019. «Due persone che si amano veramente dovrebbero stare bene, entrambe, perché sono una coppia»: così sentenzia Giulia De Lellis ignara del teorema di Jacques Lacan per cui «non c' è modo per i due di diventare uno», di fondersi l' uno nell' altro come nel mito di Platone, anche se questo è il loro desiderio più nascosto. 

L' IRONIA. Si può leggere anche così, con un po' di ironia, Le corna stanno bene su tutto, decostruzione del mito dell' uomo seduttore, il romanzo memoir del tradimento vissuto e quindi raccontato da Giulia De Lellis. Che non è una scrittrice. E nemmeno una lettrice, come confessa ai suoi followers con innocente improntitudine: «... sapete che non ho mai letto un libro ...non sarebbe stato ironico che il primo fosse proprio il mio?». Dal suo profilo Instagram apprendiamo che Giulia De Lellis, romana di Ostia, è una rinomata fashion influencer dotata di un patrimonio di oltre 4 milioni di seguaci, su cui ha fatto leva per diventare protagonista di rango nell' universo virtuale del gossip italiano con il suo contorno di tabloid pettegolisti e tivù ipertrash, modalità Grande fratello vip. Un turbine di successo che l' ha spinta al vertice delle classifiche librarie dando la polvere non solo ai fuoriclasse del bestseller culturale, Michela Murgia per dire, ma anche ai maestri della supernarrativa mondiale come Stephen King. La vertigine dell' alta tiratura, si sa, trasfigura il senso ultimo di un libro, costringendo il lettore critico a scoprire quali artifici letterari siano riusciti a far scattare il godimento letterario di una gran massa di lettori. Se non fosse stato per Umberto Eco che applicò la critica fenomelogica alla popolarità televisiva di Mike Bongiorno, sarebbe oggi difficile trovare il coraggio di accostare Le corna di Giulia alla frenesia erotica di Don Giovanni. Eppure non starebbe male fra le parole che Da Ponte e Mozart mettono in bocca a Donn' Anna o Donna Elvira l' amara constatazione, «Il nostro amore svenduto per il gusto di una seduzione in più...», oppure il doppio settenario traboccante di colpevole desiderio: «E non so cosa darei // per farlo tornar da me ....». E invece...

LE BEFFE. Diventare Don Giovanni è il libro provvidenzialmente parallelo di Giovanni Niola, «un viaggio attraverso l' Europa sulle tracce del Grande Seduttore» spiega il sottotitolo. Che nasce nel lontano Seicento in Spagna quando Tirso de Molina (1630) raccoglie in un unico testo teatrale le narrazioni popolari e religiose, buffe quanto tragiche, intorno alle storie del seduttore per antonomasia, demone del desiderio allo stato puro che pur di raggiungere il suo scopo esistenziale, la seduzione totale dell' intero universo femminile, si fa beffe persino della morte. Seguendo la suggestiva, ma perfino troppo didattica, ricostruzione di Niola, dal Don Giovanni di Molière e poi via via di Hoffmann e di Byron, di Dumas e di Flaubert fino al Donnie Jhonnie di Paperino, la tentazione di chiudere la lista con il primato di Giulia De Lellis, ultima ma prima in classifica, sbiadisce e sfuma. Il suo libro è scritto molto bene dalla giornalista Stella Pulpo, ma non dice niente. E pazienza se fra qualche decennio sarà riscoperto come primo esempio di socialnarrativa. Mentre a Niola, perdonato qualche vezzo da «antropologo della modernità, va riconosciuta l' eccellenza del racconto storico critico che raggiunge il suo punto massimo nel solco di Cesare Garboli e in sintonia con la lezione incomparabile di Giovanni Macchia.

Ilaria Ravarino per ''Il Messaggero'' il 27 ottobre 2019. A un mese e mezzo dall'uscita del suo primo libro, l'influencer Giulia De Lellis non è più solo un caso editoriale. È ufficialmente un'autrice di best seller. Toccate le 53.674 copie, Le corna stanno bene su tutto. Ma io stavo meglio senza, è entrato a far parte, in tre settimane, del ristretto gruppo di libri italiani riusciti a sfondare quota 50 mila: un immaginifico club in cui, accanto a Elena Ferrante e Fabio Volo, da oggi siede di diritto anche l'ex tronista di Uomini e donne. Un successo (per diverse settimane al vertice la lista dei bestseller) piombato a settembre nell'editoria proprio mentre altrove, nel mondo del cinema, i botteghini registravano il record di un'altra influencer, Chiara Ferragni, in sala con una discussa biografia. Indignata, divisa e turbata, la classe intellettuale del paese si interroga da allora su cosa sia accaduto alla Cultura. «Era ora. È un bene che gli intellettuali si sentano costretti a riflettere sull'origine di questa cosiddetta degenerazione culturale. Su cosa piaccia alla gente e sul perché le piaccia». A dirlo non è un'influencer ma una scrittrice vera, Stella Pulpo, il cui nome compare come co-autrice - in caratteri minori - proprio sulla copertina del libro di De Lellis. Co-autrice in libreria, ghost writer da contratto, nata a Taranto e sbocciata a Milano, Pulpo ha 34 anni, 20 di gavetta (primo concorso vinto a 13, sei racconti pubblicati a 20) dalla penna fertile e la lingua affilatissima. E se c'è una cosa che sa molto bene, è cosa piaccia alla gente. E perché. Quando aveva 26 anni, mentre lavorava nel sottoproletariato di Milano, lanciò anonimamente il blog memoriediunavagina, piccolo fenomeno da 70.000 contatti a settimana: un diario, ancora attivo, incentrato sulle avventure erotico-sentimentali di una ragazza che aveva appena lasciato (causa corna) il fidanzato. «Nella mia vita ho provato tutte le posizioni sentimentali: fidanzata, tradita, traditrice, amica, amica tradita. Il blog era anonimo, cosa che mi permetteva di essere spudorata. Avevo un lavoro ufficiale, in un'agenzia di comunicazione: non potevo rischiare che il mio presidente si trovasse a leggere le tipologie di peni che descrivevo in rete». Prima dell'incontro con De Lellis, Pulpo aveva già pubblicato alcuni libri dal soggetto affine, dedicati all'esplorazione di nuovi modelli di femminilità sostenibile e tutti caratterizzati da un'ironia al limite della ferocia: Oblio e plenilunio, Fai uno squillo quando arrivi, gli ebook Cara Cornuta - Manuale di sopravvivenza al tradimento e Molestie per l'estate. E in mezzo a questi titoli anche un piccolo libro digitale dedicato all'Ilva di Taranto: «Lo pubblicai nel 2012, quando la magistratura fermò la fabbrica. Raccontavo la vita della cittadinanza e l'impatto che aveva avuto la chiusura. Chissà che fine ha fatto. Non si trova nemmeno più online. Certo l'argomento tira meno delle corna». Le corna. Che tirano, e pagano, molto di più. Avere accettato di scrivere il libro di De Lellis, dice Pulpo con onestà, non è stato certo «un atto di filantropia». Un lavoro durato appena tre mesi, «un progetto in corsa, scritto in poco tempo», pagato più della media italiana ma in linea con i ghost writer americani (8.000-18.000 dollari a libro): «Mi hanno pagato diciamo come un'americana sfigata, ma non sfigatissima. Ho fissato un mio prezzo di base, che rientra nella media generale». Ma guai a pensare che si tratti di un lavoretto qualunque. Lavorare alla biografia di una influencer è un po' come mettere le mani nel Multiverso della Marvel. «I fan sanno tutto. Deve esserci coerenza tra il libro e le instagram stories, o la scrittura suona falsa. Ogni tanto Giulia mi correggeva sui dettagli: questa cosa, mi diceva, non la bevo, quest'altra non la indosso. Ci incontravamo, Giulia parlava a ruota libera, io tornavo a casa e mettevo in bella. Se lei aveva ispirazioni nella notte me le mandava via messaggini e io integravo. La custode del file sono sempre stata io». A giochi fatti, oggi Pulpo è la ghost writer più di successo d'Italia: «Per chi altri farei ghost writing? Scriverei volentieri la storia di una di quelle donne che, facendo cose, cambiano il mondo». Perché Pulpo, e lo dice chiaramente, è femminista. Femminista radicale, si legge sul suo profilo social: «L'ho scritto in un momento, lo scorso marzo, in cui sembrava che dire di essere femminista fosse come dire di essere necrofila. L'ho fatto per reazione. Ma sono femminista. E sono radicale su tante cose». Incluso accettare di lavorare per una influencer: «Avevo pregiudizi su Giulia. Chi pensa di non avere pregiudizi ne ha uno grandissimo su di sé, quello di essere migliore di chi ne ha. Il punto è rompere la dinamica sociale per cui si schifa ciò che non entra nel perimetro delle proprie opinioni». Al lavoro su un nuovo libro, stavolta firmato da sola, quei pregiudizi Pulpo li conosce benissimo. «Appena uscito il libro sono stata molto male. Puoi immaginare come sia una shitstorm, ma finchè non ti ci trovi in mezzo non lo sai davvero. Mi sentivo su una macchina fuori dal mio controllo, su cui chiunque poteva esprimersi, spesso insultando. Quando poi ho osato dire che il film su Ferragni mi sembrava brutto, capirai: apriti cielo. Ma tra le due c'è una grande differenza: Chiara è perfetta, Giulia autoironica. Giulia soffre, ma sdrammatizza. E questo è esattamente quello che piace».

·         L’Involuzione sociale e politica. Dal dispotismo all’illuminismo, fino all’oscurantismo.

Non è importante sapere quanto la democrazia rappresentativa costi, ma quanto essa rappresenti ed agisca nel nome e per conto dei rappresentati.

Dispotismo: dispotismo (raro despotismo) s. m. [der. di despota e dispotico]. – Governo esercitato da una sola persona o da un ristretto gruppo di persone in modo assolutistico e arbitrario, senza alcun rispetto per la legge. In particolare e detto Dispotismo illuminato, quello dei sovrani riformatori del 18° secolo, ispirato alle teorie politiche e filosofiche dell’illuminismo francese (esaltazione della Ragione, accettazione dell’assolutismo come forma di governo, ecc.). In senso estensivo e figurativo: autorità che si esercita in modo prepotente, oppressivo; atteggiamento ispirato a estremo autoritarismo, a noncuranza o a disprezzo degli altrui diritti.

La teoria di Montesquieu: Lo Stato e la suddivisione dei poteri.  La moderna teoria della separazione dei poteri viene tradizionalmente associata al nome di Montesquieu. Il filosofo francese, nello Spirito delle leggi, pubblicato nel 1748, fonda la sua teoria sull'idea che "Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti [...]. Perché non si possa abusare del potere occorre che [...] il potere arresti il potere". Individua, inoltre, tre poteri (intesi come funzioni) dello Stato - legislativo, esecutivo e giudiziario - così descritti: "In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o per qualche tempo, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo, punisce i delitti o giudica le liti dei privati", perché “una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica”. L'idea che la divisione del potere sovrano tra più soggetti sia un modo efficace per prevenire abusi è molto antica nella cultura occidentale: già si rinviene nella riflessione filosofica sulle forme di governo della Grecia classica, dove il cosiddetto governo misto era visto come antidoto alla possibile degenerazione delle forme di governo "pure", nelle quali tutto il potere è concentrato in un unico soggetto. Platone, nel dialogo La Repubblica, già parlò di indipendenza del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delineò una forma di governo misto, da lui denominata politìa (fatta propria poi anche da Tommaso d'Aquino), nella quale confluivano i caratteri delle tre forme semplici da lui teorizzate (monarchia, aristocrazia, democrazia); distinse, inoltre, tre momenti nell'attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. Polibio, nelle Storie, indicò nella costituzione di Roma antica un esempio di governo misto, in cui il potere era diviso tra istituzioni democratiche (i comizi), aristocratiche (il Senato) e monarchiche (i consoli). Nel XIII secolo Henry de Bracton, nella sua opera De legibus et consuetudinibus Angliæ, introdusse la distinzione tra gubernaculum e iurisdictio: il primo è il momento "politico" dell'attività dello Stato, nel quale vengono fatte le scelte di governo, svincolate dal diritto; il secondo è, invece, il momento "giuridico", nel quale vengono prodotte e applicate le norme giuridiche, con decisioni vincolate al diritto (che, secondo la concezione medioevale, è prima di tutto diritto di natura e consuetudinario). È però con John Locke che la teoria della separazione dei poteri comincia ad assumere una fisionomia simile all'attuale: i pensatori precedenti, infatti, pur avendo individuato, da un lato, diverse funzioni dello Stato e pur avendo sottolineato, dall'altro lato, la necessità di dividere il potere sovrano tra più soggetti, non erano giunti ad affermare la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Locke, nei Due trattati sul governo del 1690, articola il potere sovrano in potere legislativo, esecutivo (che comprende anche il giudiziario) e federativo (relativo alla politica estera e alla difesa), il primo facente capo al parlamento e gli altri due al monarca (al quale attribuisce anche il potere, che denomina prerogativa, di decidere per il bene pubblico laddove la legge nulla prevede o, se necessario, contro la previsione della stessa).

La Teoria di Voltaire: Tolleranza e Libertà di manifestazione del pensiero. La libertà di esprimere le proprie convinzioni e le proprie idee è una delle libertà più antiche, essendo sorta come corollario della libertà di religione, rivendicata dai primi scrittori cristiani nel corso del II-III secolo e, successivamente, durante i conflitti tra cattolici e protestanti (XVI-XVII secolo). D’altra parte, essa è stata sollecitata anche dai grandi teorici della libertà di ricerca scientifica (basti pensare a Cartesio o a Galileo) e della libertà politica (ad esempio, Milton), nonché, successivamente, dagli stessi filosofi del XVIII e del XIX secolo (Voltaire, Fichte, Bentham, Stuart Mill). Va detto, comunque, che soltanto in alcuni documenti costituzionali si parla di libertà di manifestazione del pensiero (art. 8 Cost. Francia 1848; art. 21 Cost.), laddove in altri testi si preferisce utilizzare l’espressione libertà di opinione (art. 11 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino francese 1789; art. 8 Cost. Francia 1814; art. 7 Cost. Francia 1830; tit. VI, art. IV, par. 143, Cost. Francoforte 1849; art. 118 Cost. Germania 1919; art. 5 Legge fondamentale Germania 1949; art. 20 Cost. Spagna 1978; art. 16 Cost. Svizzera 1999), libertà di parola (I emendamento Cost. U.S.A. 1787) o libertà di stampa (art. 18 Cost. Belgio 1831; art. 28 Statuto albertino).

La Teoria di Voltaire. Voltaire non credeva che la Francia (e in generale ogni nazione) fosse pronta a una vera democrazia: perciò, non avendo fiducia nel popolo (a differenza di Rousseau, che credeva nella diretta sovranità popolare), non sostenne mai idee repubblicane né democratiche; benché, dopo la morte, sia divenuto uno dei "padri nobili" della Rivoluzione, celebrato dai rivoluzionari, è da ricordare che alcuni collaboratori e amici di Voltaire finirono vittime dei giacobini durante il regime del Terrore, tra essi Condorcet e Bailly). Per Voltaire, chi non è stato "illuminato" dalla ragione, istruendosi ed elevandosi culturalmente, non può partecipare al governo, pena il rischio di finire nella demagogia. Ammette comunque la democrazia rappresentativa e la divisione dei poteri proposta da Montesquieu, come realizzate in Inghilterra, ma non quella diretta, praticata a Ginevra. Nel Trattato sulla tolleranza il filosofo denuncia le conseguenze dell’intolleranza e si scaglia, in particolare, contro il cristianesimo. Secondo Voltaire bisogna abbandonare il fanatismo delle religioni storiche e abbracciare unicamente una religione razionale che si basi sull’obbedienza a Dio e sull’esercizio del bene. Essere tolleranti significa, per Voltaire: accettare la diversità e le comuni fragilità, rifiutare la tortura e la pena di morte e abbracciare una fede pacifista e cosmopolita. L'idea di tolleranza di Voltaire. Tutta la polemica di Voltaire contro le ingiustizie sociali, la superstizione, il fanatismo è esemplificata nella sua difesa del principio della tolleranza. Nella sua opera più importante, il Trattato sulla tolleranza, infatti, il filosofo parte da un fatto di cronaca (un processo concluso con la condanna a morte di un protestante di Tolosa) per denunciare globalmente le conseguenze dell’intolleranza, ed in particolare si scaglia contro il cristianesimo. «I cristiani sono i più intolleranti degli uomini», o «la nostra (religione, n.d.r) è senza dubbio la più ridicola, la più assurda e la più assetata di sangue mai venuta a infettare il mondo» scrive.  Ma la sua requisitoria è diretta contro tutte le religioni storiche che hanno tradito il loro comune nucleo razionale, fatto di alcuni principi semplici e universalmente condivisi e, attraverso l’istituzione di dogmi e riti particolari, si sono macchiate di ogni tipo di crimine (dalle guerre alle persecuzioni). Abbandonare dunque il dogmatismo e abbracciare una religione spogliata dei suoi tratti esteriori e deleteri perché: «il deista non appartiene a nessuna di quelle sette che si contraddicono tutte… egli parla una lingua che tutti i popoli intendono… egli è persuaso che la religione non consiste né nelle opinioni di una metafisica incomprensibile, né in vane cerimonie, ma nell’adorazione e nella giustizia. Fare il bene è il suo culto: obbedire a Dio è la sua dottrina». L’uomo deve accettare la diversità, i diversi punti di vista, in quanto, secondo Voltaire, essere tolleranti significa accettare le comuni fragilità: «Siamo tutti impastati di debolezze e errori: perdoniamoci reciprocamente le nostre sciocchezze, è la prima legge di natura… Chiunque perseguiti un altro suo fratello, perché non è della sua opinione, è un mostro». La tolleranza deve animare qualunque tipo di potere politico e Voltaire si scaglia, quindi, anche contro l’uso della tortura e della pena di morte. Allo stesso modo attacca l’uso della religione per giustificare le guerre e rigetta il nazionalismo in nome di una fede cosmopolita.  La celebre frase: «Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo», a cui è legato indissolubilmente il nome di Voltaire, in realtà non fu mai pronunciata dal filosofo. Appartiene, infatti, ad una saggista (Evelyne Beatrice Hall) che scrisse e ricostruì la vita e le opere di Voltaire. Ciononostante, sicuramente le prese di posizione del filosofo in merito non scarseggiarono e, anche nella sua vita privata, soffriva profondamente delle conseguenze dell’intolleranza degli uomini. Ogni anno, infatti, dedicava un giorno al lutto e all’astensione da qualunque attività: il 24 agosto, anniversario della notte di San Bartolomeo (una strage compiuta nel 1572 dalla fazione cattolica ai danni dei calvinisti parigini), si dice che aggiornasse la sua casistica dei morti nelle persecuzioni religiose arrivando a contarne 24/25 milioni. Ma la sua personalità non fu esente da contraddizioni: si batteva contro le guerre e il pacifismo ma faceva affari lucrosi nel campo dei rifornimenti all’esercito; era un paladino della tolleranza ma intrattenne degli accesissimi diverbi con l’illuminista Rousseau che screditavano la validità di tale principio; infine, celebri furono le prese di posizione sull’inferiorità degli africani rispetto a scimmie e elefanti, oltre che all’uomo bianco.

La Teoria di Rousseau: La democrazia diretta come contratto sociale e la capacità del popolo libero a gestirla. A livello politico Rousseau parte da un presupposto sociologico: lo Stato moderno che sta nascendo e la borghesia che continua a governare stanno diventando incompatibili tra loro, scrive F Occhetta. Così per dare un senso all’uomo e alla società ritiene utile partire da un’ipotesi logica che, pur non essendosi realizzata nella storia, ne costituisce il fondamento. Il punto di partenza è costituito, secondo lo schema classico del giusnaturalista laico, dallo stato di natura, che costituisce lo scenario a partire dal quale è possibile interpretare la storia stessa. I processi politici e i sistemi istituzionali sono per Rousseau il modo di «governare» cittadini, che associandosi perdono la loro bontà naturale. Cultura e natura sono in tensione nel pensiero del ginevrino. L’immagine che usa è quella di un’arma pericolosa in mano a un bambino, per questo nei suoi scritti si incontra spesso una proporzione: l’uomo di natura sta alla bontà come l’uomo civilizzato sta alla corruzione. Gli uomini di natura possiedono solo due princìpi anteriori alla loro ragione: l’amore di sé e la pietà mentre l’uomo sociale è egoista e solo, il desiderio di apparire migliore degli altri lo porta ad essere invidioso e falso. Nello stato di natura, però, si radica un’altra contraddizione. Se, per gli illuministi la natura rappresentava un oggetto che la ragione analizzava «per Rousseau la natura rappresenta invece una realtà che non va vivisezionata con la ragione, ma prima di tutto amata e compresa col sentimento». La priorità del cuore sulla ragione, che porta a riconoscere la natura come buona, faranno di Rousseau un «illuminista pre-romantico». Basta poco però per perdere questo status ideale. Appena l’uomo isolato incontra altri uomini per associarsi, perde la sua bontà ed è costretto a fondare un patto iniquo. Questa svolta nella storia dell’umanità è per Rousseau la nascita della proprietà, che egli considera il vero male della storia e definisce con la nota immagine del palo: «Il giorno in cui un uomo ha piantato un palo e ha detto “questo è mio”, е gli altri uomini sono stati cosi ingenui da non strappare quel palo, dicendo “non c’è né mio né tuo”, in quel momento è cominciata la degenerazione della Storia». Le dottrine comuniste esaspereranno questa posizione. Se la natura umana è stata corrotta dallo sviluppo della civiltà e in particolare dall’introduzione della proprietà privata, ci chiediamo: come può essere rieducato l’uomo alla libertà? Qui tocchiamo un punto decisivo: «Per Rousseau la libertà non può che essere sociale: l’uomo è libero solo tra uomini liberi. La liberazione dell’uomo non può che essere frutto di un impegno solidale. Е la socialità che, secondo Rousseau, va riscoperta attraverso l’educazione, costituisce il primo dover essere dell’uomo. La libertà е l’uguaglianza ne costituiscono i frutti preziosi». In verità nel pensiero di Rousseau ciò che salva è una solitudine radicale: «Il “selvaggio” non tiene in alcun conto gli sguardi degli altri sa essere felice indipendentemente dagli altri e vive in se stesso. “L’uomo civilizzato” vive proiettato sempre fuori di sé, nell’opinione degli altri e deriva dagli altri la stessa coscienza della propria esistenza». Ma se gli uomini non si stimano né si aiutano, non si riconoscono reciproci e perdono la loro felicità incontrandosi, su che cosa basano la loro convivenza? Questi presupposti di natura antropologica e sociologica iniziano qui a creare problemi. Ritenere che la società sia la causa dei contrasti tra gli uomini (e non l’effetto) significa ritenere che le ineguaglianze date dalle diverse capacità e dall’appartenenza sociale prendono il posto dell’uguaglianza dello stato di natura. Ma c’è di più: «Le differenze naturali si trasformano in disuguaglianze morali e al tempo stesso gli uomini si riconoscono come individui. Per mezzo dell’opinione degli altri acquistiamo un’identità personale, ma diventiamo anche schiavi dell’opinione». La via d’uscita è di carattere morale e risiede nella capacità che ciascuno dovrebbe avere di rieducarsi alla libertà, facendo nascere il contratto sociale che è un «dover essere della coscienza», un’esigenza deontologica capace di recuperare i valori perduti dello stato di natura, quando l’uomo era buono. Ma c’è di più. Gli studi di questi ultimi anni dedicati al profilo psicologico del pensiero di Rousseau sostengono — con le dovute riserve — che la sua solitudine, il suo narcisismo e il suo masochismo siano stati le cause che lo portarono a teorizzare il «buon selvaggio» — figura letteraria già presente nel pensiero di Montaigne —, vittima innocente della società, e l’Emilio, la vittima innocente dell’educazione. In verità l’attualità del suo pensiero tocca il significato filosofico della «volontà generale» che è chiamata a guidare lo Stato per conseguire il bene comune. Secondo Rousseau la sovranità si poteva esprimere soltanto in un corpo collettivo, inalienabile e indivisibile. In questo meccanismo logico risiede l’ideologia democratica di Rousseau. Quali sono le condizioni che devono sussistere per far sì che uno Stato sia democratico? Lo Stato diventa nel pensiero di Rousseau la via di uscita politica per porre rimedio ai due grandi male sociali: quello di incontrare altri uomini in società e quello della disuguaglianza creata dalla proprietà privata. Il problema è dunque politico, e non antropologico. Il male non è mai all’interno dell’uomo ma nelle strutture politiche, che devono quindi essere riformate e cambiate. Non occorre una conversione morale e una nuova auto-comprensione dell’umano, ma è necessaria la trasformazione delle strutture politiche. In questa visione si concentra tutta la debolezza della proposta politica di Rousseau. La dimensione religiosa che potrebbe cambiare il cuore dell’uomo, insegnargli a distinguere il bene dal male e a conoscere Dio, per Rousseau deve essere invece legata alla politica che diventa per l’uomo la vera religione. Sono dunque le strutture politiche che dovrebbero essere «convertite» per espellere il male dalla storia, non gli uomini che le governano. Costruire lo Stato dunque diventa per il pensiero del ginevrino un atto religioso che non tocca il cuore del cittadino. Per questo alcuni studiosi sono inclini a ritenere che Rousseau secolarizzi il pensiero teologico introducendo l’idea di democrazia moderna. La democrazia, che si fonda sul contratto sociale, diventa in Rousseau lo strumento di redenzione e liberazione dal male; i cittadini non cedono la loro libertà e i loro diritti a un sovrano come riteneva Hobbes, ma alla collettività che li farà ritrovare insieme a tutti gli altri cittadini. Così la democrazia è per Rousseau quella forma di Stato in cui il popolo è allo stesso tempo sovrano e suddito. Per realizzare questa intuizione la sovranità deve essere esercitata direttamente dal popolo tramite procedure che garantiscano il principio di l’autodeterminazione dei singoli che devono realizzare il programma definito dall’interesse generale.  L’ambito si sposta dal teologico al teleologico. In origine c’è una situazione buona (lo stato di natura), segue una caduta (la nascita della proprietà), ne consegue che per redimersi l’uomo deve far nascere lo Stato democratico. Della redenzione non ha bisogno l’uomo, perché è buono, ma la politica, perché il male della storia, che si radica nella proprietà, appartiene alla sfera giuridica. Proprio qui però si radica la seconda contradizione del suo pensiero: tutti possono esercitare i diritti di tutti; e se questi non sono concordi? Che cos’è in realtà la «volontà generale» su cui si sono fondate le moderne democrazie? È formalmente la guida dello Stato democratico, quella che il bene comune della collettività e che si distingue dalla volontà di tutti. La maggioranza va distinta dalla minoranza e la sua volontà coincide tendenzialmente con la volontà generale. Questa è rappresentata della «classe media», non da intendere come la classe borghese, ma quella che in una votazione si determina togliendo le parti estreme. L’interpretazione di questa scelta ha portato ad applicazioni storiche opposte: il pensiero liberal democratico ha fatto coincidere la volontà della maggioranza con la volontà generale; i totalitarismi e le dittature come quelle di Napoleone e di Marx, hanno ritenuto che la volontà generale venisse intuita da personalità carismatiche. Nel pensiero di Rousseau è mancato un ponte che collegasse la vita privata dell’uomo, la dimensione, per lui importante, della coscienza e dei buoni sentimenti, con la costruzione della città. È forse questa l’urgenza di cui hanno bisogno le moderne democrazie per riformarsi. A questo riguardo diventano preziosi due insegnamenti del ginevrino. Il primo è contenuto nell’Emilio, quando Rousseau ricorda che si può vivere in due modi, recitando una parte e privandosi di vivere autenticamente, come fanno gli attori di teatro; oppure vivere e lasciarsi vivere come in una festa quando ciascuno diventa se stesso. Il fine della politica poi lo richiama nella sua Lettera a d’Alambert: «Possano i giovani trasmettere ai loro discendenti le virtù, la libertà, la pace che hanno ricevuto dai loro padri!». «La ricerca del proprio vantaggio a spese degli altri è qualche volta temperata dalla pena che proviamo nel vedere gli altri soffrire. Prima che l’amor proprio sia interamente sviluppato, la pietà naturale agisce come un freno all’ardore con cui gli uomini perseguono il proprio benessere […].

La teoria di Cesare Beccaria: Certezza del Diritto e Pene certe, ma non crudeli. Scritto da Library.weschool.com. L’Illuminismo lombardo, in stretto rapporto con quello francese ma consapevolmente non rivoluzionario e di orientamento moderato, si sviluppa nell’alveo del riformismo di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) e Giuseppe II (1741-1790). I punti caratterizzanti sono allora quellli del riordino generale del sistema economico-giuridico del tempo (in accordo con le necessità della nascente borghesia imprenditoriale, e contro l’immobilisimo del sistema aristocratico), la polemica contro la tradizione culturale dei secoli passati, l’idea che gli intellettuali debbano collaborare attivamente al progresso collettivo della società. In ambito letterario, rilevante è la preferenza per toni sobri ed eleganti, in reazione agli eccessi della poetica barocca; tra i nomi più direttamente avvicinabili a questi propositi riformistici, ci sono sicuramente Giuseppe Parini (1729-1799; si pensi all’ode La caduta o al poemetto Il Giorno), le commedie teatrali di Goldoni (1807-1793), le tragedie di Alfieri (1749-1803). I maggiori esponenti dell’Illuminismo lombardo sono innanzitutto, oltre a Cesare Beccaria, i fratelli Alessandro (1741-1816) e Pietro Verri (1728-1797) attivi animatori di battaglie amminsitrative e legislative e della vita culturale milanese. Due gli organi per sostenere questo disegno di riforma civile: da un lato l’Accademia dei Pugni, istituzione culturale fondata a Milano nel 1761 dei fratelli Verri, Beccaria ed altri intellettuali illuminati milanesi che si fa portavoce di un gusto moderno, anticonvenzionale ed antitradizionalista; dall’altro il periodico «Il Caffè» (1764-1766) che, ispirandosi all’inglese «Spectator», diffonde gli ideali dell’Illuminismo, come quando sostiene la necessità di una nuova lingua dell’uso, agile e moderna, sull’esempio dei principali modelli europei.Particolare risalto per l’Illuminismo italiano ha l’esperienza letteraria, culturale e politico-economica di Cesare Beccaria. Di famiglia di recente nobiltà, Beccaria studia presso i gesuiti e in seguito si diploma in diritto a Pavia, e, dopo essere divenuto membro dell’Accademia dei pugni, pubblica nel 1764 il saggio Dei delitti e delle pene, composto sulla spinta e l’attiva collaborazione dell’amico Pietro Verri. In pochi anni, grazie anche ad una traduzione in francese del 1766, l’opera conquista fama in tutta Europa, tanto di divenire un punto di riferimento anche per gli illuministi francesi, nella cui corrente di riflessione sui fondamenti del diritto moderno (si pensi a Montesquieu e alla teoria di divisione dei poteri, Helvétius, Rousseau e il suo Contratto sociale) i Dei delitti e delle pene si inserisce pienamente. In seguito al successo dell’opera Beccaria si reca a Parigi con Alessandro Verri per stringere i rapporti con i philosophes, ma, sopraffatto dalla nostalgia, l’autore resta nella capitale francese solo qualche settimana per poi tornare in Italia, provocando reazioni derisorie e una brusca rottura nel rapporto con Pietro Verri. Mentre Dei delitti e delle pene si diffonde per il mondo, a Milano Beccaria vive in solitudine, dedicandosi all’insegnamento di economia e collaborando con il governo austriaco per un disegno di riforma fiscale. Beccaria muore nel 1794. Tra le sue opere ricordiamo anche Del disordine e de’ rimedi delle monete nello stato di Milano nel 1762 (1762), primo scritto pubblicato che suscita svariate polemiche; le Ricerche intorno alla natura dello stile (1770), legate alle riflessioni sull’incivilimento della società, in cui collega lo studio dello “stile” alla scienza dell’uomo, rifacendosi al sensismo; e gli Elementi di economia politica, raccolta delle sue lezioni, pubblicata postuma nel 1804. La portata rivoluzionaria del saggio di Beccaria Dei delitti e delle pene (1764) è giustificata dal fatto che questo scritto getta alcune basi fondamentali del diritto moderno. Dei delitti e delle pene nasce all’interno del clima dell’Accademia dei Pugni, su espressa indicazione di Pietro Verri, che mette ampiamente mano alla prima stesura sia correggendola sia modificandone l’assetto. L’ordinamento finale dell’opera sarà ulteriormente modificato da André Morrellet (1727-1819), in occasione della traduzione francese due anni dopo la prima pubblicazione. L’opera, sull’onda di quei principi filosofici ed etici riscontrabili in Montesquieu e Rousseau, si sviluppa come un’articolata riflessione sulla natura e i principi della punizione inferta dalla legge a chi abbia commesso qualche reato: Beccaria tematizza quindi non sul rapporto causale tra “delitto” e “pena”, ma sulla natura filosofica e sul concetto stesso di “pena” all’interno di una società umana. Beccaria ritiene infatti che la vita associata sia rivolta al conseguimento della felicità del maggior numero di aderenti al “contratto sociale” e che le leggi siano la condizione fondante di questo patto; dati questi presupposti è evidente che le peneservano a rafforzare e garantire queste stesse leggi, ed è sulle pene e sulla loro applicazione che si concentra quindi l’opera di Beccaria. Scrive così nell’introduzione all’opera: Le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo più che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Le pene sono dunque finalizzate sia adimpedire al colpevole di infrangere nuovamente le leggi, sia a distogliere gli altri cittadini dal commettere colpe analoghe. Le pene vanno allora scelte proporzionatamente al delitto commesso e devono riuscire a lasciare un’impressione indelebilenegli uomini senza però essere eccessivamente tormentose o inutilmente severe per chi le ha violate. Il tema si lega strettamente al decadimento della giustizia al tempo dell’autore, ancora legata all’arretrata legislazione di Giustiniano (il Corpus iuris civilis del VI secolo d.C.) e alla sua revisione per mano di Carlo V (1500-1558). La proposta riformistica di Beccaria vuole abolire abusi ed arbitri dipendenti, nell’amministrazione della giustizia, dalla ristretta mentalità aristocratica dei detentori del potere; secondo la prospettiva “illuminata” dell’autore una gestione più moderna del problema giudiziario non potrà che favorire, oltre che la tutela dei diritti individuali, anche il progresso dell’intera società (come nel caso delle osservazioni sulla segretezza dei processi o sul fatto che il sistema giudiziario presupponga la colpevolezza e non l’innocenza dell’imputato). La portata rivoluzionaria del discorso di Beccaria si evince in particolar modo dal discorso sulle torture, intese come uno strumento inefficace e perverso per ottenere un’illusione di verità; essendo il colpevole tale solo dopo la sentenza, le torture, utilizzate comumente come mezzo finalizzato alla confessione, sono inutili e illegittime e rischiano di assolvere coloro che, essendo più robusti di costituzione riescono a resistervi, e condannare innocenti dal fisico più debole. L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema. Inoltre l’innocente è messo dalla tortura in una situazione peggiore di quella del reo, in quanto il secondo, se resiste, è dichiarato innocente, mentre il primo anche se è riconosciuto tale avrà comunque dovuto subire una tortura immeritata. Altrettanto centrale è il discorso sulla pena di morte, alla cui origine Beccaria non riesce a trovare un qualche fondamento di diritto. Evidente è che non può essere un potere dato dal contratto sociale, perché nessuno aderirebbe a un patto che dà agli altri il potere di ucciderlo. Oltre a questa considerazione Beccaria nota anche che l’esistenza della pena di morte non ha mai impedito che venissero commessi quegli stessi crimini per cui altri venivano giustiziati. Infatti fa più impressione vedere un uomo che paga per la sua avventatezza, che vedere uno spettacolo che indurisce ma non per questo corregge: Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto più funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Dati questi presupposti Beccaria parte dal principio che non sia l’intensità della pena a far effetto sull’immaginazione degli uomini, quanto la sua durata ed estensione. La pena non dev’essere cioè terribile e breve, quanto certa, implacabile ed infallibile. Inoltre la misura dei delitti deve essere il danno arrecato alla società e non l’intenzione, che varia in ciascun individuo, e scopo della pena deve essere sempre la prevenzione dei delitti.

L’illuminato pensiero di Cesare Beccaria. IL TRATTATO DEI DELITTI E DELLE PENE, segna l’inizio della moderna storia del diritto penale. Saggio scritto dall’illuminista milanese Cesare Beccarla (1738-1794) tra il 1763 e il 1764, in cui l’autore si pone delle domande circa le pene allora in uso.  scritto da G.M.S. il 3 Settembre 2016 su Umsoi. Nonostante il notevole successo e la vasta eco in tutta Europa (la zarina Caterina II di Russia mise in pratica i princìpi fondamentali della riforma giudiziaria in esso proposta, mentre nel Granducato di Toscana venne perfino abolita la pena di morte), nel 1766 il libro venne incluso nell’indice dei libri proibiti a causa della distinzione che vi si ritrova tra reato e peccato. L’autore afferma, infatti, che il reato è un danno alla società, a differenza del peccato, che, non essendolo, può essere giudicabile e condannabile solo da Dio. Alla base di questa distinzione sta la tesi secondo cui l’ambito in cui il diritto può intervenire legittimamente non attiene alla coscienza morale del singolo. Inoltre, per Beccarla non è “l’intensione” bensì “l’estensione” della pena a poter esercitare un ruolo preventivo dei reati, motivo per cui, fra l’altro, esprime un parere negativo nei confronti della pena capitale, comminando la quale afferma che lo Stato, per punire un delitto, ne compie uno a sua volta. E il diritto di “questo” Stato, che altro non è che la somma dei diritti dei cittadini, non può avere tale potere: nessuna persona, infatti, darebbe il permesso ad altri di ucciderla. Riprendendo i concetti roussoviani, Beccaria contrappone al principio del vecchio diritto penale “è punito perché costituisce reato” il nuovo principio “è punito perché non si ripeta”. Il delitto viene separato dal “peccato” e dalla “lesa maestà” e si trasforma in “danno” recato alla comunità. Sulla base della teoria contrattualistica, egli arriva a sostenere che, essendo il delitto una violazione dell’ordine sociale stabilito per contratto (e non per diritto divino), la pena è un diritto di legittima autodifesa della società e deve essere proporzionata al reato commesso. Le leggi devono in primo luogo essere chiare (anche nel senso di accessibili a tutti, cioè scritte nella lingua parlata dai cittadini) e non soggette all’arbitrio del più forte; non è giusto pertanto infierire con torture, umiliazioni e carcere preventivo prima di aver accertato la colpevolezza. Un uomo i cui delitti non sono stati provati va ritenuto innocente. L’accusa e il processo devono essere pubblici, con tanto di separazione tra giudice e pubblico ministero e con la presenza di una giuria. (Tuttavia per il Beccaria legittimo “interprete” della legge è solo il sovrano; il giudice deve solo esaminare se le azioni dei cittadini sono conformi o meno alla legge scritta). La stessa pena di morte va abolita in quanto nessun uomo ha il diritto, in una società basata sul contratto fra persone eguali, di disporre della vita di un altro suo simile. E’ impossibile allontanare i cittadino dall’assassinio ordinando un pubblico assassinio. Occorre che i cittadini siano messi in condizione di comportarsi nel migliore dei modi. La condanna capitale rende inoltre irreparabile un eventuale errore giudiziario. Il vero freno della criminalità non è la crudeltà delle pene, ma la sicurezza che il colpevole sarà punito.

I tre filosofi dell'Illuminismo. Da Comprensivocesari.edu.it. Charles de Montesquieu, un illuminista aristocratico, era favorevole a una monarchia costituzionale, sul modello di quella inglese. Egli sosteneva che i tre poteri dello Stato, cioè il potere legislativo (di fare le leggi), esecutivo (di applicarle) e giudiziario (di giudicare chi non le rispetta) non devono essere concentrati nelle mani di una sola persona. Per garantire la libertà politica ed evitare che pochi pravalgano su molti, è necessario che i tre poteri restino divisi e indipendenti. Questo principio, detto della separazione dei poteri, è accolto oggi dalle costituzioni di quasi tutti i Paesi. In Italia, ad esempio, il potere legislativo spetta al parlamento, cioè a rappresentanti del popolo liberamente eletti; il potere esecutivo al governo; quello giudiziario alla magistratura, costituita dall'insieme dei giudici. Per Jean-Jacques Rousseau, un filosofo di Ginevra, il potere dello Stato, cioè la sovranità, il potere di comandare, appartiene interamente al popolo, che è l'unico sovrano. Il principio della sovranità popolare, sta alla base delle moderne democrazie. Nelle democrazie moderne, come l'Italia, la sovranità popolare viene esercitata indirettamente attraverso i rappresentanti (deputati e senatori che formano il parlamento) scelti dal popolo e prende il nome di democrazia rappresentativa. Voltaire, il più famoso dei filosofi illuministi, non riponeva nel popolo alcuna fiducia ed era disposto ad accettare il governo di un sovrano assoluto, a patto che questi si dimostrasse "illuminato" e si lasciasse guidare non dal capriccio, ma dalla ragione, preoccupandosi dell'efficienza dello stato e del benessere dei sudditi. Molti sovrani europei sembrarono sensibili alle idee illuministe e attuarono nei loro Stati importanti riforme. Il loro sistema di governo prende il nome di dispotismo illuminato.

Il dispotismo illuminato. Le idee degli illuministi furono accolte da molti sovrani europei, come Federico II di Prussia, Maria Teresa d'Austria, la zarina Caterina II di Russia e, in Italia, Leopoldo, granduca di Toscana e Carlo III di Borbone, re di Napoli. Nella seconda metà del Settecento questi "despoti" (sovrani) introdussero delle riforme, cioè dei cambiamenti che avevano lo scopo di migliorare il loro Stato, rendendolo più efficiente e moderno. In Toscana, ad esempio, il granduca Leopoldo abolì la tortura e la pena di morte. Alcuni sovrani si preoccuparono di modernizzare l'agricoltura e combatterono l'analfabetismo, favorendo l'istituzione di scuole pubbliche laiche (cioè non religiose), tanto che l'istruzione pubblica ebbe un grande sviluppo. Questi "despoti illuminati" non cessarono di essere sovrani assoluti e spesso si proposero, molto più che il benessere dei sudditi, l'aumento del proprio potere ai danni della nobiltà e del clero, ossia i ceti privilegiati. Le idee illuministe si diffondono anche in Italia In Italia i centri illuministi più attivi furono due: Napoli e Milano. A Milano fu pubblicato un giornale intitolato "Il caffè", perchè si voleva che avesse sulla società lo stesso effetto stimolante che ha la bevanda sull'organismo umano. Del gruppo milanese faceva parte il marchese Cesare Beccaria, che nel 1764 pubblicò il saggio Dei delitti e delle pene, l'opera più importante e più famosa dell'Illuminismo italiano, in cui l'autore dimostrava l'inutilità della tortura e della pena di morte. Presto tradotto in molte lingue, il saggio contribuì a far modificare le leggi e i procedimenti giudiziari in alcuni Stati, fra cui il granducato di Toscana e l'impero austriaco.

Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Appunto di Filosofia che spiega e mette a confronto le varie idee politiche e etiche di tre esponenti dell'illuminismo: Montesquieu, Rousseau e Voltaire in relazione al clima storico. Elisa P. su skuola.net.

Montesquieu, Rousseau e Voltaire - Storia e politica. Gli illuministi erano grandi ammiratori del sistema liberale inglese, proponendolo come modello nel loro programma di riforme politiche per la Francia:

- libertà religiosa;

- Libertà di stampa;

- Abolizione dei privilegi fiscali;

- Limitazione dell'assolutismo regio.

VOLTAIRE - "Lettere filosofiche" (1734). Egli aveva fatto conoscere in Francia il sistema parlamentare inglese, rendendosi conto che la società civile francese era più arretrata di quella inglese e che l'eccessivo indebolimento della monarchia potesse degenerare in anarchia; Voltaire inoltre riponeva scarsa fiducia nelle masse popolari, poichè riteneva fossero soggette al dominio dell'ignoranza e della superstizione; per questo motivo un monarca assoluto, ma illuminato, poteva essere il migliore garante del rinnovamento della società. Egli identificava come possibili monarchi illuminati Federico II e Caterina di Russia.

ROUSSEAU. Rousseau aveva fatto inizialmente parte del movimento degli illuministi, ma a partire dal "Discorso sulle scienze e sulle arti" (1750) se ne era progressivamente allontanato. Nella sua opera egli respingeva l'idea di progresso e incivilimento (progresso verso migliori condizioni materiali di vita e costumi più raffinati e umani) e la contrapponeva con la visione di un'austera comunità repubblicana, nella quale le virtù morali e politiche contavano di più delle scienze, della tecnica e degli artificiosi raffinamenti dei costumi. Nel 1762 il filosofo pubblicò la sua opera politica più celebre e discussa "Il contratto sociale"; in esso proponeva un modello di Stato in cui il sovrano fosse tutto il popolo e le leggi derivassero dalla volontà generale del popolo. Inoltre Rousseau elabora il concetto di sovranità popolare che si riferiva alla capacità degli individui di cogliere l'unico interesse generale, liberandosi quindi dei loro egoismi. In un simile Stato gli organi del Governo erano al servizio dell' intera comunità. Venne anche elaborata anche la definizione di Stato democratico, in cui la proprietà privata doveva essere subordinata all'interesse generale.

MONTESQUIEU - "Lo spirito delle leggi" (1748). Montesquieu compì un esame comparativo delle diverse forme di Governo (repubblica, monarchia, dispotismo). Secondo lui il sistema di leggi di ciascun Paese ha uno spirito (logica interna); le leggi non sono solo il prodotto del legislatore, ma sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose. Egli voleva appurare se in Francia erano in atto processi che stavano trasformando la monarchia in dispotismo, questi processi dovevano essere fermati finchè si era in tempo;

il dispotismo appariva a Montesquieu come una forma di Governo tipica dei Paesi asiatici, dove era agevolato da tre fattori:

- l'enorme estensione;

- La fitta popolazione;

- La relativa semplicità delle strutture sociali.

Quando tra l'autorità del sovrano e la massa dei sudditi non esistono corpi intermedi dotati di autonomia, il dispotismo è un' evoluzione inevitabile. Tra le forze sociali intermedie, Montesquieu dava importanza a quelle magistrature supreme che erano i parlamentari. Nel momento in cui queste forze prendessero ogni potere, la monarchia sarebbe degenerata nel dispotismo; Montesquieu giudicava poco adatta per la Francia la forma di governo repubblicana; lo spirito repubblicano poteva solo realizzarsi in comunità territorialmente e demograficamente limitate, come Sparta e Roma nell' antichità. Dell'Inghilterra bisognava imitare la divisione dei poteri (la potenza statale così distribuita non sarebbe stata esposta al rischio dell'assolutismo) in tre funzioni diverse:

- la legislazione (Parlamento, l'emanazione di leggi generali);

- Il Governno (re e Governo, eseguire le leggi e occuparsi dell'alta politica);

- L'amministrazione della Giustizia;

La magistratura sarà pienamente indipendente dal potere del Governo, senza che nessuno dei tre poteri cerchi di usurpare le funzioni altrui, auspicava quindi una monarchia costituzionale.

Illuministi a confronto: Rousseau e Montesquieu. Giada.cofano (Medie Superiori) scritto il 12.04.17 su scuola.repubblica.it. L'illuminismo è un movimento di pensiero nato in Francia nel '700, sviluppatosi poi nel corso del secolo nel resto dell'Europa. Gli illuministi, collaborano insieme nello sviluppo delle idee, ma ognuno di loro pone un accento o una particolare attenzione su un aspetto, che viene quindi sviluppato in modo differente. 

Rousseau, inizialmente faceva parte del movimento illuminista, poi con la pubblicazione di "Discorso sulle scienze e sulle arti" nel 1750, se ne allontana progressivamente. Sostiene che le arti e le scienze nascano da un progressivo snaturamento della sensibilità primitiva e originale dell'uomo, con conseguente negativo sugli esiti dell'evoluzione storica. Ogni passo verso la civiltà comporta, nell'uomo, il nascere di bisogni artificiosi, che lo distraggono dalle cose essenziali e autentiche. Rousseau, facendo emergere una critica radicale, respinge l'idea di progresso e incivilimento e lo contrappone con la visione di un'austera comunità repubblicana. Ne "Il contratto sociale", propone un modello di Stato in cui il popolo è sovrano, e le leggi derivano dalla volontà popolare. Gli individui così facendo si liberano dall'egoismo tipico del loro essere, sviluppando nuove capacità collaborative nell'interesse generale. La storia non era corruzione <>. Ma <>, fissando il vincolo della proprietà privata, del possedere la terra, che in realtà, originariamente, appartiene a tutti. La disuguaglianza tra gli individui deve essere risolta attraverso la ridistribuzione delle ricchezze, quindi con la definizione di leggi uguali per tutti ed uno Stato democratico. 

Differente è invece la visione politica di Montesquieu, che individua nella monarchia costituzionale, un governo in cui i poteri non si sovrappongono, né entrano in contrasto tra loro. Attraverso un esame che compie sulle diverse forme di governo, Montesquieu comprende come le leggi siano, il risultato di una varietà di condizioni fisiche,meteorologiche, sociali e storiche e non semplicemente il prodotto della ragione pura o dell'istituzione arbitraria dei legislatori. Quindi il dispotismo che stava emergendo e affermandosi in Francia, tipico dei Paesi orientali, andava fermato tempestivamente. Il modello inglese che suggeriva la divisione dei poteri diviene per l'illuminista la migliore soluzione governativa. In ogni Stato la divisione consiste in <>. Non vi è libertà se questi tre poteri sono nelle mani di uno solo, o dello stesso organismo. Seguirebbero mancanza di controllo e abusi d'ogni tipo. Se il potere giudiziario è quello legislativo fossero uniti <>. Il principio della conservazione dei poteri è ancora oggi valido, e per noi contemporanei è una cosa scontata e ovvia. Ma nel '700 una tale riforma costituiva una sorta di conquista del potere politico, economico ed ideologico, da parte di una borghesia in fermento, cosciente della propria funzione sociale propulsiva. 

Montesquieu e Rousseau sono solo due dei tanti filosofi che in questo periodo storico, hanno espresso le proprie tendenze e dottrine politiche: al primo, teorico del liberalismo moderato, si contrappone il secondo, che attraverso il suo "contratto sociale" ispirerà l'azione della borghesia democratica.

Montesquieu, la libertà risiede nella separazione dei poteri. Barbara Speca su rivoluzione-liberale.it il 17 Agosto 2011. Il viaggio alle radici del Pensiero Liberale continua con Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède et de Montesquieu (1689-1755), un protagonista dell’Illuminismo europeo nella prima metà del XVIII secolo che occupa, ancora oggi, una posizione di straordinario rilievo nella storia del liberalismo soprattutto grazie al suo capolavoro, lo Spirito delle Leggi, un’opera monumentale, frutto di quattordici anni di lavoro e pubblicata anonimamente nella Ginevra di Jean-Jacques Rousseau, nel 1748. Due volumi, trentadue libri, una vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento, nonché un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico. Avversario di ogni forma di oppressione dell’uomo sull’uomo, Montesquieu è il filosofo della moderazione e dell’equilibrio. A lui viene attribuita la teoria della separazione dei poteri che rappresenta uno dei princìpi necessari dello Stato di diritto e una condizione oggettiva per l’esercizio della libertà che per Montesquieu è “Il diritto di fare tutto quello che le leggi permettono”. Sulla base dell’esempio costituzionale inglese, lo scrittore politico francese sostiene che l’unica garanzia di fronte al dispotismo risiede nell’equilibrio costituzionale di cui godono i paesi in cui i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sono nettamente separati e distinti, capaci di controllarsi a vicenda. “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non esiste libertà; perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano delle leggi tiranniche per eseguirle tirannicamente. E non vi è libertà neppure quando il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo o da quello esecutivo. Se fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e sulla libertà dei cittadini sarebbe arbitrario: poiché il giudice sarebbe il legislatore. Se fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza di un oppressore. Tutto sarebbe perduto se un’unica persona o un unico corpo di notabili, di nobili o di popolo esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le risoluzioni pubbliche e quello di punire i delitti o le controversie dei privati”. L’idea che la separazione del potere sovrano tra più soggetti sia una maniera efficace per impedire abusi affonda le sue radici nella tradizione filosofica della Grecia classica. Platone ne La Repubblica sostiene l’autonomia del giudice dal potere politico. Aristotele, nella Politica, delinea una forma di governo misto denominata politìa, una condizione di equilibrio tra oligarchia e democrazia, o meglio, una democrazia temperata dalla oligarchia. Aristotele, per di più, distingue tre momenti nell’attività dello Stato: deliberativo, esecutivo e giudiziario. In tempi più recenti, nella seconda metà del Seicento, John Locke sostiene la necessità di affidare ciascuna funzione a soggetti diversi. Montesquieu apre però la strada alla politica moderna, perfezionando la teoria della separazione dei poteri già presente in Locke. Il giurista francese trasforma la sua ricerca scientifica e sociologica in un programma morale e politico: come strutturare un sistema di leggi che, nelle condizioni storiche date, produca il massimo di libertà.“La libertà politica è quella tranquillità di spirito che la coscienza della propria sicurezza dà a ciascun cittadino; e condizione di questa libertà è un governo organizzato in modo tale che nessun cittadino possa temere un altro”. Si può definire libera solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui affidato. Per contrastare tale abuso bisogna far sì che “il potere arresti il potere”, cioè che i tre poteri fondamentali siano affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all’altro di oltrepassare il proprio limite, degenerando in tirannìa. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perché distruggerebbe la “bilancia dei poteri” che costituisce l’unica salvaguardia o “garanzia” costituzionale in cui risiede la libertà effettiva dei cittadini. Secondo Montesquieu“Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica” e il dispotismo, anche se rappresenta una forma “naturale” di governo, è il pericolo supremo da evitare, in quanto una sola persona “senza né leggi né impedimenti trascina tutto e tutti dietro la sua volontà e i suoi capricci”. Montesquieu struttura un metodo di interpretazione delle leggi in cui scompare l’alternativa tra legge naturale universale e immutabile, di cui avevano parlato i giusnaturalisti, e l’incertezza o l’arbitrarietà delle leggi positive su cui, dai sofisti greci fino a Montaigne e Pascal, si basava il dubbio scettico sulla stabilità della giustizia umana. Montesquieu cerca di dimostrare come, nonostante la diversità e la complessità degli eventi, la Storia abbia un ordine e manifesti l’azione di leggi costanti in grado di superare i contrasti. Ogni Stato, a sua volta, ha le proprie leggi che non sono mai casuali o arbitrarie, ma strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione, addirittura dal clima. Montesquieu sostiene però che sia possibile stabilire, metodologicamente, i princìpi che regolano le leggi e ne determinano il carattere e la natura: le leggi, cioè, non si formano a caso, o secondo il capriccio di qualche individuo, ma seguono la direzione loro imposta da tutto un insieme di condizioni che è compito dello studioso indagare. Lo “spirito” delle leggi corrisponde all’anima dell’insieme di norme che regolano le relazioni umane nelle diverse società. Poiché tali norme variano nei diversi popoli, non è possibile valutarle in relazione a uno schema di princìpi dotati di validità assoluta, ma ne va chiarita caso per caso la dinamica interna, facendo uso di criteri costanti riconducibili all’esprit général che rappresenta il collante, il tessuto connettivo di ogni sistema giuridico, un principio non naturale e statico ma storicamente dinamico, di cui ogni legislatore deve tener conto. Il metodo di Montesquieu presuppone che i fenomeni sociali possano essere spiegati con leggi scientificamente rilevanti come quelle delle scienze naturali: le società umane, al pari di ogni essere vivente, sono sottoposte all’azione che deriva dall’intreccio delle situazioni e delle proprie caratteristiche fisiche e spirituali. Montesquieu tenta di organizzare il Diritto in categorie semplici alle quali ricondurre la grande varietà della struttura giuridica e sociale; mette in luce il grande ruolo assunto dalla Storia ed infine, sul piano politico, tenta di strutturare un modello pratico di società per salvaguardarla dai regimi dispotici. Seguendo le orme del Saggio sul governo civile di Locke, Montesquieu definisce le leggi “rap­porti necessari che derivano dalla natura delle cose” nonché manifestazione della ragione umana. In una società civile le leggi fungono da elementi regolatori in grado di mediare le tendenze individuali, in vista del perseguimento di un obiettivo comune. Dimostrato che il mondo fisico come il mondo dell’intelligenza dipendono da rapporti intrinseci alla loro stessa esistenza, Montesquieu esamina l’intreccio delle forze che agiscono nelle varie società storiche per sco­prire coerenze e discordanze delle istituzioni e delle leggi rispetto alla loro essenziale necessità, al loro “esprit”. Le leggi fondamentali dello Stato prescindono dal principio e dalla natura del governo che per Montesquieu può essere repubblicano, monarchico o dispotico, a seconda che vi prevalga il principio della virtù, dell’onore o della paura. La stabilità dello Stato dipende dal principio del governo e si basa sulla coerenza delle sue leggi. Nella situazione storica in cui le leggi si dimostrino aber­ranti dall’esprit général che le ha determinate e le sorregge è necessario individuare la natura e la ragioni dell’errore. Quando il principio si corrompe, le migliori leggi diventano distruttive. Il principio della democrazia, ad esempio, si corrompe quando la nazione perde lo spirito d’uguaglianza o lo interpreta arbitrariamente. Nel suo capolavoro Montesquieu si propone di estendere allo studio della società umana il metodo sperimentale per fissare dei “princìpi” universali volti ad organizzare logicamente l’infinita molteplicità delle usanze, delle norme giuridiche, delle credenze religiose, delle forme politiche e per formulare, infine, leggi obiettive secondo le quali si articola costantemente, sotto l’apparenza del caso, l’incostante comportamento degli uomini. Non rifiuta la concezione machiavellica della politica come forza, ma la integra con un’accurata analisi delle molteplici “cause” – storiche, politiche, fisiche, geografiche e morali – che operano negli eventi umani. Le leggi positive formulate da Montesquieu riguardano principalmente: il diritto delle genti (leggi che regolano i rapporti esistenti tra i vari stati); il diritto politico (leggi che regolano i rapporti tra Stato e società civile); il diritto civile (leggi che regolano i rapporti tra i componenti della società civile). Rinuncia comunque alla ricerca della miglior forma di Stato, cara alla letteratura utopistica, e tenta di stabilire, concretamente, le condizioni che garantiscono, nelle diverse forme di governo, l’optimum della convivenza civile: la libertà. Il suo realismo e relativismo si salda con un alto intento normativo: un invito alla razionalizzazione delle leggi e delle istituzioni.

DA MARX ALLA RIFONDAZIONE. Giovanni De Sio Cesari.

PREMESSA. Nel secolo scorso due grandi movimenti mondiali si sono confrontati su tutti i piani possibili: il socialismo e il capitalismo. Il socialismo (e il comunismo) parlava di uguaglianza, di giustizia sociale, di solidarietà, era dalla parte dei poveri e degli oppressi; il capitalismo (liberismo) invece esaltava la competizione, puntava sull'egoismo, era dalla parte dei potenti. Per questo i giovani, i poeti, gli intellettuali, tutti quelli che avevano a cuore le sorti dell'umanità inclinavano sempre verso il socialismo. Tuttavia alla fine del secolo il capitalismo (liberismo) si è dimostrato, potremmo dire “purtroppo”, la forma più adatta alla civiltà industriale: il socialismo in parte è confluito nel capitalismo stesso e nella sua manifestazione più coerente e radicale, il comunismo, si è dissolto. In particolare il comunismo marxista è stato, in positivo o in negativo, il protagonista della storia del secolo scorso: nel nostro secolo invece è sparito come grande movimento storico anche nei paesi che si dicono ancora comunisti (Cina, Viet-nam tranne forse Cuba e Nord Corea) ed è rimasto una aspirazione di piccole minoranze politicamente ininfluenti. Almeno per le prossime generazioni il socialismo può rimanere una bella e nobile ideale ma non ha nessuna possibilità di realizzazione nella realtà nei fatti. Per un secolo quasi quindi Marx è stato il punto sul quale il mondo si divideva fra quelli che lo sostenevano e quelli che gli erano contrari: adesso il suo pensiero è fuori della realtà politica ma può dare suggerimenti, spunti, idee. Succede per Marx come per Mazzini o per Voltaire: ai loro tempi divisero il mondo ma ora sono un patrimonio comune: non siamo più contro o a favore di Mazzini, come i nostri antenati, ma giudichiamo storicamente Mazzini (e i liberali) insieme ai loro avversari reazionari, qualche volta anche riabilitandoli (come i Borboni di Napoli). Però Mazzini e gli illuministi furono dei vincitori nella storia nel senso che le generazioni che vennero dopo di loro li acclamarono come propri maestri: la storia invece ha dato torto a Marx: le statue di Mazzini sono ancora ovunque ma non se ne vedono di Marx. Ma questo nulla toglie al fatto che il pensiero di Marx rimane uno dei fondamenti della nostra cultura e della nostra civiltà. Il termine di marxismo e di comunismo viene usato in molti significati diversi e tutti validi e non ha senso parlare di "vero" comunismo contrapposto a un "falso" comunismo: le parole importanti hanno sempre tanti significati diversi e non vi è certo un copyright sul termine. Si definiscono comunisti e marxisti Stalin e Troztski, Togliatti e i sessantottini, Mao e Deng Xiaoping, (attuale dirigenza cinese ). Fondamentale è la distinzione poi fra pensiero marxiano (proprio di Marx, d'altra parte con tante interpretazioni ) e il marxismo (cioè il movimento che si fa ad esso, estremamente vario). In questa lavoro intendiamo mostrare brevemente l’evoluzione dal pensiero proprio di Marx fino a certe posizioni della cosi detta Sinistra Alternativa (S.A.) diffusa in tutto il mondo occidentale che, benchè tagliata ormai fuori dalla possibilità di governo, tuttavia mantiene un suo seguito vivace e attivo nella vita politica.

MARX : LA SCIENZA. La teoria di Marx non era un semplice pauperismo, incentrato sulle idee di giustizia e umanità (socialismo utopistico) ma voleva essere una disanima scientifica. La sua opera fondamentale venne intitolata, non a caso. “il capitale” (non “il comunismo”) perchè Marx intendeva mostrare, attraverso una analisi scientifica dell’economia capitalista che essa necessariamente doveva dissolversi per le proprie contraddizione interne e strutturali , non superabili. In sintesi, senza scendere nelle argomentazioni tecniche, Marx legò la sua dottrina alla previsione "scientifica" che i ricchi sarebbero stati sempre più pochi e sempre più ricchi (borghesi) e i poveri sarebbero stati sempre più numerosi e sempre più poveri (proletari) con la sparizione del ceto medio e dei lavoratori indipendenti. Ma questa previsione non si è affatto verificata: anzi è avvenuto il contrario di quanto previsto da Marx. In tutti i paesi capitalistici il ceto medio si è esteso fino a comprendere la grande maggioranza della popolazione e i lavoratori indipendenti sono sempre più numerosi di quelli dipendenti. Non esiste quindi una lotta del proletariato contro la borghesia perchè le due classi, nel senso marxiano, non esistono più. Le minoranze povere come gli emarginati, i giovani disoccupati, le famiglie monoredditi, gli emigrati, sono cosa diversa dal proletariato marxiano. I lavoratori non si identificano più con i salariati proletari di Marx: la classe dei lavoratori ha cambiato profondamente i suoi i caratteri. In essa confluiscono gli operai e gli impiegati, i dipendenti e gli autonomi, i professionisti e gli artigiani e i piccoli imprenditori e anche i pensionati e disoccupati: praticamente la classe lavoratrice si identifica con la nazione nel suo insieme. Resterebbero fuori solo i grandi industriali: la lotta di classe consisterebbe allora nella nazionalizzazioni delle grandi imprese: la cosa è stata fatta nel passato e ha dato risultati cosi negativi e catastrofici che tutti ora vogliono fare le privatizzazioni: non sarebbe certo nell'interesse generale cioè dei lavoratori. La lotta di classe attualmente è un concetto privo di significato. Il pensiero di Marx aveva una valore scientifico nel significato moderno del termine cioè non nel senso di verità assoluta (come fu inteso nei suoi tempi e dallo stesso Marx) ma di ipotesi che andava verificata nei fatti. Nella scienza moderna, infatti, si riconosce che non si può giungere alla verità ultima e definitiva dei fenomeni, alla essenza cioè come nella scienza antica ma che le leggi scientifiche sono ipotesi che spiegano i fatti FINO AD ORA osservati. Poichè nel caso di Marx la previsione si è dimostrata errata evidentemente anche la teoria era errata, come avviene nel campo delle scienze. Ma il fatto che le previsione non si siano verificate non toglie al fatto che la teoria fosse scientifica: bisogna solo prendere atto che si tratta di una teoria superata , “falsificata”, come si dice, dai fatti. Essa comunque conserva una grande importanza culturale e costituisce pur sempre una delle componenti fondamentali della cultura moderna.

SOCIALISMO REALE: LA RELIGIONE. E poi venne nel ‘17 la Rivoluzione Bolscevica in Russia. In realtà si trattava di qualcosa di profondamente diverso da quanto previsto “scientificamente” da Marx. Non si trattava della crisi finale del capitalismo, dell’esplodere delle sua contraddizioni perchè il capitalismo in Russia era appena appena ai primi passi e l’economia era ancora sostanzialmente a carattere feudale. Non esisteva quindi una proletariato nel senso marxiano del termine ma una sterminata moltitudine di contadini intrinsecamente tradizionalisti, come avrebbe detto Marx. Soprattutto non insorgeva, per il comunismo, il popolo nel suo complesso ma una minoranza esigua di rivoluzionari di professione che affermavano, e credevano effettivamente, di essere la autocoscienza del popolo. La caduta del capitalismo era intesa da Marx come un processo spontaneo, irreversibile, sostanzialmente pacifico che sarebbe avvenuto quando i tempi sarebbero stati maturi. Non a torto si era detto che il “Capitale ” era il libro dei capitalisti: si aspettava il crollo ma fino a che esso non sarebbe avvenuto il capitalista poteva tranquillamente godersi la propria ricchezza fino al grande giorno della Rivoluzione: i capitalisti potevano tranquillamente credere in Marx. Ma la Rivoluzione Russa era qualcosa di radicalmente diverso. Tuttavia si affermò che era una strada nuova, non prevista, si pensò anche che era un caso che la Rivoluzione fosse scoppiata in Russia e ci si aspettava che essa fosse dilagata rapidamente nel mondo capitalistico occidentale in America, in Inghilterra, soprattutto nelle Germania della crisi del dopoguerra. Ma questo non avvenne: alla fine degli anni 30 apparve chiaro ed evidente che la rivoluzione comunista non si sarebbe estesa in tempi brevi fuori dalla Russia: di fatto essa poi si estese a paesi poveri ed arretrati come la Cina. Invece in Russia si impiantò il regime staliniano: si sospettavano dappertutto complotti capitalistici, spie delle nemici, una città assediata che esigeva il massimo della disciplina, monastica più che militare. Ma se i fatti avevano smentito la teoria scientifica marxiana, Il marxismo allora divenne allora una religione, la più grande religione del ‘900. Allora tanta parte dell’umanità credette veramente che il regime sovietico avrebbe portato al mondo intero prosperità, giustizia pace. E ci voleva davvero una grande fede per credere che dagli orrori staliniani potesse nascere la società comunista prefigurata da Marx che è come dire che l’inferno in terra avrebbe prodotto il paradiso in terra. Come pensare che un regime che aveva provocato carestie spaventose, che aveva mandato a morte la grande maggioranza dei propri stessi dirigenti in spaventosi processi farsa, che dappertutto aveva sparso il terrore come nessun altro nella storia, era premessa della liberta, della prosperità, della umanizzazione. Ma in tanti ci credettero e i Don Peppone di tutto il mondo pensavano “ha da venì baffone” come di colui che avrebbe finalmente estirpato dal mondo una volta per sempre la ingiustizia e la povertà. E in tanti, in milioni, sacrificarono a questa fede terrena la loro vita e anche la verità e l’evidenza. A un certo punto gli stessi regimi comunisti si resero conto della impossibilita di raggiungere la società preconizzata da Marx. Allora la prospettiva del comunismo marxiano viene allontanato indefinitivamente nel tempo, diviene in pratica una richiamo teorico ufficiale ma in realtà si abbandonò il progetto concreto di instaurarlo, almeno in un futuro prevedibile. Si passa allora a quello che viene definito “capitalismo di stato” e i paesi comunisti in qualche modo si omologano al resto del mondo. L’evidenza e la verità erano divenute troppo forti perchè potessero ancora essere ignorate. Crollò allora la fede nel socialismo reale degradato a capitalismo di stato e il grande sogno del comunismo si spense lentamente nelle masse di tutto il mondo, lasciando un grande vuoto. Il comunismo era rappresentato da Stalin e Togliatti, Mao o i Kmer rossi, da quel terzo dell’umanità che aveva abbracciato quel sistema che sembrava allargarsi all'Asia tutta, all'Africa, all'America Latina: "le campagne che assediavano le citta," si disse. Poi a un certo punto è stato detto che quello non era il "vero" comunismo marxista, si e' parlato di "strappo" (nel 68), di "esaurimento della spinta propulsiva". Poi quel sistema è imploso improvvisamente dappertutto per decisone unanime degli stessi dirigenti (fatto forse unico nella storia) fra la soddisfazione dei popoli. Nessuno si richiama ad esso ma si parla al più di una rifondazione mentre invece il modello liberistico non solo ha vinto la sfida ma ha preso dovunque il posto del comunismo (Cina, Russia, paesi dell'est).

LA RIFONDAZIONE : LA SETTA. Ma se i regimi comunisti ormai sono spariti o quasi dalla storia quella antica religione del comunismo non è affatto spenta: continua nei gruppi della Sinistra Alternativa, piccoli di numero ma estremamente attivi sul piano ideologico e delle manifestazioni politiche. Già negli anni 60, e poi soprattutto con la contestazione del 68, quaranta anni fa ormai, si disse che non era finito il comunismo marxista ma solo una sua deviazione che non aveva niente a che fare con il vero pensiero marxiano. Infatti quando si dissolsero i miti comunisti, la maggioranza dei comunisti con Berlinguer si posero come i “veri” democristiani (la definizione e’ di Pasolini) cioè quelli che volevano realizzare quello che i democristiani avevano promesso ma non realizzato e massima aspirazione il compromesso con DC stessa: la democrazia borghese divenne allora la democrazia e basta, il capitalismo divenne l’economia di mercato, e si fece lo strappo da "Mosca". Ma la minoranza combattiva e motivata invece voleva rifondare il comunismo su nuove basi che non fossero quelle del socialismo reale: continuò sempre a vagheggiare una società alternativa ma in modo sempre più confuso e vago. L'esigenza della rifondazione nasce dall'idea che il comunismo realizzato sia una cosa sostanzialmente diversa da quello che Marx intendeva: si dice qualcosa di vero ma si pone anche una grande questione che non può essere ignorata: perche mai tutti quelli che per due generazioni hanno detto, e sono stati universalmente creduti, di seguire Marx, perche mai tutti poi hanno costruito sistemi tanto diversi da quello marxista? Perche erano tutti dei malvagi, dei traditori opportunisti, spie della CIA? Chi mai ci crederebbero e comunque nello spirito di Marx sono le condizioni materiali e non la moralità degli uomini a fare la storia. Non si accetta la spiegazione più elementare: il pensiero di Marx era inattuabile e per questo chi ha cercato ostinatamente di attuarlo ha costruito qualcosa di diverso, ha creduto di portare il paradiso in terra ma ha invece costruito solo l'inferno in terra. Quando vi era il grande partito comunista guidato da Togliatti, il migliore, il discorso era chiaro: si contrapponeva alla democrazia borghese la dittatura del proletariato, al capitalismo la economia pianificata, all’America l’Unione Sovietica. L’alternativa attualmente proposta invece non si capisce bene “cosa” sia, con quali “mezzi” attuarla (la rivoluzione e la via elettorale sembrano ambedue escluse), soprattutto “quando” (non pare in questa generazione). Alla fine raccoglie consensi da un piccolissimo gruppo di appassionati e dai molti scontenti (voto di protesta). L’inquadramento della realtà non corrispondono a quello della gente (cioè di quelli (nella stragrande maggioranza) non particolarmente politicizzati): la gente ha il problema del mutuo, della precarietà, dell’aumento degli alimentari e la S.A. parla di Multinazionali, di Afganistan, della base di Vicenza, di fascismo. I modelli cioè sono quelli di un altra società ALTERNATIVA e non corrispondono a quelli della società attuale: in altre parole si tratta di una filosofia che vagheggia una società che non esiste e non di un discorso politico che indica i mezzi per operare in quella che c'è. I gruppi marxisti hanno quindi assunto l'aspetto di una setta che va sempre più rimpicciolendosi ma che resiste, coraggiosa e indomita. Come tutte le sette è chiusa in se, impermeabile al mondo esterno: ritiene che tutti gli altri, il 98% delle persone non ha capito nulla o che è corrotta, o che è succube di un inganno globale o della TV, che ogni avvenimento si spiega con il complotto dei capitalisti e della Cia. Afferma che la fine del mondo capitalistico è dietro l’angolo anche se poi se ne sposta continuamente la data come fanno i testimoni di Geova, sulla fine del mondo. Anche le parole assumono significati diversi da quelli comuni e compare un frasario oscuro, incomprensibili ai non adepti. Non avendo quindi proposte proprie, concrete ed effettive, ha sostenute le “buone” cause che però non c’entravano niente con il comunismo: il pacifismo il divorzio, i gay, l’anti consumismo. Per colmo di assurdo sostengono pure HAMAS che è quanto di più lontano si possa immaginare dal comunismo e dalla sinistra in generale. Tuttavia i gruppi marxisti della Sinistra Alternativa assolvono a una importante funzione nelle democrazie occidentali in cui sono comunque inseriti e partecipi: rappresentano infatti la voce dissenziente che mette in discussione i concetti dominanti, le prospettive condivise, la direzione stessa verso cui corre la società. Costituiscono quindi una riserva essenziale di pensiero critico che va oltre le prospettive immediate e realizzabili, di tenere aperta cioè una alternativa logica alla necessita del momento. Riveste cioè quelle caratteristiche che furono anche nella storia del passato proprie delle sette alle quali si devono anche molti sviluppi della civiltà e della cultura. Giovanni De Sio Cesari

Il nuovo fascismo: Liberale, Antifascista ed Europeista. Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019 su Nicolaporro.it.  Caro Nicola, oggi il mio pezzo comincia a mo’ di lettera perché dobbiamo riconoscerci sconfitti. La nostra battaglia per la libertà, di parola prima di tutto, condotta fin dall’inizio da te, e da noi tutti, è persa. Me lo confermano due recenti fatti. Uno, di cui scrive Azzurra Barbuto su Libero del’8 ottobre: un insegnante livornese accusata di razzismo, e richiamata dai superiori, per aver proposto in classe un’esercitazione in cui si contrapponevano le ragioni dei favorevoli a quelle dei contrari all’immigrazione, senza prendere posizione. Come ha osato? Sarebbe come se nella Germania nazista si fronteggiassero le ragioni dei nazisti a quelle degli altri: l’accusa di essere ostile al Fuhrer sarebbe scattata subito. O come se in uno qualsiasi dei regimi comunisti si opponessero le ragioni del marxismo-leninismo a quelle degli altri: insegnante buttata fuori subito in quanto “traditrice del popolo”. Secondo fatto, da La Verità del 9 ottobre: i verdi italiani, riunitisi in una cabina telefonica, chiedono formalmente ai giornali e alle Tv di non ospitare le ragioni degli scienziati negazionisti: quelli che non credono alla (balla) della emergenza climatica. Non si capisce quale ritorsione i gretini nostrani minaccino, per i reprobi che continuino a pubblicare, ad esempio, Franco Battaglia. Ma l’avvertimento è lanciato. Di fronte a tutto ciò dobbiamo dichiararci sconfitti. E in nome del “nuovo umanesimo” professato da Giuseppi e i suoi fratelli (nel doppio senso) dobbiamo essere costruttivi. Ecco alcune proposte. Gli insegnanti di ogni grado, dai nidi all’università, dovranno rispettare i valori del SELA (Stato Etico Liberale Antifascista) che sono: 1) l’Antifascismo (che non abbisogna di spiegazioni, esso è, come l’Essere parmenideo); 2) l’immigrazione è positiva e gli immigrati (tutti profughi) sono intrinsecamente buoni, ci arricchiscono sia materialmente che spiritualmente; 3) l’emergenza climatica è un dogma inoppugnabile; 4) l’Europa è la nostra patria, le nazioni e i confini non esistono, l’Euro ci ha reso tutti più ricchi e felici. Gli insegnanti sono obbligati, al di là delle loro materie, a insistere sempre su questi valori e a ribadirli durante le ore di lezione: quindi avremo la Letteratura Liberale, la Matematica Liberale, il Disegno tecnico Liberale, la Musica liberale, e via dicendo. Apposite ore saranno tuttavia riservate per l’insegnamento della MLAE (Mistica Liberale Antifascista Europeista). Qualsiasi insegnante sia colto a mettere in dubbio questi valori sarà immediatamente licenziato ed eventualmente deferito al TDRLA (Tribunale per la Difesa della Razza Liberale Antifascista). Sarà fatto divieto agli insegnanti di mettere in dubbio i valori del SELA anche sui social, che saranno controllati da un‘apposita commissione del Ministero della Educazione Liberale Europeista. Chiunque anche solo ponga un like su post contrari ai valori del SELA sarà licenziato. Ma poiché il privato è pubblico e il pubblico è privato, grazie ai sistemi di ricognizione facciale e alle tecnologie introdotte dalla Cina comunista (un modello per il SELA), l’insegnante sarà licenziato anche se dovesse dubitare dei valori Liberali Antifascisti Europeisti in piscina o al bar. Sui pensieri, si sta lavorando, ma anche qui con l’apporto di Pechino si stanno facendo passi avanti. Per quanto riguarda invece i giornalisti, chiunque voglia scrivere su testate cartacee, on line o in tv o in radio dovrà possedere la tessera dell’OGLE (Ordine dei Giornalisti Liberali Europeisti). Qualsiasi giornale ospitasse pezzi scritti da estranei all’Ordine sarà chiuso. Ogni pezzo sarà comunque preventivamente controllato dal Ministero della Cultura Liberale Antifascista, ricordato più speditamente come MINCULA (senza apostrofo). Il MINCULA provvederà, attraverso appositi algoritmi, a modificare e a riscrivere pezzi che mettano in dubbio i valori del SELA. E’ chiaro che alla quinta modifica di pezzo nel corso di un mese, il MINCULA farà chiudere il giornale. Tutto questo, oltre che estremamente Liberale Antifascista ed Europeista, mi sembra anche nuovo per il nostro paese. O no? Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019

GENERAZIONE Z 2. Carole Hallac per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. Addio Millennials. All' Advertising Week di New York i riflettori sono puntati sui Gen Z, il gruppo demografico più influente del pianeta, e che entro il 2020, rappresenterà 2.56 miliardi di individui e conterà il 40% dei consumatori. Chi sono i Gen Z? Nati dopo il 1996, sono la prima generazione di «social natives», e usano in maniera istintiva e naturale i social media. Bombardati da continue informazioni, la curva per attirare la loro attenzione è di soli otto secondi, ma possono guardare Netflix per ore. Passano di media nove ore al giorno davanti allo schermo, quattro di queste facendo diverse cose allo stesso tempo in quanto abilissimi al multitasking. Per loro, mondo virtuale e quello reale sono realtà complementari, e alcuni considerano Alexa parte della famiglia. Sono diffidenti verso la classe dirigente, e più sovversivi dalle generazioni precedenti, capaci con un tweet di mobilitare un boicottaggio o creare un movimento per una causa a cui credono. La «we generation» I Gen Z si distinguono dai Millenials, considerati la generazione dell'«io», per essere quella del «noi» e usano i social media per creare comunità e non solo connessioni individuali. Pensano al noi in senso globale, non solo al proprio cerchio di amicizie, e sono sensibili al benessere collettivo. Negli Stati Uniti, il 51% appartiene a gruppi di minoranze, una diversità che vogliono celebrare. Questo vale anche per l' orientamento sessuale: solo due terzi si considera eterosessuale, e sin da piccoli, rigettano la divisione binaria spronando Mattel a introdurre una bambola no gender. Hanno a cuore l' eco sostenibilità, scegliendo brand e aziende che considerano etici (70%), sia per gli acquisti che quando entrano nella forza lavoro. Desiderio di autonomia Grazie all' uso delle risorse online, in particolare YouTube, i Gen Z hanno l' abilità di auto educarsi e ritenere un grande numero di informazioni. «Maturano sia fisicamente che mentalmente prima delle altre generazioni - spiega Monica Dreger, VP di Mattel - e ora sono parte delle decisioni importanti in famiglia, come l' acquisto di una casa o di una macchina». Il desiderio di autonomia spinge molti a lasciare gli studi dopo il liceo o lanciare il proprio business, e, sul lavoro, prediligono l' indipendenza mentre i Millennials cercano la collaborazione.

Il rapporto con i social. Il 94% dei Gen Z usa almeno un canale social, a cui quasi la metà ammette di essere costantemente connessa. In una ricerca dell' agenzia Hill Holiday, è pero emerso che il numero di Gen Z cui i social fanno sentire ansiosi, tristi o depressi, è in aumento (48% contro 41% nel 2017). Molto più giovani stanno cercando di staccarsene temporaneamente (il 58% contro il 50% del 2017), e di questi, un terzo si è completamente disconnesso. Tra le cause, la perdita di tempo, la negatività online, problemi di stima e preoccupazioni sulla privacy. Si rileva un aumento di "Finsta", finti profili Instagram in cui danno accesso a un numero ristretto di amici e sentono meno pressioni di pubblicare immagini di una vita perfetta. Ciò nonostante, il 74% ritiene che i social abbiano più benefici che svantaggi, come l' abilità di connettere con altri. Tra i canali in crescita, Tik Tok (40 milioni di utenti), e la piattaforma di gaming Discord (250 millioni). Come conquistarli La parola chiave per la Gen Z è l' autenticità. «I brand devono prendere sul serio il messaggio che vogliono comunicare, non può essere solo di apparenza - spiega Ziad Ahmed, fondatore ventenne di JUV Consulting, società di consulenza focalizzata sulla Gen Z - Abbiamo un filtro naturale per l' inautenticità». Vogliono sentirsi unici, scegliendo prodotti esclusivi, ad edizione limitata e personalizzati, e amano lo shopping esperenziale, spingendo molti brand digitali a creare negozi e pop up shop.

·         La civiltà ci rende infelici e menefreghisti: La società signorile di massa.

La civiltà ci rende infelici. Ma è l’unico paradiso nell’inferno terrestre. Sossio Giametta il 30 Ottobre 2019 su Il Dubbio. A differenza dello scienziato, mosso solo da una sete di sapere senza minacce e pericoli, il filosofo è costretto a fronteggiare l’enigma bello ma sinistro del mondo. Nella sua Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico ( Parte seconda, proposizione 47), Baruch Spinoza afferma: «La mente umana ha conoscenza adeguata dell’essenza eterna e infinita di Dio». Questa consiste nel mondo che ci circonda, il mondo che è appunto Dio, deus sine natura. Sempre secondo Spinoza, il mondo, cioè la realtà, viene da noi percepito sia secondo l’attributo dell’estensione ( res extensa) sia secondo l’attributo del pensiero ( res cogitans). La scienza si occupa di esso solo secondo l’estensione, ossia come mondo materiale, fisico, ignorando o negando che esso esiste anche come mondo spirituale. Ciò spiega l’inciampo della coscienza, che nessuno scienziato riesce a spiegare. Il solo passo che la scienza fa verso il mondo spirituale è l’ammissione del mondo psichico, però considerato un’emanazione di quello materiale, comprendente gli organismi, che le neuroscienze dunque indagano. La lotta della scienza per la conoscenza del mondo è vecchia quanto l’uomo, ma qui limitiamoci a quella di cui abbiamo notizia a partire dall’antichità classica, in Anassimandro, Leucippo, Democrito eccetera. Parlo di “lotta” perché il mondo, intendendo per esso l’intera realtà e non solo l’universo fisico, non si può logicamente pensare se non come infinito ( e quindi gli universi come infiniti), e nella sua infinità è un mistero insondabile ( benché sia in sé la cosa elementare e quindi più semplice), perché conoscere è riportare l’ignoto al noto e il mondo non si può riportare a niente, niente esistendo al di fuori di esso. È stato infatti definito da Anassimandro il perìecon e da Jaspers das Umgreifende, il tuttoabbracciante. L’uomo, che spunta in esso in un punto preciso dello spazio e del tempo, cioè della geografia e della storia, non potrà mai abbracciare ciò che, abbracciando tutto senza eccezioni, abbraccia anche lui come parte infinitesimale del tutto. Il mondo tuttavia non è chiuso alla conoscenza ( parziale) umana: da sempre l’uomo si adopera per conoscerlo sempre di più, e sebbene permanga l’ostacolo insuperabile della sua infinità, che sconvolge ogni finito e ben ordinato sistema, le tappe che l’uomo ha segnate nella conoscenza di esso sono prodigiose, specie nel 1900 con la teoria della relatività di Einstein e la fisica quantistica di Eisenberg e Bohr ( e altri). Aumentano così sempre più, con soddisfazione degli scienziati e avanzamento dell’uomo in genere, che è sbarcato sulla Luna e pensa sempre più a Marte, per non parlare delle innumerevoli utilità apportate alla vita umana dalla tecnologia o scienza applicata. L’ambizione degli scienziati di scoprire la legge di tutti i fenomeni, è tuttavia un sogno impossibile, data l’impossibilità sopra rilevata di raggiungere l’infinità a partire dal finito. L’esagono iscritto nel cerchio può diventare ottagono e crescere ancora, ma non coinciderà mai col cerchio, diceva il grande Cusano. Per questo motivo, in particolare per il fatto di procedere secondo il metodo sperimentale, che dà una notevole garanzia al suo sapere anche se non la certezza, come si pensava una volta ( con la fisica quantistica siamo alla probabilità e alla statistica, e con la scienza alla provvisorietà), la scienza si è inorgoglita di fronte alla filosofia, che non funziona col metodo sperimentale ed è aperta a errori e assurdità, come, con una frase diventata celebre, notò già Cicerone, amatissimo della filosofia. La scienza si vanta quindi di aver ormai spodestato la filosofia, pur provenendo da essa come la farfalla dalla crisalide, secondo una metafora di Edoardo Boncinelli. Ma va notato che il metodo sperimentale, pur essendo l’arma principale della scienza, ne segna anche il limite, perché la inchioda all’unico universo di cui abbiamo notizia ed esperienza, mentre, come affermò già nel Cinquecento Giordano Bruno, gli universi sono, cioè non si possono pensare che come infiniti, sia nella successione sia nella contemporaneità ( sia nel tempo sia nello spazio). Ora, l’impresa scientifica fa indubbiamente parte della grandezza umana ed è fonte di continui acquisti, anche se non tutti di natura benigna ( si pensi alla bomba atomica). Ma così va la vita: il bene è legato al male in maniera, sembra, indissolubile; quindi non si può che cercare di tenere e rafforzare il bene e scongiurare o indebolire il male. Così però non è avvenuto nel secolo scorso, quando invece è avvenuto il contrario, cioè il peggio del peggio che aveva mai fatto registrare la storia umana. Ma cerchiamo di capire per il momento su che cosa si fondi il genio scientifico. Quanto alla sua origine, Platone direbbe probabilmente che esso consiste nell’anamnesi, ossia nei ricordi latenti in noi delle idee conosciute in una vita anteriore. Secondo noi, esso si fonda invece sull’omogeneità e consustanzialità dell’uomo con la natura, la quale è presente in ogni sua parte sempre nella sua totalità, sicché, se ricorre l’opportuna occasione, omogeneità e consustanzialità si attivano, illuminando le zone rimaste fino allora nell’ombra. Si dice che poeti si nasce, ed vero, ma si nasce anche filosofi e scienziati, e magari anche artefici delle calzature e dell’abbigliamento come Ferragamo. Chiesero al mitico Totò come mai fosse diventato comico. Rispose semplicemente: «Perché sono nato così». Di più, infatti, non si può dire, anche se, d’altra parte, non si può neanche non sospettare che, essendo la specie un organismo tanto più articolato quanti più sono i suoi membri, ogni genialità eserciti una funzione di mediazione necessaria per la vita complessiva di tale organismo, come i diversi organi del corpo umano esercitano funzioni diverse che confluiscono nella vita complessiva dell’organismo. La complementarità che può unire le cose più disparate e più lontane l’una dall’altra, è tale che, per fare l’esempio più banale, dove c’è un fascista lì ci sarà verosimilmente anche un comunista. Si nasce scienziato, in particolare, quando il pensiero di fenomeni tra loro distanti e apparentemente tra loro estranei, attirano come tali l’attenzione e provocano in chi li osserva il tentativo di accomunarli. La stessa cosa avviene in filosofia. Per il fatto di essere nati dall’incontro sessuale di un uomo e una donna, noi ci troviamo a vivere in un mondo che è un uragano di energia e di cui ignoriamo origine, senso e fine ( non li ha), mentre la sua potenza immane, selvaggia, rispetto alla quale noi siamo pochissima cosa, ci minaccia in più modi. Per orientarci in questo gigantesco labirinto e cercarvi il necessario per vivere, noi abbiamo l’intelletto, l’“organon” secondo Aristotele, che inquadra l’esperienza, i fenomeni nello spazio e nel tempo e ne cerca la causa. Se non la trova si incanta, sia nel senso della meraviglia ( da cui si dice e ridice che nasce la filosofia), sia nel senso dell’ostacolo che ciò rappresenta al procedere oltre: è il thaumàzein greco, lo stupire anche per paura, lo stupere latino, star fermo, immobile, e l’admiratio di Spinoza, che blocca appunto la mente. Ma sotto la pressione delle circostanze gli uomini, se non riescono a trovare la causa vera o presunta delle cose sconosciute, non se ne rimangono imbambolati: non se lo possono permettere. Passano ad altro, salvo qualcuno che ci si ferma su – e diventa filosofo. Perché anche se riesce a risolvere il problema che lo aveva bloccato, si trova poi a far fronte agli altri che da quello derivano e sono con quello collegati, finché ne costituiscono una serie che inchioda la sua attenzione. A differenza dello scienziato, dunque, che è mosso solo dalla sua sete di sapere e non è minacciato da alcun pericolo particolare, quindi ha vita serena, il filosofo è invece costretto a fronteggiare l’enigma bello ma sinistro del mondo dal fatto che il mondo, la natura, minaccia l’uomo con la sua strapotenza indifferente, per la quale un uragano forza cinque, come Dorian che ha imperversato sulle Bahamas lo scorso mese seminando morte e devastazione, come pure, d’altra parte, il genocidio degli ebrei ad opera dei nazisti avvenuto nella seconda guerra mondiale, sono fenomeni che non scalfiscono minimamente l’ordine della natura e non ne mutano minimamente il corso. Quindi, benché male armato, per non dire impotente, il filosofo non può fare a meno di affrontare la continua minaccia della natura. È un David che non può non affrontare un Golia, pur sapendo che, a differenza del David leggendario, a lui non potrà mai arridere la vittoria finale, il suo sarà sempre un naufragio. Per questo fatto, che il filosofo è spropositatamente piccolo e affronta un nemico spropositatamente grande ( « La nature, voilà l’ennemie! » ), egli è destinato a cadere in assurdità tragicomiche, mentre lo scienziato è al riparo da ciò. La sua è teoria suscitata solo da un bisogno teoretico, mentre la speculazione del filosofo è teoria suscitata da una reazione a pericoli gravi. E questa è la fondamentale differenza tra scienza e filosofia, differenza per cui la scienza non potrà mai superare la filosofia, dato che non si occupa dei suoi problemi, che sono i problemi principali dell’uomo..

La filosofia non porta agli uomini l’utilità che porta loro la scienza? Che cos’è allora la civiltà, costruita a forza di lavoro secolare, millenario soprattutto dai Platone e Aristotele, dagli Hobbes e Spinoza, dai Rousseau e Voltaire, dai Montesquieu e Tocqueville? La civiltà, per quanto imperfetta e piena di disagi ( Freud), è il paradiso creato nell’inferno della terra, la chiazza d’olio che placa le acque nell’Oceano in tempesta, il sogno aureo realizzato dall’uomo che lo salva dalla giungla, dalla lotta bestiale e irremissibile per l’esistenza e consente una vita non selvaggia, non bestiale, non infernale, per quanto anche non angelica. La civiltà è il grande capolavoro creato dagli uomini per gli uomini, soprattutto con la guida della filosofia, ed è l’utilità massima.

Federico Fubini, un forte allarme. L’Italia è malata di noncuranza. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019  Corriere.itdi Federico Fubini. La prefazione del libro (edito da Solferino) in cui la firma del «Corriere della Sera» dialoga con lo studioso bulgaro Ivan Krastev. Per l’ultima volta trent’anni fa l’Europa fu teatro di eventi che il resto del mondo non poté fare a meno di seguire con entusiasmo. Chiunque all’epoca fosse almeno un bambino ne ha un ricordo diverso, eppure quasi sempre con un punto in comune: in Occidente la memoria di quegli eventi è organizzata per immagini. Non esperienze personali, ma filmati: statue di Lenin che cadono o gente che si arrampica sopra il Muro di Berlino. Federico Fubini e Ivan Krastev, «L’impero diviso», in libreria per Solferino (pagine 175, euro 15)Il crollo del comunismo fu il trionfo dell’aspirazione alla libertà di milioni di europei, ma per chi viveva nella parte occidentale del continente rappresentò anche l’apoteosi di qualche breve sequenza televisiva come sintesi della storia. L’effetto su centinaia di milioni di occidentali fu così potente che da allora si è continuato a cercare di riviverlo. Quando nel 2003 gli iracheni tirarono giù la statua di Saddam Hussein a Bagdad, sospinti dall’esercito americano, il rito apparve subito un po’ posticcio. Ma in fondo discendeva dall’estetica del 1989. Una generazione di europei è cresciuta sapendo benissimo quale fosse il messaggio di quelle statue che continuavano a cadere: la storia ha una direzione — la nostra — perché gli esseri umani aspirano a essere liberi e a far sentire la propria voce. Tale convinzione ha poi un corollario che riguarda le condizioni materiali di vita: le stesse persone che vogliono essere libere sono anche guidate dall’intenzione di migliorare il proprio status e sono capacissime di agire, se viene dato loro uno spiraglio, per realizzare queste aspirazioni. Siamo animali razionali: comprendiamo il nostro interesse, e perseguirlo ci viene naturale. Questo dicevano quelle statue precipitando in mezzo alla polvere. Per lo meno, questo è ciò che noi udivamo nel frastuono della caduta. Da allora si fatica a ripescare nella memoria immagini altrettanto esaltanti, ma meno vecchie. Le rivolte arabe hanno portato una guerra interminabile in Siria e una dittatura militare in Egitto. Le rivoluzioni colorate in Ucraina o in Georgia hanno portato l’ingerenza militare della Russia. Nel frattempo Freedom House ha stimato che nel 2018 per il tredicesimo anno la democrazia rappresentativa era in ritirata nel mondo. In Ungheria un unico partito controlla le istituzioni e la vita civile, in Polonia il potere politico ha invaso lo spazio giudiziario. Eppure i governi in questione sono rimasti popolari fra i cittadini, e l’Unione Europea li ha lasciati sostanzialmente indisturbati. Non ha cercato di affermare i principi per i quali trent’anni fa tutti ci eravamo incollati ai televisori. Del resto, quando immagini simili a quelle di trent’anni fa arrivano ai giorni nostri, presentano differenze che potrebbero farci riflettere. A Hong Kong nell’estate del 2019 un gruppo di manifestanti abbatte una struttura di metallo e cerca di darle fuoco. Il video che mostra la demolizione nei primi otto giorni è stato visto quattordici milioni di volte sulle reti sociali. Anche lì la folla è sovreccitata ma l’oggetto su cui infierisce non è un’immagine, è un palo: sosteneva alla sommità una telecamera cinese per il riconoscimento facciale. A essere abbattuta non è più l’effigie di un’idea, i dimostranti si accaniscono su un sistema di intelligenza artificiale che registra e analizza i tratti del volto dei passanti. È una tecnologia simile a quella applicata in milioni di angoli di strada — con una finalità diversa — in sistemi democratici nei quali le persone ritengono di essere perfettamente libere. Proprio trent’anni fa Hyman Minsky ebbe qualcosa da dire in proposito. Minsky era un economista americano, figlio di esuli menscevichi bielorussi, la cui adolescenza era coincisa con la Grande Depressione. Negli studi si convinse che le persone possano abituarsi talmente tanto a condizioni di vita favorevoli, che iniziano ad agire con noncuranza. Minsky parlava di ciò che lo interessava di più, i mercati finanziari e le loro crisi. Pensava che quando le fasi di stabilità proseguono molto a lungo, gli investitori perdono memoria dei momenti avversi e li percepiscono come un’ipotesi irreale. Si indebitano, si sobbarcano di sempre maggiori rischi, sono ormai del tutto impreparati a un cambiamento del clima. Entrano nelle crisi perché ne hanno perso la memoria. Per più di vent’anni dopo la morte di Minsky questa teoria non venne presa molto sul serio, ma poi nel 2008 il mondo si ricordò di lui. Ma immaginiamo un momento che questo figlio di profughi appartenenti a una minoranza etnica politicamente sconfitta alla periferia di un impero in declino non stesse parlando di finanza. Immaginiamo che stesse parlando di democrazia e di libertà. Può esistere un «momento Minsky» della libertà nel quale gli uomini la perdono, perché perdono la memoria del suo opposto? Questa domanda comporta chiedersi su che gradino i cittadini di un Paese mettano la libertà nella classifica dei loro desideri in confronto ad altri beni: la sicurezza dei confini, l’identità, l’efficienza della giustizia e dello Stato, il senso di ordine e prevedibilità del futuro, il potere d’acquisto. La crisi finanziaria ha dimostrato che la saggezza collettiva degli esseri umani a volte può rivelarsi tutt’altro che tale: l’abitudine al benessere è in grado di sopprimere la percezione del rischio, portando accecamenti e catastrofi. Qualcosa del genere può accadere anche nella relazione psicologica fra i cittadini e la loro libertà collettiva? Una recente ricerca del Pew Research Center mostra per esempio che nel 2018 il 54% degli italiani riteneva pericoloso andare in giro di sera. La loro percezione di insicurezza fisica è più acuta che in tutti i ventisette Paesi nei quali Pew ha condotto il sondaggio, salvo Grecia, Tunisia, Nigeria e Argentina. Eppure, negli indici internazionali sull’incidenza dei delitti, l’Italia risulta meno pericolosa di Stati Uniti, Svezia, Francia, Kenya o Brasile, dove i cittadini si sentono più sicuri che in Italia. Sempre in Italia, solo una minoranza (43%) considera protetto il diritto delle persone a esprimere la propria opinione. E tra i ventisette Paesi nei quali Pew ha rivolto la domanda, solo in Brasile la cittadinanza risulta più scettica riguardo alla propria libertà di parola. Persino in Russia, in Ungheria o nelle Filippine le maggioranze avvertono una maggiore libertà di esprimersi e, ancora una volta, le risposte degli italiani non corrispondono alla realtà: Reporter senza frontiere colloca l’Italia persino sopra gli Stati Uniti per la libertà di stampa. Noi italiani viviamo in democrazia, ma ci sembra di aver già perso le libertà dall’aggressione fisica o da quella nei confronti delle nostre idee. Allo stesso modo, gli italiani per lo più ritengono di non avere opportunità di migliorare il proprio tenore di vita; pensano che la giustizia non sia uguale per tutti; reputano i politici corrotti e indifferenti; ritengono che non possa cambiare granché anche se cambiano i partiti al potere. In altri termini, molte persone in Italia non sembrano più dare importanza al sistema democratico perché pensano che di esso non resti che l’apparenza. I suoi obiettivi a tanti paiono essere già stati traditi. A trent’anni dalla caduta delle statue, da questa parte del Muro parecchio resta da ricostruire e il tempo stringe, prima che arrivi qualcuno a offrire soluzioni diverse.

Tutte le maschere che sfidano il mondo. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 su Corriere.it. «La nostra rivoluzione non aveva testa, ma un corpo e un’anima sì»: la psichiatra Sally Moore ha descritto così la Primavera Araba del 2011 in Egitto. Le rivolte spuntate di recente in giro per il mondo hanno qualcosa in comune con le sorelle di otto anni più grandi: da Hong Kong al Sudan, dal Libano al Cile, appaiono come ribellioni senza leader. Senza una testa, ma spesso con la maschera. Anche se a Hong Kong il potere ha proibito manifestazioni a volto coperto, la «moda» è rimbalzata altrove: Beirut, Santiago, Bagdad, Barcellona. Strategie condivise: in Catalogna per esempio hanno copiato da Hong Kong non solo le maschere ma anche il blocco dell’aeroporto. Lo stile esprime la vena social «orizzontale» delle rivolte 2019. Con risvolti pratici: ci si nasconde il volto per non essere schedati e arrestati. Così come la mancanza (se non altro apparente) di una struttura definita rende più difficile per le autorità smantellare la catena di comando. Ogni movimento ha bisogno di simboli (i gilet gialli in Francia). Le maschere non attirano le critiche di protagonismo riservate ai simboli in carne ed ossa (lo sa bene Greta Thunberg). La spersonalizzazione porta alla rivolta «liquida». I giovani di Hong Kong hanno sposato la massima del conterraneo Bruce Lee: «Siate come l’acqua». Certo, poi ci sono anche le arti marziali, che sul fronte opposto possono diventare repressione guerresca. È stato così in Sudan, quando i militari hanno cercato di spazzare via a forza di massacri la rivolta senza leader guidata dagli ordini professionali (dai medici agli insegnanti) che aveva scalzato il dittatore al-Bashir e chiedeva democrazia. Il pugno di ferro non ha avuto successo: perché i manifestanti non hanno ceduto, e perché il compromesso raggiunto tra militari e civili non allarma i Paesi protettori del regime di Khartoum (comprese le monarchie del Golfo). La spina della repressione varia da luogo a luogo. A Bagdad le forze di sicurezza hanno ucciso centinaia di manifestanti a piazza Tahrir. In un’altra piazza araba che porta lo stesso nome e inneggia alla Liberazione, quella del Cairo, sappiamo com’è finita la prima Primavera egiziana: la rivolta «senza testa» ha lasciato spazio a movimenti più strutturati come la Fratellanza Musulmana, favorendo poi il golpe militare dell’attuale presidente al-Sisi. Ha scritto Gilbert Achcar, docente di relazioni internazionali a Londra, sul quotidiano francese Libération, che la «lezione liquida» di Bruce Lee e la mancanza di strutture rappresentative «può essere un vantaggio all’inizio di una rivolta, ma diventa una debolezza a lungo termine». Con o senza maschera, meglio che ci sia una testa attaccata al corpo.

La società signorile di massa. Dario Di Vico per il “Corriere della sera” il 22 ottobre 2019. Come si concilia la fine della crescita economica con l' affermarsi di un consumo opulento di massa? Come possono stare insieme due fenomenologie apparentemente opposte come quella dei Neet e dei ristoranti pieni? Alle domande che in diverse occasioni ci siamo posti un po' tutti arriva oggi una risposta secca del sociologo torinese Luca Ricolfi: «L' Italia è un tipo unico di configurazione sociale. È una "società signorile di massa", il prodotto dell' innesto di elementi feudali nel corpo principale che pure resta capitalistico». La vis polemica di Ricolfi è conosciuta e apprezzata da tempo ma nel suo ultimo lavoro, La società signorile di massa (La nave di Teseo) il sociologo torinese si è dato un obiettivo più ambizioso: una rilettura delle basi sia antropologiche sia materiali di una società dove il numero di cittadini che non lavorano ha superato ampiamente il numero di quelli che lavorano, l'accesso ai consumi opulenti ha raggiunto una larga parte della popolazione e la produttività è ferma da 20 anni. Nella definizione che fa da titolo all' intero lavoro Ricolfi riconosce un debito culturale nei confronti del suo antico maestro Claudio Napoleoni. Ad alimentare i consumi sono per prime le rendite, la fonte su cui da sempre nobili, proprietari e classe agiata hanno poggiato le loro vite. Siamo diventati signori senza essere stati capitalisti. È tra gli anni Ottanta e i primi anni Duemila che la ricostruzione di Ricolfi colloca i passaggi-chiave verso una società opulenta, che poi descrive così: «Non l'auto ma la seconda auto con gli optional. Non la casa, ma la seconda casa al mare o in montagna. Non la bici ma le costose attrezzature da sub o da sci. Non le solite vacanze d'agosto dai parenti ma weekend lunghi e ripetuti. E ancora: i corsi di judo, l'apericena, i mega schermi piatti. Un consumo che eccede i bisogni essenziali, supera il triplo del livello di sussistenza». Come testimoniano anche i 107 miliardi di spesa per il gioco d' azzardo, il 65% di vacanze lunghe, un' auto e mezza per famiglia, le ripetizioni a manetta per i figli, il 36% iscritto a palestre e centri fitness e la cifra-monstre di 8 milioni di consumatori di sostanze illegali. Questa società signorile, che consuma più di quanto produca, a Ricolfi appare indubitabilmente malata e si regge su tre pilastri. La ricchezza reale e finanziaria accumulata dai nonni, la distruzione della scuola e, infine, la formazione di un'infrastruttura schiavistica, un esercito di paria al servizio dei Signori. Nel 1951 la ricchezza media della famiglia italiana era di circa 100 mila euro, negli anni '90 era salita a 350 mila - grazie al debito pubblico e alle bolle speculative immobiliari - e oggi viaggia su quota 400. «La ricchezza è cresciuta più del reddito» annota Ricolfi. Che riserva parole durissime allo stato di (cattiva) salute della scuola. È stata l'istruzione senza qualità a generare il fenomeno della disoccupazione volontaria che il sociologo riassume simbolicamente nella storia di un pizzaiolo piemontese tra i migliori d' Italia che in otto mesi non è riuscito a coprire un posto da cameriere nel suo locale. «I titoli di studio rilasciati dalla scuola e dall'università sono eccessivi rispetto alle capacità effettivamente trasmesse - rincara Ricolfi - La scolarizzazione di massa ha moltiplicato il numero di aspiranti a posizioni sociali medio-alte ma il numero di tali posizioni resta invariato». I giovani però possono permettersi di rifiutare offerte di lavoro che giudicano inadeguate perché nonni e padri hanno accumulato una quantità di ricchezza senza precedenti. Infine il lato oscuro della società signorile: la «struttura paraschiavistica», quella parte della popolazione residente, per lo più straniera, collocata in ruoli servili a beneficio dei cittadini italiani. Chi sono i paria di Ricolfi? Lavoratori stagionali spesso africani, prostitute, colf, dipendenti in nero, facchini della logistica, muratori dell'Est. Un esercito di 2,7 milioni di persone che genera surplus e eroga servizi a famiglie e imprese e «senza i quali la comunità dei cittadini italiani non potrebbe consumare come fa». Ma l'Italia dei Troppi Signori e dei Tanti Paraschiavi ha un futuro? La sentenza di Ricolfi non lascia adito a dubbi: «Il nostro stupefacente equilibrio è destinato a rompersi, la stagnazione diverrà declino. La società signorile è un prodotto a termine».

Pier Francesco Borgia per “il Giornale” il 24 ottobre 2019. L'Italia si è fermata. E si crogiola in una condizione che è un unicum nel panorama internazionale. Ma questo suo poltrire senza preoccuparsi del futuro potrebbe esserle fatale. È l' allarme contenuto nell' ultimo libro di Luca Ricolfi, in uscita in questi giorni, dal titolo La società signorile di massa (La nave di Teseo). Il sociologo, che ha acquistato fama anche tra i non addetti ai lavori con il bestseller Perché siamo antipatici (2005) in cui analizzava lo «scollamento» della sinistra rispetto ai problemi del Paese e la supposta superiorità morale che finiva per rendere invisa la sua classe dirigente non sono alle opposizioni ma anche ai non schierati, torna in libreria con una tesi molto forte e provocatoria: l' Italia è un Paese caratterizzato da una società signorile di massa. Ovvero una società non povera. E del tutto differente, tra l'altro, rispetto alla narrazione che quotidianamente uomini politici di tutte le provenienze e giornali continuano a proporre. Non siamo senza lavoro, non siamo assediati da immigrati, non siamo senza benessere. Al contrario. La nostra società si fonda su tre pilastri ben precisi. Il primo riguarda la ricchezza accumulata dal dopoguerra a oggi. Ricchezza che consente alla maggioranza degli italiani (in età lavorativa) di non produrre o lavorare. Il secondo pilastro è l' istruzione o meglio il decadimento progressivo che dagli anni Sessanta a oggi vive la scuola e l' accademia italiana. E il terzo (più recente perché presente dalla metà degli anni Ottanta) è un'«infrastruttura paraschiavistica» della società alimentata dall' arrivo degli immigrati. Questo, spiega Ricolfi, porta la nostra società capitalistica a distaccarsi notevolmente dal modello tradizionale (modello «caldo» secondo la nota definizione di Claude Lévi- Strauss). Viviamo insomma in una società sì capitalistica ma «fredda» che mostra anche una connotazione quasi «medievale» con la ricchezza determinata più dalle rendite che dalla produzione. Ricolfi mette poi insieme la sensibilità di Berlusconi e quella della Fornero. «Ci sarà pure la crisi - sosteneva una decina di anni fa il Cavaliere - ma vedo i ristoranti sempre pieni». Frase citata nel libro di Ricolfi insieme con la definizione della Fornero che definiva i nostri giovani choosy e svogliati. Ed è proprio questo il punto. L'Italia ha il record poco invidiabile (come mostra il grafico) dei Neet, cioè giovani che non studiano e nemmeno cercano lavoro. Giovani che vivono nel peggiore, in famiglie dove le pensioni dei nonni permettono loro di vivere senza tante preoccupazioni. Ricolfi, che conosce bene il sistema accademico (insegna all' Università di Torino) assegna una pesante responsabilità anche alla scuola che dagli anni Sessanta a oggi ha abbassato progressivamente l' asticella, producendo un esercito di laureati ignoranti e frustrati. Il confronto con le altre società è impietoso. Questo però non vuol dire che stiamo messi male. Tutt' altro. La nostra è una società opulenta che in Cinquant' anni ha visto quadruplicare il tenore di vita delle famiglie italiane. L' unico serio problema è appunto che questa società è «fredda» e a somma zero (l' emancipazione sociale di uno porta all' impoverimento dell' altro). Il livello paraschiavistico dei lavori più umili e faticosi, che permettono, alla maggioranza di condurre una vita comoda non potrà sostenere a lungo la nostra economia. Ricolfi è sicuro. Ci vuole un radicale cambiamento. Senza dare ricette avverte: una volta che si sono esaurite le pensioni e le rendite: come faranno i Neet a sopravvivere?

Anticipiamo ampi stralci dell’intervista pubblicata da Panorama in edicola da oggi con il professor Luca Ricolfi, sociologo e docente di Analisi dei dati all’università di Torino, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. Ricolfi ha appena pubblicato il libro La società signorile di massa (La nave di Teseo, 272 pagine, 18 euro). Estratto dell’articolo di Maurizio Caverzan per “Panorama” pubblicato da “la Verità” il 30 ottobre 2019. Le caratteristiche della società signorile di massa sono la maggioranza di non occupati sugli occupati, la ricchezza diffusa, la stagnazione economica. Come possono coesistere tre variabili così alternative? «Una società può accedere a consumi, nonostante l'economia non cresca e i suoi cittadini lavorino poco, grazie a quattro meccanismi fondamentali: il ricorso alla ricchezza accumulata dalle generazioni precedenti, l'aumento del debito pubblico, la riduzione del risparmio e degli investimenti a favore del consumo, il ricorso a quella che nel libro chiamo l'infrastruttura paraschiavistica».

Che cos' è l'infrastruttura paraschiavistica?

«È un insieme di segmenti della società italiana, costituiti in misura notevole ma non esclusiva da immigrati, che assicurano servizi, legali e illegali, a basso costo. Nel libro li definisco a uno a uno, giungendo a una stima di 3-4 milioni di soggetti».

L'Italia è l' unica società signorile di massa al mondo. Perché dobbiamo preoccuparci?

«Perché non può durare. Se non si fa nulla, la stagnazione di oggi è destinata a trasformarsi in decrescita. E, con la decrescita, i soldi finiranno». [...] Perché proprio l'Italia detiene il primato dei Neet, giovani che non studiano, non lavorano e non frequentano corsi di formazione, battendo anche la Grecia, il Paese che più si avvicina alla nostra situazione?

«Domanda difficile, perché le ragioni sono tante. In Italia si sono concentrate e stratificate varie condizioni che disincentivano il lavoro. Vorrei ricordarne quattro: la cultura cattolica, meno incline al lavoro di quella protestante; una ricchezza accumulata molto ingente, specie in proporzione al reddito; le scelte assistenziali delle classi dirigenti, che hanno assuefatto vaste porzioni del Paese a vivere di rendita e di sussidi; la scuola e l' università, che rilasciano certificati ingannevoli, creando nei giovani aspettative irrealistiche. [...]».

Perché il mondo della scuola ha abbassato le sue ambizioni mentre il mondo del lavoro le ha mantenute?

«È semplice. Se una scuola, per malinteso senso di benevolenza verso gli studenti, certifica competenze che non ci sono, la scuola stessa non subisce alcun contraccolpo. Mentre se un' impresa, per analogo senso di benevolenza verso gli aspiranti a un lavoro, assume personale impreparato, l'impresa stessa va gambe all' aria».

Com'è stato possibile che la politica abbia lasciato scivolare così in basso il sistema scolastico?

«La spiegazione è ancora più elementare: la severità toglie voti, l'indulgenza li porta. Inoltre c'è anche una ragione ideologica: abbiamo pensato che per aiutare i deboli si dovesse abbassare il livello culturale dell' istruzione: così più ragazzi sarebbero arrivati a un titolo. Peccato che ci arrivino senza una buona preparazione, e quindi siamo da capo: abbiamo ulteriormente indebolito i deboli, invece di rafforzarli perché avessero, attraverso la scuola, le stesse opportunità dei più fortunati».

Siamo un popolo che vive troppo di rendite?

«Certo, se - seguendo i classici - con il termine rendite indichiamo tutto ciò che non è né salario né profitto. Ma non si tratta solo del fatto che, nel bilancio di una famiglia, hanno un peso spropositato le pensioni di vecchiaia, i sussidi, gli interessi, le vincite - o le perdite - al gioco, quattro voci che da sole coprono circa metà del consumo totale. L' altra anomalia è il flusso successorio, ovvero l'immissione continua nel circuito economico di ricchezza che piove dal cielo, in quanto qualcuno, per lo più anziano, muore e trasmette un' eredità. Difficile indicare una cifra esatta, ma si può tranquillamente affermare che il flusso successorio annuale vale almeno cinque leggi finanziarie».

La società a somma zero comporta che alla crescita mia corrisponda la decrescita tua. La prospettiva è un forte aumento della conflittualità sociale? Si espanderanno fenomeni come quello dei gilet gialli in Francia?

«Dipende dal governo. Ci sono mosse che possono incendiare il Paese, per esempio imporre il Pos a tutti i venditori di beni e servizi, compresi i banchetti del mercato. Ma, a mio parere, nessun governo le attuerà, perché tutti gli esecutivi - anche quelli che venerano le tasse - sanno perfettamente che, con le aliquote attuali, almeno 70-80 miliardi di evasione sono fisiologici. Io ritengo assai più probabile uno scenario in cui aumentano l' invidia sociale e la frustrazione, con il loro corredo: espansione del mercato degli stupefacenti e del gioco d' azzardo, moltiplicazione dei comportamenti aggressivi e/o autolesionistici. [...]».

Quanto la filosofia della decrescita felice fa da cornice ideologica a questa cultura del disimpegno e alla facoltatività del lavoro?

«Poco, direi, perché la maggior parte delle persone preferisce rimuovere dalla coscienza la prospettiva del declino. La decrescita felice è l'ideologia dei super-ricchi, come la moglie di Bill Gates, che vuole pagare più tasse: chi ha tantissimi soldi sa perfettamente che nulla scalfirà mai il proprio tenore di vita, mentre chi è benestante ma non straricco teme, giustamente, un abbassamento del tenore di vita». [...]

Dopo i gravi errori di questa estate e nella prospettiva di un governo giallorosso che, salvo gravi tracolli alle Regionali, durerà fino all' elezione del prossimo capo dello Stato, la stella di Salvini è destinata a offuscarsi lentamente?

«Secondo me sì, perché Salvini è adatto a guidare un partito, ma non ha la maturità per guidare un governo. Molto del destino di Salvini, comunque, dipenderà dalla traiettoria di Giorgia Meloni, che a mio parere è di gran lunga il miglior leader di cui disponga il centrodestra».

[...]In chiusura lei prospetta il pericolo della «argentinizzazione lenta» dell' Italia. Che cos' è concretamente? E come scongiurarla?

«L' argentinizzazione è un declino sufficientemente lento da non suscitare reazioni apprezzabili nei declinanti. Sul piano economico, si può evitare solo facendo ripartire la produttività, ferma da vent' anni. Ma per fare questo ci vorrebbe una classe dirigente decente che - prima ancora di abbassare le tasse - smantellasse la burocrazia e la selva delle leggi e dei regolamenti. In breve: mission impossible».

·         L’esercizio della Critica.

Critica, la grande responsabilità che ci aiuta a riconoscere il bello. Pubblicato mercoledì, 30 ottobre 2019 da Corriere.it. Esistono parole che hanno un passato sontuoso ed una presenza nel nostro linguaggio quotidiano che non sempre è a quella altezza. Spesso dipende dal fatto che ne dimentichiamo le origini oppure tendiamo sbrigativamente ad ignorarle. Una di queste è senz’altro critica. È una eredità della lingua greca, in particolare deriva da kritiké (tékhnē), letteralmente «arte del giudicare». A monte c’ è un verbo come krino (distinguo). Che ha consentito a gran parte dei dizionari di concordare sul magnifico significato principale: facoltà intellettuale che rende capaci di esaminare valutare gli uomini nel loro operato o il risultato della loro attività. Il vocabolario Treccani specifica questa «facoltà», aggiungendo a che cosa serve: «scegliere, selezionare, distinguere il vero dal falso, il certo dal probabile, il bello dal meno bello o dal brutto, il buono dal cattivo o dal meno buono». E basterebbero queste poche definizioni per fare un monumento a questa parola o invocare la sua distribuzione come un medicinale nel nostro linguaggio malato. Ecco cosa ci permette di fare questa facoltà intellettuale. Ma non giudizi qualsiasi, piuttosto «obiettivi, analitici» e come sintetizza in modo chiaro il vocabolario De Mauro «esame rigoroso a cui la ragione sottopone le cose». Lo stesso vocabolario ci fornisce una attestazione al 1664 nella nostra lingua, ma ci apre anche alla coscienza di una sua pluralità di utilizzi. Non può stupire che la filosofia (letteralmente l’amore per la conoscenza) si sia presto impadronita di questa parola. Dobbiamo a un grande filosofo come Kant la definizione della critica come « il processo mediante il quale la ragione umana prende coscienza dei propri limiti e delle proprie possibilità». nel suo saggio Critica della ragion pura (1781). Ma è stata la progressiva «esplosione» del sistema dei mezzi di comunicazione di massa ad ampliare i campi in cui si esercita stabilmente la critica. Così ha preso il nome di critica qualunque forma giornalistica specializzata nell’esaminare e giudicare opere artistiche e letterarie. Per questo esistono la critica d’arte, la critica letteraria, la critica teatrale, la critica cinematografica. Nel 1874 fu un critico d’arte a dare il nome al movimento artistico che stavano creando pittori come Monet, Degas, Renoir. Si chiamava Louis-Joseph Leroy e in un articolo per il quotidiano satirico francese Le Charivari, a inventare il termine «impressionisti». Ma l’obiettivo non era certo esaltarli, lui voleva solo prenderli in giro. Diciamo che in quel caso la critica non ha avuto grande successo. Il diffondersi di questi articoli ha fatto sì che si creassero categorie sempre più specializzate, all’interno delle stesse sezioni artistiche prese in esame. Così oggi si può parlare di una critica felliniana per riferirsi a chi ha studiato i film di questo regista, o critica dantesca per identificare gli studiosi che si sono concentrati sulla sua opera. Molto più in generale una critica si è conquistata uno spazio specifico come genere giornalistico per identificare un articolo che comprende esplicitamente giudizi di merito sull’opera presa in esame. È successo quindi che esulando dal tema specifico, nel linguaggio corrente per critica si intenda un giudizio perlopiù negativo o che addirittura la si possa utilizzare come sinonimo di biasimo. Non è infrequente incontrare frasi in cui Tizio cerca di difendersi dalle critiche con cui lo incalza Caio. Così viene definita critica distruttiva quella che (spesso a giudizio di chi la riceve) rimarca solo gli elementi negativi. E critica costruttiva quella che invece elenca errori o difetti ma solo nell’ottica di eliminarli. Non potevamo completare l’esame di questa parola senza citare una sua figlia, nata dall’unione con il prefisso «auto». E che indica, come è facile immaginare, un severo esame rivolto a se stessi, per mettere sotto una attenta verifica le proprie azioni. Attività nobile e utilissima quella dell’autocritica, ahimè piuttosto rara.

·         La cultura? In Italia non è più un valore.

La cultura? In Italia non è più un valore. Cristiano Puglisi il 25 settembre 2019 su Il Giornale. Lo dicono i dati, lo dice l’evidenza empirica. E allora bisogna iniziare a parlare fuori dai denti. E affermarlo senza falsi timori. Affermare cosa? Che la cultura, in Italia, non serve più a una mazza! Dimenticate quello che vi raccontavano da bambini, cioè che chi studia, chi approfondisce, chi più sa poi ottiene una ricompensa: è tutto falso! Chi lo sostiene? L’autore di questo blog? No, i numeri. Basti dire infatti che, in questo momento, il libro più letto e il film più visto dagli italiani sarebbero, rispettivamente, “Le corna stanno bene su tutte. Ma io stavo meglio senza”, di tal Giulia De Lellis, di professione influencer e che ha in passato pacificamente affermato di non aver mai aperto un libro in vita propria e “Unposted”, documentario sulla vita di un’altra influencer, Chiara Ferragni, nota per la relazione con il rapper Fedez. C’è da stupirsi? No. Secondo un recente studio Infodata, l’Italia è infatti il quarto Paese al mondo per numero di analfabeti funzionali, il 28% della popolazione totale. Di chi si tratta? Sono persone in grado di leggere e scrivere ma che non sanno sviluppare un pensiero critico e che, pur riuscendo a leggerli, faticano a comprendere testi semplici come, per fare un esempio, le istruzioni per il montaggio di un oggetto. Si sta parlando, per capirsi, di quelli che condividono indignati meme palesementi falsi su Facebook (i classici “la sorella della Boldrini che guadagna 80mila euro al mese” e via discorrendo), poiché non sono in grado di distinguere la satira dalla denuncia. E, purtroppo, gli analfabeti funzionali lo sono anche “di ritorno”. A volte si tratta infatti di gente anche laureata che, dopo anni trascorsi senza più leggere, inizia a perdere colpi. L’Italia, del resto, è anche il peggior Paese in Europa per numero di lettori: il 60% della popolazione legge meno di un libro all’anno!

E la scuola? Il dato drammatico è che l’abbandono scolastico è elevatissimo: nel 2018 ha abbandonato precocemente la scuola in Italia un totale di 600mila ragazzi, vale a dire il 14,5% dei giovani tra i 18 e i 24 anni. Giovanni che ora, e in un mercato del lavoro a crescente specializzazione e complessità, hanno per le mani un titolo da scuola media… Per non parlare dei dati Invalsi più recenti, che ci dicono che in cinque regioni del sud i rendimenti in lettura sono insufficienti per il 40% degli studenti delle scuole secondarie di secondo grado! Si tratta, quasi sicuramente, di futuri migranti economici, costretti a fuggire per un posto da manovale chissà dove. Ignorantoni presenti e futuri che fanno la fortuna di influencer e blogger di moda e di esperti di marketing. Che, nella maggior parte dei casi, a loro volta più che colti sono furbi e bravi a sfruttare la situazione. Ma a trarre vantaggio da questo tipo di società sono anche i politici, che hanno vita facile a propinare contenuti banali e immediati. E che, rappresentando una popolazione siffatta, ne sono, purtroppo, il degno prodotto. E, del resto, se una volta i leader di partito indicavano una via, giusta o sbagliata che fosse, oggi invece si limitano a seguire l’umore del popolo dei social…Ma come ha potuto il Paese di Dante, Leonardo e D’Annunzio ridursi in questo stato? Come è stato possibile un simile scempio? Qui non c’entrano gli investimenti pubblici. Non c’entrano i discorsi sulla mancata valorizzazione dell’università e della ricerca, perché parliamo di un atteggiamento generalizzato di indifferenza quando non di ostilità verso la cultura. La verità è che la colpa è dei “cattivi maestri”. Che non sono solo in televisione, ma anche e soprattutto a casa, a scuola, sul posto di lavoro. La colpa è di una società che esalta il denaro sopra ogni cosa e indipendentemente dai mezzi con cui lo si è ottenuto. La colpa è dei bambini che sentono i padri competere con gli altri per chi ha il SUV più grosso, quasi fosse un’estensione del proprio fallo e come se quello fosse l’unico obiettivo da raggiungere nella vita, la colpa è delle madri che invitano le figlie a partecipare ai concorsi di moda, alle competizioni canore, perché il successo nel mondo dello spettacolo è visto come un viatico verso quel benessere che il lavoro, soprattutto dipendente, non può più consentire. Tutte cose note, certo. La colpa, però, è anche di quella che Alain Deneault chiama “mediocrazia”: ossia il fatto che, oggi, per fare carriera nelle società capitaliste (e quindi per ottenere quel denaro tanto idolatrato), sia meglio essere degli ubbidienti mediocri, piuttosto che dei brillanti critici. Perché chi viene premiato è chi sgobba senza mettere in discussione la realtà in cui si muove, il sistema. E questo può accadere in due casi: se si evita di farlo per astuzia (cioè se si finge di essere meno intelligenti e colti) o, più frequentemente, perché semplicemente non se ne è in grado. E così nelle aziende fa carriera chi svolge il proprio compitino senza mai discutere le decisioni della dirigenza, nei partiti si sale la gerarchia se si ubbidisce fedelmente a un capo sposandone acriticamente la linea e via discorrendo. Logico che in un simile contesto la cultura (che, attenzione, non va confusa con il titolo di studio) e il senso critico non solo non possano più essere un valore, ma siano addirittura un peso. Un terribile fastidio. Un intralcio da eliminare. Con tutto ciò che ne consegue.

Italiani ignoranti? «Colpa dei social  e dei tweet dei politici più che della scuola». Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Corriere.it. Studenti italiani semi-analfabeti come dicono i risultati dei test Invalsi e come periodicamente lamentano i professori universitari denunciando errori di stesura nelle tesi di laurea? Può darsi, ma evitiamo le ricostruzioni semplicistiche pubblicate sui giornali e soprattutto non diamo colpe solo alla scuola. «La lingua è una realtà complessa, partire da un congiuntivo in meno per decretarne l’impoverimento è un modo quanto meno superficiale di affrontare la questione», precisa il professor Giuliano Bernini, docente di linguistica generale all’Università di Bergamo e eletto pochi giorni fa presidente della Società di Linguistica Italiana per il bienno 2020-2021. Un riconoscimento anche personale, che si iscrive all’interno di una realtà accademica in crescita, come testimonia il boom di iscrizioni registrato negli ultimi 5 anni dall’ateneo lombardo (più 50 per cento).

Professore, perché non sappiamo più parlare né scrivere?

«Non è corretto affermare che una volta si parlasse meglio di oggi. Nella mia famiglia sono stato il primo a imparare l’italiano come prima lingua. La generazione dei miei genitori parlava ancora prevalentemente il dialetto e l’italiano solo come lingua seconda. Il “bell’italiano” d’un tempo che molti dicono di rimpiangere lo parlava al massimo il 2-3 per cento della popolazione al momento dell’Unificazione, come ha dimostrato Tullio De Mauro».

Quindi non è vero che oggi parliamo peggio di prima?

«E’ vero che le giovani generazioni non sanno più scrivere come gli studenti della mia generazione, o meglio tendono a scrivere come parlano. Lo si vede nelle tesi di laurea, in cui troviamo formulazioni sintattiche che si usano parlando, ma non sono adeguate nello scritto. Dare tutta la colpa alla scuola è tuttavia sbagliato. La lingua non si impara solo sui banchi. Alcune strutture si apprendono fin dalla primissima età stando a contatto con i propri familiari. Entro i 4 anni qualunque bambino sa già distinguere il diverso soggetto sottinteso delle frasi subordinate in “Giovanni promise a Maria di studiare” e “Giovanni ordinò a Maria di studiare” senza che nessuno glielo abbia insegnato».

Poi a 5-6 anni si comincia la scuola.

«E lì i bambini e i ragazzi hanno l’occasione di apprendere la ricchezza lessicale e sintattica della lingua. Ma anche l’aspetto culturale della lingua non dipende certo solo dalla scuola, che occupa un tempo limitato nella vita di ciascuno di noi, ma da quanto si ha a che fare con la lingua stessa nel corso di tutta la giornata».

E qui entrano in gioco le relazioni interpersonali che oggi tendono sempre più spesso a essere mediate dalle nuove tecnologie e dalle interazioni (scritte) sulle reti sociali.

«Con i nuovi media è cambiato il modo di utilizzare la lingua dal punto di vista sociale. La tv prima e Internet poi sono diventati dei riferimenti normativi per i parlanti che tendono ad adeguarsi a un tipo di comunicazione semplificata, senza quella varietà di registri, a seconda dei diversi contesti e delle diverse finalità, che dovrebbe fare la ricchezza di una lingua».

Tutta colpa dei telefonini allora?

«No, i mezzi di comunicazione sono innocenti. Tutto dipende dall’uso che se ne fa. Pensi ai tweet dei politici. Se anche loro, che dovrebbero essere di esempio, non tendono all’adeguatezza, come ci si può sorprendere che pian piano perdiamo tutti ricchezza nel parlare? Per non dire dell’assenza di freni inibitori propria di questo tipo di comunicazione mediata dalle macchine, che degenera nel cosiddetto “hate speech”».

Con i nuovi media non solo è cambiato il modo di scrivere, ma anche quello di leggere.

«Certo. Un conto è voltare le pagine, andando con l’occhio da un paragrafo all’altro, Tutt’altro è leggere a video, dove tutto è appiattito in un’unica dimensione. Io, per esempio, quando leggo un testo sul pc me la ricordo meno di un testo letto su carta. Pensi anche a com’è diverso andare a ricercare il significato di una parola sul vocabolario o cercarlo online. Da una parte, per trovare il lemma che stai cercando, devi prima seguire rigorosamente l’ordine alfabetico e poi leggere i vari significati per trovare quello giusto per te. Online vai subito alla parola che cerchi e spesso ti accontenti del primo significato che appare».

Insomma, per parlar bene, dobbiamo spegnere video e telefonini?

«No. Certo, vanno usati con moderazione. Ma ogni rivoluzione tecnologica ha bisogno di tempo per assestarsi. Adesso siamo nella fase esplorativa: abbiamo fra le mani dei mezzi molto potenti che non sappiamo ancora usare in modo pienamente consapevole. Ma non sarà così per sempre».

·         “Ok, boomer”. L’ultima discriminazione generazionale comunista.

Chlöe Charlotte Swarbrick Partito verde di Aotearoa Nuova Zelanda : “Ok, boomer”.

Oltre la sinistra dei baby boomer. Antonio Funiciello il 9 ottobre 2013 su democratica.com. Quale bilancio lascia la generazione dei leader formatisi nel Sessantotto? E l’arrivo del primo outsider può far sperare in un cambio di stagione? Quando il campione mondiale della generazione dei baby boomer, Bill Clinton, s’insediò alla Casa Bianca, in una gelida mattinata del gennaio del 1993, il mondo comprese che un passaggio di consegne tra due generazioni stava prendendo concretamente corpo. Le elezioni presidenziali del 1992 erano state anche quello, un passaggio di testimone tra due Americhe: lo scontro tra il figlio di un banchiere del New England, il presidente in carica George H. W. Bush, classe 1924, e un ragazzo del Sud orfano di padre che si era fatto un’istruzione grazie alle borse di studio del sistema americano, William Jefferson Clinton, classe 1946. Così, il giovane presidente arrivato a Washington da Hope, piccolo paesello agricolo della contea di Hempstead, nel sud ovest dell’Arkansas, emozionò tutti quando, con un linguaggio che echeggiava la retorica di Martin Luther King, quella gelida mattina del gennaio 1993 disse: «Noi marciamo alla musica del nostro tempo, ma sappiamo che la nostra missione è senza tempo. Ogni generazione di americani è chiamata a dire cosa significa essere americani». Al di là della pugnace retorica illuminista clintoniana, assai diversa dall’idealismo messianico alla Obama, c’era il tentativo, in quel discorso, di fare i conti con la lunga marcia che aveva portato la generazione dei baby boomer finalmente al vertice nel mondo. I nati nei vent’anni successivi alla fine della guerra, che avevano vissuto come esperienza centrale della loro vita quanto agitò gli animi intorno al 1968, giungevano finalmente al potere. E ci arrivavano dopo aver esercitato la più feroce critica del potere conosciuta negli anni del secondo dopoguerra. A rileggerlo oggi, nello speech di Clinton si avverte una profondissima consapevolezza del cammino fatto, dei valori a cui si era rimasti fedeli, delle numerose revisioni che l’irrazionalismo della gioventù aveva subito negli anni della maturità. Quello storico discorso d’insediamento di Bill Clinton vale davvero come corretta contestualizzazione della questione che qui si sta cercando di mettere in luce: quale bilancio per i baby boomer al governo ora che ormai tengono i nipoti sulle ginocchia eppure non si rassegnano al mollare l’osso ai figli? Nonostante la loro voracità abbia privato quest’osso finanche del ricordo della carne…Da qualche anno, a dirla tutta, è in corso nel mondo occidentale un appassionato dibattito intorno al grado di efficacia fatto registrare dalla lunga permanenza dei baby boomer ai vertici del potere politico, economico, sociale, culturale. In Defence of the Baby Boom Legacy è il saggio con cui Leonard Steinhorn ha reclamato a gran voce la grandezza della sua generazione, capace di portare il mondo al massimo grado di benessere mai raggiunto. Di David Willets, invece, la bibbia della critica ai boomer, The Pinch. How the Baby Boomers Stole their Children’s Future, nella quale l’egoismo della generazione che non vuole invecchiare è accusata di aver rubato il futuro dei propri figli, dissipando le ricchezze dei nonni e vivendo al di sopra delle proprie possibilità. (…) L’Italia, al solito, è un caso a sé. Perché se oltre confine il dibattito intorno alle performance dei boomer al potere è ancora aperto e di là dall’essere chiuso, dalle nostre parti la sconfitta dei boomer è di una tale chiarezza empirica da lasciare addirittura sconcertati. La loro stagione coincide, infatti, con la fase più depressiva che la Repubblica abbia mai vissuto. I numeri parlano chiaro. Negli anni sessanta il nostro Pil è aumentato del 55,7%; negli anni settanta del 45,2%; negli anni ottanta del 26,9%; negli anni novanta del 17%; nel primo decennio del nuovo secolo del 2,5%. Il fallimento dei boomer italiani sta in queste cifre facili da tenere a mente: avevano ereditato dai loro padri un’Italia in gagliarda crescita economica e oggi lasciano, ai loro figli, un paese depresso in costante declino. Il welfare italiano che si è andato definendo dal primo centrosinistra (1963) fino alla promulgazione dello statuto dei lavoratori (1970) ha avuto la forza di imporsi come poderoso motore di modernizzazione sociale, con una capacità inclusiva tra le più notevoli in Europa. Tuttavia a partire dalle crisi degli anni settanta, quella forza inclusiva si è andata vieppiù indebolendo, fino a estinguersi definitivamente nell’ultimo quindicennio, quando prima la stagnazione e, più di recente, la recessione, le hanno dato il colpo di grazia. Infine, la cornice istituzionale ha retto alla stabilizzazione post-degasperiana del bipolarismo bloccato all’italiana, finché il partito asse di governo, la Democrazia cristiana, ha potuto chiamare alla responsabilità i partiti antifascisti dell’arco costituzionale. L’idea morotea della democrazia come fenomeno espansivo ha trovato sbocco nel lento spostamento a sinistra del baricentro di governo, fino agli anni preparatori della solidarietà nazionale. Ma poi il compromesso storico è fallito e la concezione morotea della democrazia ha dovuto farei conti con l’impossibilità di espandersi fino a Pci. È così esplosa l’esigenza di un profondo riformismo costituzionale, che ci ha smarriti nella selva oscura della lunga – estenuante ed estenuata – transizione istituzionale. Fino ad arrivare alla tragicommedia della cosiddetta Seconda repubblica. Quando i boomer italiani, di qualsiasi collocazione politica essi fossero, si sono trovati in mano, dopo la caduta del muro di Berlino, il timone del governo, hanno dovuto fare i conti con i tre problemi poc’anzi precisati: la bassa crescita economica (con il montante debito pubblico), l’ampliamento degli spazi di diseguaglianza sociale, l’esigenza di modernizzazione dell’assetto istituzionale. Con un estro difficilmente replicabile, i boomer italiani non sono stati capaci di mettere mano a nessuna di queste tre grandi questioni. Anzi, si può dire con certezza, dacché la verifica è facile da realizzare, che la cattiva azione di governo le ha grandemente aggravate. Che poi la generazione del fallimento, quella dei boomer italiani, sia stata dominata dalla leadership di Silvio Berlusconi, che non rientra anagraficamente nel segmento temporale dei boomer, è un’ulteriore e clamorosa indicazione della sconfitta generazionale cui sono andati incontro. Mai tanto potere si è concentrato nelle mani di una generazione con un effetto di tale inconcludenza. Mai ignavia e inerzia si sono fuse nel putridume di una palude tanto limacciosa. Mai in Italia, patria del risparmio e della parsimonia, si è assistito a uno scialacquamento tanto poderoso del risparmio familiare per sublimare i propri vizi, la propria indisponibilità a riformare il welfare e la propria incapacità di produrre nuova ricchezza. Al punto che, nella sua ultima relazione, il presidente della Consob Vegas ha registrato che negli ultimi vent’anni il risparmio delle famiglie italiane è crollato dei due terzi. Mai si è assistito con tanta indifferenza alla mancanza di cura per la generazione dei figli. L’Italia è oggi il paese degli insider. Se si è inseriti in un qualche contesto per diritto di nascita, si ha garantita una vita tranquilla. La spinta degli outsider è depressa in origine, dal momento che la scuola non svolge da almeno vent’anni il compito di principale e insostituibile ascensore sociale. (…) Il caso della sinistra italiana è emblematico: una generazione formata alla politica in giovane età, selezionata con cura nella fase di maggiore espansione del Partito comunista italiano, stimolata nell’ingegno e sperimentata sul campo, talvolta anche un po’ coccolata, è riuscita a comportarsi come il terzo accidioso servo della parabola evangelica dei talenti. Si è presto adattata, appena giunta al potere nei primi anni degli anni novanta, a conformarsi allo stile inerte delle elite esistenti. Nel fiorire di partiti personali, ha costruito un partito modello “monte Olimpo”, in cui un gruppo di perduranti divinità si diverte a litigare, a competere, ad allearsi e a tradirsi l’uno con l’altro. Un partito il cui unico scopo consiste nel preservare la cima del “monte” dalla possibilità che qualcuno, non eletto a divinità, possa scalarlo. Così la sinistra ha assunto, organizzandosi, una funzione rigidamente conservatrice. In un sistema-paese regolato da circuiti di relazione tra diverse elite impermeabili agli outsider, il maggiore partito del centrosinistra italiano ha scelto una strutturazione coerente al sistema. Organizzando la propria democrazia interna in questo modo, la sinistra ha naturalmente replicato nella battaglia politica quotidiana la funzione conservatrice della difesa della ditta. Come una qualsiasi grande azienda familiare italiana che, pur di non vedere perso il controllo della famiglia, preferisce non crescere aprendosi al mercato, il partito della sinistra ha preferito non crescere in consenso elettorale, intercettando voti non tradizionali, pur di riservare ai soliti il controllo della ditta. È la storia del giochino enigmistico Pci-Pds-Ds-Pd, in cui le stesse lettere escono e rientrano nell’acronimo, al solo scopo di fare in modo che l’acronimo possa perennemente comparire sulle schede elettorali. Eppure qualcosa nel Pd sta avvenendo. Sotto la spinta di una leadership, quella di Matteo Renzi, che non ha chiesto il permesso per imporsi come tale, è cominciata da qualche mese un’originale scalata al “monte Olimpo” della sinistra italiana. La leadership individuale di un outsider sta sfidando la leadership collettiva degli eterni insider della sinistra. Ancorché da anni sia chiaro a tutti nel mondo, a destra come a sinistra, che la qualità di una democrazia si misura con la qualità delle leadership individuali che essa esprime, nella sinistra italiana pare essere un’acquisizione recente (e in fondo ancora da conquistare). La grande novità che Renzi rappresenta sta tutta nella sua scelta di uscire dalla logica del cursus honorum, dopo averne fatto parte e averne goduto dei vantaggi, per imporsi come leader fuori da quella logica. A Renzi non interessa far parte di una leadership collettiva, tipica del sistema generale delle elite italiane, che a rotazione concede ora a questo, ora a quello, di essere al timone. Di più, dopo anni di patologico complesso della leadership, Renzi, leader di sinistra, mostra di non avere alcuna necessità dello psicologo e si pone, per la prima volta, come un leader più tradizionalmente europeo: se vinco, bene; se perdo, me ne vado. E a tale destino lega, conseguentemente, il gruppo dirigente che va organizzando intorno a sé. Renzi è l’outsider per definizione. E s’incarica di ristrutturare lo strumento partito in funzione degli outsider che verranno dopo di lui. Produce così un corto circuito all’interno del vecchio meccanismo di funzione della selezione del personale politico, che è alla base delle basse performance di governo prima evidenziate. Non che Renzi non coopti, certo che coopta! Ma coopta in funzione di un disegno strategico che non potrebbe mai adattarsi a tutte le stagioni. Renzi, figlio dei suoi tempi, coopta a tempo determinato, coopta a progetto. Non pretende di cooptare a tempo indeterminato perché il suo stile è costruito per essere in sintonia con un tempo preciso, quello presente. Un piano ancora più chiaro se si considera che Renzi pretende di estendere la dinamica della leadership individuale contro le leadership collettive delle altre elite italiane, oltre i confini della politica, portando la “rottamazione” dentro ogni ambito e settore della classe dirigente nazionale. Estratto di un articolo pubblicato sul numero da poco in libreria di Mondoperaio, rivista diretta da Luigi Covatta.

Giorgia Meloni si canta il rap ballando con Myrta Merlino di Franco Bechis su  Il Tempo il 26 novembre 2019. La conduttrice di La7 sostiene che "Io sono Giorgia" spiega il boom di Fdi nei sondaggi. Così nella sua puntata di martedì 26 novembre 2019 Myrta Merlino ha invitato in studio Giorgia Meloni inscenando un duetto rap con lei. Sì, questa volta è stata proprio Giorgia, la leader di Fratelli di Italia, a cantare "Io sono Giorgia", il motivetto nato da un suo comizio che impazza sui social soprattutto fra i giovanissimi. La piccola gag è riuscita, anche se la Meloni che sarebbe poi la reale autrice del testo, non ricordava più le parole originarie, e un po' si è impappinata fra le risate. Così alla fine ha ripetuto "Vi odio" agli autori della trasmissione, che poi è filata liscia su un piano più serio. E ancora una volta la Meloni ha dato una stoccata al popolo delle sardine, mettendole un po' in scatola: "Sulle sardine", ha spiegato Giorgia alla Merlino, "ci dicono quanto sono bravi, pacifici. Io ho letto il manifesto delle sardine, e non c’è nulla di pacifico. Dicono: 'non avete diritto ad avere qualcuno che vi stia ad ascoltare, dovete avere paura'. Paura di chi? Io devo avere paura? Di cosa? Io non ho diritto di avere qualcuno che mi stia ad ascoltare? Il punto è se sono convincente. Se non sei convincente non puoi far star zitto qualcun altro, devi essere convincente tu”.

Basta con “Io sono Giorgia,” Ok Boomer e gli altri meme tossici. Stefano Colombo il o7 novembre 2019 su thesubmarine.it. I meme “Io sono Giorgia” e Ok, boomer tradiscono un problema della cultura pop “di sinistra”: un cedimento generale verso i modelli mentali della destra. Da Pepe the frog agli NPC, la destra internazionale ha capito che un meme può essere un’arma retorica potente almeno quanto un comizio televisivo, e che può essere efficace non solo per radicalizzare giovani maschi bianchi, ma anche per influenzare in modo rilevante l’orientamento elettorale di un Paese. Meglio ancora: i meme e più in generale la propaganda online possono essere un vero e proprio strumento di egemonia culturale. I giorni scorsi l’internet italiano è stato dominato da un meme (?) sulla segretaria di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Il meme nasce dal remix di un suo discorso, in cui Meloni dice amenità come “Io sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana,” etc. — no, non metteremo qui il link al video — e ha dato vita a un florilegio di variazioni. La maggior parte di chi si è lanciato nella condivisione virale di questo meme l’ha fatto in buona fede e nella maggior parte dei casi si è trattato di persone che si identificano come “di sinistra”, convinte di ridere alle spalle di una politica neofascista. Nell’internet anglosassone, invece — e quindi, di riflesso, anche nella bolla anglofila del nostro — è circolato ieri il video di una parlamentare neozelandese, appartenente al partito dei Verdi, che zittisce con “ok, boomer” un parlamentare avversario che prova a interromperla durante un suo intervento. La parlamentare citava un meme che da giorni imperversa sugli account social statunitensi. Questo meme è stato sostanzialmente un grande aiuto alla perenne campagna elettorale di FdI — come peraltro ha riconosciuto smaccatamente in questo post la stessa Giorgia Meloni. Il problema principale di questo meme è che è figlio di una concezione distorta, fuorviante, del concetto di satira. L’equazione che sta alla base di questo ragionamento è: c’è Meloni che fa una cosa che fa ridere, dunque è un meme contro di lei, ridiamo e condividiamolo. Non necessariamente questo però equivale a satira: la figura mediatica di Giorgia Meloni non viene in alcun modo abbassata, svelata, demistificata da questo bombardamento mediatico. Anzi.

Per capire che non è una buona idea usare questo video come “satira” contro qualcuno basterebbe realizzare che le cose che dovrebbero essere svilite sono in realtà la parte centrale della figura che Meloni si è costruita: di destra, ma dal volto umano, anzi, materno, che non si vergogna di essere fascista conservatrice. E che quindi ha tutto l’interesse a diffondere, con qualsiasi mezzo — figuriamoci poi: tramite un remix divertente. Non è la prima volta che Meloni è al centro di meme di questo tipo, come quello di “Ollolanda” di qualche mese fa, in cui il brillante spunto era consistito nel remixare la politica che parlava di arrestare gli equipaggi delle ONG e affondare le rispettive navi. Creare meme da questi spunti, e renderli virali, è particolarmente inquietante in quanto è sintomo di un vero e proprio arretramento culturale. Facciamo un esempio al contrario. Mettiamo che domani un politico di sinistra esca con la proposta di una confisca di tutti i patrimoni sopra i 5 milioni di euro, e che poi il remix di lui che dice “espropriare i ricchi” finisca letteralmente su ogni telefono del paese. Sarebbe o non sarebbe conveniente per quel politico? Oggi, però, una proposta del genere sembra del tutto inimmaginabile.

OK BOOMER. Il caso di Ok boomer è leggermente diverso, perché, fortunatamente, non gioca a vantaggio di nessuna forza politica di estrema destra. Tuttavia, anche questo meme condivide problematicità legate all’arretramento della cultura progressista. In particolare, è ageist. Ageism è una parola di cui non esiste una traduzione secca in italiano: significa prendere in giro o discriminare qualcuno facendo leva sulla sua età. Non si può discutere che zittire qualcuno con “ok boomer” sia più o meno un equivalente di dirgli “taci, vecchio:” qualcosa che di fatto andrebbe evitato da parte di chiunque, e a maggior ragione da parte di un esponente politico di un partito a carattere progressista. Se non sapete cosa vuol dire “ok, boomer,” citiamo la giovane testata Il Post: “Ok, boomer” è in pratica un’espressione usata da adolescenti e giovani per zittire o prendere in giro cose percepite come lamentele paternalistiche della generazione dei cinquanta-sessanta-settantenni, e ritenuta — con una generalizzazione spesso criticata — responsabile dei principali disastri contemporanei, dalla crisi finanziaria a quella climatica. Si possono provare ad addurre molte giustificazioni alla legittimità della parola “boomer” come arma politica. In particolare, chi usa questo termine in questo modo è teso a difendersi sostenendo che in effetti i boomer abbiano effettivamente goduto e abusato delle risorse del pianeta in modo semi-criminale, e che oggi abbiano in mano la maggior parte dei mezzi di produzione in occidente. Partiamo dal far notare, se ce ne fosse bisogno, che non tutti i boomer sono di destra a livello sociale e ambientale — anzi, si tratta di una generazione che ha avuto un ruolo centrale nel grande cambiamento della società occidentale tra gli anni ‘60 e ‘70.

Facendo un passo oltre questa osservazione, però, si arriva a capire che questo meme è fuorviante in maniera molto più profonda. Innanzitutto, non è vero che i boomers abbiano in mano tutte le risorse o la ricchezza di questo pianeta. Se è vero che molte persone nate prima del 1970 hanno avuto una vita professionale ed economica più agiata rispetto ai loro figli, non si può in alcun modo generalizzare questo assioma. Oltre a essere fondamentalmente discriminatorio, dunque, è un termine inesatto, in maniera subdola. Prendere una caratteristica di alcune persone appartenenti a un certo raggruppamento sociale ed estenderla a tutto quel raggruppamento, per usarla poi come arma politica, è una strategia di destra — la strategia che ha dato vita, ad esempio, al razzismo. Sarebbe utile evitare di ricadere in questo errore da sinistra, a maggior ragione se la questione è delicata e riguardante tutti come l’ambientalismo. Inoltre, anche nella peggiore delle ipotesi, le persone di una fascia di età più avanzata non sono avversari ma elettori da convertire: difficile che qualcuno decida di sposare una causa se vengono insultati dai suoi promotori. È utile anche ricordare che per quanto i cosiddetti boomer abbiano guidato macchine più inquinanti di quelle in giro oggi, non le hanno costruite loro: erano semplicemente quello che gli veniva offerto dal mercato in quel momento. La maggior parte delle emissioni di gas serra a partire dalla rivoluzione industriale non è stato emesso dai privati ma, appunto, dalle industrie e dalla produzione di beni. E diciamo poi una volta per tutte che quella di dividere le persone per “generazioni” con nomi precisi è una mania statunitense, ipertossica, che risiede tra le cose che non dovremmo in nessun caso importare dagli USA. L’unico scopo di affibbiare categorie arbitrarie alle persone è metterle l’una contro l’altra, così che non facciano caso al fatto che l’unica vera grande divisione sociale del mondo è tracciata dall’economia in chi può permettersi di non lavorare per vivere e chi invece non può farlo — tra chi ha i beni, i capitali, e chi invece dipende da un salario. In conclusione: questi due meme non sono uguali, non sono in cattiva fede, ma sono lo stesso entrambi tossici perché figli di una sudditanza culturale spessa e pervasiva da parte della destra; il fine ultimo di questa ironia, satira, la si chiami come si vuole, non è deridere il potente ma semplicemente fare qualcosa per il lol: una strategia che — oltre a essere un motto dei troll online intruppati dall’alt-right non si può definire in alcun modo costruttiva. Finché non ci si libererà da questa cappa e si riuscirà a pensare — e ridere — con schemi mentali differenti da quelli dei troll di estrema destra, difficilmente si potranno portare avanti discussioni serie sulle politiche fondamentali per il futuro del nostro Paese — e non solo. 

Cosa vuol dire «Ok, boomer»? Da Giorgia De Angelis su Ultimora.news il 6 novembre 2019. Una frase diventata virale nelle ultime settimane, ma cosa vuol dire «Ok, boomer»? Si tratta di una provocazione verso la generazione nata tra la metà degli anni ’40 e la fine dei ’50. In questi giorni per tutto il web, principalmente sui social, non si fa altro che incappare in una serie di meme riportanti la stessa frase. Una domanda sorge spontanea nel momento in cui ci si ritrova “faccia a meme”: cosa vuol dire “Ok, boomer”? A differenza delle solite figure ironiche e sarcastiche, questa rappresenta un vero e proprio insulto velato e provocatorio dei millenials e della generazione Z, in risposta agli atteggiamenti paternalistici delle generazioni più agée.

Cosa vuol dire “Ok, boomer”? Il meme, secondo alcune voci, è nato già un anno fa, ma è solamente nelle ultime settimane che è diventato virale. Principalmente la frase in questione ha fatto la sua comparsa su Twitter e su TikTok, diffondendosi di profilo in profilo tra i giovani fino a creare un vero e proprio scontro generazionale. La chiave del significato di “Ok, boomer” risiede interamente nella seconda parola della frase, che altro non è che l’abbreviazione di baby boomers. I baby boomers sono tutte quelle persone nate tra il 1945 e il 1960, i cosiddetti figli del boom economico. “Ok, boomer” è un’espressione canzonatoria da parte di giovani e adolescenti nei confronti delle lamentele di questa generazione, spesso criticata e ritenuta da molti la causa dei disagi esistenti al mondo d’oggi. Crisi finanziaria, crisi climatica e altri disastri contemporanei sono attribuiti alle azioni sbagliate dei baby boomers, che secondo alcuni hanno tratto grandi privilegi dal boom economico occidentale, lasciando nelle grinfie del debito pubblico le generazioni successive. La frase nasce quindi per soffocare il tono di superiorità con il quale i baby boomer sono soliti pronunciare pesanti giudizi e opinioni nei confronti delle nuove generazioni. “Ok, boomer” concede ai giovani di conquistare il diritto di parola e il potere, lo stesso potere che i baby boomers non hanno saputo utilizzare correttamente tempo addietro.

“Ok, boomer” non è soltanto un meme. Internet è un posto meraviglioso, crea ponti invisibili che collegano persone in ogni parte del mondo, creando tendenze e nuovi linguaggi universali. Un linguaggio ormai conosciuto a livello globale è sicuramente quello dei meme, che diventando virali vengono poi utilizzati anche nella vita reale. “Ok, boomer” non si è limitato a coprire ogni angolo del web, ma è arrivato persino a conquistare i giovani americani Democratici e di sinistra costituendo una sorta di slogan progressista. Una situazione in particolare ha fatto parlare molto: Chlöe Charlotte Swarbrick, una parlamentare di 25 anni, stava affrontando un discorso in parlamento riguardante i problemi legati al clima, quando un collega “più anziano” l’ha interrotta. Senza neanche scomporsi, Swarbrick lo ha messo a tacere con un naturalissimo “Ok, boomer” per poi tornare alla sua orazione.

“Ok, boomer” e la discriminazione generazionale. Qualcuno tuttavia, quasi a voler confermare ulteriormente il comportamento lamentoso dei baby boomer, si è letteralmente indignato per la questione. Un noto conduttore radiofonico americano, Bob Lonsberry, ha scritto un post su Twitter (successivamente cancellato) dove paragonava “Ok, boomer” alla cosiddetta N-word. Si sta quindi iniziando a parlare di un meme canzonatorio come di una vera e propria discriminazione generazionale, affiancandola per gravità a quella razziale. Il The Guardian ha pubblicato inoltre un op-ed per boicottare il “movimento”, asserendo che i baby boomer hanno in alcuni casi serie difficoltà anche a tirare avanti, meriterebbero di conseguenza solidarietà e non meme offensivi.

Il senso dell'onnipresente meme “Ok, boomer”. Alessio Foderi su wired.it il 7 novembre 2019. È protagonista di buona parte dei contenuti virali sul web in questi giorni, ed è diventato il simbolo di una guerra generazionale (per qualcuno pericolosa): cosa significa quel “Ok, boomer”. Nelle ultime settimane, sui social network è diventato molto popolare un meme che ha iniziato a diffondersi fra i giovani americani che ha generato un vero dibattito generazionale. Il meme in questione si contraddistingue per la presenza di una frase-tormentone, di solito affidata a una parte testuale: è “Ok, boomer” e rappresenta la risposta condiscendente della generazione Z – ovvero coloro che sono nati tra il 1995 e la fine degli anni Duemila – ai nati tra la metà degli anni Quaranta ai prima Sessanta. Con quest’ultima categoria si definisce infatti com’è noto baby boomer, ovvero i figli del boom economico dopo la Seconda guerra mondiale, e si contrappone alla parola zoomers, ovvero la generazione dei giovanissimi nativi digitali. Seppur la traduzione in italiano del contesto non sia immediata, visto che il meme è culturalmente nato altrove, lo slogan si prende gioco di una generazione adulta ritenuta responsabile di molti dei problemi che i giovanissimi si sentono impegnati ad affrontare, dalla crisi finanziaria al cambiamento climatico. Il senso parafrasato dei meme virali in queste ore, dal punto di vista della generazione Z, è una sorta di: “ok, va bene, ma sei corresponsabile di tutto questo: perché parli?”. Chi usa questo meme lo fa dunque con intento ironico ma un senso prettamente politico, puntando il dito su chi vede come il principale colpevole dei mali del mondo contemporaneo.

Un atto d’accusa. Se per il New York Times si tratta della fine di un rapporto cordiale fra generazioni, per molti giovanissimi, si diceva, è un atto d’accusa: in Nuova Zelanda la parlamentare 25enne Chlöe Swarbrick stava tenendo un discorso in parlamento sui problemi legati al cambiamento climatico, quando improvvisamente un collega anagraficamente più grande di lei l’ha interrotta. Swarbrick non ci ha pensato due volte e ha replicato esattamente “ok, boomer”, per poi riprendere il suo discorso come se nulla fosse. Non c’è da sorprendersi se il video dell’episodio è diventato virale. Ma c’è da riflettere come il meme sia riusciuto a sradicarsi dagli ambienti digitali e trovare un’applicazione pratica, tanto da assumere le vesti di una specie di critica culturale a tutto tondo. Ok, boomer oggi è una polemica senza esclusione di colpi nei confronti dei giudizi, delle raccomandazioni e delle prospettive dei sistemi – sociali, economici e lavorativi – dei baby boomer, che una nuova generazione non soltanto non vuole, ma giudica inadeguata al presente. C’è anche chi ha criticato la battaglia scaturita dal meme, giudicandola troppo facile e pericolosa, dato che generalizza attribuendo responsabilità solo a partire dall’età anagrafica: il Guardian, ad esempio, ha pubblicato un op-ed che invita a boicottare il trend, spiegando che i pensionati di oggi in molti casi non ce la fanno ad andare avanti e meriterebbero solidarietà, non meme sprezzanti.

Un merchandising in evoluzione. A dimostrazione di come il meme ha valicato i confini del virtuale, la 19enne Shannon O’Connor ha messo in vendita una felpa che recita lo slogan e aggiunge “have a terrible day”, ricevendo migliaia di ordini. Ma dal meme sono nati parecchi altri oggetti, dalle coperte alle cover per il telefono. Il merchandising offline, ovviamente, non ha dicerto sopito la spinta sul web, dove l’hashtag, i video e i meme proliferano sempre di più. Oltre che a uno slogan di ambiente progressista – non a caso la diffusione originaria è fra i giovani dem americani – Ok, boomer è diventato quindi il simbolo di una frattura generazionale che è aperta da molto tempo, ma che finora non era ancora stata affrontata a viso aperto, né se è per questo decodificata dal linguaggio di internet. Fra i più cresciuti che hanno capito il meme, alcuni si sono arrabbiati parlando di razzismo anagrafico. E forse, diciamocelo, non cogliendo l’ironia di una risposta che ritorna indietro come un boomerang a ogni provocazione di un uomo privilegiato di mezza età: Ok, boomer.

Perché dovresti preoccuparti se ti dicono “Ok, Boomer”. Giovanni Drogo l'11 Novembre 2019 su nextquotidiano.it. Da quando la deputata neozelandese Chlöe Swarbrick ha zittito un collega che borbottava durante un suo discorso con “Ok, Boomer” tutti si sono accorti dell’esistenza di questo meme. E hanno iniziato a spiegare che Ok, Boomer è la risposta dei Millennials (i nati tra gli anni 80 e i 90) e della Generazione Z (quelli nati tra la metà degli anni 90 e la fine dei 2000) alle generazioni precedenti. I boomer ovvero i baby boomer, quelli nati durante il grande boom economico dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

Che cosa vuol dire Ok, Boomer? Il Corriere della Sera ha definito Ok, Boomer «la protesta sarcastica della generazione Z». Secondo Know Your Meme (che è un po’ la Wikipedia dei meme) le origini di Ok Boomer risalgono all’aprile del 2018  ma è solo nel 2019 che l’utilizzo del termine ha ottenuto una diffusione planetaria. Il senso per così dire letterale di Ok, Boomer è più o meno riconducibile ad un “taci vecchio” oppure ad un “ok, coglione” ma anche “si va bene, ma perché te ne tiri fuori che è anche colpa tua?“, come sempre ogni meme ha più layer, più livelli e strati di significato. Io preferisco l’ultimo, quello in cui ancora c’è una possibilità per fare-con assieme alle altre generazioni per salvarci tutti assieme. La componente generazionale sicuramente è preponderante. C’è la questione dello scontro tra generazioni, la retorica dei “vecchi” che hanno distrutto il Pianeta contro i giovani etichettati come snowflake e poveri illusi social justice warrior dai sentimenti petalosi. Quelli che pensano di salvare il mondo con una laurea in lettere, oppure che pensano che fare la differenziata, bere dalla borraccia o usare una tazza per il caffè invece che il bicchierino usa e getta possa cambiare le sorti dell’ecosistema. Sono quelli che Libero chiama gretini, schiavi del politicamente corretto in un modo che invece assomiglia sempre di più a Mad Max e che richiede un atteggiamento meno svagato e più con i piedi per terra. Si capisce che già in questa accezione boomer non ha più solo un riferimento anagrafico-generazionale. Perché boomer è un atteggiamento, uno stato mentale. Diventa l’essenza del cringe, altro concetto memetico, usato per descrivere l’imbarazzo. E non è un imbarazzo a senso unico: non sono solo i boomer anagrafici ad essere imbarazzanti. Ci sono molti “non boomer”, che magari sono Millenials, o che appartengono alla Generazione Z che si comportano da boomer.

Dal bamboccione all’Ok Boomer. Ma perché i Millennials e gli altri ce l’hanno tanto con i Boomer? Torniamo indietro di qualche anno (non tanti, giusto un paio) alle centinaia di articoli su come i Millennial hanno ucciso decine e decine di attività commerciali: dall’industria musicale alla maionese passando i matrimoni tradizionali, la birra, il golf e il tonno in scatola. Presentati come degli ingrati, noiosi, che non fanno sesso e non fanno notizia (così l’Espresso due anni fa) i Millennials e gli appartenenti alla Generation Z sono stati raccontati come coloro che per colpa delle loro stupide pretese stavano mandando a gambe all’aria l’economia mondiale. La realtà era un’altra, ed era molto più tragica: sono generazioni che hanno vissuto la quasi totalità della loro maturità all’interno di una prospettiva di crisi economica senza fine, sono più poveri, sono senza prospettive, hanno lavori meno appaganti, vivono nel tempo determinato, nel part time e nel lavoro a chiamata.  Una generazione No Future ben oltre il movimento punk del Settantasette. Tutte cose che succedono anche a nati in altre decadi, senza dubbio, ma non in maniera così diffusa quanto i temuti Millennials. Tutta quella melassa retorica che in Italia abbiamo vissuto con libri sulla generazione degli “sdraiati” da parte di quelli che “hanno fatto il Sessantotto” e il ricorso a termini come “bamboccioni” e “choosy” usati da chi non ha idea di cosa voglia dire sentirsi offrire solo contratti di stage. Queste continue lamentele da parte di un’industria che non ha saputo intercettare i gusti (e purtroppo le tasche) dei nuovi consumatori unite agli sfottò di coloro che vedono in chi combatte le ingiustizie sociali dei gretinetti e pensano che battersi (loro dicono frignare) per i diritti civili sia un’inutile perdita di tempo hanno dato la stura al fenomeno dell’Ok, Boomer.

Ok, Boomer ma non è solo uno scontro generazionale. Giornali, scrittori, boomer hanno fatto diventare Millennial sinonimo di un insulto, per bamboccione, riducendo una generazione ad una macchietta ed  uno stereotipo: quello di chi si guarda costantemente il proprio ombelico e che non è in grado nemmeno di farsi il letto da solo. Ed è fantastico che proprio quelli che accusavano i Millennials di essere dei frignoni che non sarebbero durati cinque minuti nel mondo in cui loro sono cresciuti (come del resto loro non sarebbero durati trenta secondi in un filatoio inglese dell’Ottocento) ora stiano facendo altrettanto lamentandosi che Ok Boomer sarebbe un insulto “ageista”, ovvero una discriminazione nei confronti di chi è più vecchio solo per il fatto che è più anziano. Ma non è così. Come scriveva qualche giorno fa su Twitter  Jules Suzdaltsev Ok, Boomer non ha solo riferimenti anagrafici. In un certo utilizzo di Ok, Boomer (quello della deputata neozelandese ad esempio) non si sta parlando solo di persone nate tra il 1946 e il 1964. Un boomer oggi è anche chiunque – giovane o vecchio che sia – pensi che lo stato attuale delle cose (le discriminazioni, il sessismo, la totale mancanza di una distribuzione equa della ricchezza, la distruzione di interi ecosistemi) non sia profondamente ingiusto ma anzi sia l’unico modo di concepire la società. Al punto che qualsiasi movimento, grande o piccolo che sia, che punti a cambiare lo status quo estendo il più possibile i diritti sia un attacco ad un sistema “faticosamente” costruito sulla schiena dei tanti che anche durante il miracoloso e leggendario boom sono rimasti poveri, discriminati o non ce l’hanno fatta. Ci sono boomer ad ogni età. E forse i peggiori non sono gli anziani ma i booticker, i leccapiedi di un sistema dal quale hanno ottenuto solo schiaffi e disprezzo ma che credono che le briciole che gli vengono lasciate siano il riconoscimento dell’importanza del proprio contributo. Boomer sono quelli che credono al mantra della meritocrazia e non si rendono conto che è una truffa che manda avanti solo quelli che già hanno i mezzi (economici) per poterlo fare e lascia indietro gli altri convincendoli addirittura di non aver “meritato abbastanza”. Boomer sono quelli che sbavano sulle tastiere riguardo a fantomatici “patentini per votare”. Boomer sono quelli che si eccitano parlando nei gruppi Facebook di come togliere le pensioni ai vecchi senza rendersi conto che lo fanno grazie alla connessione Internet pagata da mammà.

«Ok Boomer», la protesta sarcastica della generazione Z. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 da Viviana Mazza su Corriere.it. La deputata venticinquenne Chlöe Swarbrick stava parlando al Parlamento neozelandese dell’emergenza climatica, quando un collega più anziano l’ha interrotta. «Ok Boomer» ha replicato lei — come a dire «sì vabbé» o alzare gli occhi al cielo — e ha continuato a parlare ignorandolo. «Ok Boomer» è diventata la risposta sarcastica della generazione Z (i nati a partire dalla metà degli anni ‘90) e deimillennial(anni Ottanta-Novanta) alle critiche e alle paternali deiboomer(i nati durante il boom demografico, tra il 1945 e il ’64). I giovani adulti che entrano nel mondo del lavoro con molte meno opportunità di chi li ha preceduti dicono che non ne possono più di sentire le loro difficoltà sminuite o derise dalla generazione che li ha messi in questa situazione. I «vecchi» li chiamano bamboccioni, «pappamolle» per citare lo scrittore Bret Easton Ellis, o «snowflakes» («fiocchi di neve») cioè banderuole, pesi leggeri, persone troppo suscettibili. Invece «Ok Boomer», nato come meme sui social network (da TikTok a Reddit), appare sulle T-shirt, sulle custodie dei cellulari, sulle borracce. E il dibattito è finito su giornali e tv. I conflitti generazionali non sono certo una novità: gli stessi boomersi ribellarono contro i genitori e contro la guerra in Vietnam, hanno lottato per i diritti civili e per quelli delle donne, come spesso ricordano con orgoglio. E i giovani lo riconoscono: ok #NotAllBoomers, non tutti i boomer sono uguali, ma col tempo tanti sono diventati più conservatori ed egoisti (e hanno eletto autocrati populisti). Il risentimento delle nuove generazioni è esploso soprattutto per due ragioni: i cambiamenti climatici e le diseguaglianze economiche. Nel discorso della neozelandese Swarbrick è impossibile non cogliere l’eco del grido «Ci avete rubato il futuro!» dell’adolescente svedese Greta Thunberg. I millennial americani saranno la prima generazione a guadagnare meno dei propri genitori, e la filosofia boomer del bootstrapping («se non hai successo è perché non stai lavorando abbastanza sodo», dall’espressione «to pull oneself up by one’s own bootstraps» che significa «cavarsela con le proprie forze») sembra un’illusione oggi che è quasi impossibile trovare un impiego stabile (e in America per studiare ci si indebita a vita); e prima di fare un figlio ti domandi non solo se puoi permettertelo, ma se sia etico in quella che Greta chiama la «nostra casa in fiamme». Da parte loro i boomer si chiedono se il «vittimismo» dei giovani non sia dovuto all’educazione troppo permissiva che gli hanno dato. Non li capiscono. Come possono credere che «non essere offesi» sia un diritto (al punto da voler limitare la libertà di espressione)? E questa mania di fotografare e condividere ogni momento privato, anche se potrà essere usato contro di loro? (se lo chiede Maureen Dowd sul New York Times, ammettendo che un collega 27enne le risponde spesso «Ok boomer»). Anche Obama, papà di due ragazze di 18 e 21 anni, ha detto che i giovani devono capire che la vita è fatta di compromessi. Ok millennial? (i boomer tendono a chiamare millennial tutte le generazioni dopo la loro). Bhaskar Sunkara, millennial e socialista, fondatore della rivista Jacobin, invece, è una voce fuori dal coro: sul Guardian invita i coetanei a riflettere sul fatto che la battaglia non è generazionale; milioni di vecchi operai se la passano malissimo, «il vero nemico sono i capitalisti». È curioso che «Ok Boomer», che esprime l’incomunicabilità tra nonni e nipoti (in mezzo c’è la Gen X, la generazione silenziosa) abbia — tutto sommato — aperto il dialogo.

Cosa vuol dire "Ok, Boomer", la frase che state sentendo ovunque. Un meme, due parole che sono diventate l'arma finale della Gen Z contro il paternalismo dei Baby Boomers. Valeria Coletta su Esquire.com l'08/11/2019. Per farvi capire di che stiamo parlando vado a ritroso fino al primissimo “Ok, Boomer” mai usato nella storia dell’umanità (per così dire). Lucifero giovane angelo del Paradiso a un certo punto pensò che anche lui aveva diritto fare quello che gli pareva, ma invece arrivò il vecchissimo Dio padrone di tutto e di tutti, regnante sull’universo a dirgli: “Bla bla bla tu non puoi bla bla io sono Dio bla bla bla” e allora eccola la risposta: “Ok, Boomer!”. Che sarebbe tipo “certo come no”, oppure “non ti scaldare troppo vecchietto”. Be’ non è finita benissimo quella storia lì, però ci siamo capiti. Oggi “Ok, Boomer” è diventata una sorta di risposta-reazione alle paternali antipatiche e distanti che i membri della “Generazione Z” (cioè nati tra la fine degli anni ‘90 e la fine dei ‘00) devono sorbirsi dai “Baby boomer” (cioè nati tra la metà degli anni ‘40 e ‘60). È un’espressione ma soprattutto un meme nato su TikTok e su Twitter, finito sul New York Times e che ormai è ovunque. Praticamente una guerra tra nonni e nipoti, come se all’ennesima borbottata sui soldi di Zio Paparone, Qui Quo e Qua rispondessero insieme: “Ok, Boomer!”. In realtà la questione riguarda un problema abbastanza importante di incomunicabilità e di distanza tra due sensibilità che sono sempre più diverse. Questa espressione è stata addirittura usata dalla deputata neozelandese Chlöe Swarbrick come risposta a un collega che la contrastava riguardo al tema della crisi ambientale. Swarbrick è un membro del parlamento, è candidata alla leadership del Partito Verde della Nuova Zelanda e ha 25 anni. Le nuove generazioni credono che i boomers abbiano rovinato il pianeta, lasciandogli in mano un ambiente sull’orlo della distruzione e la crisi economica, mentre al contrario i “vecchi” pensano che questi ragazzini siano dei deviati, immorali, irresponsabili e soprattutto non li capiscono, non capiscono cosa facciano tutto il giorno e non capiscono le cose che dicono. Una lettura un po’ superficiale da entrambe le parti che però ricalca il classico conflitto generazionale che oggi si propaga anche a livello sotterraneo con i meme e con armi che viaggiano su piani inaspettati. Il problema adesso è che dopo aver scritto questo articolo con tono un po’ saccente e ironico, minimizzando uno scontro che diventerà sempre più aspro, mi aspetto di ricevere una sola risposta. E voi ormai sapete qual è.

CONFLITTI. «Ok boomer», la frase per zittire gli adulti è il manifesto di un divario generazionale. L’inkiesta l'08 novembre 2019. Nato come meme sui social, si è subito diffuso nell’uso comune per far tacere un anziano che dispensa consigli fondati su una mentalità antiquata e lontana dalla realtà attuale. Esprime frustrazione, ma anche un segnale d’allarme: i “vecchi” devono capire meglio cosa sta succedendo nel mondo. Chlöe Swarbrick, parlamentare del Green Party neozelandese di 25 anni, stava discutendo dei benefici dello Zero Carbon Bill, un disegno di legge che avrebbe cancellato le emissioni di anidride carbonica del Paese entro il 2050, quando un altro membro del Parlamento, più anziano, ha cominciato a infastidirla con commenti sulla sua età. «Ok boomer», ha risposto lei, mettendolo a tacere nel silenzio generale. L’espressione, nata come meme (cosa che accade ormai per gran parte del linguaggio contemporaneo) ha conosciuto subito una grandissima diffusione tra la cosiddetta Generazione Z, soprattutto grazie a TikTok, dove appare in una serie di video brevissimi in cui i giovani zittiscono i vecchi genitori, gli ex Baby Boomer, insieme alle loro opinioni antiquate, paternalistiche e fuori contesto. È, in sostanza, uno slogan di ribellione, già finito su cappellini da baseball e magliette che rappresenta il senso di frustrazione delle giovani generazioni verso i più anziani. Non è una novità. Gli adolescenti sono insofferenti, è una legge di natura. Cresceranno, si dice. Matureranno e si trasformeranno negli stessi anziani che criticavano. Stavolta però ci sono alcuni elementi di novità. Il primo è, senza dubbio, il cambiamento climatico. Una questione su cui, quasi in modo inaspettato, si è allargata la frattura generazionale. Sotto questo profilo, la retorica incendiaria (dalla casa in fiamme in poi) della sedicenne svedese Greta Thunberg ha esercitato una influenza decisiva: ha trovato i colpevoli, cioè tutti coloro che sono vissuti finora senza preoccuparsi del clima – e sono i Baby Boomer – e individuato le vittime dirette, cioè i giovani stessi, condannati a vivere in un mondo che sarà funestato da un clima impazzito e sempre meno vivibile. Sotto questo aspetto, frasi come «Ci avete rubato il futuro» assumono una connotazione generazionale e costruiscono una identità comune nei confronti di un nemico – il boomer, appunto. Va ricordato che è proprio qui la grande differenza tra il suo operato e quello di Al Gore, che pure da almeno 25 anni, cioè dal suo GLOBE programme del 1994, cerca di lanciare allarmi sul clima, ma senza incidere granché. In questo contesto la frase accompagna una nuova forma di resistenza, anche politica. Perché aiuta a screditare chi, ancora oggi e nonostante le evidenze scientifiche, si ostina a negare la necessità di intervenire. Ma c’è un aspetto aggiuntivo: dire “Boomer” significa ricordare, appunto, gli anni del boom. Quelli della crescita economica, del moltiplicarsi delle opportunità economiche, lavorative, di carriera. Una epoca differente, ben lontana dalla precarietà della situazione attuale, connotata piuttosto da disuguaglianze sociali crescenti. Cosa può capire del mondo di oggi, si chiedono, chi non si misura (e non si è mai misurato) con le difficoltà di trovare un impiego stabile? O che non comprende la portata del cambiamento introdotto dal digitale (o, se lo comprende, ne rimane in larga parte immune)? Il successo ottenuto dell’espressione rivela molto del divario tra le due generazioni: gli adulti, come ammette in modo chiaro Bret Easton Ellis in Bianco, non capiscono e mal sopportano la fragilità dei più giovani: per loro viene utilizzata, ormai in modo normale, il termine “snowflake” (fiocco di neve). La parola, dopo essere stata in voga negli ambienti della alt-right americana, ha subito uno sdoganamento (e una ripulita) che la ha, di fatto, resa utilizzabile nel contesto di ogni giorno. “Snowflake” sono le persone troppo suscettibili (e qui il problema sta nel collocare quanto è “troppo”), permalose, debole e fragili. Usato in senso dispregiativo nei confronti delle minoranze che chiedevano rispetto, è poi passato a connotare un’intera generazione – i giovani, appunto – nell’intenzione di spronarli ad accettare le amarezze della vita, sminuendo (e a volte deridendo) le loro difficoltà. Del tutto normale che, prima o poi, sarebbe scaturita una reazione. «Ok boomer» è una dichiarazione di guerra. L’importante è che non si limiti a chiudere la bocca agli “anziani”. Ma li aiuti anche ad aprire gli occhi.

Cosa vuol dire “Ok, boomer”, per chi se lo è chiesto. Il Post il 6 novembre 2019. Un discusso meme molto usato in questi giorni su Internet è una risposta polemica ai "baby boomer", dai giovani che li accusano di aver fatto grossi danni a tutti e al pianeta. Un meme nato su Twitter e sul social network TikTok, e diventato popolare nelle ultime settimane tra adolescenti e giovani negli Stati Uniti, ha originato un acceso dibattito generazionale online. Il meme si chiama “Ok, boomer” e rappresenta una specie di risposta polemica e insofferente dei membri della “Generazione Z”, cioè i nati tra la seconda metà degli anni Novanta e la fine dei Duemila, rivolta ai baby boomer, cioè i nati tra la metà degli anni Quaranta e Sessanta, i cosiddetti figli del boom economico seguito dalla Seconda guerra mondiale. “Ok, boomer” è in pratica un’espressione usata da adolescenti e giovani per zittire o prendere in giro cose percepite come lamentele paternalistiche della generazione dei cinquanta-sessanta-settantenni, e ritenuta – con una generalizzazione spesso criticata – responsabile dei principali disastri contemporanei, dalla crisi finanziaria a quella climatica. Se ne parla soprattutto dopo un articolo della giornalista Taylor Lorenz sul New York Times, che ha reso “Ok, boomer” popolare anche fuori da TikTok e da Twitter: le prime occorrenze dell’espressione risalgono al 2018, secondo il sito Know Your Meme, ma la popolarità del meme è ben più recente e risale alle ultime settimane. Nonostante sia un tipico fenomeno di nicchia di internet, il dibattito che ha generato ha dimostrato che “Ok, boomer” si porta dietro una questione piuttosto sentita, e peraltro per nulla nuova: uno scontro generazionale. A dimostrazione del fatto che non sia una questione relegata a oscuri angoli di internet, nei giorni scorsi l’espressione è stata usata dalla deputata neozelandese Chlöe Swarbrick in risposta a un collega che aveva provato a interromperla durante un suo intervento su una questione ambientale. Swarbrick ha 25 anni ed è quindi una millennial (nata tra l’inizio degli anni Ottanta e la metà dei Novanta), ma “ok boomer” è nato tra i membri della generazione successiva, la cosiddetta Generazione Z, che comprende gli adolescenti, e, grossomodo, i giovani sotto ai 25 anni. Una fascia demografica che, insieme ai millennial, ha vissuto buona parte della propria vita, o perlomeno della propria vita adulta, dopo la crisi economica del 2008 e nel pieno della crisi climatica. Sono due fenomeni enormi e sulle cui responsabilità si dibatte da anni: tra le varie letture, una delle più popolari – e anche una delle più facili – è quella che attribuisce le colpe genericamente ai baby boomer. Una generazione che ha vissuto il boom economico occidentale e che, secondo un’interpretazione molto popolare, ne ha tratto grandi privilegi creando grandi guai e montagne di debito pubblico a danno delle generazioni successive: la Generazione X, quella dei quaranta-cinquantenni di oggi, e i millennial. Allo stesso tempo, è diffuso sui social network un altro tipo di risentimento dei più giovani verso i baby boomer, accusati di sminuire in modo cinico e insensibile diversi temi centrali della cultura dei millennial, dal dibattito sulle identità (principalmente di genere, etniche o legate all’orientamento sessuale) a quello, per esempio, seguito al movimento #MeToo. “Ok, boomer”, quindi, è diventata una risposta polemica ai giudizi o alle opinioni dei baby boomer sgradite ai più giovani, un modo per liquidare le critiche giudicate paternalistiche o passatiste, le lamentele di una generazione che secondo molti giovani ha avuto a lungo e continua ad avere il potere e ne ha fatto un uso sbagliato con gravi conseguenze sulla vita delle generazioni successive. “Ok, boomer” si è diffuso soprattutto tra i giovani Democratici e di sinistra americani, come una specie di slogan giovanile progressista. In molti però hanno criticato il meme – anche “da sinistra” – accusandolo di fare una generalizzazione pericolosa. In tanti infatti contestano l’efficacia, l’opportunità e l’onestà di interpretare problemi come le diseguaglianze economiche e la crisi climatica su una base semplicistica come quella dello scontro generazionale. Fenomeni così grandi hanno cause ben più complesse, dice chi critica “Ok, boomer”, e la lettura dello scontro generazionale ne esclude altre più pertinenti. Ad accomunare i responsabili delle crisi in questione, dicono in tanti, è la classe sociale più che l’età. Non è un tema nuovo: il conflitto generazionale è spesso criticato perché ingannevole e perché mette l’una contro l’altra persone che in realtà hanno in comune cose più importanti dell’età, tipo un basso reddito. Queste critiche non sono sembrate però granché efficaci, perlomeno negli Stati Uniti, dove “Ok, boomer” è sempre più popolare e ha avuto un notevole successo nel merchandise, ha raccontato Lorenz. Felpe, magliette e adesivi con la scritta sono popolari sui siti specializzati: Shannon O’Connor, 19enne che ha messo in vendita una di queste maglie – con l’aggiunta di “ti auguro una pessima giornata” – ha ricevuto ordini per oltre 10mila dollari. Da “Ok, boomer” sono nati altri meme, canzoni, video, e soprattutto l’espressione è stata molto usata in questi giorni sui social network. Tanto che ci sono stati baby boomer che se la sono presa, come il conduttore radiofonico conservatore Bob Lonsberry, che in un tweet poi cancellato ha scritto che l’espressione è «la parola con la n- della discriminazione nei confronti degli anziani». Il paragone è stato ovviamente criticatissimo, e in tanti hanno fatto notare il paradosso di chi, dopo aver a lungo attaccato i millennial per la loro eccessiva sensibilità e tendenza all’indignazione, ha accostato un meme diffuso online da pochi giorni a una questione enorme e secolare come la discriminazione razziale.

Chi tutela le discriminazioni sui senior? Felicia Fiore su Informazionesenzafiltro.it il 25 gennaio 2017. Credenze stereotipate su età e produttività degli Over condizionano le aziende e i loro investimenti in formazione. Uno dei fenomeni demografici più rilevanti del 21esimo secolo prende il nome di “Rivoluzione grigia”: la popolazione mondiale sta drammaticamente invecchiando. Infatti, sebbene questa cresca dell’1,3% ogni anno, la porzione di popolazione che sta crescendo di più è proprio quella degli anziani. Basti pensare che nel 1900 le persone con più di 65 anni erano meno del 5% della popolazione totale mentre agli inizi del 21esimo secolo si è arrivati a quasi il 15% e gli esperti prevedono che nel 2050 gli Over65 saranno più del 20%. Inoltre, è aumentato e continuerà ad aumentare il numero di persone con più di 85 anni: si prevede che entro il 2050 ben 21 Paesi nel mondo avranno più del 10% di persone Over85. Questa rivoluzione demografica rappresenta una grande conquista per l’umanità (la sopravvivenza fino alla vecchiaia è diventata possibile per la massa e non solo per pochi fortunati); tuttavia, essa pone anche grandi sfide per le Istituzioni pubbliche che devono adattarsi a una struttura della popolazione in continuo cambiamento. L’altra faccia della medaglia è, infatti, che ci saranno meno persone in età lavorativa, a fronte del forte aumento della percentuale dei pensionati. Secondo l’Eurostat, già nel 2008 le previsioni davano che nel 2060 ci sarebbero stati solo due lavoratori per ogni Over65; oggi il rapporto è di quattro a uno. Anche l’indice di dipendenza degli anziani (ovvero il rapporto tra la popolazione Over65 e la popolazione in età lavorativa, tra i 15 e i 64 anni di età, moltiplicato per 100) fornisce previsioni preoccupanti circa la sostenibilità di una tale struttura di popolazione, evidenziando una situazione di squilibrio generazionale, passando dall’attuale 30% a circa il 60% del 2050. Per affrontare le sfide dell’invecchiamento demografico è necessario agire con determinazione, incentivando la diffusione e la pratica della “longevità attiva”. La stessa Unione Europea si è già attivata al fine di rendere sostenibile questo allungamento delle speranze di vita, valorizzando elementi chiave tra cui, ad esempio, assumere stili di vita salutari, rimanere attivi anche dopo la pensione e posticipare il pensionamento.

Gli Over che restano in azienda: occhio alle discriminazioni. Per quanto riguarda la possibilità di lavorare più a lungo, ci sono dati incoraggianti: la percentuale dei lavoratori senior è gradualmente aumentata nel corso degli ultimi due decenni e ci si aspetta che questa crescita continui anche in futuro (sempre fonte Eurostat). In effetti, è stato dimostrato che sono ben disposti a rinviare il loro pensionamento, a patto che le caratteristiche dei posti di lavoro e le condizioni lavorative siano sufficientemente interessanti e aderenti alle mutate esigenze e preferenze di questa generazione di lavoratori. Oltre all’adozione di misure volte ad un miglioramento delle condizioni di lavoro e ad una più adeguata gestione dell’età è necessario, però, affrontare la sfida rappresentata dalla discriminazione sul luogo di lavoro per ragioni di età, che pare essere la forma di discriminazione denunciata con maggiore frequenza. Sebbene anche i lavoratori giovani possano essere colpiti da stereotipi basati sull’età (ad esempio, vengono frequentemente tacciati di poca maturità), l’impatto negativo degli stereotipi e dei pregiudizi basati sull’età è particolarmente forte per i senior (minor produttività, scarsa flessibilità, bassa motivazione e limitate capacità di assorbire nuove idee). Gli stereotipi negativi su questo tipo di lavoratore sono, infatti, ampiamente diffusi e tristemente collegati ad atteggiamenti discriminatori sul posto di lavoro. Le credenze stereotipate su di loro tendono ad influire negativamente sulle scelte dei datori di lavoro, limitando le opportunità per questi lavoratori di partecipare ad attività di training, di ottenere promozioni, di rimanere più a lungo nell’azienda. Hanno effetti anche sui colleghi più giovani che, sebbene apprezzino la loro esperienza, si dimostrano meno disponibili a lavorarci, trovando più facile comunicare e socializzare con i propri coetanei. Gli stereotipi legati all’età non risparmiano nemmeno gli stessi senior. Autodefinirsi come tali attiva in loro gli stereotipi negativi appartenenti alla categoria e conseguentemente influenza il loro atteggiamento nei domini lavorativi a cui questi stereotipi si applicano, con conseguenze sulla loro motivazione e abilità di lavorare, apprendere e crescere professionalmente. Diversi studi hanno dimostrato, tuttavia, che questi stereotipi sono spesso altamente inaccurati e fuorvianti e non riflettono la reale diversità delle persone all’interno dei gruppi d’età interessati.

L’identikit aziendale dei senior. Non è affatto vero che i lavoratori senior sono meno produttivi dei loro colleghi più giovani; al contrario, hanno dalla loro maggiore esperienza e minori tassi di assenteismo e si sono dimostrati più responsabili e cauti rispetto ai giovani, evitando errori. Sebbene incontrino maggiori difficoltà nell’acquisire nuove abilità informatiche, i lavoratori più anziani non sono solo in grado di usare il computer e le altre tecnologie per una varietà di compiti, ma risultano importanti le strategie di insegnamento. Insomma, l’età non è correlata alla prestazione lavorativa. In generale, studi e valutazioni confermano che l’invecchiamento sul lavoro è accompagnato da un cambiamento, più che da un declino, della performance. Inoltre, con l’età aumenta la variabilità individuale: alcune persone, infatti, rimangono innovative, produttive e ben retribuite fino ai 70 anni, mentre altri sono considerati troppo vecchi per il loro lavoro già a 45 anni. Le ragioni che determinano questa differenza hanno poco a che vedere con la biologia, quanto piuttosto con il tipo di attività e orientamento di carriera che ha condotto a questo declino nella performance, in particolare lo stress da lavoro-correlato e condizioni di lavoro disagevoli. I senior, quindi, hanno un notevole potenziale produttivo da investire sul posto di lavoro: basti pensare al bagaglio di conoscenze e competenze a loro disposizione che rischia di andare perso, con ovvie conseguenze negative per l’azienda, se non viene trasferito ad una nuova generazione di impiegati. Tuttavia, le interazioni tra lavoratori di differenti generazioni sono spesso conflittuali, anche a causa delle credenze erronee e stereotipate. Da qui la necessità di colmare i gap intergenerazionali interni, attraverso strategie in grado di promuovere lo scambio e la collaborazione giovani-over sul posto di lavoro. Sempre più organizzazioni iniziano ad apprezzare l’importanza e l’utilità dei gruppi intergenerazionali, consapevoli del fatto che ogni generazione possiede diverse abilità e conoscenze all’interno del mondo del lavoro. È stato dimostrato che i costi necessari a colmare tali salti anagrafici vengono controbilanciati dai benefici. Tuttavia, affinché siano efficaci, queste strategie devono includere anche aspetti metacognitivi ed emotivo-motivazionali: solo attraverso la scoperta e l’analisi delle credenze e delle emozioni individuali rispetto alle persone di diverse età si può creare la base relazionale necessaria affinché questi mondi possano comunicare e dare vita ad un vero scambio di conoscenze.

Felicia Fiore. Psicologa, dottore di ricerca in Psicologia sperimentale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Padova e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale in formazione. Attualmente lavora presso una struttura per anziani della provincia di Bari e collabora con Lab-I, il Servizio e Laboratorio di Ricerca e Formazione in Psicologia dell’Invecchiamento dell’Università degli studi di Padova. È autrice, con De Beni, Cornoldi e Borella del “CrossAges/MAUT. – Percorso di assessment e intervento per la promozione dello scambio intergenerazionale in ambito lavorativo”. Si è occupata della progettazione di percorsi volti a promuovere lo scambio intergenerazionale e a favorire la transizione lavoro-pensione. 

Le discriminazioni? Più d’età che di genere. Irene Consigliere il 6 ottobre 2015 su Il Corriere della Sera.

Valentina Sangiorgi, direttore risorse umane di Randstad Italia. Qual è l’atteggiamento sul luogo del lavoro da parte degli italiani nei confronti dei propri colleghi? Da una parte nel nostro Paese cresce l’apertura alla diversità sul luogo di lavoro, dall’altra un dipendente su quattro si sente discriminato per genere o età e uno su cinque per orientamento sessuale. Lo rileva il Workmonitor, indagine trimestrale realizzata in 33 Paesi del mondo da Randstad, che si è focalizzata sul tema della discriminazione nei luoghi di lavoro. Vediamo i dati più significativi. Premettendo che l’87% dei lavoratori italiani apprezza la diversità nel luogo di lavoro e il 72% riscontra nella sua azienda una cultura aperta e inclusiva, che accetta le differenze di età, di genere, di religione, etnia e orientamento sessuale (anche se il dato resta inferiore rispetto alla media mondiale 77% e a quella del Nord Europa dell’ 81%), emerge comunque che il 27% dei dipendenti denuncia di essere stato oggetto di discriminazione generazionale sul lavoro, il 26% di genere, il 19% per il suo orientamento sessuale, il 18% per l’appartenenza etnica e il 17% per quella religiosa. Nei giudizi degli italiani non mancano comunque i risultati contraddittori: per il 77% l’orientamento sessuale non costituisce un problema per il proprio datore di lavoro (in linea con la media globale, ma in Europa si raggiunge l’80%). Eppure, il 69% ritiene che trovare lavoro oggi sia più difficile per un transessuale (più della media globale, 66%). In conclusione, la discriminazione sul lavoro è ancora una realtà in Italia, come nel resto del mondo. «La fotografia scattata dal Workmonitor sulla discriminazione nei luoghi di lavoro ci restituisce, secondo il punto di vista dei lavoratori italiani, la prospettiva di una cultura generalmente aperta ed inclusiva — afferma Valentina Sangiorgi, direttore risorse umane di Randstad Italia —. Una buona notizia per il business, poiché molti studi hanno dimostrato come team diversificati producano migliori prestazioni e maggior coinvolgimento dei dipendenti. Ma la nostra indagine avverte anche sul fatto che, in Italia come in tutto il mondo, una cultura improntata all’inclusione non è sufficiente a metterci al riparo da esperienza di discriminazione. Le organizzazioni devono impegnarsi per superare ogni forma discriminatoria, con il coinvolgimento di tutti i livelli aziendali».

·         Gioventù del Cazzo.

Azzurra Barbuto per “Libero Quotidiano” il 20 dicembre 2019. Li chiamiamo "bamboccioni" e "mammoni", ci lamentiamo del fatto che si comportano da eterni adolescenti pure quando entrano negli anta, ché di riuscire a schiodarli dalla casa dei genitori, più confortevole di un hotel 5 stelle, non se ne parla. Troppo comodo campare sugli altri, come fanno i parassiti. Eppure se tanti giovani italiani non diventano maturi mai e rinviano sine die decisioni e responsabilità, come quella di pagarsi da soli le bollette, la colpa è soprattutto degli adulti e di una società che, invece di favorirne la crescita, li preserva e li coccola e li giustifica e li pasce, trasformandoli in pappemolli: da soli sono persi e hanno difficoltà persino ad accendere un fornello per cucinare un uovo al tegamino. Codesta mentalità tipicamente italiana è talmente interiorizzata e sedimentata che conduce addirittura a sentenze che fanno accapponare la pelle a chi conserva miracolosamente un minimo di buonsenso. È accaduto a Torino: un padre, 63 anni, il quale si è dichiarato nullatenente e attualmente risulta addirittura disoccupato, è stato condannato in primo grado a due mesi di galera - pena sospesa, naturalmente - per avere smesso da qualche annetto di versare ogni mese alla figlia, la quale ha un lavoretto, la somma di 258 euro. È stata la donna, che non è mica una bimbetta, avendo 33 anni suonati e nessuna disabilità che la renda inabile alla fatica, a denunciare il babbo nel 2014, specificando che l'uomo aveva smesso di contribuire al suo sostentamento dal 2012, ossia quando la signorina era ventiseienne. Peraltro il papà, come ci ha spiegato il suo avvocato, Carmine Ventura, ha aiutato la ragazza ad acquisire autonomia trovandole un impiego come segretaria, attività che ella ha perduto per motivi non imputabili al babbo. La domanda sorge spontanea: ma a 33 anni, come a 26 del resto, non è il caso di smetterla di pretendere le poppate e la paghetta da chi ci ha messi al mondo? Insomma, fino a quando su un padre ed una madre grava il dovere di provvedere materialmente ai discendenti e, soprattutto, è accettabile che codesto obbligo si protragga a vita, pure allorché il figlio diventa adulto ed il genitore versa in grave difficoltà economica, pena il ritrovarsi in gattabuia? Quando anche un tribunale riconosce ad un uomo ed una donna in buona salute e sopra i trent' anni il diritto di ricevere un assegno dal padre, si legittima, si appoggia e si avalla un atteggiamento di parassitismo sociale, il quale induce il soggetto a non darsi da fare per la propria esistenza e il proprio futuro, poiché tanto tocca a coloro che lo hanno concepito di provvedere al suo benessere, riempirgli il frigo e soddisfare i suoi capricci. Ecco perché la sentenza del tribunale di Torino, a nostro avviso, è fortemente diseducativa non solo per la diretta interessata il cui babbo, secondo la giustizia, dovrebbe in teoria finire in cella alla stregua di un criminale, bensì per generazioni di giovani che, invece di essere riconoscenti a genitori che ne finanziano studi e passatempi, con arroganza esigeranno tutto ciò che ritengono sia loro dovuto e non fino alla laurea e all' inserimento lavorativo ma persino ben oltre.

UN PRECEDENTE. Una sentenza infatti crea un precedente, fa giurisprudenza, incide sui costumi, sulla civiltà, talvolta peggiorandola, anziché migliorandola come sarebbe opportuno. Insomma, stiamo allevando degli inetti e la nostra unica preoccupazione è come rendere loro l' esistenza ancora più comoda. In questa smania collettiva di autoflagellazione ed autocolpevolizzazione che ha preso gli italiani si è affermata la visione distorta in base alla quale se ai giovanotti mancano lavoro ed opportunità la responsabilità è delle vecchie generazioni, le quali devono pagare, anzi devono essere punite. Come in questo caso: il babbo merita la prigione, la figlia trentatreenne l' assegno. Nessuno osa dire a quest' ultima: "Sei abbastanza grande per provvedere da sola a te stessa". I giudici ci spieghino almeno fino a quale età corre l' obbligo di mantenere la prole che potrebbe benissimo essere autosufficiente se solo la smettesse di contare sulla "borsetta di mammà" e si rimboccasse le maniche. Purtroppo qui c' è in ballo qualcosa di molto più importante dei 200 o dei 300 euro mensili per mangiare. È in gioco la dignità della persona. E per la tutela di codesto decoro la faccenda familiare non sarebbe dovuta arrivare in aula. Invece di pagare gli avvocati e perseguitare il padre, buono o cattivo che sia stato, per ottenerne i denari, l' agguerrita signora avrebbe fatto meglio a conservare l' orgoglio e ad adoperarsi per incrementare da sé le proprie entrate, qualora reputate insufficienti. I genitori ci hanno donato la vita, non succhiamogli il sangue.

Maurizio Tucci per “Salute - Corriere della sera” il 6 dicembre 2019. Dormono meno di quanto sarebbe necessario, vanno a letto molto tardi e hanno un sonno spesso disturbato da una costante «connessione» - effettiva e/o psicologica - con il loro ambito relazionale. È questo, in estrema sintesi, il quadro che emerge dall' indagine «Gli adolescenti e il sonno» realizzata dall' Associazione no-profit Laboratorio Adolescenza e l' Istituto di Ricerca IARD, in collaborazione con ACP (Associazione Culturale Pediatri) e con il contributo non condizionante di Uriach Italia, divisione Laborest. Solo il 6,8% del campione intervistato afferma di dormire almeno 9 ore per notte («dose» di sonno opportuna a quell' età), mentre il 20% dorme addirittura meno di 7 ore. D' altra parte andando a letto tra le 22 e le 23 (55%) o dopo le 23 (28%), di tempo per riposare adeguatamente, specie se si è in periodo scolastico, non ne resta molto. Inoltre, il 72% delle femmine e il 58,5% dei maschi sostiene di avere problemi ad addormentarsi (al 13% il problema si presenta spesso) e al 66% (72,3% delle femmine) capita (qualche volta o spesso) di svegliarsi durante la notte e di non riuscire più ad addormentarsi. E i risvegli notturni risultano più frequenti di quanto non sarebbe ragionevole aspettarsi da ragazze e ragazzi. «Andare a letto e avere un sonno ristoratore non sono la stessa cosa - commenta Maria Luisa Zuccolo, responsabile del gruppo di lavoro adolescenza dell' Associazione Culturale Pediatri - e le conseguenze del dormire poco e male, come gli stessi adolescenti riferiscono, sono evidenti: difficoltà a svegliarsi al mattino, avere un senso di stanchezza durante la giornata, mal di testa, effetti negativi sul rendimento scolastico; in breve tutti i sintomi della cosiddetta Sindrome da fase del sonno ritardata». «Nonostante queste evidenze - continua l' esperta - il problema è sottostimato. Anche quando l' insonnia non è occasionale gli adolescenti ne parlano poco, non solo con il medico (28%) ma anche con la famiglia. Risulta, infatti, che in oltre il 40% dei casi i genitori non sono a conoscenza di questo problema. È fondamentale quindi che i pediatri si abituino a porre, direttamente agli adolescenti, domande sulla qualità del sonno».

Cesare Peccarisi per “Salute - Corriere della sera” il 6 dicembre 2019. Secondo uno studio appena pubblicato sul Journal of Crime & Delinquency dal sociologo Daniel Semenza della Rutgers University del New Jersey e da Ilene Rosen dell' Università della Pennsylvania ex presidentessa dell' American Academy dei disturbi del sonno, il sempre più ridotto riposo notturno degli studenti sarebbe alla base di comportamenti antisociali come bullismo e violenza, così come di disturbi come sonnolenza diurna, ansia, depressione e mal di testa, sempre più diffusi fra i banchi di scuola. Nella fascia d' età adolescenziale questo disturbo rappresenta spesso un modo doloroso ma efficace di denunciare il proprio disagio: attraverso il linguaggio del dolore fisico il bambino rende manifesta una situazione personale di malessere e comunica un messaggio di sofferenza psicologica. Dagli anni ottanta nei giovani del nostro Paese i casi di cefalea tensiva, il mal di testa comunemente chiamato da stress perché molto legato all' ansia, sono aumentati di oltre il 60 per cento, mentre il suo livello medio in questa fascia d' età era sempre stato attorno al 15 per cento. Nell' 80 per cento dei casi sono legati a cause emotive dovute ai crescenti stimoli cui sono sottoposti i giovani di oggi: sempre più multitasking, divisi fra ore sui banchi e attività extrascolastiche, subiscono l' introduzione del tempo pieno e l' assenza di genitori, sempre più impegnati, a loro volta, sul lavoro e costretti a trascorrere con loro sempre meno tempo, senza contare lo sfaldarsi dei nuclei famigliari a causa delle sempre più numerose separazioni. Caricare poi i figli di troppe responsabilità e aspettative, sottoponendoli talora anche allo stress di occupazioni extrascolastiche eccessive, come attività sportive che finiscono per sovraffaticarli psicologicamente oltre che fisicamente, può essere controproducente, mentre occorre creare attorno a loro un ambiente sereno e soprattutto dedicare loro più tempo. In tutto questo, la carenza di sonno fa certamente la sua parte: «I giovani devono dormire da un minimo di 8 ore e mezza per notte a un massimo di 10 - dice la Professoressa Ilen Rosen- invece il loro orologio biologico del sonno è sempre in riserva: troppo spesso vanno a dormire non prima delle 22,30 o delle 22,45 perché hanno troppe cose da fare. Non solo i compiti a casa lasciati sempre all' ultimo momento, ma anche i programmi TV, il computer e, soprattutto, i micidiali messaggini del cellulare che talvolta si portano pure a letto ritardando ulteriormente l' addormentamento (si veda l' articolo nella pagina accanto, ndr ). Poi però devono alzarsi alle 7 o alle 8 per andare a scuola e il loro cervello, ancora in crescita, deve lavorare con una carenza di riposo notturno che si traduce sopratutto in ridotta resistenza allo stress. Agli studenti più grandi bastano invece 8 ore di sonno perché a 20 anni il loro cervello si è quasi completamente sviluppato». Tant' è vero che i ricercatori diretti da Amy Gelfand dell' UCSF Benioff Children' s Hospital di San Francisco hanno appena pubblicato un altro studio sulla rivista Headache confrontando 141 liceali che andavano a scuola alle 8,30 con 115 che invece ci andavano più tardi e hanno dimostrato che in questa fascia d' età la perdita delle ore di sonno è meno influente sull' insorgenza di mal di testa. Ovviamente non bisogna esagerare: lo studio ha infatti preso in esame solo lievi differenze fra studenti sovrapponibili per sesso ed età con un tempo medio di sonno di 5 ore e 36 minuti, cioè 3 ore e 4 minuti meno della durata consigliata. Chi andava a scuola prima si svegliava 29 minuti prima di chi entrava in classe più tardi (alle 6,09 invece che alle 6,38) e usciva di casa quasi mezz' ora prima (alle 7,02 invece che alle 7,28). Ciò però non ha avuto una significativa influenza sull' incidenza di mal di testa negli scolari più mattutini: 8 attacchi al mese in questi ultimi in confronto a 7 di quelli dell' altro gruppo. Negli Stati Uniti, comunque, l' American Academy di Pediatria ha raccomandato alle scuole di non far iniziare le lezioni prima delle 8,30 e l' American Academy dei Disturbi del Sonno raccomanda agli studenti di dormire almeno 8 ore per notte.

Bambini deficienti, come i genitori. Alessandro Bertirotti il 14 novembre 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… responsabilità. La situazione è questa, letteralmente. I bambini che trascorrono molto del loro tempo davanti ad uno smartphone, un tablet, una console per videogiochi, oppure altri dispositivi digitali possiedono una ridotta integrità della sostanza bianca (quella dei collegamenti neuronali, per distinguerla dalla sostanza grigia, costituita dai corpi cellulari neuronali) nel cervello. Inoltre, manifestano minori capacità cognitive, carenza che si riflette in deficit linguistici, nell’alfabetizzazione e nella velocità di elaborazione cognitiva. Per essere ancora più chiari, l’utilizzazione di dispositivi multimediali dotati di schermo determina una vera e propria modifica nel cervello dei più piccoli, rilevabile nelle scansioni cerebrali, e strettamente correlata a punteggi inferiori in quei test che valutano le abilità cognitive. Queste considerazioni sono le conclusioni di una ricerca scientifica pubblicata recentemente, su JAMA Pediatrics. Anche se il campione è statisticamente significativo, il numero è comunque piccolo (47 bambini, tra i 3 e 5 anni, 27 femmine e 20 maschi) e dovranno essere dunque condotte ulteriori indagini scientifiche. È anche vero che esiste un ulteriore interessantissimo studio, condotto su 4500 bambini, fra i 9 e i 10 anni, con il quale si dimostra che superare la soglia di 7 ore quotidiane di fronte ad un device di questo tipo procura un assottigliamento della corteccia cerebrale. Il titolo di questo mio articolo è “forte” (ne sono più che cosciente…) ma appropriato, perché la ricerca è stata condotta su un gruppo di bambini e relativi genitori, proprio per verificare il livello di consapevolezza che gli adulti posseggono circa l’utilizzo del tempo che i bambini trascorrono davanti ai diversi touch screen. La Società Italiana Pediatrica ha emanato linee guida rispetto a questo problema, ossia l’utilizzazione infantile di dispositivi tecnologici con touch screen, dimostrando, in realtà, che la consapevolezza genitoriale è alquanto limitata in fatto di educazione. L’aspetto non proprio esaltante di queste ricerche è che la situazione è mondiale, ossia riguarda le attuali generazioni digitali, ovunque si trovino a vivere, indipendentemente dalla cultura di appartenenza. E questo avviene perché la tecnologia è talmente pervasiva da omologare gli atteggiamenti cognitivi infantili (tutti legati ai device di questo tipo) e quelli genitoriali. Lasciare i nostri figli da soli di fronte a questi strumenti, significa limitarne lo sviluppo cognitivo, espressivo e linguistico. Come possiamo dunque lamentarci per il degrado intellettuale nel quale viviamo, particolarmente evidente quando sentiamo parlare politici, rappresentanti delle istituzioni ed altri individui del genere? No, non possiamo farlo, perché tutti noi siamo responsabili di questa situazione, e forse non sarebbe del tutto sbagliato, se vogliamo salvare il salvabile, limitarci nelle nascite. Altrimenti, avremo ulteriori e ben più specialistici deficienti che governeranno il mondo, con la felicità dei genitori che li hanno messi al mondo nella loro deficienza.

La povertà educativa minorile incide direttamente sullo sviluppo del Paese. Un fenomeno grave, che va contrastato. E alla cui radice c'è la disattenzione dei genitori ancor prima del disagio sociale. I risultati dell’indagine a cura dell’Istituto Demopolis per l’impresa sociale Con i Bambini. La Repubblica il 18 novembre 2019. Per quasi 9 italiani su 10 la diffusione della povertà educativa è un fenomeno grave e per l’83 per cento degli intervistati le azioni di contrasto sono importanti per lo sviluppo del Paese. Questi tra i dati significativi emersi dall’indagine demoscopica realizzata da Demopolis per l’impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, in vista della Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 20 novembre e presentata a Roma presso la sede di Acri. Per l’opinione pubblica è la disattenzione dei genitori (76 per cento) la principale causa del fenomeno. Due intervistati su tre citano le condizioni di disagio sociale (67 per cento), di svantaggio economico (64 per cento), di conflittualità familiare (62 per cento). Il 59 per cento segnala il degrado dei quartieri di residenza fra le cause della povertà educativa. Inoltre, circa uno su due segnala la frequenza scolastica irregolare, gli stimoli inadeguati, le scarse occasioni culturali e del tempo libero, l’uso eccessivo dei social network. Tutte dimensioni rappresentate anche nei progetti di contrasto realizzati con il Fondo. «Abbiamo promosso questa indagine - ha spiegato Carlo Borgomeo presidente di Con i Bambini- per confrontarci non solo con ii dati rilevati dal nostro Osservatorio e con la domanda che arriva prepotentemente dai territori, ma anche con la percezione del fenomeno nell’opinione pubblica. Il fatto che per la quasi totalità degli intervistati la povertà educativa minorile sia un fenomeno grave e che incide direttamente sullo sviluppo del Paese ci fa capire che, anche se con alcune sfumature, il livello di preoccupazione sulla dimensione del problema è ampiamente diffuso e sentito. Credere però che sia un fenomeno che riguarda solo il Sud (63 per cento) o gli adolescenti (56 per cento) è un errore prospettico: la povertà educativa, seppur marcata in molte aree meridionali e tra i giovanissimi, come dimostrano i tanti progetti avviati sul territorio nazionale, anche se con diversa gravità riguarda tutto il Paese e intacca il futuro dei ragazzi già dalla prima infanzia. E’ proprio da qui che dovremmo affrontare e che affrontiamo il fenomeno». Il 68 per cento degli italiani dichiara di aver sentito parlare di povertà educativa minorile, anche se il 25 per cento degli intervistati ammette di non sapere effettivamente di che cosa si tratti. Appena un quarto degli intervistati cita tra i fattori di causa il mancato accesso agli asili nido ed ai servizi per l’infanzia. Le apprensioni dei cittadini si focalizzano sull’evoluzione emergenziale del fenomeno, sui casi estremi in cui gli esiti della povertà educativa, negli anni dell’adolescenza, si manifestano in fenomeni di violenza, dipendenze o fallimenti. Del resto, le maggiori preoccupazioni avvertite dagli italiani, con riferimento ai minori, sono fenomeni per lo più adolescenziali: la dipendenza da smartphone e tablet (66 per cento); bullismo o violenza (61 per cento); la crescente diffusione della droga (56 per cento), l’aggressività nei comportamenti (52 per cento). In un contesto in cui le disuguaglianze sociali ed economiche continuano ad aumentare, per il 63 per cento degli italiani intervistati da Demopolis le probabilità di un ragazzo nato da una famiglia a basso reddito di avere successo sono oggi più basse rispetto a 20 o 30 anni fa. Neanche la scuola basta più da sola. Del resto, secondo l’indagine, solo l’11 per cento degli intervistati concorda sull’assunto che la scuola sia l’unica istituzione deputata alla crescita dei ragazzi, mentre emerge una nuova consapevolezza, in seno all’opinione pubblica, almeno in termini di dichiarazione di principio: la responsabilità della crescita dei minori è di tutta la comunità (46 per cento). «La povertà educativa è strettamente legata a quella economica, come viene percepito anche dal 64 per cento dei cittadini, ma il fenomeno ha una portata più ampia. Il Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile rappresenta una forte innovazione per il Paese, per dare un futuro a minori e famiglie - ha dichiarato il vice ministro Stefano Buffagni, Presidente del Comitato di Indirizzo Strategico del Fondo - È inaccettabile che un milione e 200 mila minori siano costretti a vivere sotto la soglia di povertà e che in numero ancora maggiore abbiano negate le opportunità di costruire un domani migliore. Stiamo lavorando come Governo per permettere alle tante famiglie di uscire fuori da questa condizione con interventi concreti sul territorio rafforzando il ruolo delle comunità educanti. Come Mise anche attraverso il rilancio delle imprese per garantire lavoro e sviluppo. Il punto però, e qui scatta la complementarietà, è che non si può attendere che i genitori abbiano trovato lavoro per garantire l’educazione e il futuro ai propri figli». Per far crescere bene gli attori del futuro, servirebbe maggiore protagonismo: dal genitore al cittadino senza figli che può animare e tutelare un quartiere, passando per la scuola, le associazioni, le interazioni amicali, tutto incide sulla crescita dei bambini. Accanto alla popolazione italiana nel suo complesso e ad un target importante di insegnanti e di rappresentanti istituzionali e del Terzo Settore impegnati nel contrasto alla povertà educativa, è stato intervistato anche un segmento significativo di genitori italiani con figli minorenni. «I dati dell’indagine di Demopolis confermano che tra gli italiani è largamente diffusa la consapevolezza che il contrasto alla povertà educativa minorile è cruciale per lo sviluppo del Paese – ha commentato Francesco Profumo, Presidente di Acri - Questa è una delle idee alla base dell’avvio del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, promosso da Fondazioni di origine bancaria, Governo e Forum Nazionale del Terzo settore, che proprio su questo fronte ha stabilito di intervenire. Perché lo sviluppo sostenibile passa dall’intreccio di dinamiche economiche, sociali e ambientali. Offrire ai giovani opportunità concrete per formarsi e crescere liberi, coinvolgendo le comunità, è la chiave su cui puntare per contribuire a contrastare la povertà». L’approfondimento di indagine ha confermato i limiti effettivi che bambini ed adolescenti scontano in Italia nell’accesso alle più compiute esperienze di crescita. L’unica dimensione di apprendimento non curriculare dichiarata dalla maggioranza degli intervistati (60 per cento) è lo sport. Solo metà dei ragazzi, negli ultimi 12 mesi, ha partecipato a spettacoli, presso cinema o teatri. Il 58 per cento dichiara che i figli, nell’ultimo anno, non hanno letto libri. Il 72 per cento non ha potuto fruire del tempo pieno a scuola. Meno di un quinto, infine, ha frequentato l’asilo nido: un servizio di primaria importanza per il funzionamento delle dinamiche familiari e per la compensazione delle disuguaglianze anagrafiche. «Una delle questioni più gravi che riguardano bambini e ragazzi di oggi è la mancanza di pari opportunità nell’accesso ai servizi- ha commentato Claudia Fiaschi, Portavoce del Forum Nazionale del Terzo Settore- I numeri sulla povertà educativa minorile nel nostro Paese sono allarmanti ed in forte crescita. Nel 2005 era assolutamente povero il 3,9 per cento dei minori di 18 anni, un decennio dopo la percentuale di bambini e adolescenti in povertà è triplicata, e attualmente supera il 12 per cento (dati Openpolis- Con i Bambini) . Il Terzo settore ha un ruolo di primo piano nel rifondare una cultura educativa che accompagni l’inserimento delle nuove generazioni nelle comunità, offrendo loro un miglioramento delle condizioni di vita ed una prospettiva di futuro.». In tre anni, grazie al Fondo sono stati avviati 355 progetti in tutta Italia con un contribuito complessivo di circa 281 milioni di euro. Gli interventi interessano oltre 480.000 bambini e ragazzi, insieme alle loro famiglie, che vivono in condizione di disagio, coinvolgendo direttamente circa 8.000 organizzazioni, tra Terzo settore, scuole, enti pubblici e privati.

Allarme a scuola, sesso  e violenza nelle chat  di classe su WhatsApp. Pubblicato giovedì, 14 novembre 2019 su Corriere.it da E. Andreis e M. Ricci Sargentini. La denuncia dei genitori nel Milanese. E a Roma circolano «adesivi» di Hitler. Come difendersi. È cominciata domenica scorsa, come un gioco, una «challenge», per usare un’espressione in uso tra gli adolescenti. La sfida era: «Apriamo un gruppo WhatsApp e vediamo se riusciamo ad arrivare a cinquecento persone». È degenerata nell’arco di un paio di giorni, in un delirio di messaggi, a ritmo di centinaia in pochi minuti, di foto, video, e «meme». Non tutti innocenti, o innocui. Al contrario: sui telefoni di centinaia di minorenni sono arrivati fotomontaggi e immagini di natura pedopornografica, immagini sacre corredate da bestemmie e volgarità, e altre oscenità. Come una catena di Sant’Antonio virtuale, che ha scosso un’intera comunità di genitori di alunni di scuola media a Pogliano Milanese, un paese di 8.000 abitanti dell’hinterland del capoluogo. È bene specificare che la scuola a cui si fa riferimento, l’istituto Paolo Neglia, non ha alcuna responsabilità su quanto accaduto, e anzi prescrive per i suoi studenti un rigido divieto all’uso del telefonino all’interno dell’istituto. Secondo quanto ricostruito dal comitato genitori, tutto sarebbe partito da un ragazzino di tredici anni, che a casa avrebbe deciso di creare la chat «Obiettivo 500 persone più». Ogni membro viene aggiunto come «amministratore», quindi con facoltà di inserire altri numeri e ingrandire il gruppo. Non è il primo caso e non sarà l’ultimo. I genitori pensano che le chat di classe su WhatsApp siano del tutto innocue. Cosa potranno mai dirsi dei ragazzini di 10, 11, 12 anni? Invece accade sempre più spesso che diventino un ricettacolo di violenza, sesso, razzismo e antisemitismo. L’ultima trovata è quella degli sticker (adesivi virtuali). Nelle classi dei bambini italiani delle medie, ma anche delle elementari, ne gira uno con la faccia di Hitler. Il titolo è Battle Royale, una modalità di videogioco, sotto ci sono un teschio e una cifra: 6 milioni (gli ebrei morti nei campi di sterminio ndr). In un altro c’è sempre Hitler che dice: «Mi stai simpatico, ti faccio fare la doccia per primo». Oppure la foto di un bambino focomelico e la scritta «Batti le mani». O battute che di certo ridere non fanno: «Non è stupro è sesso a sorpresa». Un genitore di una scuola romana racconta la sua esperienza: «Sono rimasto così sconvolto e ho provato a parlarne con gli altri genitori. Ma alcuni hanno reagito male, volevano denunciarmi per violazione della privacy. Altri, invece, si preoccupavano che i messaggi in questione non li avessero mandati i loro figli. Solo alcuni avevano avuto la mia stessa sensazione, ma non il coraggio di denunciarla». Che fare? Lisa Di Berardino, vicequestora della polizia postale e delle comunicazioni a Milano, mette in guardia dall’uso precoce del cellulare: «I telefonini vengono dati in mano ai ragazzini troppo presto, addirittura in quinta elementare o prima media, senza che i genitori li guidino man mano nell’utilizzo, verificando con loro i contenuti delle chat». L’uso dell’app di messaggistica istantanea, è bene ricordarlo, è vietato ai minori di 16 anni in tutta l’Unione europea ma nessuno sembra saperlo: «Si creano chat per tutto e contenuti inappropriati circolano molto spesso — spiega ancora Di Berardino —. Il rischio cresce man mano che diventano più estese e a maggior ragione se non c’è un amministratore unico». Sulla stessa linea il procuratore capo dei minori di Milano Circo Cascone: «Dare in mano a ragazzini di 12 o 13 anni un telefono e disinteressarsi dell’uso che ne fanno ha un rischio. Loro si ritrovano uno strumento che tecnicamente sanno governare alla perfezione, meglio di noi, ma sono incoscienti sui contenuti. Se i ragazzi entrano a contatto con certe immagini, man mano si assuefanno, il loro livello di accettazione si alza, diventa sempre più “normale” vedere certe cose senza prendere le distanze e riferire a un adulto».

I trentenni di oggi. Marco Mengoni e gli altri. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 da Corriere.it. Chi sono i trentenni oggi? Precari, europei, liberi. Oppure choosy, bamboccioni, neet (quelli che non studiano e non lavorano). Hanno vissuto un’infanzia tra le grandi speranze degli Anni 90 e sono entrati nell’età adulta con il brusco risveglio dei 2000, tra crisi economica e terrorismo internazionale. Si parla tanto di loro, poco con loro. Nel numero di 7, in edicola e su digital edition domani con il Corriere, vengono raccontati oltre i numeri — sconfortanti — sull’occupazione e le definizioni claustrofobiche. Maria Luisa Agnese intervista Marco Mengoni, fotografato da Douglas Kirkland. Il cantante classe 1988, lanciato da XFactor 2009 e consacrato dalla vittoria al Festival di Sanremo 2013, riflette sui suoi coetanei. Ne condivide insicurezze e fragilità. Sa di essere fortunato, ma non vuole dirsi «privilegiato. Ho fatto la gavetta, ho lavorato come fonico in uno studio registrando pubblicità e come barista in un pub a Frascati. Sono stati anni di fatica, ma lì ho imparato ad arrivare a fine mese». E aggiunge: «Noi 30enni siamo messi meglio di chi ci ha preceduto. La mia generazione è fluida, più aperta in tutti i sensi. Io non contemplo paletti e muri, non mi accorgo della tonalità della carnagione o della scelta di amare un uomo o una donna». Marco, ma anche Federica e Andrea. Sei ragazzi che portano i due nomi più diffusi nel loro anno di nascita: il 1989. Li abbiamo incontrati negli uffici in cui lavorano, nei bar, nelle biblioteche in cui hanno studiato. Sono professionisti, ricercatori, cuochi o disoccupati. Sempre pronti a rimettersi in gioco. Single, fidanzati (anche a distanza), già genitori o non ancora pronti a diventarlo, al punto da valutare il congelamento degli ovuli. Sono diversi per provenienza, formazione e ambizioni, ma in qualcosa di fondamentale si somigliano: l’attenzione all’ambiente, i diritti civili, la passione per i viaggi e le serie tv, il tempo passato sui social, la disillusione per la politica. Nelle pagine di esteri Davide Frattini svela la Terra dei fuochi palestinese. I villaggi in cui, ogni anno, arrivano da Israele 40mila tonnellate di rifiuti tecnologici. Oltre mille persone, molti poco più che bambini, li smembrano con l’obiettivo di recuperarne i metalli. Un lavoro pagato 20 euro al giorno, che mette a rischio la loro vita. L’aria della zona è inquinata e il terreno impregnato di liquami. La sezione blu, dedicata alle vite private, si apre con un’intervista di Marta Stella ad Annie Ernaux. Lunedì prossimo uscirà in Italia L’evento, libro sull’aborto. Un’esperienza che la scrittrice ha vissuto nel 1963 quando era ancora illegale. Un fatto intimo che diventa collettivo. Nella guida al Tempo Libero, infine, Luca Bergamin esplora il Bhutan, Paese asiatico in cui regnano garbo e gentilezza.

Bullismo, fumo e indifferenza: la notte da incubo sulla metro. Una passeggera ha deciso di denunciare la bravata del branco su Facebook, inorridita dalla maleducazione dei ragazzi e dall’indifferenza degli altri passeggeri. Valentina Dardari, Martedì 05/11/2019, su Il Giornale. Ragazzini ubriachi che fanno ciò che vogliono su un vagone della metropolitana di Milano, la M2. Mancanza assoluta di rispetto nei confronti degli altri passeggeri, costretti a restare sul treno, l’ultimo della notte. Ma una donna, Marta, non ci sta e, dopo diverse lamentele rimaste inascoltate, decide di denunciare quanto avvenuto la notte del 3 novembre, verso mezzanotte e mezza, su un convoglio. E lo fa con un lungo post su Facebook, condiviso da oltre 13mila utenti, quasi 4mila commenti e 6mila like. “Fermata Garibaldi, salgono un gruppo di 25/30 ragazzini ubriachi, maleducati che cominciano a dare fastidio alle persone nei vagoni” così inizia il post. Per poi continuare “In maniera provocatoria iniziano ad accendersi sigarette e spinelli manifestando di voler urinare all’interno del vagone”. La passeggera descrive anche minuziosamente il comportamento degli altri presenti, increduli, attoniti di fronte a tanta sfrontatezza, ma allo stesso tempo silenziosi. “Nessuno ha il coraggio di farli smettere” aggiunge. Marta decide allora di prendere in mano la situazione e raggiungere il guidatore, le mancano ancora cinque fermate per giungere a destinazione, e di scendere neanche a parlarne, è l’ultimo treno disponibile. Ma l’aria è davvero irrespirabile e l’idea di passare ancora del tempo in mezzo a quel denso fumo la inorridisce. Dopo diversi tentativi di farsi ascoltare, il conducente finalmente le dà retta, la risposta che ottiene la lascia stupefatta “Signorina mi dispiace, li vedo dalle telecamere, ho mandato l’annuncio che non si può fumare all’interno del veicolo, più di questo non posso fare, anzi se parte l’allarme antifumo siete tutti obbligati a scendere ed è anche l’ultimo treno”. La ragazza è quindi ritornata al suo posto, amareggiata e impotente di fronte a tanta sfrontatezza del gruppetto di minorenni. Una volta scesa dal convoglio, a Piola, si è diretta da un altro dipendente Atm per informarlo di quanto avvenuto. Ma anche questa volta la risposta è degna di nota “Grazie signorina per avermelo detto buonanotte”. Come azzarda la donna, forse era più importante la fine del suo turno di lavoro. O forse si è solo reso conto di non poter farci nulla, se non rischiare di finire all’ospedale, magari aggredito dal branco. Marta conclude il suo post con la speranza che possa servire a cambiare qualcosa. Che in molti lo condividano e che la foto da lei pubblicata arrivi agli occhi dei genitori di quei ragazzi, che riconoscano il proprio figlio e sappiano prendere i giusti provvedimenti. Infine la sua firma, sconsolata e colma di rabbia, “Una come tante che ha cercato di fare qualcosa ma si è sentita inerme e sola”.

GIOVENTÙ DEL CAZZO. Massimo Gaggi per il Corriere della Sera il 5 settembre 2019. «Questi ragazzi sono sottosviluppati sul piano dei rapporti sociali, sanno pochissimo della storia occidentale, mancano di senso della realtà: considerano la prosperità nella quale vivono, la società dell' aria condizionata, come un dato acquisito». Camille Paglia è un' intellettuale che non ha mai avuto paura di andare controcorrente e di usare una retorica ruvida fin dal suo primo libro, «Sexual Personae»: un' opera rifiutata da sette editori spaventati dal modo in cui l' autrice trattava il nervo scoperto dell'eterno conflitto tra maschilismo e femminilità nella civiltà occidentale, prima di essere pubblicato, nel 1990, da Yale University Press. Docente dal 1984 della University of the Arts di Filadelfia, Paglia è stata più volte al centro di polemiche culturali, ma nella primavera scorsa ha dovuto affrontare una vera rivolta dei suoi studenti. L' ala più radicale ha chiesto il suo licenziamento giudicandola poco solidale verso #metoo, il movimento che ha denunciato le violenze sulle donne e per un'intervista a Weekly Standard , una rivista culturale della destra americana, nella quale alcuni hanno letto una posizione discriminatoria di Camille nei confronti dei transgender. Accusa curiosa, forse alimentata da dogmatismo ideologico, visto che la stessa Paglia si considera una trans («Non mi sono mai sentita donna, e nemmeno uomo, salvo quando, ad Halloween, mi travesto da torero, centurione romano o da Napoleone»). La richiesta di licenziamento è stata respinta a maggio dal presidente dell' università, David Yager, in nome della libertà di pensiero e dell' assenza di censure che deve distinguere il mondo accademico, luogo di discussione e confronto anche sui temi più controversi. I contestatori non si sono placati: hanno continuato a chiedere almeno il divieto di vendere nel campus i suoi libri giudicati velenosi e la rinuncia ad avere Paglia come speaker nelle conferenze accademiche. La 72enne studiosa di origine italiana non si è spaventata, ha ribattuto colpo su colpo e ora espone i suoi duri giudizi sulle carenze umane e culturali delle giovani generazioni che popolano le accademie in un' intervista che il quotidiano Wall Street Journal pubblica proprio mentre gli studenti tornano negli atenei. Giudizi duri ma non sprezzanti: la Paglia riflette anche sulle responsabilità della scuola e delle generazioni più anziane per il mutamento di un clima sociale nel quale non c' è più spazio per una presa di coscienza delle responsabilità di ogni individuo. La generazione uscita dalla Seconda guerra mondiale ha sempre avuto un contatto diretto, a volte penoso, con la realtà. Quella del baby boom è stata più ribelle ma si è esposta, ha rischiato in proprio. I giovani di oggi, secondo Paglia, sono stati fatti crescere in un ambiente più protetto, con meno contatti con la realtà fisica, anche a causa del diffondersi di tecnologie digitali ormai ubique che fanno da intercapedine tra individuo e mondo reale. Alle istituzioni, come l' università, i giovani chiedono, forse inconsapevolmente, di essere tenuti al riparo dalla vita reale. Si definiscono anticapitalisti senza sapere che il benessere nel quale vivono, e che danno per scontato, è figlio dei capitalismo. Nei loro rapporti sociali hanno smarrito elementi di giudizio importanti come il linguaggio del corpo. E reagiscono con invocazioni alla correttezza politica e con minacce di scomunica a chi, come Camille Paglia, anziché condannare senza appello i comportamenti giudicati devianti, squaderna davanti a loro la vita, con i suoi angeli e i suoi demoni.

Giovani e dipendenze. Un mercato troppo libero. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanna Maria Fagnani. Una indagine del Moige sulle trasgressioni degli adolescenti inchioda il mondo degli adulti. Alcol, fumo, droga e pornografia sono alla loro portata. Mancano i controlli. Alcol, sigarette, cannabis light. Pornografia e videogiochi estremamente violenti. E ancora, scommesse e gioco d’azzardo. Troppo spesso, i minori si addentrano in «mondi» che, per legge, dovrebbero essere loro preclusi. I divieti di vendita di questi prodotti, infatti, restano tali solo sulla carta. Nella realtà, per gli adolescenti non è un problema procurarsi alcol e fumo, accedere a scommesse e giochi con vincite in denaro. E, ancora più semplice è usare il web per trovare contenuti pornografici o acquistare videogiochi consigliati a un pubblico adulto. A gennaio, un dettagliatissimo report realizzato dal Moige (Movimento italiano genitori) ha acceso i riflettori su questa situazione. A quasi un anno di distanza, le reazioni da parte delle istituzioni e dalle filiere di questi prodotti, sono rimaste piuttosto tenui. Ma qualcosa comincia a muoversi. L’indagine, intitolata «Venduti ai minori» e consultabile sul sito moige.it, è stata curata da Tonino Cantelmi, psichiatra e psicoterapeuta dell’Università Europea di Roma e ha preso in esame un campione di 1388 ragazzi, fra gli 11 e i 17 anni, residenti in tutta Italia: l’età della trasgressione per antonomasia e che trova negli adulti un valido aiuto. Partiamo dall’alcol: nei casi presi in esame, due volte su tre, il rivenditore - al bar, in negozio o in discoteca - non ha controllato l’età del cliente e, nella metà dei casi, lo ha servito anche se era già alticcio. Non stupisce quindi il dato, diffuso dall’Istituto Superiore della Sanità, secondo cui, nel 2018, il 43 per cento dei 15enni e il 37 per cento delle 15enni ha provato il binge drinking, la cosiddetta «abbuffata alcolica». Inoltre, per procurarsi le sigarette, il 40 per cento dei giovani si è rivolto in tabaccheria, dove la richiesta di un documento è avvenuta solo nel 38 per cento dei casi. La situazione si aggrava nel caso della cannabis light: in sette shop su dieci non erano presenti cartelli di divieto di vendita ai minorenni e, nel 72 per cento dei casi, il commerciante non ha chiesto l’età al cliente. Invece, nel 68 per cento dei casi, gli ha venduto il prodotto pur sapendo che non aveva 18 anni. È poi un gioco da ragazzi procurarsi i contenuti pornografici gratuitamente: il 95 per cento degli adolescenti lo fa navigando con il cellulare. D’altronde, secondo il dossier, solo il 24 per cento dei ragazzi avevano un filtro di parental control. E, per quanto riguarda i videogiochi, nei negozi, due volte su tre, alla richiesta di acquisto i rivenditori non hanno obiettato che non veniva superata l’età minima consigliata. Che senso ha, per un genitore, vietare al figlio di bere alcolici e se poi il barista sotto casa glieli serve senza problemi? Come difenderlo da contenuti turbanti, se poi sul web addirittura abbondano i tutorial per ottenerli gratis? E come evitare che sia ingannato da informazioni non mediate dagli adulti, che spesso sono fuorvianti e pericolose?Basta un esempio: il 7,5 per cento dei minori intervistati ritiene che la cannabis non abbia nessun tipo di effetto sulla salute e sullo sviluppo. Il Moige chiede filiere «sicure» anche per questi prodotti. «C’è una grande irresponsabilità nella tutela dei minori, da parte di chi svolge attività professionali in questi campi, a partire dalla vendita. La sfida su cui ci stiamo concentrando - sottolinea il direttore generale del Moige, Antonio Affinita - è proprio centrare l’attenzione delle istituzioni sul ruolo responsabile degli adulti e della filiera produttiva, perché il problema non potrà essere affrontato efficacemente, finché le filiere stesse non metteranno a punto sistemi concreti e reali, per governare il comportamento dei loro venditori». Un comportamento irresponsabile che prolifica, perché i controlli delle forze dell’ordine non riescono a prevenirlo, su una rete di distribuzione così capillare. Dopo la pubblicazione del report, sono stati avviati tavoli di confronto fra il Moige e i rappresentanti di alcune filiere, tra cui i monopoli e il gioco online. «Quelli più distanti da noi, al momento, anche perché divisi in tante categorie, sono i distributori di alcol e cannabis. E pochissima attenzione - conclude Affinita - abbiamo avuto anche dai produttori di videogiochi e dai provider di pornografia. L’intento del dossier non è criminalizzare. Noi chiediamo responsabilità e una legislazione unitaria sul tema: vorremmo, ad esempio, che si arrivasse alla definizione di prodotti inadatti ai minorenni e su questo ci stiamo confrontando con i vertici della bicamerale dell’infanzia».

Lodovico Poletto per “la Stampa” il 17 ottobre 2019. «Gli accendini e gli ebrei dove sono?» si domanda il primo ragazzino. E gli altri della chat ridono. Mandano meme. Bestemmie: «Gli ebrei sono combustibile». Uno skroll di schermate. C' è un video con due ragazzine che avranno sì e no dodici anni, che fanno sesso con un coetaneo. «E poi dicono che i preti non devono stuprare i bambini...». Risate. La chat dell' orrore era il regno degli adolescenti, con iscritti da tutta Italia: da Napoli a Torino. Aveva svastiche come icone. E un nome che fa rabbrividire: «The Shoah party». Ci entravi se ti presentavano e ti invitavano con un link: «Clicca qui». Oppure passavi attraverso Instagram. E il regno dell' orrore spalancava la bocca. Stupri. Violenze. Una bestemmia ogni riga. Ogni due. Una risata. Un meme. Un commento assurdo, anzi molto peggio: «Io la mia prof la stuprerei...». L' inchiesta della Procura della Repubblica di Siena ha spalancato un orrido che non ti aspetti. Un inferno di degrado umano senza fondo. Di violenza. Di inni a tutto ciò che è violenza, sangue e orrore. La Shoah è soltanto una delle tante cose malate che puoi trovare qui. I carabinieri del comando provinciale di Siena hanno messo le mani dentro questo pozzo di marciume il giorno in cui una mamma ha deciso di parlare. «Ho scoperto la chat per caso» racconta adesso. Ne ha discusso con altre mamme, sconvolta. L' hanno liquidata con un' alzata di spalle. Banalità. Lei è andata avanti ed è approdata dai carabinieri: «Mi creda è orribile». L' hanno sentita e poi hanno iniziato a indagare. Ingegneria sociale, si chiama il modo di hackerare senza violare il sistema, fingersi un altro per ottenere informazioni, accessi a siti, dati. Negli uffici del comando provinciale i ragazzi del comandate del reparto operativo si sono dati da fare. E il loro capo, il colonnello Michele Tamponi, gli ha dato carta bianca. Hanno letto tutto per tre mesi almeno. Hanno annotato numeri. Indagato sulle persone. Trecento utenti si stima siano entrati e usciti da «Shoah party». Quasi tutti ragazzini. Di Torino, per dire, erano 8. Tra loro c' è anche uno studente del Politecnico: ha 19 anni, è arrivato dalla Puglia per andare all' università. C' era anche un uomo di 44, ma era finito lì dentro per caso. La scheda sim da cui suo figlio chattava era intestata a lui. Lo hanno indagato. E lui adesso dice: «Forse avrei dovuto controllare meglio il telefono di mio figlio». Ma forse la chat era nascosta. WhatsApp ha segreti che se non conosci non puoi scoprire. I carabinieri sì, ci sono riusciti. Hanno trovato i video pedopornografici che fanno accapponare la pelle soltanto a dire che cosa mostravano. «Mi sento pedo oggi» scriveva qualcuno. E giù risate. Pollici alzati. Come se chi scriveva non avesse chiaro quali sono i limiti. Dove lo scherzo diventa reato. Dove il buongusto vien ucciso. E più ancora dai valori negati. C'era tutto lì dentro. L' Isis che taglia le teste. Le torri gemelle. «Vorrei ammazzare tutti». I bambini malati: «tutti quelli con il cancro». La leucemia come oggetto di scherno. Senza vergogna. O meglio ancora senza un barlume, seppur minimo, di umanità. C' è un bambino africano inginocchiato accanto a una pozzanghera colma di acqua fangosa da cui beve. Commento: «Minkia, il Nesquick». Ecco, quando i carabinieri hanno avuto chiaro tutto questo sono andati a bussare all' uscio dal comandante provinciale, Stefano Di Pace, con i faldoni di carte spessi così. E lui è andato dal procuratore Antonio Sangermano, alla procura dei minori. Ne hanno indagati 25: tutti gli altri che sono entrati lì dentro e, dopo aver visto, hanno abbandonato la chat - «Che cos' è questo schifo?» «Me ne vado». «Addio» - non li hanno tirati in ballo. Quel che è rimasto è il peggio. Gente che commentava. O condivideva. Che non denunciava. «Shoah party» - che ricorda casi molto simili in Inghilterra e Francia - è stato chiuso. Ora iniziano gli interrogatori. Negare sarà inutile: carabinieri e Procura sanno chi ha fatto cosa. E quando.

PARLA LA DONNA CHE HA DENUNCIATO. Grazia Longo per “la Stampa” il 17 ottobre 2019. «Dirle che mi è crollato il mondo addosso non rende l' idea. Ero sconvolta dai due video pedopornografici, e lo ero ancora di più perché si trovavano sul telefonino di mio figlio tredicenne». Veronica parla con tono calmo e gentile, tradisce l' emozione solo dal modo in cui stringe la tazza di tè. Le dita delle mani sono quasi cianotiche per la tensione. Il suo nome è ovviamente di fantasia, mentre l' inferno che racconta è tutto reale. È lei la mamma che, a differenza delle altre, ha avuto il coraggio di denunciare tutto ai carabinieri del Reparto operativo di Siena. E ora rievoca quei momenti con lucidità e sollievo.

Quando è cominciato tutto?

«Lo scorso aprile. Ricordo quel pomeriggio con una precisione certosina. Da una decina di giorni non esaminavo il telefonino di Luigi (anche questo nome è fasullo, ndr). Avevo il pin perché con mio figlio c' è un rapporto di fiducia. È un accordo tra di noi: Luigi sa che può tenere il cellulare solo a patto che io lo possa controllare».

Perché?

«Perché il telefonino in mano a un minorenne può diventare una pistola che un ragazzino non è in grado di gestire in modo adeguato».

Quel pomeriggio che cosa ha scoperto?

«Ha attirato subito la mia attenzione una chat, per via del nome, "The shoah party". Mi sembrava offensiva, e così l' ho aperta. E lì è incominciata la discesa nei gironi dell' inferno».

Per i video pedopornografici?

«Innanzitutto per quelli, certo. In uno ho visto due bambini, sotto i 10 anni, che avevano un rapporto omosessuale.

Nell' altro un incontro a tre tra due maschietti di circa 10 anni e una bambina coetanea.

Le immagini erano indescrivibili, mi creda. Non ci sono davvero parole adeguate per rendere l' orrore».

Ma c' erano anche foto o video inneggianti Hitler, Mussolini o i terroristi islamici?

«Sì c' era un po' di tutto. Era tutta una violenza, un sopruso, una dominazione fisica e psicologica sul prossimo. Si trattasse di ebrei, malati, bambini».

Molti insulti quindi?

«Tantissimi. Basti dirle che ogni messaggio si apriva con una bestemmia».

E suo figlio come ha reagito? Come si è giustificato?

«Mi ha spiegato che era stato contattato via whatsapp da alcuni sconosciuti i quali lo avevano invitato ad entrare nella loro chat».

E perché ha accettato?

«Mi ha riferito di averlo fatto perché quelle pressanti e continue richieste gli impallavano il cellulare e lui non poteva più usarlo per i giochi. Così mi ha detto, che non riusciva più a giocare con il telefonino e quindi ha acconsentito di entrare nella chat».

Suo figlio non è rimasto turbato da quelle immagini e da quegli slogan che istigavano alla violenza e al razzismo?

«Mi ha raccontato di aver aperto solo i primi due video che gli sono arrivati e di aver poi archiviato gli altri. Per lui era finita lì, tant' è che, pur sapendo che io ogni tanto, senza preavviso, gli monitoro il telefonino, non ha cancellato nulla. Inoltre lui non ha mai scritto niente e non appena io ho individuato la chat si è cancellato».

Lei aveva notato nella chat la presenza di alcuni compagni di scuola?

«Ne ho riconosciuti tre, ma non so se ve ne fossero altri».

E cosa ha fatto, prima di rivolgersi ai carabinieri?

«Ho scritto alle altre mamme nella chat di classe, avvertendole che su whatsapp giravano foto violente, razziste è pedopornografiche».

Che cosa le hanno risposto?

«Sono state molto fredde, indifferenti. Qualcuna ha ringraziato, qualcun' altra ha replicato che suo figlio non faceva quelle così lì e la discussione non è andata avanti».

Ma poi ha avuto occasione di confrontarsi con le mamme dei tre compagni riconosciuti in chat sulla necessità di rivolgersi alle forze dell' ordine?

«Nessuno ha voluto denunciare. Non so se per vergogna o cos' altro. Mio figlio in questa vicenda risulta un testimone, non è indagato. Ma io comunque non mi sarei fermata in ogni caso. Non solo perché ritengo che sia un dovere civile sporgere denuncia, ma anche perché non si può accettare che dei ragazzini divulghino oscenità e appelli in nome di Hitler o della Jihad. È assolutamente inconcepibile».

Eppure è drammaticamente successo.

«Infatti. Non so in che modo abbiano agito i giovani amministratori della chat e con quale assurdo passaparola quello scempio sia arrivato sul telefonino di mio figlio. Per fortuna la giustizia sta facendo il suo corso, ma credo sia molto importante la questione socio-culturale, il rapporto genitori-figli».

I ragazzini della chat appartengono a una classe sociale medio alta, hanno genitori laureati e liberi professionisti. Che cosa non ha funzionato secondo lei?

«Non mi permetto di guardare in casa d' altri. Ma i genitori devono fare i genitori e controllare i propri ragazzi».

Valeria D'Autilia per “la Stampa” il 14 ottobre 2019. Si muovono in branco, coltelli in tasca, molti sono «di brava famiglia». Trascorrono le loro serate tra minacce, risse, pestaggi. E i più grandi, solitamente, hanno meno di 18 anni. È allarme gioventù violenta in tutta Italia, dove le baby gang stanno diventando un' emergenza. Al punto che il questore di Napoli "arma" la polizia con i metal detector, vittime e genitori - a Foggia - hanno chiesto l' intervento del prefetto e, a Trieste, un minore è gravissimo, dopo essere stato accoltellato. È la cronaca soltanto delle ultime ore. «I ragazzi tendono a fare gruppo: lo fanno sui social, su WhatsApp e nelle uscite. Chi finisce in una comitiva che presenta disagi, anche se non era propenso, si ritrova ad aderire a quei comportamenti». Angelo Romeo è un sociologo universitario, autore di saggi. Si è occupato dei giovani nei Quartieri Spagnoli di Napoli, raccontandone storie di vita. Conosce il capoluogo partenopeo, lì dove le forze dell' ordine hanno rafforzato i controlli per individuare armi bianche nascoste dai minori, a volte, persino negli slip. La movida del Vomero passata a setaccio dopo lo scontro tra due comitive, tra schiaffi e coltellate. Un diciottenne ha ferito un adolescente. Entrambi sono finiti in ospedale: il maggiorenne ha tentato la fuga, ma è stato arrestato. Lesione a un tendine per la ragazza che aveva cercato di dividerli. Alla base dello scontro, un banale urto tra i due, mentre stavano camminando. Nel weekend, agenti e militari si sono muniti di dispositivi all' ingresso delle stazioni della metro: sequestrati coltelli a serramanico e oggetti pericolosi. Trovato armato anche un 13enne. L' appello dei carabinieri ai genitori: «Controllate le tasche dei vostri figli». Sabato, a Foggia, è stato sufficiente uno sguardo per accerchiare un 12enne e un 14enne che stavano mangiando una pizza. Prima l' accusa di guardare troppo, poi il pestaggio. Ad aggredirli, alcuni coetanei. Il fatto è stato denunciato da una mamma che, con altri genitori, ha chiesto l' intervento del prefetto. E a lui si è rivolto Antonio, 50 anni, appena uscito dall' ospedale dopo essere stato picchiato dal branco. Sempre a Foggia. «Quando sono intervenuto - racconta - ero consapevole di rischiare, ma la mia coscienza non mi ha consentito di soprassedere e girare la testa». Urla, bottiglie rotte per terra e sui muri. Basta un rimprovero per essere scaraventato a terra e preso a calci e pugni. «Egregio prefetto - scrive - non si può permettere che queste bestie che voi Stato conoscete bene siano lasciate libere di aggredire. Se lo Stato non ci protegge da 15 ragazzini, come può ottenere che cambi la cultura in questa città malata». Appena una settimana prima, altri minorenni avevano rotto il braccio a un uomo di 63 anni che voleva allontanarli dalla sua proprietà. Una scia di sangue da sud a nord. Come a Trieste, alla festa della Barcolana: un 17enne è stato ferito dopo un diverbio. Accoltellato vicino al cuore, sulla Scala dei Giganti, si è trascinato fino in piazza per chiedere aiuto. Operato, è grave. Giovani aggressori da una parte, giovani aggrediti dall' altra. «Il gruppo amicale ha un ruolo di formazione pari a quello familiare, della scuola o delle istituzioni religiose. Molti di questi punti di riferimento - conclude Romeo - sono venuti a mancare. E questo, molto spesso, porta a trovare l' unica residenza nella strada».

Sarah Martinenghi per “la Repubblica” il 18 ottobre 2019. Lo sguardo basso e spaventato di chi sta affrontando la tempesta. Le mani giunte tra le gambe che tremano nervose mentre è seduto con la mamma, davanti al suo avvocato Stefano Tizzani a spiegare come è nata "The Shoah Party". Troppo pochi 16 anni per rendersi conto in un secondo di aver fatto un errore così grande con quel cellulare in mano. Un gruppo in cui ragazzini dai 13 anni in su scambiavano video con violenze sui bambini e battute atroci, nazismo e insulti a migranti e disabili. L'ha creato lui, adolescente appassionato di fisica quantistica che sogna di fare il medico: pensava fosse un luogo per ridere, "ma la situazione mi è sfuggita di mano". E l' ha capito solo quando alle quattro del mattino i carabinieri hanno suonato alla porta.

Quando è nata questa chat?

«L'anno scorso, ho voluto aprire un gruppo per mandare sticker e "meme", le immagini con testo e battute sopra, per scherzare di tutto e tutti. All' inizio aveva tutt' altro scopo, solo far incontrare gente e fare ironia. Dopo invece i contenuti sono cambiati e mi facevano ribrezzo, ma non ne sono uscito per pigrizia».

Come è venuta l'idea?

«Da una pagina Instagram di black humor di un mio amico. Ho preso questo argomento e l' ho spostato su WhatsApp perché la gente con la stessa passione si potesse incontrare.

Non mi aspettavo degenerasse così».

Quindi un'idea condivisa?

«Mia e del mio compagno di classe. Vedendo che la pagina aveva avuto molti follower, più di mille in un mese, spesso ci veniva chiesto dagli utenti stessi di aprire il gruppo su WhatsApp. Ho fatto un sondaggio e con il mio amico l' ho creato e ho messo anche lui amministratore. Ho pubblicato il link e ho scritto: "questo è il nome del gruppo, entrate e fate battute"».

Nessuna limitazione?

«Non le ho messe: chiunque poteva entrare, di qualunque età».

Che ruolo ha l'amministratore?

«Non pensavo che mi avrebbe comportato responsabilità. Ho sempre pensato che sui social network e su Internet ognuno sia responsabile per ciò che scrive. Inizialmente scrivevo anche io e facevo battute, ma poi ho abbandonato a se stesso il gruppo».

Quando hanno cominciato a mandare i file illegali?

«Dopo un po', non subito. Ma il mio errore è stato quello di cancellare i file dal mio telefono e di non uscire».

Ma come amministratore non si possono cancellare?

«No, solo chi manda il file può farlo. Io potevo soltanto buttare fuori la gente o nominare amministratori altre persone. Ma pensavo che l'unico problema fosse che quelle immagini fossero sul mio telefono: così facevo con tutto quello che era violento o non di mio gusto, cancellavo immediatamente. Mi turbava, lo tiravo via con il dito».

Ma i tuoi genitori non controllavano?

«Ogni tanto, senza accorgersi di niente. Ho il cellulare dalle medie: ci faccio i compiti, le ricerche. A me interessa la fisica quantistica, guardavo lì le risposte alle mie domande».

Vi conoscevate nella chat?

«No, c'erano nick name. A parte il mio amico non conoscevo nessuno».

C'erano video tremendi: come funzionava?

«Sì c'erano, lo so. Una volta un utente mi ha chiesto di avere uno, ma io l' ho ignorato, pensando non fosse mia responsabilità. Ognuno metteva un' immagine: erano quasi gare di sticker, uno ne metteva 100 e un altro metteva su qualsiasi cosa solo per riempire la chat».

Quanti messaggi al giorno?

«C'erano giorni che arrivavo da scuola e ne trovavo 600, arrivavo a 2.000 notifiche. Mi dicevo: "si sono dati da fare!", ma cancellavo, non guardavo tutto: era una roba assurda. Io ho Internet solo a casa, se ero fuori non potevo vederle».

Oltre a pedopornografia, c'erano anche battute orrende - lo stesso nome del gruppo lo è - con una connotazione politica estrema: era un' ideologia condivisa?

«Mi piace sdrammatizzare sulle cose, anche sul nazismo e simili, io prendevo tutto in giro, ma non è questa la mia ideologia. Io non sono razzista, ne ho passate tante da piccolo, sono stato discriminato per l' origine della mia famiglia: l' ironia mi serviva per ironizzare anche su me stesso. Preferivo prendere in giro la situazione indipendentemente dall' argomento e dal contesto».

Il primo pensiero davanti ai carabinieri?

«Cosa ho fatto? Non ho collegato. Poi hanno pronunciato quella parola: pedopornografia, ho capito. Ho letto le accuse: mi sono sentito svenire. Da allora non dormo la notte, ho vomitato per l' ansia. Sono pentito, so che ho sbagliato: ora andrò dallo psicologo, starò lontano per un po' dal cellulare e per sempre dalle chat».

·         Generazioni a confronto. L’Italia dei Baby boomer, della Generazione X, della Generazione Y, della Generazione Z, dei bamboccioni, dei Neet e dei Hikikomori.

Muro di Berlino 30 anni dopo. Una mostra reportage organizzata dal Goethe-Institut racconta la generazione post-Muro. Da Dresda a Bari, ecco le storie di ragazzi nati dopo il 1989. Panorama il 30 ottobre 2019. Noi, nati dopo il 1989.

ANNE-KATHRIN HARTMANN (Dresda) Truccatrice teatrale, 1995 «Nella Ddr c’erano persone che pagarono per il loro pensiero non allineato. Mio nonno lavorava nell’amministrazione di una parrocchia e fu per questo, immagino, che mia madre non poté studiare all’università».

HANNAH STEGMAIER (Bonn) Studentessa, 2001 «Ci sono delle differenze tra Est e Ovest del Paese, ma non derivano dal fatto che per decenni sono esistiti due Stati. È l’immigrazione a determinarle. A Ovest c’è da tempo, non destabilizza. A Est è invece un fatto nuovo, perché la Ddr non la ebbe, e dà origine a reazioni nazionaliste».

JOSHUA BUNG (Bonn) Giornalista, 1990 «I Fridays for Future sono un fattore che unisce la mia generazione, ma mi auguro che non vi si partecipi solo perché hanno risonanza mediatica. Alla base dev’esserci un desiderio di sostenibilità durevole e coerente».

NIKOLA SANDIĆ (Trieste) Studente di Scienze diplomatiche: nato in Serbia nel 1995, vive a Trieste dal 2012. «La comunità serba è nota e rispettata dai triestini. Credo che sia questo il motivo per cui io sono sempre stato accettato. Quando mi iscrissi a scuola ero l’unico serbo in classe e non sapevo l’italiano. Mai avuto problemi con i compagni».

FEDERICA CALABRESE (Bari) Dottoranda di ricerca, 1993 «L’Europa non è conflitto, ma dialogo costruttivo. La generazione Erasmus non vuole barriere mentali. La prima cosa che ho detto ai miei genitori, una volta tornata, è stata: “Sono fiera dirmi italiana, ma anche di essere cittadina dell’Europa”».

ANNE-KATHRIN HARTMANN (Dresda) Truccatrice teatrale, 1995 «Nella Ddr c’erano persone che pagarono per il loro pensiero non allineato. Mio nonno lavorava nell’amministrazione di una parrocchia e fu per questo, immagino, che mia madre non poté studiare all’università».

«Visitando a Berlino una mostra sul Muro, ho pensato che, mentre nell'89 i tedeschi e gli europei guardavano con ottimismo agli anni a venire, in Jugoslavia si respirava già un clima di guerra». A descrivere le percezioni dei diversi Paesi europei 30 anni fa è Nikola Sandić, uno studente triestino di origine serba di 24 anni. La sua riflessione sulle ricadute del crollo dei regimi comunisti nel 1989 fa parte di una mostra-reportage che sarà inaugurata a Roma l'8 novembre 2019. Realizzata dal Goethe-Institut, l'esposizione si intitola «Nati dopo l'89» perché racconta le storie dei ragazzi europei venuti al mondo dopo la rivoluzione del 1989. «Dal crollo del Muro, la Germania e l'Europa sono profondamente cambiate» si legge nella presentazione della mostra. «Una sola Germania, un'Europa più grande, frontiere cancellate e frontiere aperte, un'unica moneta. Che cosa pensano di questa rivoluzione i ragazzi tedeschi e italiani nati dopo la caduta del Muro?» Per rispondere a questa domanda, l'istituto culturale tedesco ha incaricato il giornalista Matteo Tacconi e il fotografo Ignacio Maria Coccia di cercare le storie della generazione post-Muro. Gli autori si sono recati in quattro città-simbolo dell'Europa post-Muro: Dresda, la Firenze sull'Elba dove sopravvive lo spirito della Ddr; Bonn, l'austera ex capitale della Germania occidentale; Trieste, il porto dell'Impero austro-ungarico che ancor oggi rappresenta il crinale fra mondo italiano, slavo e mitteleuropeo, e Bari, la porta d'Oriente di fronte alla quale durante la Guerra fredda correva un muro d'acqua.

Il viaggio-reportage inizia a Dresda, dove il giornalista e il fotografo incontrano la prima dei giovani nati dopo il 1989, Wiebke Bickhardt, che lavora in una compagnia teatrale. L'artista, nata due anni dopo la caduta del Muro, ritiene che l'analisi storica della Ddr vada svincolata dalla corrente narrazione, un po' manichea, delle due Germanie. «Anche nella Germania Est c'erano aspetti positivi: penso alla scuola, che era ben organizzata, o alla emancipazione femminile» osserva Wiebke. La Ddr è un filo rosso che si snoda lungo tutta la tratta tedesca del racconto-reportage. I giovani di Bonn, come i loro coetanei di Dresda, ritengono che «a 30 anni dal crollo del Muro sia giusto guardare alla storia della Ddr in modo meno ingessato». Lo sostiene per esempio Claas Luttgens, classe 1997, studente di filosofia: «Ci sono alcuni aspetti interessanti nella vicenda della Ddr. Uno è la sfida al modello patriarcale della famiglia. Fu favorito il lavoro femminile e vennero creati asili. La donna, prima ancora che nella Germania occidentale, fu vista come soggetto attivo nella società». Aggiunge Daniel Friesen, nato nel 1990, laureato in Storia, fondatore dell’agenzia Bonn City Tours: «Una volta un amico mi ha ricordato che entrambe le Germanie, dopo la guerra, avevano forte bisogno di manodopera. L’Ovest, secondo lui, risolse la questione importando immigrati, l’est emancipando le donne e facendole lavorare in fabbrica. Una lettura interessante, che mi ha fatto riflettere». Riflessioni volte a capire meglio, al netto dei pregiudizi, un Paese che questi ragazzi non hanno conosciuto, senza idealizzare la Germania comunista. «C’era un solo partito, non esisteva discussione politica, né democrazia», sottolinea lo studente di legge Felix Cassel, nato nel 1996 da una donna che nella Ddr nacque e trascorse infanzia e adolescenza. «Era uno Stato di polizia, con una forte sorveglianza, caratterizzato da oppressione politica, e non va mai dimenticato» rimarca lo studente di filosofia Claas Luttgens, classe 1997. Di tutt'altro tenore il racconto in terra italiana. Il reportage del Goethe inizia a Trieste. Nell’estremo Nord-Est, più che il 1989 a fare da spartiacque è stato il 1991: l’anno della fine della Jugoslavia e dell’inizio delle sanguinose guerre balcaniche. L’anno che tutti conoscono, anche i nati dopo l’89. «Il Muro di Berlino non fa parte del mio immaginario, mentre le guerre jugoslave sì» riflette Lilli Goriup, giornalista, 29 anni. «Vado spesso in Bosnia, sono legata a Sarajevo». A Trieste, città di frontiera, risiede la comunità slovena più numerosa del Friuli-Venezia Giulia. Lilli Goriup la descrive come una città chiusa in compartimenti stagni: «Gli sloveni frequentano più che altro sloveni. Si va all’asilo sloveno, alle elementari, alle medie e alle superiori slovene. Si canta nel coro sloveno e si fa sport nelle associazioni slovene». Ma tale chiusura, aggiunge Barbara Ferluga, una programmista Rai di 26 anni che appartiene alla comunità slovena. è speculare alla mancata apertura degli italiani: «Pochi quelli disponibili a superare il muro mentale che li divide da noi». Un muro che dipende, osserva il giornalista Tacconi, «dal peso del Novecento: la vicina Jugoslavia, Tito che entra a Trieste nel 1945, le foibe. C’è gente, qui, che ha a lungo equiparato gli sloveni a una “quinta colonna”».

Eppure la vecchia Jugoslavia era più aperta dei Paesi che ne hanno preso il posto. La serba Milica Marković, nata proprio in Jugoslavia nel 1989, vive a Trieste dal 2000 e lavora nelle assicurazioni. «Oggi quando andiamo in Serbia dobbiamo attraversare le frontiere slovene e croate» ricorda. «Al tempo della Jugoslavia il passaggio era libero. Era come viaggiare nell’Europa di oggi». Il viaggio fra i giovani europei si conclude a Bari, la città che fino a 30 anni fa si affacciava su quello che gli autori hanno chiamato «il muro Adriatico». «Qui il confine è il mare: un cuscinetto d’acqua che teneva a debita distanza la Jugoslavia e l’Albania» si legge nel reportage. «Ma nel 1991 la distanza tra le rive, quasi d’improvviso, si accorciò. Poco prima del crollo della dittatura comunista di Tirana, la più paranoica dell’Est, migliaia di albanesi attraversarono il mare per raggiungere l’Italia». L'intenzione iniziale degli autori era di far ruotare tutto il racconto dell'ultima tappa del reportage attorno all’esodo albanese del 1991. Ma, una volta arrivati a Bari, si sono dovuti ricredere. «Non è questo l’evento che fa da spartiacque, anche per i nati dopo l’89» si legge nel reportage. «Se mai, a fungere da crinale del tempo è stata la crisi economica». A dirlo senza mezzi termini è lo studente di ingegneria Antonio Maria Dentamaro, 21 anni: «Prima quella del 2008, poi quella del debito in Europa nel 2011, hanno lasciato il segno. Molti miei coetanei sono scoraggiati, non hanno più fiducia nell’Europa». Già, l'Europa... Il luogo dove gli autori del reportage hanno trovato il più acceso sentimento anti-europeo è Bari, la città dove guarda caso la caduta del Muro di Berlino ha avuto un'eco meno profonda. «Qui nel Sud la realtà è precaria, è difficile credere nel futuro» osserva Antonio Gregorio Molinari, 29 anni, studente di storia dell’arte. «Il disincanto si indirizza prima di tutto verso l’Europa perché i giovani non hanno vissuto in prima persona i grandi raggiungimenti europei, non ne sono pienamente coscienti. Sentono dire che l’Europa è una speranza, ma non ricevono risposte ai loro problemi, e così indirizzano la loro frustrazione verso la stessa Europa». Ma anche nel profondo Sud brillano luci europeiste. Una la tiene accesa Federica Calabrese, 26 anni, che sta facendo un dottorato in Storia del cristianesimo antico tra Bari, Iași (Romania) e Glastonbury (Inghilterra), dove ha fatto l’Erasmus. «Mi ha arricchito molto, facendomi capire che l’Europa è una cosa seria» racconta al giornalista Matteo Tacconi. «La prima cosa che ho detto ai miei genitori quando sono tornata in Italia è stata: “Sono fiera di essere italiana, ma sono altrettanto fiera di essere europea”».

Halloween. Il vero incubo dei ragazzi? Il lavoro che non c’è. Sondaggio di Skuola.net sulle paure dei ragazzi. Al primo posto il lavoro o meglio la difficoltà di trovarne uno (2 ragazzi su dieci) e il timore di non riuscire a costruirsi una famiglia. Al secondo posto, gli scenari apocalittici causati dal surriscaldamento climatico. Il Corriere della Sera il 30 ottobre 2019.

L’incubo del lavoro che non c’è. Con la notte di Halloween alle porte la piattaforma digitale Skuola.net ha deciso di chiedere a un campione di 5.000 ragazzi fra studenti delle medie e delle superiori e matricole universitarie, quali siano le loro paure più grandi. E la risposta è un pugno nello stomaco per i loro genitori (e ancor di più dovrebbe esserlo per i decisori politici). Un ragazzo su cinque è ossessionato dall’incubo di non riuscire a trovare un’occupazione stabile (19%). Il 15 % teme di non riuscire a fare il lavoro dei propri sogni, l’11% di non arrivare a guadagnare quanto vorrebbe. Scavando poi nelle opinioni degli intervistati c’è chi punta il dito contro i robot «che ci ruberanno il lavoro», chi si autoaccusa («siamo una generazione troppo insicura delle proprie possibilità». Molti manifestano la propria preoccupazione per la tenuta del sistema Paese anche a causa del fatto che «i politici non pensano a noi giovani».

Avrò una famiglia tutta mia? C’è poi un altro 9 per cento che ha paura, a causa della precarietà del mercato el lavoro, di non potersi costruire una famiglia (causa mancanza di mezzi).

Apocalisse climatica. Terrorizzati dalle prospettive lavorative, i giovani della generazione zeta non lo sono meno da quelle climatiche: un ragazzo su 10 teme l’avverarsi di scenari apocalittici generati dalla scarsa cura dell’ambiente («Se non si fa qualcosa il mondo sarà troppo inquinato per viverci»; «Le risorse presto saranno esaurite»). Anche in questo caso, dito puntato sugli adulti. Più o meno gli stessi (9%) hanno paura dello scoppio di una guerra.

Governanti incapaci. Il 5% teme il perdurare della crisi economica. Altrettanti (5%) l’instabilità politica e l’avvicendarsi di governi incapaci di gestire la situazione. Solo il 3% del campione teme l’insorgere di un governo autoritario.

Abbiamo vissuto solo nel presente. Ecco perché ci ritroviamo senza più figli. Pubblicato martedì, 15 ottobre 2019 su Corriere.it da Antonio Scurati. La mia generazione d’italiani è stata tra le più infeconde della storia dell’umanità. Ci hanno definiti «generazione X»: nati tra il 1960 e il 1980, cresciuti all’ombra dei più numerosi e aggressivi baby boomers, inquadrati storicamente nella smobilitazione ideologica seguita alla guerra fredda, lo stereotipo ci vuole privi di identità sociale marcata, apatici, cinici, poveri di valori radicati e di affetti profondi. Una generazione tecnologica ma «piccola», invisibile, sfiduciata, scettica. Che sia vero o meno, una cosa è certa: abbiamo messo al mondo pochissimi figli. Tutti i dati ci inchiodano a questa croce: siamo all’ultimo posto in Europa per nascite ogni mille donne, il tasso di fecondità totale (numero di figli per donna) è sceso a 1,32 e il saldo demografico (differenza tra numero dei nati e dei morti) ogni anno è in negativo di circa 120.000 unità (numero crescente). Senza l’apporto dei nuovi italiani per acquisizione di cittadinanza il calo negli ultimi 4 anni sarebbe pari all’intera popolazione di Milano. Milano sparita in 4 anni, centoventimila bambini mancanti all’appello ogni 12 mesi, un tasso di riproduzione da estinzione della specie.Perché siamo un Paese che fa sempre meno figli? Se lo chiedeva lunedì Luciano Fontana colloquiando con un lettore di questo giornale. Proprio quest’anno la parte apicale della generazione X, la generazione che festeggiò i suoi 20 anni guardando in Tv, svagata e indifferente, la demolizione a picconate del muro di Berlino, compie 50 anni. Giunti al limite biologico della nostra capacità di riproduzione (almeno per le donne), è una domanda che non possiamo più eludere. La risposta è, ovviamente, articolata. La compongono ragioni biologiche (calo drastico della fertilità maschile), ragioni sociologiche (diminuzione del numero delle donne in età fertile causa invecchiamento della popolazione), ragioni politiche (mancanza di adeguati programmi di sostegno alle famiglie). Detto ciò, dobbiamo essere onesti con noi stessi. Abbiamo compiuto 50 anni, smettiamola di lamentarci e di raccontarci favole della buona notte. Un ceto politico irresponsabile e la concentrazione di spermatozoi nel nostro seme non bastano a spiegare l’entità di questa ecatombe bianca. E nemmeno sono sufficienti la precarietà del lavoro o i servizi carenti. Il pragmatismo qui non spiega niente. La parte più amara di questa verità è che il calo demografico in Italia — e in Occidente — non accade per ragioni materiali e contingenti. Nessuna analisi delle nostre condizioni di vita materiale giustifica la nostra infecondità generazionale. La controprova è semplice. Basta voltarsi indietro: i nostri padri e le nostre madri nacquero, numerosi, sotto le bombe. La nostra infecondità, il nostro braccino corto con la vita, va imputata, invece, principalmente, a ragioni culturali e — mi si permetta il parolone, non a caso desueto — a ragioni «spirituali». Affacciatici alla vita adulta nei mirabolanti anni ’80 — un combinato di edonismo sfrenato, individualismo disperato e ottimismo patinato — sospinti dalla fanfara fasulla della «fine della storia», abbiamo vissuto a lungo, troppo a lungo, sotto dettatura della cronaca, misurando le nostre esistenze sul metro breve del presente assoluto. Un metro su cui non trovano spazio le grandi scene della vita: l’amore, l’arte, la politica (quella vera), la generazione di figli. Anche qui le concause sono numerose: da bambini abbiamo cenato con le immagini del fungo atomico e delle Brigate rosse sugli schermi dei televisori, da ragazzi abbiamo ballato al ritmo frenetico dei crolli di borsa. Ci hanno impastati con una miscela di nichilismo punk degli anni ’70 e di nichilismo neo-liberista degli ’80. Fatto sta che il futuro, e con esso il passato, è ben presto sparito dall’orizzonte del nostro esistere nel tempo. E, da sempre, generare dei figli è il canale principale per sintonizzarsi sulla frequenza del futuro. Come scrisse Leavitt: «Era sempre sabato sera e stavamo sempre andando a una festa». Ora che la festa è finita, per età anagrafica ed età del nostro mondo, dobbiamo riconoscere che, come mosche imprigionate nel bicchiere rovesciato, per trent’anni abbiamo cozzato contro il vetro opaco della breve durata, prigionieri del presente. Giunti alla maturità (questa sconosciuta), dobbiamo trarne una lezione. Dobbiamo adottare il futuro come unità di misura di quel che ci resta da vivere. E come criterio di valutazione — post ideologico, post-partitico, post tutto — dei sedicenti liquidatori della «vecchia politica». Ogni annuncio, ogni programma, ogni legge deve essere valutata chiedendoci: quanto è ampio l’arco temporale che abbraccia nelle sue previsioni, effetti, conseguenze? Quanto respiro ha? Vive in un vasto orizzonte storico o vivacchia nelle angustie della cronaca? Non c’è dubbio che, se si adottasse questo criterio, al primo posto di ogni programma di governo dovrebbero esserci l’ecologia e l’istruzione. Ma, ampliando lo sguardo, anche la compassione fattiva per una grande donna curda, Hevrin Khalaf, attivista per i diritti umani violentata e lapidata sul ciglio di una strada per Kobane dai nemici del nostro futuro e, ultimo ma non ultimo, la lotta alla sottocultura che discrimina le nostre donne pregiudicando la possibilità che siano lavoratrici e madri, e con essa l’avvenire dei nostri figli. Pretendiamo dai nostri politici provvedimenti legislativi imperniati sul criterio del futuro ma ricordiamo a noi stessi che resteranno sterili se non accompagnati da un nuovo orientamento culturale e, perfino, da una rinascita spirituale. Non basteranno le leggi e nemmeno i mutamenti culturali. L’essere nel tempo è appannaggio dello spirito.

Cari Millennials, siete vittimisti, vuoti e noiosi. Parola di Bret Easton Ellis.  Giulia Merlo il 24 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Lo scrittore americano è stato ospite al Festival del cinema di Roma ed è in libreria con il suo saggio autobiografico “Bianco”. Non conta la storia, ma come la racconti. Vale per il cinema e vale anche per la letteratura, secondo Bret Easton Ellis. Lo scrittore di Los Angeles, un fulgido passato da enfant prodige con il suo Meno di zero ( la versione aggiornata agli anni Ottanta del Giovane Holden) un presente complicato e poco politicamente corretto, si è presentato al Festival del Cinema di Roma nella veste che forse più lo mette a suo agio: quella di amante del cinema. Di più, di fan: di quelli puntigliosi che conoscono a memoria non solo gli attori e il regista del film di cui parlano, ma anche il tecnico della fotografia e quello del suono. E lui, delle sette pellicole che sceglie per descrivere gli anni Settanta – Novecento; Il lungo addio; Shampoo; L’ultimo spettacolo; Carrie; Incontri ravvicinati del terzo tipo e Manhattan – conosce ogni dettaglio. Proprio da questa attenzione al dettaglio nasce suo ultimo libro, White ( Bianco, edito da Einaudi), che non è un saggio e non è un’autobiografia ma è un po’ entrambe: Ellis scrittore non sarebbe esistito, come nemmeno sarebbero stati scritti Meno di zero, Le regole dell’attrazione e American psycho, se da ragazzino senza genitori oppressivi non avesse potuto chiudersi anche più volte alla settimana nella sala buia di un cinema. Né se quello stesso ragazzino non avesse potuto rimanere sveglio fino a notte fonda a guardare Channel Z, una rete locale della Los Angeles degli anni Settanta e Ottanta che trasmetteva i film, prime visioni e pellicole datate, esattamente come in Italia continua a fare Bellissimi di Rete 4. Su blockbuster e b- movies, Bret Easton Ellis ha affinato il suo gusto per le scene, per i dialoghi, per i movimenti di macchina e soprattutto per i generi: noir, melò, horror, commedie sofisticate. Tutto questo era la New Hollywood ( la corrente cinematografica di Robert Altman, Woody Allen, Steven Spielberg, Peter Bogdanovich e Brian de Palma) e tutto questo è finito nella memoria visiva del giovane Bret, che vedendo per la prima tvolta Manhattan, nel 1979, decise che si sarebbe trasferito nella costa est per fare ciò che già sapeva sarebbe stato il suo mestiere: scrivere. Si sono dette e scritte molte cose su Ellis: la critica americana ha accolto tiepidamente il suo White, così come aveva bocciato Imperial Bedroom ( il sequel di Meno di zero, che racconta la vita adulta degli adolescenti perduti) come il suo canto del cigno. Eppure, nel suo primo prodotto di non- fiction l’autore ha messo lo sforzo di concentrare tutto il suo mondo e l’esito è un distillato di cultura pop e critica sociale. Il focus, però, rimane sempre lo stesso: Bret Easton Ellis, il suo ego e la sua percezione del mondo, che è tanto un clichè quanto una perfetta fotografia della società del consumo di oggi. Nel libro Ellis ripercorre gli anni giovanili spesi a guardare film e imparare il lessico narrativo che è così proprio della letteratura americana, innamorandosi soprattutto dell’horror, in cui «A volte vinci, a volte perdi, non c’è sempre un lieto fine». Questo spunto biografico è una leva per affrontare il presente, in cui nessun tredicenne verrebbe lasciato da solo davanti a una pellicola in cui a Carrie viene versato addosso un secchio di sangue di maiale durante il ballo scolastico e lei uccide con la telecinesi la sua intera classe di liceo, poi incendia la scuola. Per questo, secondo Ellis, i Millennials, la generazione nata tra il 1981 e il 1996, è profondamente debole e, peggio, noiosa: cresciuti con i genitori apprensivi fino allo spasmo, che li hanno protetti da tutto ripetendo loro quanto sono speciali e che sin da piccoli gli hanno chiesto “cosa vuoi fare?”, sono una generazione profondamente insicura e non attrezzata a reagire alle difficoltà. Per questo riversano così tante aspettative sui social: un luogo che li rispecchia perché è protetto dal politicamente corretto, in cui si sentono in diritto di avere sempre incrollabilmente ragione. Che il suo ego sia il punto di partenza e di arrivo di ogni riflessione è il tratto distintivo di uno scrittore cresciuto nell’edonismo degli anni Ottanta, e quarant’anni dopo il suo occhio diventa un punto di osservazione inedito su un presente – editoriale ma soprattutto cinematografico – che non capisce. Dichiaratamente omosessuale ( e convivente con un Millennial), Ellis è entrato pesantemente in contrasto sia via social che attraverso i suoi editoriali su riviste americane con quello che lui chiama «nuovo fascismo gay». Ovvero la visione mainstream del mondo Lgbt, dove esiste «’ l’elfo gay’, figura magica e mansueta che non contraddice, non fa domande complicate, non viola gli ordini di scuderia, si presenta come vittima, brandisce valori liberal, vota diligentemente a sinistra, non si azzarda a prendere in considerazione ciò che viene dal mondo conservatore, specialmente da quello di impronta cristiana, e si commuove guardando Moonlight» . Un fenomeno, quello del mainstream culturale del politicamente corretto, che per Ellis permea tutta la società, in cui regna «una specie di totalitarismo che detesta la libertà di parola e punisce le persone se rivelano il loro vero io». E al Millennium che obietta mostrando la sua pagina Instagram piena di selfie, Ellis risponde che, in realtà, quella di oggi una generazione di attori su palchi digitali, in cui l’unico mantra non è mettere davanti il proprio io, ma fare tutto ciò che è necessario per «essere accettati, seguendo un codice morale positivo secondo cui tutto deve piacere e ogni voce deve essere rispettate e chiunque abbia opinioni negative o impopolari che non siano inclusive sia escluso dalla conversazione e umiliato spietatamente». Secondo Ellis, proprio questo meccanismo di supposta superiorità morale è stato alla base della vittoria di Donald Trump ( che è anche il modello del suo personaggio forse più famoso, Patrick Bateman, l’assassino di American psycho) alle presidenziali, che lui descrive come il Jocker del Cavaliere oscuro. Durante la campagna elettorale, i media hanno descritto la società americana come divisa in due: gli assolutamente buoni contro Trump, gli assolutamente cattivi a favore. In quel 2016, l tycoon non è stato combattuto con le armi dell’intelligenza ma con quelle della superiorità morale, inutile davanti a un genio del politicamente scorretto. Ma la maggiore incomprensione, che ha poi lasciato le elites dell’estabishment piene di «sgomento e autovittimizzazione», è stata che la società americana sia arrivata a una distanza tale tra realtà e finzione che le milioni di persone che hanno votato per Trump non lo ammettono per ipocrisia, sostenuta dai media mainstream. Eppure, dietro la ruvidezza dei suoi toni e l’assolutismo dei suoi argomenti, Bret Easton Ellis mostra con White soprattutto di essere rimasto quel ragazzino che passava i pomeriggi al cinema. Con il citazionismo delle trame di film secondari ma centrali per la sua crescita artistica, come I giorni del cielo( nel periodo in cui era ossessionato da Richard Gere), l’autore dà precisa dimensione di ciò che, in fondo, è il racconto che lo appassiona di più: la magia del silver screen, da cui imparare la realtà.

Chi è un “millennial”? Dopo il gol segnato con la Nazionale da Moise Kean, nato nel 2000 ma non per questo un "millennial", molti giornali italiani hanno fatto confusione. Il Post il 26 marzo 2019. Dopo la vittoria della Nazionale maschile di calcio contro la Finlandia nella prima partita di qualificazione agli Europei del 2020, diversi giornali sportivi italiani hanno celebrato l’autore del secondo gol, l’attaccante juventino Moise Kean, definendolo “millennial”. Il Corriere dello Sport, Ansa e Tuttosport – per citare le tre testate più note, tra molte altre – lo hanno definito il primo “millennial” ad aver segnato un gol con la Nazionale maggiore, ma hanno sbagliato di grosso. Queste testate hanno deciso infatti di chiamare “millennials” i nati nel Duemila, stravolgendo il significato di una definizione diffusa in tutto il mondo da molti anni. Le parole con cui vengono definite le generazioni naturalmente non sono definizioni rigidamente prescrittive: sono convenzioni che nascono da studi e analisi che riscontrano elementi comuni tra le persone nate in un certo periodo, e a volte si impongono per semplicità e consuetudine. “Millennial” è una parola che ha ormai da tempo un significato preciso, e che tanti giornali italiani sono sembrati ignorare o non aver capito. Da almeno dieci anni, infatti, i gol dell’Italia vengono segnati continuamente da giocatori appartenenti alla cosiddetta generazione dei “millennials”, come nel caso di Nicolò Barella, centrocampista nato nel 1996 che ha segnato per primo nella partita di sabato contro la Finlandia. Ma anche Fabio Quagliarella, l’esperto attaccante della Sampdoria nato nel 1983, è a tutti gli effetti un “millennial”. Kean, che è nato a Vercelli nel 2000, non si può considerare appartenente alla generazione dei “millennials” per come è largamente intesa oggi, bensì a quella successiva. Secondo lo studio più completo in materia, condotto dal Pew Research Center di Washington, e il cui significato è largamente adottato e condiviso nel mondo, con “millennials” ci si riferisce infatti ai nati tra il 1981 e il 1996. Sono detti anche appartenenti alla “Generazione Y”, e arrivano dopo la “Generazione X” degli anni Sessanta e inizi Ottanta. Questa definizione è comunemente utilizzata dalle aziende, negli studi scientifici e negli articoli giornalistici, anche se ovviamente i confini tra le generazioni non sono così rigidi. L’unico vero riconoscimento lo ha avuto la generazione dei “Baby Boomers“, il termine con cui l’Ufficio del censimento degli Stati Uniti d’America ha definito i nati tra il 1946 e il 1964, cioè nel periodo di “boom” economico successivo alla Seconda guerra mondiale. Oltre che all’anno di nascita, gli appartenenti alle diverse generazioni si definiscono quindi a seconda di abitudini e stili di vita. Secondo gli studi, i “millennials” si distinguono dalle generazioni precedenti per essere la prima generazione globale, con abitudini e modi di pensare condivisi indipendentemente dalla parte del mondo in cui vivono, e per aver maggior familiarità con i mezzi di comunicazione moderni e con le tecnologie digitali. Dopo i “millennials” viene la “Generazione Z”, quella dei nati dagli ultimi anni Novanta agli anni Duemila, cresciuti in una società ancora più globalizzata dove internet è sempre esistito in modo diffuso e alla portata di tutti. 

Baby boomer. La generazione del baby boom contribuì notevolmente all'aumento di domanda per beni di consumo, stimolando la crescita economica registrata in quel periodo.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Un baby boomer è una persona nata tra il 1945 e il 1964 in Nordamerica e in Europa, che ha contribuito a quello che fu un sensibile aumento demografico avvenuto negli Stati Uniti in quegli anni, conosciuto, per questo, come baby boom. Superata da poco la seconda guerra mondiale, la generazione del baby boom contribuì notevolmente all'aumento di domanda per beni di consumo, stimolando la crescita economica registrata in quel periodo. I termini "baby boomer(s)", accanto ad altri, quali “boomies” o “boomers”, sono anche usati in paesi con indici demografici che non rispecchiano la crescita riscontrata nelle famiglie americane dello stesso periodo.

Generazione X. Questa generazione ha la reputazione stereotipata di apatici, cinici, senza valori o affetti. In aggiunta, la Generazione X è conosciuta come una delle generazioni più intraprendenti e tecnologiche.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Generazione X è una locuzione diffusa nel mondo occidentale per descrivere la generazione di coloro che, approssimativamente, sono nati tra il 1960 e il 1980. Fa seguito alla generazione del baby boom. I confini demografici esatti della Generazione X non sono ben definiti e dipendono di volta in volta da chi usa questa parola, dove e quando. Il termine è utilizzato nella demografia, nelle scienze sociali, e nel marketing, sebbene sia più comune nella cultura popolare. L'influenza di questa generazione sulla cultura pop iniziò negli anni ottanta e ha avuto il suo culmine negli anni novanta. Storicamente la Generazione X è inquadrata nel periodo di transizione tra il declino del colonialismo, la caduta del muro di Berlino e la fine della guerra fredda. Un'altra caratteristica prevalente nell'individuare gli appartenenti a questa generazione è la riduzione delle nascite tra il 1964 e il 1979, conseguente al Baby Boom tra il 1945 e il 1963. Una "generazione invisibile", piccola, inserita nella ricostruzione attuata dai figli del Baby Boom, che gli valse il titolo di "X", a rappresentare la mancanza di un'identità sociale definita. Una volta giovani adulti, la Generazione X raccolse l'attenzione dei media tra la fine degli anni ottanta e l'inizio degli anni novanta, guadagnando la reputazione stereotipata di apatici, cinici, senza valori o affetti. In aggiunta, la Generazione X è conosciuta come una delle generazioni più intraprendenti e tecnologiche della storia americana ed europea e a loro si deve in gran parte l'espansione di Internet. La stessa Wikipedia nasce per iniziativa di persone appartenenti a questa generazione.

Origini. Il termine "Generazione X" fu usato anche per un grande fotoreportage di Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger ed altri fotografi della Magnum Photos'. L'intenzione era quella di documentare nel 1953 la vita dei giovani tra i venti e i venticinque anni che avevano vissuto la seconda guerra mondiale. Successivamente il termine fu usato nel 1964 in uno studio di Jane Deverson sulla gioventù britannica. Deverson condusse una serie di interviste con gli adolescenti del periodo. Lo studio rivelò una generazione di adolescenti che "dormono insieme prima del matrimonio, non credono in Dio, disprezzano la Regina e non rispettano i genitori". Deverson raccolse i risultati del suo studio in un libro. Comunque, il termine Generazione X venne usato per descrivere i primi punk inglesi per sottolineare il loro nichilismo, il rifiuto dei valori della generazione precedente e la sensazione di essere una generazione perduta, inutile per la propria società.

Rapporto con la società. La Generazione X è generalmente identificata dalla mancanza di ottimismo nel futuro, dallo scetticismo, dalla sfiducia nei valori tradizionali e nelle istituzioni. Dopo la risonanza della Generazione X nella cultura popolare e l'avvento dei Nirvana e della musica grunge, il termine è stato esteso a sempre più persone, nate dopo il Baby Boom e a volte prendendo anche l'appellativo di "generazione MTV". Con la commercializzazione del termine e la sua risonanza a livello mondiale, questa definizione è diventata sempre più oggetto di stereotipi e luoghi comuni sull'apatia di questa generazione. Il rapporto della Generazione X con la religione è complesso. Molti sono indifferenti alle tematiche religiose. Altri diventarono atei per marcare la distanza dalla religione e dai valori dei loro genitori e della società in generale. Altri ancora sono religiosi, ma credono in una forza suprema (deismo) non rappresentabile in Dio o in altre divinità convenzionali. Caratterizza comunque la Generazione X questa assoluta assenza di dogmatismo. La Generazione X crebbe durante la guerra fredda e gli anni di Ronald Reagan negli USA. Assistettero al collasso dell'Unione Sovietica e alla consacrazione degli Stati Uniti d'America come unica superpotenza mondiale. "La sola analisi demografica mostra come quella «X» sia una generazione se non proprio schiacciata, quantomeno cresciuta all'ombra dei Baby boomers la quale, essendo numericamente più consistente, ha finito per imporre – grazie anche a un significativo aumento della longevità – la propria visione del mondo e la propria centralità negli assetti di potere. La Generazione X, insomma, sarebbe una generazione per certi versi ‘invisibile', priva di un'identità sociale e culturale definita e costantemente esposta al rischio di subalternità rispetto alla precedente." In Italia va notato come gli appartenenti alla generazione X abbiano già espresso Presidenti del Consiglio dei Ministri, espressione della sinistra, che hanno governato più a lungo (Letta, Renzi, 38 mesi cumulati) di quanto abbiano fatto i Presidenti del Consiglio espressi dalla "formidabile" generazione dei baby boomers (D'Alema, Gentiloni, 33 mesi, inclusa fase post-voto 2018).

Generazione Y. Propensione a ritardare alcuni dei riti di passaggio all'età adulta più a lungo rispetto alle generazioni precedenti, nonché a causa di una sua tendenza a vivere con i genitori per un periodo più lungo. "Difficili da gestire, pensano che gli sia tutto dovuto, narcisisti ed egoisti, dispersivi e pigri".

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Con i termini Generazione Y, Millennial Generation, Generation Next o Net Generation o Boomerang Generation o Peter Pan. si indica la generazione che, nel mondo occidentale o primo mondo, ha seguito la Generazione X. Coloro che ne fanno parte – detti Millennials o Echo Boomers – sono nati fra i primi anni ottanta e i primi anni novanta. Questa generazione presenta forti aumenti di natalità simili all'aumento delle nascite degli anni '50 e '60, la cosiddetta generazione dei baby boomer. Il nome Echo Boomer riguarda le dimensioni della generazione e la sua relazione con la generazione baby boomer. Tuttavia l'impatto relativo del baby boom echo fu generalmente meno significativo rispetto al boom iniziale. Questa generazione è caratterizzata da un maggiore utilizzo e una maggiore familiarità con la comunicazione, i media e le tecnologie digitali. In molte parti del mondo, l'infanzia della generazione Y è stata segnata da un approccio educativo tecnologico e neo-liberale, derivato dalle profonde trasformazioni degli anni sessanta. Nel linguaggio giornalistico italiano il termine Millennials viene talvolta usato, erroneamente, per indicare i nati dal 2000 in poi.

Terminologia. Il termine Generazione Y apparve per la prima volta nell'agosto del 1993, in un editoriale sulla rivista Ad Age, che descriveva i teenager del momento, definendoli come separati dalla Generazione X. Alcuni hanno riferito la generazione Y come la generazione di MTV, anche se MTV Generation è anche un termine usato per riferirsi a persone fortemente influenzate dall'avvento di MTV e persino un termine utilizzato per comprendere tutti i giovani della fine del ventesimo secolo, a seconda del contesto. Gli autori William Strauss e Neil Howe sono stati influenti nel definire le generazioni americane nel loro libro Generations: The History of America's Future, 1584 to 2069 (1991). Howe e Strauss sostengono di usare il termine Millennials al posto di Generazione Y in quanto quest'ultimo è stato coniato direttamente dai membri stessi della generazione, non volendo essere associati con la Generazione X. Quasi un decennio più tardi hanno seguito il loro grande studio sulla storia della demografia americana, con un nuovo libro in particolare su quella generazione, intitolato: Millennials Rising: The Next Great Generation (2000). Nei loro libri Howe e Strauss utilizzano il 1982 come anno di inizio della nuova generazione e il 2001 come fine. Essi ritengono che il raggiungimento della maggiore età nell'anno 2000, i giovani delle scuole superiori e i laureati siano nettamente in contrasto con quelli nati prima e dopo di loro a causa dell'attenzione ricevuta da parte dei media e di come sono stati influenzati politicamente. L'autore Elwood Carlson individua la generazione americana che egli chiama "New Boomers", tra il 1983 e il 2001 a causa della ripresa delle nascite dopo il 1983, per finire con le "sfide politiche e sociali" dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 e le "persistenti difficoltà economiche" del tempo. Il Pew Research Center ha riclassificato il limite che divide i millennial dai post-millennial, anche con l’intento di fare chiarezza sui termini, spesso usati in modo sconclusionato da media, ricercatori e aziende. I millenial sono coloro nati tra il 1981 e il 1996. Chi è nato dopo fa parte di un’altra generazione il cui nome, non ancora definitivo, è informalmente generazione Z.

Tratti e tendenze. Gli scrittori William Strauss e Neil Howe affermano che la generazione ha una forte somiglianza con la "Greatest Generation" (i nati dal 1901 fino al 1924) in quanto come loro hanno un forte senso del dovere e restano molto legati alla loro patria d'origine. Molti sociologi criticano questa affermazione in quanto affermano che la "Net Generation" rappresenta la tendenza all'ottimismo verso il futuro, all'ambizione, alla tolleranza, all'intraprendenza, alla competitività, alla testardaggine ma anche al narcisismo. Altri scrittori statunitensi affermano che le tendenze della generazione Millenaria sono diverse rispetto a quelle delle generazioni precedenti e questo grazie alle nuove tecnologie digitali.

Ideologie culturali e politiche. La generazione del millennio è stata plasmata da eventi, leader, sviluppi e tendenze di questi tempi e tempi passati. L'aumento delle tecnologie di comunicazione istantanea resa possibile attraverso l'uso di Internet, come e-mail, SMS e IM e i nuovi media utilizzati attraverso siti web come YouTube e siti di social networking come Facebook, MySpace e Twitter possono spiegare come la fama dei Millennials sia orientata allo scambio e al commercio grazie ad una più facile comunicazione attraverso la tecnologia. L'espressione e l'accettazione è stata molto importante per questa generazione. In Cina, con una popolazione totale di un miliardo di persone, la voglia di distinguersi e di essere individualista è diventato un fiocco della cultura cinese della gioventù. I flash mob, il fenomeno di Internet e le comunità online hanno dato alcune delle più espressive accettazioni dei membri della Generation Y, mentre gli amici di penna on-line hanno dato socialità e accettazione agli individui più timidi. La Generazione Y è più radicalmente e culturalmente tollerante rispetto alle generazioni precedenti e la maggior parte dei suoi membri sono culturalmente liberali, e con molti a favorire i diritti del matrimonio tra lo stesso sesso per la comunità LGBT, ma a dispetto della nuova dominante crescita liberale, i club della nuova giovinezza e gruppi si sono creati nei paesi sviluppati (come gli Stati Uniti, Giappone ed Europa occidentale in generale) con il compito di promuovere e conservare posizioni conservatrici e credenze.

Boomerang Generation. Questa generazione è anche a volte indicata come Generazione Boomerang o Peter Pan, a causa della sua propensione a ritardare alcuni dei riti di passaggio all'età adulta più a lungo rispetto alle generazioni precedenti, nonché a causa di una sua tendenza a vivere con i genitori per un periodo più lungo.

Identità culturale. La generazione del Millennio è cresciuta in mezzo a un tempo durante il quale internet ha causato un grande cambiamento culturale e tradizionale. Shawn Fanning fondò il sito di peer to peer Napster, mentre era al college. La RIAA vinse la causa e arrestò il servizio di Napster nel 2001, ma l'industria musicale ha cominciato a soffrire e le vendite hanno iniziato a calare a partire dagli inizi del 2000. Come risultato di queste innovazioni nella tecnologia i giovani di questa generazione hanno avuto accesso a più musica su richiesta di qualsiasi altra generazione precedente, e hanno costretto l'industria discografica ad adattarsi ai nuovi modelli di business. La letteratura popolare degli anni 1990 e 2000 della generazione comprende Piccoli brividi (infanzia), Harry Potter, per citarne alcune delle maggiori. I manga e gli altri romanzi grafici sono emersi come una forma popolare di letteratura sia per i membri della Generazione X che per quelli di questa generazione. In un certo senso, nella generazione del millennio si è visto come un rifiuto finale della controcultura che iniziò nel 1960 e continuò nei decenni successivi agli anni 1990. Ciò è ulteriormente documentato nel libro di Strauss e Howe Millennials Rising: The Next Great Generation che descrive la generazione del millennio, come "Civic Minded", rifiutando gli atteggiamenti del baby boom e della Generazione X. Kurt Andersen, vincitore di un Langum Prize e collaboratore di Vanity Fair scrive nel suo libro "Reset" come questa crisi sia stata in grado di ripristinare i nostri valori e in "Renew America", scrive che molti appartenenti alla Generazione Y hanno visto le elezioni del 2008 di Barack Obama come un'occasione unica per costruire un consenso più sano e più utile rispetto alle proteste della controcultura alla fine degli anni 1960 e primi anni 1970, arrivando persino a dire che se i Millennials fossero in grado di "mantenere la loro concezione del diritto e del potere, questa potrebbe anche rivelarsi la prossima Greatest Generation". Tuttavia a causa della crisi finanziaria mondiale del 2008-2009, si è cominciato a paragonare questa generazione alla Lost Generation del ventesimo secolo.

Forza lavoro. La Generazione millenaria è la prima ad affrontare "la Grande recessione " crisi economica a cavallo tra il 2007 e il 2010. Diversi governi hanno istituito programmi importanti per l'occupazione giovanile, per paura di disordini sociali come nel 2008 in Grecia, avvenuti in seguito ai drammatici aumenti dei tassi di disoccupazione giovanile. In Europa i livelli di disoccupazione giovanile sono molto alti (40% in Spagna, 37% in Italia, il 35% nei paesi baltici, il 30% in Gran Bretagna e oltre il 20% in altri paesi). Gli appartenenti alla Generazione del Millennio vengono a volte chiamati Trophy Generation o Trophy Kids un termine che riflette la loro competitività in tutti gli aspetti della vita, dove "non si perde", e ognuno ottiene quel che vuole "grazie alla partecipazione". È stato riportato che si tratta di un problema in ambienti aziendali in quanto alcuni datori di lavoro sono preoccupati che i Millennials abbiano troppe aspettative di lavoro e il desiderio di plasmare il proprio lavoro in meglio per adattarlo alla loro vita, piuttosto che adattare la loro vita al lavoro. Per comprendere meglio questa mentalità, molte grandi aziende stanno studiando questo conflitto e stanno cercando di elaborare nuovi programmi per aiutare i lavoratori più anziani a capire i Millennials, mentre allo stesso tempo, cercano di rendere più confortevole il lavoro ai Millennials. Ad esempio Goldman Sachs conduce programmi di formazione utilizzando degli attori per impersonare i Millennials che affermano di cercare più feedback, responsabilità e il coinvolgimento nel processo decisionale. Dopo lo spettacolo, i dipendenti discutono e dibattono sulle differenze generazionali che hanno visto in gioco.

Simon Sinek sulla Generazione Y. Simon Sinek è uno scrittore, motivatore e consulente di marketing anglo-americano che, tra le altre cose, ha spesso trattato la questione dei Millennials nei suoi interventi, rispondendo alle domande più comuni sul tema. A dicembre 2016, durante una puntata del TED talks Inside Quest con Tom Bilyeu, Sinek è tornato a parlare proprio dei Millennials, spiegando le caratteristiche di questa generazione e soffermandosi sui problemi che li affliggono. Sinek, oltre ad aver scritto il bestseller del 2009 Start With Why: How Great Leaders Inspire Everyone to Take Action, è stato anche l'autore del discorso "How Great Leaders Inspire Action", il terzo più popolare intervento di tutti i tempi durante un TED talks. Il discorso di Sinek sui Millennials descrive alcuni dei fenomeni e delle caratteristiche più comuni che interessano questa generazione, descrivendo coloro che fanno parte di questa generazione come "difficili da gestire, pensano che gli sia tutto dovuto, narcisisti ed egoisti, dispersivi e pigri". Per Sinek, i Millennials spesso si trovano nella condizione di avere tutto ciò che vorrebbero avere, ma ad essere ugualmente infelici e questo perché vi sono quattro fattori che hanno influenzato la crescita di coloro che fanno parte di questa generazione e che hanno avuto delle conseguenze ben precise. Il primo fattore sono le "strategie fallimentari di educazione familiare" che sono state caratterizzate dal fatto che i Millennials sono cresciuti sentendosi dire che erano speciali e che "potevano avere tutto ciò che volevano dalla vita, solo perché lo volevano". Questo ha avuto l'effetto di non averli preparati alla vita reale, in cui puoi fare affidamento solo su te stesso e dove scopri che tutto ciò non è reale. Un altro fattore è la tecnologia, che si è diffusa sempre più negli ultimi anni e che crea forte dipendenza perché permette al nostro corpo di rilasciare dopamina, la stessa che si crea fumando, bevendo o scommettendo. La tecnologia, però, può essere utilizzata da tutti, soprattutto dagli adolescenti. Questo comporta che, in un periodo di alto stress come quello dell'adolescenza, i giovani si rivolgano alla tecnologia per far sì che il loro corpo produca dopamina e questo li rende dipendenti, tanto che nel corso della loro vita continueranno a rivolgersi alla tecnologia nei momenti di stress. Tutto ciò si ripercuote sulle loro capacità relazionali, rendendoli incapaci di creare dei veri e propri rapporti con le persone, ma solo relazioni superficiali e su cui non fanno affidamento. Il terzo fattore è il senso di impazienza dovuto al fatto di crescere in un mondo di gratificazioni istantanee, senza dover mai attendere nulla, ma ottenendo tutto ciò che vogliono con un solo click. Questo crea in loro un grande senso di frustrazione nel momento in cui devono ottenere dei risultati che necessitano di pazienza, come molte delle cose importanti della vita (ad esempio, l'amore o le gratificazioni lavorative). L'ultimo fattore è il contesto: quando i Millennials si trovano in un ambiente aziendale, per esempio, devono scontrarsi con tutte le difficoltà che questo comporta e che sicuramente non li aiuta a raggiungere un equilibrio, oltre a costringerli ad affrontare alcune delle loro lacune in termini relazionali ed emotivi. Questi sono i fattori che determinano la loro insoddisfazione che secondo Sinek non è una loro colpa, ma dell'epoca in cui sono cresciuti e in cui vivono che li fa convivere continuamente con un senso di frustrazione e infelicità.

Generazione Z. Istruzione carente, poco lavoro, delusione verso la politica. Un aspetto importante di questa generazione è il suo diffuso utilizzo di Internet sin dalla nascita. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che crescere in un periodo di grave recessione dà loro una sensazione di instabilità e insicurezza, tuttavia sembrano essere i più desiderosi di aiutare il proprio paese e molto simili alla generazione del baby boom.

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La Generazione Z o Centennials (conosciuta anche come iGen, Post-Millennials o Plurals) identifica le persone nate dopo i Millennials. La generazione è generalmente circoscritta tra i nati dal 1995 fino al 2012. Un aspetto importante di questa generazione è il suo diffuso utilizzo di Internet sin dalla nascita. I membri della Generazione Z sono considerati come avvezzi all'uso della tecnologia e i social media, che incidono per una parte significativa nel loro processo di socializzazione. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che crescere in un periodo di grave recessione dà loro una sensazione di instabilità e insicurezza, tuttavia sembrano essere i più desiderosi di aiutare il proprio paese e molto simili alla generazione del baby boom.

Terminologia. Gli autori William Strauss e Neil Howe hanno scritto alcuni saggi che hanno come oggetto di studio le generazioni; sono stati accreditati per essere coloro che hanno coniato il termine Millennials. Howe ha affermato "Nessuno sa come si chiamerà la generazione successiva ai Millennials". Nel 2005, la loro azienda ha sponsorizzato un concorso online e i partecipanti hanno votato in maniera massiccia per Homeland Generation. Tutto ciò non fu molto dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, e probabilmente una delle conseguenze degli attacchi fu che gli americani si sentivano più sicuri a casa propria. Howe si autodefinì come "non totalmente convinto" del nome e disse che "i nomi spesso sono inventati da persone che subiscono una forte pressione da parte della stampa. Tutti cercano un colpo di genio." Howe definisce la Homeland Generation come le persone nate dal 2005 al 2025.

iGeneration (o iGen) è un nome che reclamano diverse persone, anche se "suona come un adattatore usato per ricaricare il cellulare sull'autobus". L'autrice e professoressa di psicologia Jean Twenge sostiene che il nome iGen "le è venuto in mente" mentre stava guidando per la Silicon Valley, e che intendeva usarlo per il suo libro del 2006 chiamato Generation Me ma che fu ignorato dal suo editore. Il demografo Cheryl Russell dichiara di essere stato il primo ad usare il termine nel 2009. Nel 2012, USA Today ha sponsorizzato un contest online per i lettori per scegliere il nome della generazione successiva ai Millennials. Vinse il nome Generazione Z, anche se il giornalista Bruce Horovitz trovava il nome "scoraggiante". Furono proposti altri nomi, tra cui: iGeneration, Gen Tech, Gen Wii, Net Gen, Digital Natives e Plurals. Secondo Horovitz, questa generazione parte dal 1995. La Kelley School of Business definisce la Generazione Z come quella che va dalla seconda metà del 1997 al 2010. Nel 2013, il canale Nickelodeon usò il termine Post-Millennials per descrivere il pubblico dei "bambini nati dopo il 2005". Un'altra agenzia di comunicazione e marketing, Frank N. Magid Associates, ha denominato questo gruppo come "The Pluralist Generation" o 'Plurals'. I nati appartenenti a questa generazioni vanno dalla fine dell'anno 1997 fino ai giorni nostri. Anche la società statunitense Turner Broadcasting System ha denominato la generazione successiva ai Millenials 'Plurals' al posto di Generazione Z. La Generazione Z è stata la prima generazione ad avere un ampio accesso ad Internet sin da un'età precoce. Matt Carmichael, dell'agenzia Ad Age, nel 2012 disse "pensiamo che iGen sia il nome che meglio definisca e che meglio aiuti a comprendere questa generazione". Nel 2014, un tirocinante della NPR news notò come iGeneration "sembrava essere vincente" come nome per i Post-Millennials. È stato definito come "un occhiolino ai prodotti della Apple, l'iPod e iPhone", mentre l'ex scrittore della Ad Age, Matt Carmichael nota come la "i" minuscola in iGeneration "lascia spazio all'interpretazione" e "potrebbe essere una quantità di cose diverse: può stare per interattivo, per internazionale, per qualcosa che non abbiamo ancora scoperto." Randy Apuzzo, esperto di tecnologia e CEO di Zesty.io, pubblicò un articolo titolato "Always Connected: Generation Z, the Digitarians", nel quale chiamava la nuova generazione "Digitarians" perché sono la prima generazione "sempre connessa a Internet" che è cresciuta con dispositivi touch. Statistics Canada riporta come "la generazione Internet" sia la prima nata dopo l'invenzione della rete. Un report del 2005 pubblicato in Australia dal McCrindle Research Center riporta il 2001 come l'inizio di questa generazione. Uno studio successivo del 2009 dà un range di anni che va dal 1995 al 2009, a partire da un aumento registrato nel tasso di natalità in questi anni e dando come definizione di arco generazionale circa 15 anni. Sotto questa definizione McCrindle usa il tasso di natalità per determinare quando emerge una nuova generazione rispetto alle altre, aggiungendo a questa analisi cambiamenti a livello di macro trend e società. Secondo Statistics Canada questa generazione nasce nel 1993. Durante uno speech nel corso di un evento TEDx nel 2015, Mark McCrindle chiama coloro nati dal 2010 in poi "Generation Alpha". The Futures Company ha usato il termine "Centennials" per descrivere la generazione nata a partire dalla seconda metà del 1997.

Caratteristiche. Una ricerca del 2013 condotta da Ameritrade rileva che il 36% della Generazione Z negli Stati Uniti (considerando in questa sede coloro che avevano all'epoca tra i 14 e i 23 anni) nutre preoccupazione sulla possibilità di potersi permettere un'istruzione superiore. Questa generazione si trova ad affrontare un crescente divario di reddito della classe media, che aumenta il livello di stress nella popolazione. Un documento redatto dalla Frank N. Magid Associates rileva che questo gruppo generazionale mostra sentimenti positivi nei riguardi della crescente diversità etnica degli Stati Uniti, e che sono più disposti rispetto ai loro predecessori ad includere nelle proprie cerchie sociali persone di diversi gruppi etnici e religioni. Secondo Magid, la Generazione Z è "l'ultima a cui sia apparso verosimile che ci sia stato una cosa come il sogno americano" mentre i baby boomer e i loro figli, i Millennials "erano molto più propensi a credervi". La Generazione Z è in gran parte composta dai figli della Generazione X. I membri più giovani della Generazione Z sono i primi a vivere l'epoca dei matrimoni omosessuali legalizzati, della Crisi europea dei migranti (2015) e della guerra all'Isis. Per questi motivi sembra essere la generazione che più desidera aiutare il proprio paese d'origine. La Generazione Z è generalmente meno propensa ad avere una condotta rischiosa, rispetto a certe attività, dei Millenials. Nel 2013, il 66% dei teenager (i membri più anziani della Generazione Z) ha provato l'alcol, meno rispetto all'82% del 1991. Sempre nel 2013, l'8% degli adolescenti della Generazione Z non ha mai o ha raramente indossato la cintura di sicurezza durante un viaggio in macchina con il conducente: nel 1991, la percentuale era del 26%. I giovani adulti della Generazione Z hanno meno fede nel sogno americano “dopo aver visto i loro genitori e fratelli lottare duramente per affermarsi nel mondo del lavoro.” Essendo una generazione nata e cresciuta in un periodo di recessione economica, i membri di questo gruppo di persone hanno avuto esperienza in prima persona della paura e dello scoraggiamento che implica l'assenza di un impiego; come conseguenza, i membri della Generazione Z ricercano la soddisfazione personale in un impiego legato alle loro passioni più che a un salario alto. Come scrive Jeffrey Arnett, gli adulti emergenti “si aspettano di trovare un'occupazione che rispecchi la propria identità”. Sono disposti, più spesso che in passato, a provare una serie di lavori e tirocini in qualcosa a cui tengono veramente, piuttosto che accettare un lavoro stabile ma insoddisfacente. Il periodico Business Insider sostiene che questa generazione sarà "più intraprendente e pragmatica riguardo all'aspetto monetario" rispetto alla precedente. Uno studio del 2014 chiamato Generation Z Goes to College rivela come gli studenti della Generazione Z si auto-identificano come leali, compassionevoli, riflessivi, di mentalità aperta, responsabili e determinati. Il modo in cui però vedono i loro coetanei è differente da come affermano se stessi: essi li definiscono come competitivi, spontanei, avventurosi e curiosi, tutte caratteristiche raramente vedono in loro stessi.

Nativi digitali. Nel loro libro del 2007, Junco e Mastrodicasa hanno ampliato il lavoro di Howe e di Strauss includendo la ricerca basata sulle informazioni sui profili della personalità dei Millennials, in particolare per quanto riguarda l'istruzione superiore. Hanno condotto la ricerca su un grande campione (7.705) degli studenti universitari. Hanno scoperto che gli studenti universitari della Next Generation erano spesso in contatto con i loro genitori e che facevano uso della tecnologia in modo maggiore rispetto alle persone appartenenti ad altre generazioni. Nella loro indagine, hanno scoperto che il 97% degli studenti possedeva un computer, il 94% possedeva un telefono cellulare, e il 56% possedeva un lettore MP3. Hanno inoltre scoperto che gli studenti parlano con i genitori, una media di 1,5 volte al giorno su una vasta gamma di argomenti. Altri risultati del sondaggio di Junco e Mastrodicasa dichiarano che il 76% degli studenti utilizza l'instant messaging, il 92% sono abili nel multitasking così come IMing, WhatsApp, Skype e Snapchat e che il 40% degli studenti usa il web per ottenere la maggior parte delle notizie e il 10% usa la televisione. Questa generazione usa frequentemente social network come Facebook, Instagram ecc.. e spende almeno 3,5 ore al giorno online, Questa generazione viene definita come appartenente alla generazione dei nativi digitali; coloro che sono nati ma anche solamente cresciuti con le nuove tecnologie digitali.

Tecnologia e social media. Questa generazione è stata la prima a poter usufruire di Internet sin dalla prima infanzia. Con la rivoluzione del web che ha caratterizzato gli anni novanta, la Generazione Z è stata esposta a una quantità di 'tecnologia' impensabile per i predecessori. Mentre gli strumenti tecnologici diventavano più compatti ed economici, la popolarità degli smartphone, negli Stati Uniti, cresceva a livello esponenziale. Nel 2015 il 77% dei ragazzi tra i 12 e i 17 possedeva un telefono cellulare: non è difficile immaginare come questa tecnologia li influenzi in termini di studio e apprendimento. Secondo Forbes magazine quando questa generazione si affaccerà al mondo del lavoro, la tecnologia digitale sarà un aspetto preponderante in tutti i percorsi di carriera. Secondo Anthony Turner questa generazione ha un ‘legame digitale con la rete’, e sostiene che questo rapporto possa aiutare a sfuggire le delusioni emozionali e mentali che incontreranno nella vita offline.[38] Secondo un'indagine della società di consulenza Sparks and Honey nel 2014, il 41% degli adolescenti spendeva più di tre ore al giorno al pc per scopi non inerenti all'educazione scolastica, rispetto al 22% nel 2004. Steve Jobs e i social media, simboli che hanno segnato e identificano la Generazione Z. Circa i tre quarti dei ragazzi tra i 13 e i 17 anni usa il proprio cellulare ogni giorno, ed è una percentuale più alta di coloro che guardano la tv. Si stima che di 150000 delle Applicazione mobile, circa il 10% presenti nell'App Store (iOS), erano di tipo "educational" volte a preparare i bambini per le scuole superiori. Mentre ricercatori e genitori sono d'accordo nell'affermare che il cambiamento di paradigma educativo è significativo, i risultati del cambiamento stesso sono variabili. Da una parte, gli smartphone offrono opportunità di miglioramento nell'apprendimento e un'istruzione più personalizzata sull'individuo, rendendo questa generazione la più istruita su più campi; dall'altra, ricercatori e genitori temono che l'uso smodato degli smartphone crei una sorta di dipendenza tecnologica e una mancanza di auto-regolamentazione che ostacola lo sviluppo del bambino. Secondo un periodico, gli adolescenti non hanno bisogno di uno smartphone, ma lo posseggono ugualmente. Quando i bambini diventano adolescenti, ricevere un cellulare diventa un rito di passaggio che permette loro di tenersi in contatto con i loro coetanei; questa pratica è oggi socialmente accettata, anche possederne uno sin da piccoli. Un articolo del Pew Research Center riporta come “quasi i tre quarti dei teenager possiede uno smartphone o ha accesso a uno smartphone e il 30% ha un cellulare di livello base, mentre il 12% degli adolescenti tra i 13 e i 17 dichiara di non possedere alcun tipo di cellulare”. Questi numeri sono destinati a crescere ed è proprio il fatto che la maggior parte degli appartenenti a questa generazione possegga un cellulare a definirne le caratteristiche più salienti. Come risultato, “il 24% degli adolescenti è online “quasi sempre””. Gli adolescenti sono più propensi a condividere informazioni personali online rispetto al 2006. Tuttavia, sono accorti nel prendere precauzioni per proteggere alcune informazioni che non vogliono pubblicare. Sono più propensi a "seguire" gli altri sui social media che a "condividere" e usare i diversi social per gli scopi più svariati.[34]Un test ha mostrato che molti teen sono infastiditi da molte caratteristiche di Facebook, ma che continuano tuttavia ad usarlo poiché ritengono che la partecipazione sia importante al fine di socializzare con amici e coetanei. Twitter e Instagram stanno aumentando la loro popolarità tra i membri di questa generazione, tanto che il 24% (destinato a crescere) di teen che accedono a Internet ha un account su Twitter. Questo in parte si deve al fatto che spesso i loro genitori non utilizzano queste piattaforme. Snapchat è diventato un social molto attraente per questa generazione perché video, immagini e messaggi sono spediti più velocemente che con altre piattaforme. Velocità e affidabilità sono due aspetti importanti nella scelta della piattaforma social per questa generazione. Questa necessità di comunicare velocemente ha fatto sì che questa generazione apprezzi in maniera particolare applicazioni come Vine e che usi prevalentemente emoji. Uno studio condotto da diversi psicologi ha messo in luce che i più giovani utilizzano Internet per interagire con i coetanei e per accedere alle informazioni. La tecnologia mobile, i social media, e l'uso di Internet sono diventati sempre più importanti per gli adolescenti negli ultimi dieci anni. I giovani utilizzano Internet come strumento per aumentare le proprie capacità relazionali, che successivamente applicano alle situazioni della vita reale; inoltre grazie alla rete cercano contenuti che gli interessano. Gli adolescenti spendono la maggior parte del loro tempo online comunicando privatamente con persone con cui interagiscono anche nella loro vita offline. L'utilizzo dei social media non è solo finalizzato ad essere aggiornati su ciò che succede nel mondo, ma anche e soprattutto per sviluppare e mantenere vive relazioni con persone vicine. L'uso dei social media è diventato parte integrante delle vite quotidiane di coloro che nella Generazione Z hanno accesso alla rete: quello che ne consegue è un vasto utilizzo dello smartphone in termine di ore. Lo sviluppo di relazioni online è diventata una norma per questa generazione. La Generazione Zero è generalmente contraria all'utilizzo smodato di photoshop ed è contraria al cambiamento personale al fine di aderire ad un modello di perfezione. I genitori comunque temono l'utilizzo smodato della tecnologia, non vedono di buon occhio la condivisione di contenuti e immagini personali; d'altra parte gli adolescenti lamentano il controllo smodato dei genitori circa il loro uso della rete.[46] Questa generazione utilizza i social media per rafforzare il rapporto con gli amici e per costruirne di nuovi; essi interagiscono anche con persone che non avrebbero mai potuto incontrare nella vita reale, ed è così che i social diventano uno strumento di creazione di identità. I social media sono conosciuti per essere un veicolo di espressione dei propri gusti e di condivisione delle proprie vite; d'altra parte però, questo utilizzo non di rado provoca violenti episodi di razzismo.

Visione politica. Secondo la Hispanic Heritage Foundation, tale generazione tende ad essere più conservatrice dei Millennials: secondo un sondaggio di 83.298 studenti (tra i 14 ei 19 anni) negli Stati Uniti effettuato da My College Options e Hispanic Heritage Foundation tra settembre e ottobre 2016, il 32% dei partecipanti ha sostenuto Donald Trump, mentre il 22% ha sostenuto Hillary Clinton con il 31% che ha scelto di non votare alle elezioni (vedi: Elezioni presidenziali negli Stati Uniti d'America del 2016).

Rapporto sulla Generazione Z: istruzione carente, poco lavoro, delusione verso la politica. I giovani italiani restano a casa dei genitori fino a 35 anni. Record europeo per i giovani italiani: abitano a casa coi genitori, in media, fino a 35 anni. Colpa del precariato, delle scarse retribuzioni ma anche della comodità di essere accuditi istruzione carente, poco lavoro, delusione verso la politica. Per il 60% gli immigrati danneggiano l’economia, scrive Carlo Valentini l'1 maggio 2018 su Italia Oggi. Record europeo per i giovani italiani: abitano a casa coi genitori, in media, fino a 35 anni. Colpa del precariato, delle scarse retribuzioni ma anche della comodità di essere accuditi. A Lamezia (Catanzaro) è stato presentato il Rapporto Giovani 2018 dell'Istituto Giuseppe Toniolo in collaborazione con l'università Cattolica di Milano. L'identikit delle nuove generazioni è disegnato sulla base di un campione rappresentativo di 3034 persone di età compresa tra i 18 e i 34 anni. Spiega Rita Bichi , docente di Sociologia alla Cattolica: «La generazione di oggi, chiamata Generazione Z (che già cresce con la consapevolezza che il futuro non è più qualcosa di scontato) rispetto a quella nata negli anni 80 e 90 cosiddetta Millennials (la prima generazione dal dopoguerra a trovarsi in una situazione peggiore di quella dei propri genitori) vive positivamente il progresso tecnologico ma allo stesso tempo risente negativamente dell'incertezza economica che sta attraversando il mondo e che ha precarizzato il lavoro ma anche la scuola, siamo tra i primi per abbandono scolastico da parte dei ragazzi tra i 16 e i 24 anni. Prima viene la Spagna, poi l'Italia. Inoltre solo poco più del 15% dei giovani italiani è laureato, contro oltre il 34% del Regno Unito. L'Italia ha anche il triste primato dei Neet, giovani che non studiano, non lavorano e non sono inseriti in percorsi di formazione, che sono oltre il 26% tra i 15 e i 24 anni». Il Rapporto conferma quindi lo stato assai poco brillante della formazione scolastica e la vistosa carenza del rapporto tra i giovani e la scuola. Altrove essa rappresenta un pilastro dell'approccio dei giovani alla società e al lavoro. Non è così nel nostro Paese e questo è uno degli elementi che genera sfiducia tra le nuove generazioni. Se metà dei giovani tra i 15 e i 34 anni che hanno concluso gli studi non ha ancora, secondo questa indagine, un'occupazione dopo un anno la colpa non è solo delle difficoltà e delle trasformazioni del sistema produttivo ma anche di una preparazione scolastica non idonea all'inserimento nel mondo del lavoro. Di questo gli intervistati esprimono consapevolezza: i giovani italiani (40,7%) insieme a spagnoli (35,3%) e francesi (33,6%) hanno idee abbastanza chiare sulle loro ambizioni professionali ma solo il 22%, quindi meno di 1 su 4, dichiara di avere fiducia nel poterle raggiungere (rispetto a una media europea che arriva al 50%). «Gli under 35 italiani», commenta Alessandro Rosina, coordinatore del Rapporto, «segnalano più dei loro colleghi stranieri una carenza sull'orientamento e sulla conoscenza del funzionamento del mondo del lavoro. Una volta usciti dal percorso scolastico, si trovano con strumenti inefficaci per la ricerca di lavoro». Vi sono poi i giovani disorientati, quelli che non hanno alcuna idea rispetto a un possibile percorso professionale o che non ci vogliono nemmeno pensare, in questo caso c'è una certa omogeneità europea infatti essi rappresentano una quota consistente sia degli intervistati italiani (26,8%), che di quelli francesi (25,4%) e britannici (23,4%). Quanto al capitolo della politica, il 40% degli intervistati si dice lontano e deluso (il 52,5% non si riconosce nella distinzione tra destra e sinistra), solo il 35% aderisce ad un partito o movimento, il raggruppamento «meno bocciato» è il movimento 5 Stelle che trova la sufficienza del 30% degli intervistati. Nonostante questa disaffezione verso la politica viene smentito un disinteresse, nel senso che va fatta la distinzione tra delusione e apatia: ben il 73,8% si dichiara pronto a impegnarsi in prima persona nella società se intravedesse che ne vale la pena, cioè che l'impegno è apprezzato e contribuisce al cambiamento. Qualche sorpresa arriva (forse) dal capitolo sull'immigrazione poiché emerge un generale atteggiamento di chiusura dei giovani verso gli immigrati. Per il 60% degli intervistati gli stranieri rendono l'Italia un posto insicuro e per il 50% peggiorano l'economia. «Il giovane non ha paura dello straniero della porta accanto o del compagno di banco», aggiunge Rita Bichi, «piuttosto di come il fenomeno migratorio possa incidere sull'economia e rendere ancora più complicato l'inserimento nel mercato del lavoro. Un dato confermato dal fatto che la percezione dell'insicurezza legata alla presenza degli stranieri è più alta tra gli intervistati che hanno un titolo di studio più basso. Vi è poi da aggiungere che l'immigrazione è in genere vissuta come irregolare e clandestina. Infatti l'atteggiamento cambia verso gli stranieri regolari presenti in Italia: solo 1 intervistato su 3 pensa che la loro presenza peggiori la sicurezza e l'economia». In condizioni di scarsità di lavoro i giovani tendono quindi ad assumere un atteggiamento protezionistico: la maggioranza reputa che l'immigrazione dovrebbe essere gestita in modo da non entrare in competizione con le condizioni di lavoro di chi già è in Italia. In particolare, il 62,6% ritiene che i datori di lavoro dovrebbero prendere in considerazione l'offerta di lavoro degli italiani prima di valutare quella degli immigrati. Un altro tassello di questo puzzle giovanilista riguarda la religione. Alla domanda «Lei crede a qualche tipo di religione o credo filosofico?», le risposte si raccolgono attorno a due opzioni: quella della religione cattolica (52,7%) e quella di chi dichiara di non credere a nessuna religione (23%). Anche la frequenza ai riti conferma la distanza dei giovani dall'esperienza religiosa: coloro che dichiarano di frequentare la Chiesa una volta a settimana sono l'11,7%, gli occasionali sono il 53,8%, mentre il 25,1% pur dichiarandosi cattolici non partecipa mai. Infine, i social. Il 24% dei giovani ritiene accettabile gli scritti violenti se l'altro ha attaccato per primo. Com'è la generazione Z che esce da questa ricerca? Vive coi genitori (fino a 35 anni), soffre di un'istruzione carente, fatica a trovare un lavoro, è delusa dalla politica ma pronta a un impegno sociale se ne intravede l'utilità, è assai critica verso l'immigrazione e poco propensa ad abbracciare una religione.

GENERAZIONE Z 2. Carole Hallac per “la Stampa”il 9 ottobre 2019. Addio Millennials. All' Advertising Week di New York i riflettori sono puntati sui Gen Z, il gruppo demografico più influente del pianeta, e che entro il 2020, rappresenterà 2.56 miliardi di individui e conterà il 40% dei consumatori. Chi sono i Gen Z? Nati dopo il 1996, sono la prima generazione di «social natives», e usano in maniera istintiva e naturale i social media. Bombardati da continue informazioni, la curva per attirare la loro attenzione è di soli otto secondi, ma possono guardare Netflix per ore. Passano di media nove ore al giorno davanti allo schermo, quattro di queste facendo diverse cose allo stesso tempo in quanto abilissimi al multitasking. Per loro, mondo virtuale e quello reale sono realtà complementari, e alcuni considerano Alexa parte della famiglia. Sono diffidenti verso la classe dirigente, e più sovversivi dalle generazioni precedenti, capaci con un tweet di mobilitare un boicottaggio o creare un movimento per una causa a cui credono. La «we generation» I Gen Z si distinguono dai Millenials, considerati la generazione dell'«io», per essere quella del «noi» e usano i social media per creare comunità e non solo connessioni individuali. Pensano al noi in senso globale, non solo al proprio cerchio di amicizie, e sono sensibili al benessere collettivo. Negli Stati Uniti, il 51% appartiene a gruppi di minoranze, una diversità che vogliono celebrare. Questo vale anche per l' orientamento sessuale: solo due terzi si considera eterosessuale, e sin da piccoli, rigettano la divisione binaria spronando Mattel a introdurre una bambola no gender. Hanno a cuore l' eco sostenibilità, scegliendo brand e aziende che considerano etici (70%), sia per gli acquisti che quando entrano nella forza lavoro. Desiderio di autonomia Grazie all' uso delle risorse online, in particolare YouTube, i Gen Z hanno l' abilità di auto educarsi e ritenere un grande numero di informazioni. «Maturano sia fisicamente che mentalmente prima delle altre generazioni - spiega Monica Dreger, VP di Mattel - e ora sono parte delle decisioni importanti in famiglia, come l' acquisto di una casa o di una macchina». Il desiderio di autonomia spinge molti a lasciare gli studi dopo il liceo o lanciare il proprio business, e, sul lavoro, prediligono l' indipendenza mentre i Millennials cercano la collaborazione.

Il rapporto con i social. Il 94% dei Gen Z usa almeno un canale social, a cui quasi la metà ammette di essere costantemente connessa. In una ricerca dell' agenzia Hill Holiday, è pero emerso che il numero di Gen Z cui i social fanno sentire ansiosi, tristi o depressi, è in aumento (48% contro 41% nel 2017). Molto più giovani stanno cercando di staccarsene temporaneamente (il 58% contro il 50% del 2017), e di questi, un terzo si è completamente disconnesso. Tra le cause, la perdita di tempo, la negatività online, problemi di stima e preoccupazioni sulla privacy. Si rileva un aumento di "Finsta", finti profili Instagram in cui danno accesso a un numero ristretto di amici e sentono meno pressioni di pubblicare immagini di una vita perfetta. Ciò nonostante, il 74% ritiene che i social abbiano più benefici che svantaggi, come l' abilità di connettere con altri. Tra i canali in crescita, Tik Tok (40 milioni di utenti), e la piattaforma di gaming Discord (250 millioni). Come conquistarli La parola chiave per la Gen Z è l' autenticità. «I brand devono prendere sul serio il messaggio che vogliono comunicare, non può essere solo di apparenza - spiega Ziad Ahmed, fondatore ventenne di JUV Consulting, società di consulenza focalizzata sulla Gen Z - Abbiamo un filtro naturale per l' inautenticità». Vogliono sentirsi unici, scegliendo prodotti esclusivi, ad edizione limitata e personalizzati, e amano lo shopping esperenziale, spingendo molti brand digitali a creare negozi e pop up shop.

Bamboccione: giovane adulto che continua a stare in casa con i genitori e si fa mantenere da loro.

Gli Italiani bamboccioni? Dategli il reddito di cittadinanza e se ne andranno via di casa, scrive il 26 gennaio 2019 L'Inkiesta. Da decenni si racconta la favola dei giovani che vogliono stare da mamma e papà Se il 64% degli under 34 resta coi genitori è perché solo lì hanno una rete di protezione. Un'occasione per spiccare il volo gli italiani non ce l'hanno mai avuta. È cominciata la corsa all'anagrafe. I furbetti del reddito. Li abbiamo chiamati così perché a noi piace pensare male, che si fa peccato ma si indovina, no? Tutti in fila per chiedere se ci si può separare, se si può intestare l'auto al cognato, se si può fare un accordo con l'imprenditore per essere licenziati e poi riassunti con il reddito. Chi ha figli poi, praticamente in casa si ritrova un tesoro: altro che proletari. Nel racconto dell'Italia furbetta chi ha più figli, più guadagna e tanto meglio se sono maggiorenni. Basta farli risultare residenti altrove ed ecco che si materializzano 780 euro mensili per 18 mesi. 1 figlio maggiorenne, 1 assegno da 780 euro. 2 figli maggiorenni, 2 assegni da 780 euro. Eccola qui, la truffa ai danni del contribuente. Sì, perché a noi l'idea che un ragazzo maggiorenne si precipiti all'anagrafe al primo straccio di possibilità concreta per uscirsene finalmente da casa dei genitori non c'è neanche venuta in mente. Ma chi? Quei mammoni degli italiani? Ma figuriamoci: saranno furbetti. Per carità, ci saranno pure quelli. Ma perché non vedere la cosa con altri occhi? Perché ci riesce così difficile immaginare che un ragazzo di 20 anni possa prendersi l'assegno per sé e uscire per davvero di casa invece di intestarsi una residenza fittizia e girare i 780 euro al solito intramontabile pater familias italiano? Da decenni ormai il cordone ombelicale che lega i nostri giovani al nido è descritto quasi come se fosse una caratteristica naturale degli italiani. Nell'immaginario, se gli italiani sono gli ultimi ad uscire di casa, se la percentuale dei 30enni indipendenti da mamma e papà è la più bassa d'Europa (dopo Croazia e Grecia) dev'essere per forza per un'attitudine psicologica, per quelle mamme in grembiule che non fanno altro che preparare la pasta al forno ai loro bambini, che inseguirli fino a raccogliere l'ultimo calzino sporco, che pulirgli la bocca col tovagliolo dopo aver mangiato. E se questa sorprendente corsa all'anagrafe (sorprendente per la velocità di reazione) ci offrisse invece un altro quadro? Se mi danno 780 euro, io stavolta me la gioco: questo è il quadro. Perché a vent'anni o a venticinque chi è che non vorrebbe essere indipendente? Dati al momento non ce ne sono: né per dimostrare che sono tutti furbetti né per dimostrare che sono invece tutti in procinto di spiccare il volo. Quello che è certo però è che un'occasione per farlo i giovani italiani non l'hanno mai avuta. Se il 66% degli Under34 vive come Tanguy a casa dei genitori è perché solo lì esiste una rete di protezione. Il pater familias di cui si parlava sopra è stato fino ad oggi l'unica figura presa in considerazione dal nostro welfare. I genitori hanno il posto fisso e se lo perdono spesso hanno la cassa integrazione o qualche altra rete protettiva. I figli hanno un posto precario e quando lo perdono un calcio nel sedere. Dove sarebbero dovuto andare? Che volo folle avrebbero dovuto spiccare? La teoria degli italiani mammoni non è verificabile per mancanza la controprova. Se il reddito di cittadinanza può avere un merito dunque, pur nella sua risicata dotazione finanziaria, è quello di spostare la protezione dal posto di lavoro al cittadino (o almeno a un'idea che si avvicina a quella del cittadino): ti do una mano perché non hai un lavoro, non perché l'hai perso. È il primo tentativo in Italia, seppure con tanti limiti. Tra questi limiti può darsi che il governo, travolto dalla corsa all'anagrafe di questi giorni, debba presto aggiungere qualche sbarramento ai cambi di residenza. Ma finché non lo farà, questo reddito di cittadinanza risulta essere la prima sfida positiva ai giovani di questo paese. Dimostrate che non è vero: dimostrate che non siete né furbetti, nè bamboccioni. Pigliate il reddito e partite.

Bamboccioni, ecco il nuovo identikit: hanno un lavoro e vivono al Nord, scrive il 29 ottobre 2017 Tgcom24. Lo dice un’indagine pubblicata dalla Banca d’Italia: giovani-adulti che, pur potendo permettersi di lasciare casa, scelgono di rimanere con mamma e papà per non perdere il tenore di vita a cui sono abituati. I bamboccioni italiani abitano al Nord, provengono da famiglie con reddito alto e spesso hanno un lavoro. Giovani-adulti che, pur potendo permettersi di lasciare casa, scelgono di rimanere con mamma e papà perché è più conveniente e per non perdere il tenore di vita a cui sono abituati. E' ciò che emerge da una nuova indagine pubblicata dalla Banca d'Italia. Secondo gli ultimi dati dell'Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo circa l'80% di giovani italiani vivono ancora in casa con i genitori. Tra i paesi sviluppati è la percentuale più alta. Il solco diventa significativo se confrontiamo la tendenza italiana con quella statunitense. Prendiamo come parametro i nati tra il 1970 e il '74: tra i 15 e i 19 anni il 15% degli americani era già andato via di casa, in Italia solo 5%. All'età di 29 anni l'80% degli statunitensi viveva già da solo, gli italiani erano il 59%. Dall'indagine è emerso inoltre che circa il 13% dei 40enni italiani è ancora a casa con i genitori. L'Italia primeggia pure nel confronto con altri Paesi europei. Benché anche in Paesi come Spagna e Portogallo si registra la tendenza dei giovani a vivere con i genitori, l'Italia rimane comunque al primo posto con i suoi 83% di ragazzi tra i 20-24 anni che sono in casa con mamma e papà. Secondo l'analisi, molti di questi giovani-adulti hanno un lavoro, vivono al Nord e hanno alle spalle una famiglia con reddito alto. Per loro il sostegno dei genitori rappresenta un aiuto prezioso senza il quale perderebbero il tenore di vita a cui sono abituati. In questa situazione pesa il costo delle abitazioni e la scarsa offerta di lavoro. Infatti benché al Nord ci siano più opportunità lavorative e salari più alti, rispetto che al Sud, le condizioni sono comunque precarie e gli affitti alti costringerebbero i ragazzi a fare delle rinunce che, a quanto emerge, non intendono fare.

Prosperano i bamboccioni. È l'Italia che sogna il sussidio. Quasi il 67% dei giovani vive con i genitori in attesa del reddito di cittadinanza. Ma non è tutta colpa loro, scrive  Carlo Lottieri, Martedì 18/12/2018, su Il Giornale.  Com'era facile prevedibile, la notizia che la maggior parte dei giovani italiani vive con papà e mamma ha subito portato sulla bocca di tutti la stessa parola: «bamboccioni». E in parte è vero che le nuove generazioni hanno la tendenza a vivere all'ombra della famiglia, incapaci di farsi carico degli oneri dell'esistenza. I dati diffusi ieri da Eurostat devono fare riflettere. Dopo un leggero calo del 2016, torna a crescere il numero di quanti, avendo un'età compresa tra i 18 e i 34 anni, preferiscono restare a casa. Si tratta infatti del 66,4% dei ragazzi: il dato europeo più alto dopo Croazia, Malta e Grecia. È un fenomeno che conosciamo da tempo, legato alla struttura della società italiana, in cui le mamme hanno da sempre un ruolo preponderante. Non si prende il volo perché in fondo è molto comodo non dover preoccuparsi di tante cose: dalla pulizia delle camere alla gestione delle fatture domestiche, alla cura del guardaroba. Anche dopo i trent'anni, il giovane italiano (specie se maschio) resta un eterno Peter Pan che non vuole mettere famiglia, fare figli, costruirsi un futuro. Alla radice di questo, però, ci sono anche talune ragioni economiche. I giovani di oggi si trovano entro un quadro ben diverso da quello dei «trenta gloriosi»: la fase storica che condusse dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Settanta. In quel periodo tutta l'Europa conosceva un'espansione formidabile e ogni generazione appariva destinata a vivere meglio di quella precedente. Ora non è più così: dopo che lo statalismo dei «baby boom» ha consumato tutto il consumabile e ha accumulato debiti di ogni tipo (moltiplicando i titoli di Stato e costruendo un sistema pensionistico pubblico fallimentare), chi ha meno di quarant'anni difficilmente si troverà in una situazione migliore di quella dei genitori. In tale contesto, è assurdo difendere l'idea di un reddito di cittadinanza alla Di Maio, che penalizzi chi lavora per aiutare chi non lavora. Se ci si preoccupa - e giustamente - dinanzi a giovani che restano sempre bambini, tutto si deve fare meno che costruire un meccanismo redistributivo che dia un reddito, anche se modesto, a quanti restano a casa tutto il giorno. In altre parole, le nuove generazioni fanno i conti con un'economia ingessata, in cui per le imprese è spesso irragionevole assumere. Perché non sempre si resta in famiglia per pigrizia: talora questo avviene perché mancano i soldi per affittare un appartamento e perché - da tempo - l'insieme dei capitali complessivi è concentrato nelle mani di quanti hanno più di cinquant'anni, mentre agli altri rimane davvero poco. Per tale ragione non è tutta colpa dei giovani se essi non escono di casa e se, in molti casi, non cercano neppure un impiego. Sono infatti gli adulti che hanno costruito un sistema economico e sociale chiuso, protetto, assistenziale, in cui è difficile intraprendere e in cui - in molte aree del Paese - è addirittura irragionevole attendersi cambiamenti di alcun tipo. Per finirla con i bamboccioni, allora, bisognerebbe introdurre più libertà d'iniziativa nell'economia italiana e, più in generale, nella nostra società. Bisognerebbe responsabilizzare le comunità locali, abbassare le imposte, liberalizzare interi settori. Un giovane ha il diritto di lavorare e intraprendere senza dover chiedere innumerevoli autorizzazioni a chi vive di risorse che non produce. E se le cose non stanno così, non stupiamoci se poi rimane in famiglia a vivere della pensione del nonno.

“Bamboccioni” 10 anni dopo, cosa è cambiato? Scrive Daniela Uva il 17 maggio, 2018 su forbes.it. Scrivo di successo, imprenditori, storie italiane. Una generazione si è alzata dal divano di casa di mamma? “Mandiamo i bamboccioni fuori di casa”. Era il 2009 e l’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa coniò questo termine per indicare una generazione di giovani secondo lui troppo pigra e legata alle famiglie di origine. Sono passati nove anni e sembra che nel frattempo poco sia cambiato, almeno a giudicare dai più recenti dati diffusi da Eurostat. L’istituto di statistica continentale ha messo in evidenza come il 60 per cento dei giovani disoccupati italiani non sia disposto a trasferirsi altrove per lavorare, contro una media Ue del 50 per cento. Inoltre, il 98 per cento avrebbe trovato occupazione senza bisogno di cambiare residenza: la media europea è del 90 per cento. Insomma, i bamboccioni non sono scomparsi nonostante siano in aumento i ragazzi che dal sud si trasferiscono al nord per trovare nuove opportunità. A fronte di questa “pigrizia” ci sarebbe un altro dato preoccupante: sempre secondo Eurostat, l’Italia è penultima nell’Unione europea per numero di laureati. Solo un cittadino su sei prosegue gli studi. Tra i 25 e i 34 anni risulta laureato il 26,4 per cento delle persone (contro il 38,8 per cento della media Ue). Insomma, a giudicare da questa fotografia i giovani non vogliono cambiare città ma neanche passare il tempo sui libri. Anche se occorre guardare questi dati con più attenzione, come spiega Francesco Daveri, docente di Politica economica all’università Bocconi di Milano. Secondo Eurostat il 60 per cento dei giovani italiani non è disposto a traslocare per cercare lavoro. È una fotografia reale del Paese? Il dato è fortemente influenzato dalle caratteristiche della disoccupazione italiana, che è concentrata in modo sproporzionato in una parte del Paese. Al nord i ragazzi sono più ottimisti e dunque meno favorevoli all’idea di spostarsi. Per questo viene fuori un dato medio complessivo molto elevato, che però riguarda in particolare una parte dell’Italia.

Quindi al sud c’è più propensione ad andar via?

«È evidente come una parte dei giovani meridionali si stia spostando verso le regioni del nord. Anche se c’è un’altra parte che invece resta a casa senza lavorare né studiare».

Ma quindi da quel lontano 2009, l’anno dei bamboccioni, nulla è cambiato?

«Le condizioni di allora sono ancora in larga parte presenti. Anche se l’entità non è così gigantesca. I bamboccioni ci sono, ma non rappresentano il 60 per cento dei giovani italiani».

Chi sono questi bamboccioni contemporanei?

«Sono ragazzi che non ritengono di doversi spostare perché il mercato del lavoro a casa loro è positivo. E questo avviene prevalentemente al nord. Ma anche giovani pessimisti, convinti di non avere sufficienti competenze per trovare occupazione lontano da casa. O che ritengono il trasloco troppo oneroso dal punto di vista economico. Chi non ha una famiglia solida alle spalle fa fatica ad andare altrove per cercare lavoro. E senza garanzie chiedere un prestito in banca è inutile».

Da cosa dipende l’assenza di competenze?

«Da una debolezza sistematica del nostro sistema scolastico e universitario, ancora troppo scollato dal mondo del lavoro e non sempre in grado di fornire ai giovani le abilità necessarie per essere competitivi. Ecco perché parlare solo di “bamboccioni” rischia di essere riduttivo».

Eurostat ha messo in evidenza come l’Italia sia penultima nell’Ue per numero di laureati. La disoccupazione giovanile dipende anche da questo?

«Si tratta di un dato negativo e molto preoccupante, anche se in realtà il nostro mercato del lavoro è un po’ diverso da quello di altri Paesi. In Italia ci sono migliaia di piccole imprese che non vogliono laureati, ma tecnici con molta esperienza, e spesso fanno fatica a trovarli. Resta il fatto che avere un numero adeguato di laureati sarebbe decisivo per modernizzare il Paese, per rendere le aziende attrattive per gli investitori, e quindi per crescere e produrre di più».

E in effetti recentemente sempre Eurostat ha messo in evidenza come solo il 58 per cento dei giovani italiani trova un lavoro entro tre anni dalla laurea…

«Questa è la diretta conseguenza della domanda da parte delle imprese, più interessate ai tecnici che ai laureati. Ma anche da una scelta delle facoltà da frequentare non sempre ponderata».

Cosa sarebbe meglio studiare, oggi, per lavorare immediatamente?

«Certamente Ingegneria ed Economia, che offrono sia competenze tecniche sia attitudine alla flessibilità. E poi Filosofia, che insegna a pensare in modo diverso. E questo per le aziende può essere un valore aggiunto».

PARLIAMO DI LAVORO. L’ITALIA DEGLI SFIGATI, DEI BAMBOCCIONI E DEGLI SCHIZZINOSI.

“Chi sa, fa. Chi non sa, insegna”. Così dice un vecchio detto. Ed eccoci oggi a commentare proprio una frase di chi insegna. Suvvia perdoniamo loro che non sanno quello dicono. Generalmente ci si divide in teorici e pratici (tecnici). I primi a teorizzare, i secondi ad attuare. Ma se al Governo ci hanno messo i teorici (quelli che insegnano e non conoscono la realtà), perché li han definiti tecnici (capaci di fare)? Già, perché, chi sapendo ben fare (rubare e sprecare), non aveva più niente da fare e voleva precostituirsi un alibi. Giusto per dimostrare una mia tesi: da sempre siamo solo presi in giro e pure ne godiamo, anzichè ribellarci e buttar giù tutti dal carrozzone. L'apatia e l'accidia generale dei cittadini ti smonta, la collusione e la codardia delle vittime ti scoraggia. E la politica. I borghesi conservatori posso capirli, ma i cosiddetti comunisti, che si definiscono progressisti, ma che in realtà sono solo restauratori?

“Giovani siete sfigati”! Giovani siete “bamboccioni”! “Giovani non siate schizzinosi”! Poverini non è colpa loro, (di chi dice ste cazzate), anche perché i loro figli schizzinosi non lo sono affatto, non avendone ragione. In un paese dove il 78% dei lavori si trova per «segnalazione» (dato Eurostat), i figli di banchieri, professori universitari, rettori, presidenti di Cda, prefetti, manager pubblici, magistrati, principi del foro, tutti futuri (attuali) ministri, non hanno tempo per essere choosy, «schizzinosi». Già a me quando ero giovane i vecchi mi dicevano: “aspetta, sei giovane, non hai esperienza. Devi farti le ossa”. Bene. Oggi che ho 50 anni i giovani mi dicono: “fai largo, sei vecchio, da rottamare”. Ergo, la mia è una generazione a perdere. In attesa di un turno che non arriverà mai. Questo mio pensiero è dedicato a chi, ignavo, non si ribella a cambiar le cose, se non per sé, almeno per i suoi figli. Per non destinare lor il destino di esuli per fame o per onor.

«Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.»

Il canto diciassettesimo del Paradiso di Dante Alighieri si svolge nel cielo di Marte, ove risiedono gli spiriti di coloro che combatterono e morirono per la fede; siamo alla sera del 13 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 30 marzo 1300.

Giustissimo prendersela con gli scandali della politica. Ma il problema è che l'Italia è divisa in due: chi è privilegiato (per conoscenze, relazioni familiari, corporazioni etc) e chi invece è abbandonato a se stesso. «Io faccio il senatore e so per esperienza che quando le persone si rivolgono a uno di noi è sempre per chiedere un aiuto personale, una promozione, un favore. E' questa la cultura che alimenta i privilegi e uccide il merito». Dice Ignazio Marino. Ha ragione e lo dico io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità assieme ai giovincelli.

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare. Pago caro il denunciare il malaffare ed i concorsi truccati di quelle istituzioni che pretendono rispetto, senza meritarlo.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Alla fine si è sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate.

Schizzinosi no!! C’è da far umili lavori. Si và. Padre e figlio accomunati da identico destino. Fa niente che a parità di laurea il popolino appella il titolo di dottore solo a chi va in cravatta (immeritata) e non a chi va con le braghe sporche.

Certo è che nessuno va a chiedere ispezioni ministeriali per vagliare le risultanze dell'esame di abilitazione di avvocato o di notaio o di professore universitario, ovvero di verificare la legalità delle procedure di accesso alla magistratura. Compiti non corretti? Per le commissioni d'esame: Fa niente, conta il nome e l'accompagno. Il TAR, intanto, da parte sua sforna sentenze antitetiche tra loro su domande aventi lo stesso oggetto: dipende dall’avvocato che le presenta. Basta leggere il libro del  dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, e scrittore-editore dissidente che proprio sul tema ha scritto e pubblicato “CONCORSOPOLI".

Libro facente parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata sui propri siti web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Uno tra i 40 libri scritti dallo stesso autore e pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.

PARLIAMO DI RACCOMANDAZIONE E CONCORSI TRUCCATI IMPUNITI: FAMILISMO, NEPOTISMO, CLIENTELISMO.

Dedicato a chi, ignavo, non si ribella a cambiar le cose, se non per sé, almeno per i suoi figli. Per non destinare lor il destino di esuli per fame o per onor.

«Tu proverai sì come sa di sale
lo pane altrui, e come è duro calle
lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.»

Il canto diciassettesimo del Paradiso di Dante Alighieri si svolge nel cielo di Marte, ove risiedono gli spiriti di coloro che combatterono e morirono per la fede; siamo alla sera del 13 aprile 1300, o secondo altri commentatori del 30 marzo 1300.

VITTIME DELLA RACCOMANDAZIONE E DEI CONCORSI TRUCCATI: NON SIATE SCHIZZINOSI.

Una carrellata di opinioni venute da destra e da sinistra, giusto per dimostrare una tesi: da sempre siamo solo presi in giro e pure ne godiamo, anzichè ribellarci e buttar giù tutti dal carrozzone. L'apatia e l'accidia generale dei cittadini ti smonta, la collusione e la codardia delle vittime ti scoraggia. E la politica. I borghesi conservatori posso capirli, ma i cosiddetti comunisti, che si definiscono progressisti, ma che in realtà sono solo restauratori?

Quei figli dei ministri «poco schizzinosi». Il ministro Fornero ha definito i giovani "choosy". E i loro pupilli? Ricoprono tutti incarichi di rilievo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. In un paese dove il 78% dei lavori si trova per «segnalazione» (dato Eurostat), i figli di banchieri, professori universitari, rettori, presidenti di Cda, prefetti, manager pubblici, tutti futuri (attuali) ministri, non hanno tempo per essere choosy, «schizzinosi»: il lavoro arriva e coi fiocchi. Al di là dei loro sicuri meriti, non deve aver fatto la schizzinosa Maria Maddalena Gnudi quando il padre, il ministro Gnudi (ex presidente Enel, quota Udc) le ha proposto di diventare socio del prestigioso Studio Gnudi (commercialisti in quel di Bologna), il suo. Approdo sicuro anche per Eleonora Di Benedetto, avvocato 35enne, assunta da uno dei più importanti studi legali di Roma, lo studio Severino, quello della madre Paola, ministro della Giustizia. Ma non tutti i brillanti figli si impiegano indoor, altri lo fanno outdoor, sempre ad altissimi livelli. Come Costanza Profumo, brillante architetto laureata al Politecnico di Torino, figlia del rettore del Politecnico di Torino Francesco Profumo (ora ministro dell'Istruzione), ha lavorato nello studio newyorkese dell'archistar Daniel Libeskind, ora pare sia a Rio de Janeiro. Carlo Clini, figlio del ministro dell'Ambiente Corrado, è rimasto invece in Europa, a Bruxelles, dove coordina progetti per la Regione Veneto. Ricordate Carlo Malinconico, il sottosegretario tecnico che si è dimesso per una vacanza pagata da altri? Suo figlio, Stefano, avvocato, ha fatto pratica nello studio Malinconico (del padre), poi ha trovato lavoro al ministero dell'Ambiente dov'era direttore generale Corrado Clini (ex collega di governo del padre), e quindi all'Antitrust, quando il presidente era il sottosegretario Catricalà, (ex) collega del padre nei governo Monti. A sua volta il segretario Catricalà, che ha gestito l'Antitrust per sei anni, ha una figlia che è in una società, Terna, partecipata dal ministero dell'Economia, dove da sempre siede Vittorio Grilli, ministro dell'Economia, che però ha figli ancora in età scolare. Brillante carriera per un altro rampollo, Luigi Passera, figlio del ministro Passera. Passera jr., dopo la laurea in Bocconi (come il padre) si è occupato di marketing per la Piaggio, società di Colaninno, partner dell'ex ad di Intesa nella cordata di salvataggio Alitalia. Ora Passera jr ha un impiego di tutto rispetto presso la multinazionale Procter & Gamble. Di Monti jr, invece, si sono perse le tracce. Dopo aver lavorato a Londra per Citigroup e Morgan Stanley, il figlio del premier era stato chiamato alla Parmalat da Enrico Bondi (a sua volta poi chiamato da Monti padre come commissario straordinario per la spending review). Dopo le polemiche sul posto fisso (il premier disse che era «noioso») il curriculum del figlio, che nel frattempo ha lasciato Parmalat, è sparito dal web. Si sa però che la seconda figlia di Monti, Federica, ha lavorato nel prestigioso studio Ambrosetti, quelli del Forum Ambrosetti di Cernobbio, dove si riunisce la crème dell'economia italiana. E che poi ha sposato Antonio Ambrosetti, unico figlio maschio degli Ambrosetti. Benissimo è andata a Giorgio Peluso, 42 anni, figlio del ministro Cancellieri. Già assunto trentenne come direttore di Unicredit, poi direttore generale di Fondiaria Sai a 500mila euro l'anno, l'ha in questi giorni lasciata con una buonuscita di 3,6 milioni, scoperta dal Fatto. Ma non è rimasto a spasso: assunto da Telecom Italia come Chief Financial Officer. Poi c'è la Fornero. La figlia Silvia ha una cattedra all'Università di Torino (dove madre e padre sono professori ordinari), e lavora in una fondazione finanziata da Intesa (dove la madre era nel consiglio di Sorveglianza). L'altro figlio, Andrea Deaglio, invece, è uno stimato regista e produttore di film socialmente impegnati (emarginazione, minoranze etniche). Chissà cosa pensa dei choosy.

I figli dei ministri? Tutti geni, ecco perchè non sono schizzinosi…..scrive “PDFontanaliri”. All’indomani dell’ultima provocazione di Elsa Fornero (“i giovani italiani sono un po’ troppo schizzinosi -choosy- nel cercare lavoro”) Repubblica tira fuori la notizia di una mega liquidazione al figlio del ministro dell’Interno Cancellieri, Piergiorgio Peluso. Tre milioni e 600mila euro per un anno di duro lavoro alla Fondiaria Sai (che ha nel frattempo contribuito ad affossare), la società assicurativa dell’imprenditore Salvatore Ligresti, già arrestato per tangenti e indagato per corruzione. La folgorante ascesa professionale di Peluso inizia presto: appena laureato viene catapultato subito all’Arthur Andersen. Un fenomeno della natura. Da lì balza a Mediobanca.

Passa poi per diversi enti e dirigenze bancarie tra cui Aeroporti di Roma (consigliere d’amministrazione), Gemina (consigliere) Capitalia, Credit Suisse First Boston e Unicredit per finire, poco tempo fa, alla Fondiaria Sai dove ha ricoperto (fino ad oggi) il ruolo di direttore generale con compenso da 500mila euro all’anno.

Dobbiamo interrogarci su come sia possibile offrire a tutti (al figlio di Monti come a quello dell’operaio) le stesse condizioni di partenza e le stesse opportunità così come recita l’articolo 3 della Costituzione che qui ricordiamo: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Ancora: Giovanni Monti, figlio del Premier Mario, a poco più di 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, la più potente banca d’affari americana, la stessa in cui il padre Mario ricopre il ruolo apicale di International Advisor. A 25 anni è già consulente di direzione da Bain & company, dove rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, vale a dire fino al suo approdo alla Parmalat, Giovanni Monti ha lavorato prima a Citigroup e poi a Morgan & Stanley: a Citigroup è stato responsabile di acquisizioni e disinvestimenti per alcune divisioni del gruppo, mentre alla Morgan si è occupato in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. Silvia Deaglio, la figlia del Ministro Forneo, a soli 24 anni, mentre già svolgeva un dottorato in Italia, ottiene un incarico presso il prestigioso Beth Israel Deaconess Medical Center di Harvard, il prestigioso college di Boston. La figlia del ministro inizia ad insegnare medicina a soli 30 anni. Diventa associata all’università di Torino a 37 anni con sei anni di anticipo rispetto alla media di accesso in questo ruolo. Il concorso lo vince a Chieti, nel 2010, nella facoltà di Psicologia, prima di essere chiamata a Torino, l’università dove insegnano mamma e papà, nell’ottobre 2011. alla professoressa Deaglio ha certamente giovato nella valutazione comparativa il ruolo di capo unità di ricerca all’Hugef, ottenuto nel settembre 2010 quando era ancora al gradino più basso della carriera accademica, e a ridosso dell’ultima riunione della commissione di esame che l’ha nominata docente di seconda fascia. Come detto, l’Hugef è finanziato dalla Compagnia di San Paolo, all’epoca vicepresieduta da mamma Elsa Fornero. Piergiorgio Peluso, figlio del Ministro Cancellieri: appena laureato viene catapultato subito all’Arthur Andersen. Un fenomeno della natura. Da lì balza a Mediobanca. Passa poi per diversi enti e dirigenze bancarie tra cui Aeroporti di Roma (consigliere d’amministrazione), Gemina (consigliere) Capitalia, Credit Suisse First Boston e Unicredit per finire, poco tempo fa, alla Fondiaria Sai dove ricopre il ruolo di direttore generale con compenso da 500mila euro all’anno. Michel Martone, figlio di Antonio Martone, avvocato generale in Cassazione, amico di Previti e Dell’Utri e Brunetta, già nominato da Brunetta presidente dell’authority degli scioperi, ruolo da cui si è dimesso dopo essere stato coinvolto come testimone nell’inchiesta P3, ha una carriera universitaria molto rapida: a 23 anni ha un dottorato all’università di Modena. A 26 anni diventa ricercatore di ruolo all’università di Teramo. A 27 anni diventa professore associato. Al concorso, tenutosi tra gennaio e luglio 2003, giunse al secondo posto su due candidati, in seguito al ritiro di altri 6. Presentò due monografie, una delle quali in edizione provvisoria (ossia non ammissibile); ottenne 4 voti positivi su 5, con il parere negativo di Franco Liso, contro i cinque voti positivi ricevuti dall’altra candidata, 52enne con due lauree e 40 pubblicazioni. Tuttavia fu Martone ad ottenere il posto da ordinario. A 37 anni diventa viceministro del governo Monti.

Figli dei ministri schizzinosi? A ciascuno il suo lavoro di prestigio, scrive “Politica 24”. Il ministro Elsa Fornero non è stata affatto clemente con i giovani, invitandoli a non essere schizzinosi per quanto riguarda la scelta del lavoro da svolgere. Le affermazioni del ministro del Welfare hanno scatenato parecchie polemiche. In effetti in molti, alle prese con una disoccupazione imperante, si sono sentiti quasi provocati da parole di questo genere. Più che essere schizzinosi, bisognerebbe comprendere che in Italia il lavoro non c’è, specialmente per chi è alle prese con la prima occupazione. E mentre i giovani italiani portano avanti queste difficoltà, come se la cavano invece i figli dei ministri? Se la Fornero avesse riflettuto su quest’ultima questione, probabilmente avrebbe evitato di parlare dei giovani come “choosy”. In effetti, se esaminiamo la situazione lavorativa dei figli dei ministri e degli uomini politici in generale, ci accorgiamo che abbiamo a che fare con casi altro che “schizzinosi”. Luigi Passera, il figlio del ministro Passera, dopo essersi occupato di marketing presso la Piaggio, adesso è approdato a lavorare per la multinazionale Procter & Gamble. Il confronto con il lavoro da centralinista o da ragazzo che consegna le pizze sorge spontaneo. Ma la Fornero ha preso un grosso granchio, perché, nel momento in cui ha parlato di essere schizzinosi, non ha considerato nemmeno il lavoro della figlia Silvia: una dimenticanza. La figlia del ministro Fornero ha una cattedra all’Università di Torino, dove sia la madre che il padre sono professori ordinari. Inoltre Silvia lavora in una fondazione finanziata da Intesa. Non c’è da meravigliarsi, visto che la madre faceva parte proprio del consiglio di sorveglianza di Intesa. La Fornero ha anche un altro figlio, Andrea, un “choosy” pure lui, potremmo dire: regista e produttore di film sull’emarginazione e le minoranze etniche. E che dire di Maddalena Gnudi, figlia del ministro Gnudi? Non avrà certo fatto la schizzinosa, nel momento in cui il padre le ha proposto di diventare socio del famoso Studio Gnudi, un team qualificato di commercialisti. Sempre meglio delle pizze, giusto? Paola Severino, invece, ha una figlia: Eleonora Di Benedetto. Anche lei è rimasta a lavorare “in famiglia”: svolge la professione di avvocato presso lo studio legale Severino a Roma. E che dire del figlio Stefano di Carlo Malinconico, noto sottosegretario tecnico? Stefano ha fatto pratica nello studio legale del padre e poi è stato assunto al ministero dell’Ambiente, sotto la supervisione del Direttore Generale Corrado Clini. Ma non pensate male: in fin dei conti Clini è solo un ex collega di Governo del padre. Se vogliamo dirla tutta, Stefano Malinconico ha lavorato anche all’Antitrust, quando era presidente il sottosegretario Catricalà, sempre collega del padre. La figlia di Catricalà lavora in una società partecipata dal ministero dell’Economia. In questa società ha un ruolo importante Vittorio Grilli, ministro dell’Economia. Peccato che i figli di Grilli siano ancora troppo piccoli…Schizzinoso è stato invece il figlio di Monti, che era stato chiamato a lavorare alla Parmalat di Enrico Bondi. Dopo che Monti affermò che il posto fisso fosse noioso, del figlio si sono perse le tracce. La figlia di Monti, Federica, ha invece lavorato presso il prestigioso Studio Ambrosetti, che presenta stretti legami con gli esponenti più alti dell’economia italiana. Il figlio del ministro Cancellieri, Giorgio Peluso, ha preferito al lavoro di centralinista dell’altro: direttore di Unicredit, direttore generale di Fondiaria Sai, con 500.000 euro di stipendio all’anno e infine, dopo una buonuscita di 3,6 milioni, è stato assunto da Telecom Italia come Chief Financial Officer. Suvvia, figli dei ministri, non siate schizzinosi.

Bamboccioni di governo. Giovani choosy, non solo Fornero: quanti figli dei ministri sono schizzinosi. La battuta di Elsa è l'ultima di una lunga serie sui giovani italiani. Come se i suoi ragazzi facessero i porta-pizze, scrive “Libero Quotidiano”. I pupi ministeriali? Grandi manager, prof in studi prestigiosi, docenti universitari...I ragazzi non sono abbastanza umili. Parola di Elsa Fornero, ministro del Lavoro in carica. Beh, se un esponente del governo dei Prof dice che i giovani italiani sono troppo schizzinosi nella scelta del primo impiego, vorrà dire che i figli dei suddetti Prof avranno avuto un'umiltà esemplare, quasi francescana, nel cercare lavoro. Si saranno accontentati. Sarà andata così, no? No. I Forneros - Cominciamo proprio dai due figli del ministro Frignero (come la chiama Beppe Grillo). Silvia a neanche 40 anni è già professore associato presso la facoltà di Medicina dell’Università di Torino (ateneo dove insegnano sia la madre che il padre, l'economista Mario Deaglio). Ma, visto che è una ragazza modesta, Silvia si è cercata anche un secondo lavoretto: è responsabile unità di ricerca della HuGeF, fondazione creata e finanziata dalla Compagnia di San Paolo (leggi Banca Intesa, istituto di credito nel cui consiglio di sorveglianza sedeva la mamma). Il fratello Andrea, essendo un giovane sabaudo tutto concentrato sul lavoro (perché con la cultura, si sa, non si mangia), è regista cinematografico. La giovane Profumo e il figlio di Passera - Costanza Profumo, figlia del ministro dell'Istruzione Francesco, si è laureata nel 2008 in architettura al Politecnico di Torino (chi era il rettore? Papà).

Ragazza quadrata, di fronte alla crisi incalzante non si è tirata indietro dallo sporcarsi le mani nel primo lavoretto capitatole a tiro: lo studio (a New York) dell'archistar Daniel Libeskind, uno che, per capirci, firma il progetto della nuova Ground Zero. Altrettanto tetragono alle difficoltà della vità è Luigi Passera (di Corrado, ministro per lo Sviluppo economico). Laureato in Bocconi, il giovanotto ha studiato in Cina alla Hong Kong University e alla Fudan University (l'esclusivo ateneo che sforna la locale classe dirigente). Dopo uno stage negli stabilimenti vietnamiti della Piaggio, ora lavora per il colosso Procter & Gamble. E il figlio del Premier? - Ricorderete certamente Mario Monti lamentarsi della monotonia del posto fisso. Il figlio Giovanni, a soli 43 anni, è un esempio di flessibilità: ha studiato a Milano e New York, ha lavorato a Londra per le banche City Group e Morgan Stanley (di cui è stato vicepresidente), poi è stato chiamato alla Parmalat da Enrico Bondi (diventato in seguito commissario straordinario alla spending review del governo... Monti). Oggi risulta disoccupato: la crisi è crisi.

Miscellanea di prole ministeriale - Giorgio Peluso, figlio del ministro Anna Maria Cancellieri, a 42 anni è già stato: direttore di Unicredit, direttore generale di Fondiaria Sai e, dopo una buonuscita di 3,6 milioni di euro, chief finacial officer per Telecom Italia. Carlo Clini, figlio del ministro per l'Ambiente, vive e lavora da anni a Bruxelles, dove ha avuto prima un incarico per l'Upi, Unione delle Province Italiane, e poi per la regione Veneto. Eleonora Di Benedetto, infine, è un giovane avvocato di 35 anni assunto da uno dei più prestigiosi studi legali di Roma: quello della madre, Paola Severino, ministro della Giustizia.

PARLIAMO DELLA RACCOMANDAZIONE: TUTTI LA RINNEGANO; TUTTI LA CERCANO.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell' Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall' ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino.

Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell' inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore.

Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008   pagina 20   sezione: cronaca)

Una generazione a perdere.

«Possiamo anche passar oltre al fatto che ancora oggi vi siano leggi fasciste a regolare la nostra vita ed ai catto-comunisti vincitori della guerra civile dell'altro millennio questo va bene, ma il grado di civiltà di una nazione si misura in base al livello di uguaglianza che viene riconosciuto ai suoi cittadini. Ed in Italia quel livello è infimo. Eppure la Costituzione lo prevede all’art. 3. Ma tra liste bloccate per amici e parenti e boutade elettorali, ogni nuova tornata elettorale, come sempre, non promette niente di nuovo: ergo, niente di buono.

I vecchi tromboni, nelle idee più che nell’età, minacciano il nostro futuro - dice il dr Antonio Giangrande, scrittore dissidente e presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie. Noi siamo figli di una generazione a perdere: senza passato, senza presente e, cosa più grave, senza futuro. Questa non è una notizia di cronaca, ma cronaca lo è. Chi scrive è definito intellettuale. Si scrive, per quanto mi riguarda, forse, perché non si ha di meglio da fare dopo una vita in cerca di lavoro e di partecipazione a concorsi pubblici truccati. Però una cosa la devo scrivere. Credo che sia tempo di dire basta con questi politicanti. Questi i problemi li creano, non li risolvono. Non si dia a loro visibilità e si parli, piuttosto, dei veri problemi della gente da lor signori causati. Gente in carcere o morta di fame. Eravamo ragazzi e ci dicevano: “Studiate, sennò non sarete nessuno nella vita”.

Studiammo con i sacrifici nostri e dei nostri genitori. Dopo aver studiato ci dissero: “Ma non lo sapete che la laurea non serve più a niente? Avreste fatto meglio ad imparare un mestiere od a fare i commercianti!”. Imparammo il mestiere o diventammo commercianti. Dopo ci dissero: “Che peccato però, tutto quello studio per finire a fare un mestiere o ad aprire una bottega?”. Ci convinsero e lasciammo perdere, anche perché le tasse erano troppe ed alte e la burocrazia inefficiente ed oppressiva. Quando lasciammo perdere, rimanemmo senza soldi, a campare con le pensioni dei genitori. Poi diventammo disperati, senza futuro e con genitori senza pensione. Prima eravamo troppo giovani e senza esperienza. Dopo pochissimo tempo eravamo già troppo vecchi, con troppa esperienza e troppi titoli, con pochi posti di lavoro occupati da gente incapace, figli di una cultura corrotta. Non facemmo figli - per senso di responsabilità - e crescemmo. Così ci dissero, dall’alto dei loro concorsi truccati vinti o lavori trovati facilmente negli anni ’60, con uno straccio di diploma o la licenza media, quando si vinceva facile davvero: “Siete dei bamboccioni, non volete crescere e mettere su famiglia”. E intanto pagavamo le loro pensioni, mentre dicevamo per sempre addio alle nostre. Ci sposammo e facemmo dei figli per dare una discendenza ad una nazione fiera dei suoi trascorsi e ci dissero: “Ma come, senza una sicurezza nè un lavoro con un contratto sicuro fate i figli? Siete degli irresponsabili”. A quel punto non potevamo mica ucciderli.

Così emigrammo. Andammo altrove, alla ricerca di un angolo sicuro nel mondo, lo trovammo, ci sentimmo bene. Ci sentimmo finalmente realizzati, ma a piangere la terra natia ed a maledire chi la governava ed anche chi li votava. Diventammo vecchi senza conoscere la felicità. Ma un giorno, quando meno ce lo aspettavamo, per il magna magna dei pochi il “Sistema Italia” fallì e tutti si ritrovarono col culo per terra. Allora ci dissero: “Ma perchè non avete fatto nulla per impedirlo?”. A quel punto non potemmo che rispondere: “Andatevene tutti affanculo, voi, la vostra claque in Parlamento ed i giornalisti foraggiati che vi danno spazio sui loro giornali e vi invitano in tv a dir cazzate!”.»

Siamo un Paese di figli e figliastri scrive Michele Ainis su “L’Espresso”. Giustissimo prendersela con gli scandali della politica.

Ma il problema è che l'Italia è divisa in due: chi è privilegiato (per conoscenze, relazioni familiari, corporazioni etc) e chi invece è abbandonato a se stesso. Scandali, sprechi, sciali. E privilegi di stampo feudale, come no. Dei politici, della loro dolce vita, ne abbiamo gli occhi pieni. E continuiamo a sgranarli ogni mattina, basta aprire un quotidiano. C'è un rischio però, anche se a enunciarlo rischi a tua volta i pomodori. Il rischio di trasformare le malefatte di Lusi o di Fiorito in un lavacro collettivo, che monda ogni peccato. I nostri, non i loro. Perché non è vero che da un lato c'è la casta, dall'altro la società dei casti. Non è vero che il furto di denaro pubblico avvenga unicamente per mano dei partiti: ce lo dicono i numeri dell'elusione fiscale, del lavoro nero, degli abusi edilizi. E soprattutto non è vero che i privilegiati siano soltanto loro. Nell'Italia delle corporazioni ormai lo siamo tutti. LE PROVE? Cominciamo dalla pappatoia delle regioni, dove i consiglieri pappano a spese dell'erario. Ma il personale burocratico non sta certo a digiuno. In Trentino i dirigenti ottengono mutui a tasso zero. In Emilia vanno in bus con uno sconto dell'85 per cento sul biglietto. In Sicilia hanno diritto a un sussidio per il matrimonio, alla colonia estiva per i figli, perfino al contributo per le pompe funebri. Senza dire dei benefit che toccano in sorte ai dipendenti delle assemblee parlamentari: quelli del Senato intascano pure la sedicesima, alla Camera uno stenografo può guadagnare più del capo dello Stato (259 mila euro lordi l'anno contro 239 mila). E gli altri? Ce n'è per tutti, anche per chi timbra il cartellino fuori dal Palazzo. I bancari lasciano il posto in eredità alla prole (almeno il 20 per cento del turnover nelle banche si svolge attraverso una staffetta tra padri e figli). Le mogli dei ferrovieri salgono in treno gratis. Gli assicuratori ci infliggono le polizze più salate d'Europa (il premio Rc auto costa il doppio rispetto alla Francia e alla Germania). I sindacalisti vengono esentati dai contributi pensionistici. I tassisti si proteggono con il numero chiuso. Al pari dei farmacisti e dei notai, che oltretutto sono creature anfibie: funzione pubblica, guadagni privati (il sigillo notarile vale 327 mila euro l'anno). Come i medici ospedalieri, ai quali s'applica l'intra moenia extramuraria: un pasticcio semantico, prima che giuridico. In pratica, devolvono il 6,5 per cento del loro fatturato all'ospedale e vanno ad operare nelle cliniche di lusso.

D'altronde ciascuno ha il proprio lusso, e se lo tiene stretto. Ai dipendenti della Siae tocca un'"indennità di penna". Ai servizi segreti un' "indennità di silenzio". Agli avvocati dello Stato una "propina" (55 milioni nel 2011). I diplomatici all'estero incassano uno stipendio doppio. Come i giudici amministrativi distaccati presso i ministeri (in media 300 mila euro l'anno). I professori universitari hanno diritto alla vacanza permanente (l'impegno annuale è di 350 ore). I giornalisti entrano nei musei senza pagare.

Chi è impiegato all'Enel fruisce d'uno sconto sulla bolletta della luce. I docenti di religione hanno una busta paga più pesante rispetto a chi insegna geografia. E c'è poi il santuario degli ordini professionali, lascito imperituro del fascismo. C'è una barriera all'accesso che protegge avvocati, architetti, commercialisti, veterinari, ingegneri. C'è il mantello dell'indipendenza che si traduce in irresponsabilità per i pm (le sanzioni disciplinari colpiscono lo 0,3 per cento della categoria). C'è una selva di privilegi processuali in favore delle banche (possono chiedere un decreto ingiuntivo in base al solo estratto conto), di privilegi fiscali per i petrolieri (pagano royalty del 4 per cento contro l'80 in Norvegia o in Russia). C'è la mammella degli aiuti di Stato (30 miliardi l'anno), da cui succhiano le imprese siderurgiche non meno di quelle cinematografiche (1,5 milioni a "L'allenatore nel pallone 2"). Sì, è esattamente questa la nostra condizione. Siamo un popolo di privilegiati e discriminati, di figli e figliastri. Senza eguaglianza, senza giustizia, senza libertà. E non basterà il faccione di Fiorito, non basterà quest'esorcismo collettivo che stiamo intonando a squarciagola, a farci ritrovare l'innocenza.

Se la Casta è dentro di noi scrive Ignazio Marino su “L’Espresso”.

«Io faccio il senatore e so per esperienza che quando le persone si rivolgono a uno di noi è sempre per chiedere un aiuto personale, una promozione, un favore. E' questa la cultura che alimenta i privilegi e uccide il merito». Non possiamo continuare a tollerare una situazione in cui il finanziamento della ricerca non è assegnato in modo concorrenziale, in cui i posti non sempre sono distribuiti in base al merito, in cui difficilmente i ricercatori possono accedere alle sovvenzioni o ai programmi di ricerca oltre confine e da cui ampie zone d'Europa restano escluse». Sono le parole di Máire Geoghegan-Quinn, commissaria europea alla ricerca e all'innovazione, che chiede di abbattere le barriere tra gli Stati per realizzare uno spazio europeo della ricerca. Uno spazio in cui l'unico giudice sia il merito e che sia misurabile, come sosteneva anche Michael Young, che nel 1958 coniò il neologismo "meritocrazia". Agli appelli pressanti, che arrivano anche dall'Europa, l'Italia continua a rispondere con la sua cultura anti-merito. Si inizia con la scuola, dove copiare il compito del compagno è tollerato e non è considerato un fatto riprovevole. Anzi, lo sciocco è chi non copia. E si continua per tutta la vita quando, nonostante l'odio contro la casta, ci si rivolge a un politico per chiedere una raccomandazione, un posto di lavoro, una promozione, un trasferimento, per saltare la lista d'attesa in ospedale. Lo dico per esperienza personale: purtroppo è raro che le persone mi cerchino per presentarmi un progetto in cui credono mentre è più comune la richiesta di un aiuto personale, e quando rispondo che l'unica raccomandazione che mi sento di fare è chiedere a ogni commissione di scegliere il migliore, leggo delusione negli occhi del mio interlocutore, non apprezzamento.

Questa mentalità è così diffusa che fa sì che la nostra società sia profondamente diseguale e soffra di una scarsissima mobilità sociale proprio per la mancanza di cultura del merito che non permette ai migliori di correre, e magari vincere, quella gara verso l'alto, qualunque sia la loro base sociale di partenza. La conseguenza è visibile anche nel fatto che l'Italia da anni ormai rimane saldamente ancorata agli ultimi posti nelle classifiche internazionali per efficienza, qualità dei servizi, stima nei dipendenti pubblici. Il merito, infatti, non serve solo al singolo individuo quale giusto e doveroso riconoscimento dell'impegno e delle sue capacità personali ma è fondamentale per fare funzionare meglio l'intero sistema. Il settore dell'aeronautica rappresenta un valido esempio: ogni pilota d'aereo possiede un log-book, un libretto sul quale vengono annotati i dettagli di ogni volo, gli errori, i rischi, le manovre giuste, in pratica tutta la storia professionale. Su quella base si valutano le qualità del singolo pilota ma si studiano anche i punti deboli e gli elementi di fragilità del sistema. E così non solo si correggono ma si prevengono gli errori. Perché non immaginare un sistema simile anche per la sanità? Se per esempio si potesse conoscere tutto ciò che un medico ha fatto dal suo primo giorno in ospedale, quelle informazioni diventerebbero un biglietto da visita importantissimo, ma anche un elemento di valutazione, trasparente e oggettivo, per la sua carriera e più in generale per l'efficienza e la sicurezza del servizio sanitario. La cultura del merito non si può imporre per decreto e quando il governo sostiene che la spending review servirà a rendere più efficiente l'amministrazione pubblica dice una bugia, perché servirà solo a fare cassa. Per incidere sull'efficienza e per premiare i migliori servono tempo e strategia, iniziando con la raccolta dei dati e con la loro analisi. E poi serve una motivazione intrinseca, che non è data dalla prospettiva di un aumento di stipendio o da uno scatto di carriera ma dalla convinzione che ogni sforzo personale possa avere un effetto positivo su tutti. E' così ambizioso iniziare a considerare la parola merito non come un insulto? O smettere di pensare che sia una prerogativa esclusiva del mondo anglosassone? E' vero, la cultura del merito non ce l'abbiamo nel sangue ma dobbiamo infonderla nelle nostre vene, soprattutto in quelle dei giovani affinché non si sentano predestinati a non cambiare mai.

Ecco perchè il cittadino, per egoismo personale, vende la sua anima al diavolo.

LA MAFIA DELLE RACCOMANDAZIONI. MARTONE, LE VITTIME, SFIGATI A PRESCINDERE.

Parliamo di lavoro. A proposito del viceministro al Lavoro Martone e di Sfigati. Su “L’Espresso”, così come su tantissimi giornali nazionali o locali, vi è stata pubblicata una lettera aperta del Dr. Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS. Da 20 anni partecipa al concorso forense: i suoi compiti non sono corretti, ma dichiarati tali da commissioni composte e presiedute da chi è stato da lui denunciato perché trucca l’esame. Il Tar di Lecce respinge i suoi ricorsi, nonostante vi siano decine di motivi di nullità. «Il viceministro Martone provoca i fuori corso universitari: "Se a quell'età sei ancora all'università sei uno sfigato". Ha ragione, eppure finisce alla gogna. Polemiche pretestuose sulla frase da chi ha la coda di paglia. Michel Martone, viceministro del Lavoro secondo il quale un 28enne non ancora laureato è spesso "uno sfigato". Ha ragione e lo dico io, Antonio Giangrande, uno che si è laureato a 36 anni, sì, ma come?

A 31 anni avevo ancora la terza media. Capita a chi non ha la fortuna di nascere nella famiglia giusta.

A 32 anni mi diplomo ragioniere e perito commerciale presso una scuola pubblica, 5 anni in uno (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), presentandomi da deriso privatista alla maturità assieme ai giovincelli.

A Milano presso l’Università Statale, lavorando di notte perché padre di due bimbi, affronto tutti gli esami in meno di 2 anni (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità), laureandomi in Giurisprudenza.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ho fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Mio figlio Mirko a 25 anni ha due lauree ed è l’avvocato più giovane d’Italia (non gliene frega a nessuno dell’eccezionalità).

Primina a 5 anni; maturità commerciale pubblica al 4° anno e non al 5°, perché aveva in tutte le materie 10; 2 lauree nei termini; praticantato; abilitazione al primo anno di esame forense.

Un genio, no, uno sfigato, sì, perché ha fatto sacrifici per nulla: fuori dall’università ti scontri con una cultura socio mafiosa che ti impedisce di lavorare.

Alla fine si è sfigati comunque, a prescindere se hai talento o dote, se sei predisposto o con intelligenza superiore alla media. Sfigati sempre, perché basta essere italiani nati in famiglie sbagliate.»

Tale lettera è inserita in una inchiesta più larga su un malcostume ed illegalità noto ed utile a tutti. E si viene a sapere da Gianluca Di Feo su  “L’Espresso” che l'amico del padre del viceministro (quello degli 'sfigati') andò dal potente senatore del Pdl, Dell'Utri, per far sistemare il giovane. Lo ha detto, a verbale, Arcangelo Martino, imprenditore al centro dell'inchiesta sulla P3. «Mi sono ricordato che Martone sosteneva che attraverso il partito voleva dare una risposta lavorativa al figlio». Arcangelo Martino ha uno stile spiccio, spesso approssimativo. Del figlio di Martone dice che «fa il commercialista, una cosa del genere».  L'imprenditore è considerato uno dei pilastri della P3, la cricca che interveniva per pilotare le cause in Cassazione e in molti tribunali. Ma durante l'interrogatorio in carcere davanti ai pm romani ricostruisce in modo netto il principale interesse di Antonio Martone, all'epoca potente avvocato generale della Cassazione: sistemare il figlio, ossia Michel il giovane enfant prodige del governo Monti, pronto ad attaccare gli studenti fuori corso e le lauree tardive. Il suo curriculum di professore ordinario a soli 29 anni era anche - stando ai verbali - nelle mani degli uomini della P3. Martino dichiara che assieme a Pasqualino Lombardi, l'altro protagonista dell'inchiesta P3, si sarebbero presentati a Marcello Dell'Utri chiedendo di intervenire in favore del ragazzo. Sarebbe stato Lombardi a sollecitare la raccomandazione, accompagnata dalla lista dei meriti accademici del giovane al senatore del Pdl. Ottenendo una risposta vaga: «Va be' vediamo». Tanta premura per il rampollo non nasceva da una solidarietà amicale. L'interesse della P3 era chiaro: volevano che il padre intervenisse per sistemare la causa sul Lodo Mondadori, ossia il processo contro l'azienda di Silvio Berlusconi a cui era contestata un'evasione fiscale da circa 300 milioni, e sollecitasse un voto positivo della Consulta sul Lodo Alfano che garantiva l'immunità al premier. Due questioni strategiche per il Cavaliere che Pasqualino Lombardi e i suoi sodali volevano mettere a posto grazie all'aiuto di Martone, come spiegano ai magistrati. Antonio Martone ha dichiarato di non avere mai chiesto raccomandazioni per il figlio. L'uomo ha lasciato la suprema corte dopo la diffusione delle intercettazioni su suoi contatti con gli emissari della P3. Nunzia De Girolamo, parlamentare pdl, ha descritto la presenza dell'avvocato generale ai pranzi da Tullio dove ogni settimana Lombardi riuniva i suoi compagni di merende. «Ricordo che erano presenti il sottosegretario Caliendo e diversi magistrati. Tra loro Martone, Angelo Gargani e un magistrato del Tribunale dei ministri». Il geometra irpino Lombardi si mostra capace di grandi persuasioni, come ricostruisce la De Girolamo: «Ricordo anche che Martone diceva di volere andare via dalla Cassazione e che Lombardi non era d'accordo e cercava di convincerlo a restare.

Diceva che stava bene lì, che era un punto di riferimento lì. Martone insisteva dicendo che voleva fare altre esperienze e che preferiva andare da Brunetta».  Proprio da Brunetta era poi venuto il primo incarico di consulente da 40 mila euro l'anno per Michel Martone, mentre al padre andavano ruoli direttivi. Ma Lombardi e Martino si impegnavano per trovare «attraverso il partito una risposta lavorativa» migliore per il professore in erba. Che due anni esatti dopo l'incontro tra Lombardi e Dell'Utri per trovargli un posto «attraverso il partito» è arrivato al governo Monti.

Poletti jr e gli altri figli dei ministri col lavoro assicurato. Dai banchi del governo hanno attaccato precari, bamboccioni, choosy. E ora pure gli expat. Ma a casa loro..., scrive "Lettera 43” il 21 dicembre 2016. Prima furono i bamboccioni, poi i choosy, gli sfigati e, ancora, i nostalgici della «monotonia» del posto fisso. Poteva Giuliano Poletti non dare il suo contributo alla lista di offese governative ai giovani disoccupati, non ancora laureati o desiderosi di un tempo indeterminato che non arriva mai? Certo che no. E così il ministro del Lavoro davanti alla fuga di 100 mila giovani all'estero ha commentato in modo sprezzante che «questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi». Inutili le scuse per l'espressione un po' troppo colorita, soprattutto davanti a una disoccupazione giovanile al 36,4% (anche se è il valore più basso degli ultimi quattro anni, sic), al neo schiavismo dei voucheristi e all'aumento della precarietà effetto del Jobs Act. Il primogenito di Poletti, invece, è uno di quei giovani (nel senso italico del termine visto che di anni ne ha 42) «non pistola» che hanno deciso di restare in patria. E dire che l'ex sottosegretario Michel Martone lo avrebbe definito uno «sfigato» visto che è sensibilmente fuoricorso («Se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato», a essere precisi). Chissà poi cosa ne pensa il padre, visto che nel 2015 il ministro cadde in un'altra boutade impopolare sui fuori corso. «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21», disse agli studenti all'inaugurazione di Job&Orienta. Una giustificazione, però, Poletti jr ce l'ha: in questi anni si è dedicato al lavoro e alla famiglia, ha raccontato al Fatto quotidiano. Già il lavoro. Manuel dirige il settimanale Sette Sere Qui diffuso tra Faenza, Lugo Ravenna e Cervia. L'editore è la Coop Media Romagna di cui il figlio del ministro è presidente. Il giornale nel 2015 ha ottenuto 190 mila euro di contributi pubblici, 521.598 in tre anni. Ma lui, ha assicurato, guadagna 1.800 euro al mese. Il solito welfare cooperativo. Come si diceva, Poletti non è certo il solo ad avere preso di mira i giovani, salvo poi poter vantare prole sistemata, stipendiata e soddisfatta. E molto probabilmente pure meritevole e talentuosa, ma questo è un altro discorso. Si prenda per esempio l'ex premier Mario Monti che definì monotono il posto fisso. «I giovani devono abituarsi all'idea di non avere più il posto fisso a vita: che monotonia», disse a febbraio 2012. «È bello cambiare e accettare delle sfide». E, infatti, suo figlio Giovanni Monti di lavori ne ha cambiati parecchi, sempre fissi però. L'enfant prodige bocconiano, classe '73, dopo un po' di "gavetta" come consulente alla Bain and Co, è passato dalla vicepresidenza di Citigroup a quella di Morgan Stanley. Nel 2009 entrò in Parmalat chiamato dall'allora commissario straordinario Enrico Bondi per occuparsi di business development. Esperienza che finì con dimissioni ctinte di giallo. Presso quali lidi sia approdato Monti jr difficile dirlo oggi, anche perché ai tempi della bufera cancellò il suo profilo da Linkedin. Invece, come ha ricordato Il Giornale, qualcosa in più si sa di Federica Monti, la secondogenita, che ha lavorato presso lo studio Ambrosetti, quelli dell'omonimo forum di Cernobbio. Alla faccia della monotonia, Federica ha pure sposato Antonio Ambrosetti: tutta casa e lavoro, insomma. Dai monotoni ai choosy, il passo è breve. Anche Elsa Fornero, che di Monti era ministro del Lavoro, invitò a smettere di cercare un posto a tempo indeterminato. «Il lavoro fisso?», disse, «Un'illusione». Insomma, aggiunse materna, «non bisogna mai essere troppo "choosy" (schizzinosi, ndr), meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro e non aspettare il posto ideale». Sua figlia Silvia Deagliodeve essere stata fortunata. Nata nel 1974, sposata con un dirigente Unicredit, Deaglio è professore associato alla facoltà di Medicina e chirurgia dell'Università di Torino, lo stesso in cui insegnano i genitori. Per sconfiggere la monotonia montiana, la professoressa ricoprì anche un ruolo come «responsabile dell'unità di ricerca» della fondazione HuGeF, attiva nel campo della genetica. Un cervello non in fuga il suo. Anche perché, come scrisse il Fq, la fondazione riuscì a ottenere dai ministeri della Salute e della Ricerca «quasi 1 milione di euro in due anni, 500 mila nel 2008, 373.400 e 69 mila nel 2009». Ma i tecnici non sono stati gli unici ad aver dispensato consigli (non richiesti) alla popolazione di giovani precari italiani. Nel 2008 pure Silvio Berlusconi propose la sua ricetta. Durante la trasmissione Tg2 Punto di vista, a una ragazza che chiedeva come fosse possibile mettere su famiglia senza un'occupazione stabile rispose: «Da padre il consiglio che le do è quello di ricercarsi il figlio di Berlusconi o di qualcun altro che non avesse di questi problemi. Con il sorriso che ha potrebbe anche permetterselo». Dopo nove anni, quello del Cav resta - purtroppo e al netto delle comprensibili polemiche - l'unico bagliore di realtà. A sua insaputa.

Dal familismo amorale al familismo immorale. Famiglie italiane e società civile, scrive Francesco Benigno l'1 Luglio 2010 su “Italiani Europei”. In un’Italia in cui abbondano i “bamboccioni” e in cui emerge una tendenza ad “ereditare” anche gli incarichi pubblici tornano in auge le riflessioni sull’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella sfe­ra pubblica. Ad un familismo che avrebbe ormai as­sunto i caratteri dell’amoralità – se non dell’immo­ralità – viene imputato il mancato radicamento dell’etica pubblica nel nostro paese. Quanta realtà e quanta mistificazione vi sono nel delineare questa presunta antitesi fra familismo e civismo? Periodicamente la famiglia torna sotto i riflettori dell’opinione pubblica, indagata come possibile matrice dei mali del “bel Paese”, scrutata come depositaria e riproduttrice delle virtù e, più spesso, dei vizi del carattere nazionale. In una recente intervista a “La Repubblica”, in cui vengono sintetizzati i risultati di una ricerca storica collettiva dedicata alle famiglie italiane nel Novecento, Paul Ginsborg ha riproposto nuovamente il tema del familismo come una possibile chiave di lettura della realtà italiana contemporanea. In un’Italia ripiegata su se stessa, in cui le giovani generazioni faticano a staccarsi dalle mura domestiche per progettare un futuro autonomo (i bamboccioni del ministro Brunetta), in cui ruoli politici e candidature passano disinvoltamente di generazione in generazione come fossero ereditarie (il figlio del ministro Bossi), e in cui recenti scandali coinvolgono responsabilità genitoriali (la «casa per la figlia» del ministro Scajola), conviene interrogarsi ancora – sostiene lo storico inglese naturalizzato italiano – sul concetto di familismo. Familismo è un’espressione famosa nel lessico delle scienze sociali, soprattutto dopo che nel 1958 lo studioso statunitense Edward Banfield ebbe coniato il concetto di «familismo amorale» per designare i comportamenti, descritti come angustamente individualistici, della gente di Montegrano (in realtà Chiaromonte, un isolato villaggio lucano). Lo studio di Banfield ha avuto una larga eco nel dibattito pubblico sulla questione meridionale, divenendo per alcuni (ma in modo assai contestato) una delle possibili spiegazioni delle carenze dello spirito pubblico nel Sud del paese. Successivamente, da Carlo Tullio Altan a Robert Putnam, è stato una ricorrente fonte di ispirazione per tutti coloro che si sono impegnati in schemi dualistici di raffigurazione della storia italiana. Ora Ginsborg lo recupera e, pur criticandolo, ne allarga la portata, fino ad usarlo per descrivere l’intero atteggiamento del “paese Italia”: anzi, richiamando il ben noto detto del «tengo famiglia» – e definito sorprendentemente non uno stereotipo ma la sintesi di «una filosofia antica e tipicamente italiana» – egli attribuisce al familismo, non più solo amorale ma ormai scopertamente immorale, il mancato radicamento di un’etica pubblica, di quel senso della collettività che è invalso nelle scienze sociali chiamare civicness. La tesi di Ginsborg, modellata sugli schemi dicotomici cari a tanta sociologia classica, è a prima vista suadente, e sembra anzi farsi forza di una sorta di riconoscimento immediato, un asseverarsi intuitivo che si nutre di evidenze: in Italia oggi saremmo di fronte alla ricorrente tendenza al tradimento della fedeltà allo Stato per arricchire parenti e consanguinei. Il familismo amorale, tracimando, si mescolerebbe così con l’uso delle risorse pubbliche per interessi privati, con il clientelismo. Può essere interessante rilevare – osserva Ginsborg – come nell’Europa mediterranea «questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione nell’Italia di oggi è il prevalere dell’organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro diventa fondamentale la relazione con il potente che garantisce determinati accessi per te e per i tuoi figli, da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia». Al fondo starebbe dunque una verità nascosta: insieme alla tardiva formazione dello Stato democratico, la chiave di volta dell’eccezione italiana, quel qualcosa che impedisce alla nazione di essere un paese normale, sarebbe il familismo, e cioè l’eccessivo potere assegnato alla famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il familismo svolge così nella visione di Ginsborg quel ruolo che un tempo era assegnato dalla retorica nazionalista al «particolarismo», un principio distruttivo e disgregatore di più ampie e morali solidarietà. La contrapposizione non potrebbe essere più netta: da una parte l’individualismo egoista nutrito nella culla familista e dall’altra l’etica pubblica solidaristica, cresciuta nell’alveo della società civile; da un lato una ricorrente tentazione alla gretta chiusura familistica e dall’altro una società civile colta, indipendente, reattiva, pronta ad organizzarsi e ad esprimere valori universalistici di partecipazione e di associazione; e ancora, per un verso un assetto sociale in cui il rapporto dominante è quello tra l’individuo e la famiglia, per l’altro compagini in cui al centro della vita individuale sta la relazione, variamente disposta, con lo Stato. A questa contrapposizione idealtipica corrisponde puntualmente una distribuzione geografica, o meglio una geopolitica dei valori. Secondo Ginsborg sarebbe familista l’Europa mediterranea: un insieme variegato e composito formato in buona sostanza dall’area dei cosiddetti PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) più i paesi mediorientali di tradizione islamica, descritti – questi ultimi – come comunità endogamiche, use al frequente matrimonio tra cugini primi e alla coabitazione delle coppie sposate coi genitori del maschio: tratti familiari che, uniti alla strutturazione clanica, avrebbe condizionato in senso negativo la crescita della società civile. In buona sostanza, l’accostamento di regioni così diverse funziona solo in negativo: esse sarebbero tutte segnate da una debole civicness a causa di strutture familiari troppo forti; sorta di controprova del successo del core nordeuropeo dello sviluppo economico (e insieme morale). In questa parte privilegiata del mondo (Inghilterra, Olanda e Scandinavia, più alcune aree della Germania e degli Stati Uniti) l’esistenza di famiglie più deboli e meno gerarchiche avrebbe permesso agli individui la libertà, gli spazi e i tempi per la partecipazione alla vita pubblica, da Ginsborg identificata con «la possibilità di sperimentare ed esplorare liberamente il variopinto mondo dell’associazionismo». La tesi della contrapposizione tra famiglie forti e famiglie deboli si può dimostrare, sostiene Ginsborg – che riprende qui tesi avanzate dal demografo David Reher – grazie all’analisi di tre piani distinti: quello delle strutture di coresidenza, dei sistemi demografici familiari e dei valori casalinghi. L’analisi comparativa delle strutture familiari di coresidenza è stata introdotta nel dibattito delle scienze sociali da Peter Laslett, uno dei padri della moderna storia della famiglia. Nella sua visione le famiglie inglesi (ma non irlandesi o scozzesi) e più in generale nordeuropeo-occidentali sarebbero state caratterizzate dal Cinquecento in poi da alcune caratteristiche specifiche: struttura nucleare, età tardiva della sposa, residenza neolocale. Grazie a queste caratteristiche, la famiglia inglese, portatrice di comportamenti virtuosi secondo l’etica maltusiana (con un’età tardiva al matrimonio cui corrispondeva un minor numero di figli) sarebbe stata il vero motore occulto della marxiana «accumulazione originaria», prodromo della rivoluzione industriale. A questo idealtipo dello sviluppo corrisponde, nella tipologia di Laslett, un idealtipo dell’arretratezza, costituito da famiglie variamente allargate, patriarcali, conviventi per più generazioni sotto lo stesso tetto, ordinate da strutture gerarchiche e costrittive, modellate sulle descrizioni fornite da antropologi anglosassoni dell’Europa meridionale e orientale: famiglie di pastori berberi o balcanici, di mezzadri toscani, di contadini calabri, di pescatori cantabrici. Va da sé che questi due modelli risultano – in quella visione – inscritti in un percorso evolutivo, un processo che prevede il passaggio da forme ritenute tradizionali o primitive ad altre reputate moderne. Questo schema semplificato e riduttivo è stato da tempo criticato e in gran parte abbandonato, ma la sua influenza continua ad avvertirsi nel discorso delle scienze sociali e nel dibattito pubblico. Malgrado l’evidenza, ad esempio, che in gran parte del Mezzogiorno la famiglia nucleare sia stata storicamente prevalente e le strutture di famiglie estese e complesse siano state invece minoritarie, l’idea che si possa trovare nella composizione familiare la chiave dell’arretratezza, il santo Graal della backwardness, non è stata mai abbandonata. È accaduto così che, scoperta negli anni Ottanta la cosiddetta Terza Italia, l’area valligiana centrosettentrionale a piccola impresa industriale diffusa, ci si è chiesti se non fosse da cercare nella struttura complessa, gerarchica e patriarcale della famiglia estesa mezzadrile, nella sua abitudine alla cooperazione nell’uso delle risorse comuni (il podere) il segreto del successo economico di questa parte del paese; laddove alla famiglia nucleare meridionale, descritta “alla Banfield” sarebbe venuta a mancare questa fondamentale risorsa cooperativa. In breve, patriarcale o nucleare che sia la famiglia, il risultato non cambia mai, se si continua inutilmente a porre la struttura familiare come pietra filosofale nell’eterna ricerca alchemica delle ragioni del sottosviluppo economico (o civico). Il secondo piano chiamato in causa da Ginsborg è quello dei sistemi demografici familiari. Si tratta di uno schema interpretativo elaborato a suo tempo dal demografo John Hajnal, che aveva prospettato l’esistenza nell’Europa moderna (dal XVI secolo in poi) di due sistemi familiari prevalenti e opposti fra loro: il primo, quello nordoccidentale, contraddistinto da una elevata età al matrimonio (soprattutto femminile) e strutture di residenza neolocali, e caratterizzato dall’abitudine di abbandonare presto la casa paterna per andare a servizio; il secondo, mediterraneo e orientale, a bassa età al matrimonio, segnato dalla preferenza per la convivenza di più generazioni nella stessa casa e dalla riluttanza a lasciare la famiglia d’origine. Questo schema, fuso in vari modi col precedente e formulato ancora una volta per spiegare le ragioni (virtuose) del primato economico nordoccidentale, divideva l’Europa secondo un’immaginaria linea disposta tra San Pietroburgo a Trieste, sì da isolare l’Europa nordoccidentale, vincente, e separarla dalla meno corretta, attardata e perdente “altra Europa” meridionale e orientale. Anche in questo caso le critiche all’impostazione di Hajnal non sono mancate, e hanno toccato sia l’inesistenza di una correlazione tra strutture neolocali ed età al matrimonio, sia l’inefficacia di isolare l’età al matrimonio come unica variabile indipendente e cioè senza considerare il regime demografico (soprattutto i tassi di mortalità) in cui è inscritta. Ma se l’applicabilità dello schema di Hajnal all’Europa preindustriale è assai dubbia, l’opportunità di isolarne solo un tratto (come l’età di abbandono della casa dei genitori) per determinare l’esistenza di famiglie “forti” o “deboli” oggi, a “rivoluzione demografica” da tempo conclusasi (con la conseguente completa equiparazione di tutti gli indicatori demografici fondamentali), appare alquanto controversa. Il dubbio grava specialmente sull’intento di inferire dalla comparazione delle diverse età nella fuoriuscita dalla famiglia di origine non un diverso livello delle opportunità, una differente struttura delle chances di mobilità, una variabile disposizione del mercato delle abitazioni, dei servizi e così via (tutte carenze rispetto a cui le strutture familiari possono funzionare da “ammortizzatori”) ma argomenti a sostegno di una tendenza culturale, riassumibile nello stereotipo indimostrato dell’italiano “mammone”, ovvero la predisposizione italica (ma poi, a seconda dei casi, meridionale, mediterranea oppure orientale) a convivere fino all’età adulta sotto lo stesso tetto dei propri genitori, una specie di tara insita nel carattere nazionale. Viceversa, la tendenza inglese di mandare presto i figli fuori di casa, un tempo a servizio, oggi a studiare, non viene collegata ad un sistema ereditario, quello dello one sole heir, che prevede la possibilità per i genitori di concentrare l’asse ereditario su un unico figlio a scelta, con la conseguente necessità di far sì che gli altri si costruissero una propria strada fuori dalle mura domestiche; e v’è da chiedersi se tale plurisecolare tradizione giuridica, decisamente volta alla conservazione del patrimonio familiare in barba a principi di elementare equità non possa con qualche ragione essere qualificata, essa sì, come “familista”. Infine, Paul Ginsborg, sulla scorta dei suoi studi precedenti, propone di dividere le famiglie in “aperte” e “chiuse”. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una polarità. Da una parte ci sono le famiglie che «sviluppano al loro interno, nelle loro conversazioni e tradizioni, un’apertura nei confronti della società e dei suoi problemi, una disponibilità dei componenti ad impegnarsi in associazioni e movimenti, un concetto della casa come spazio domestico poroso e accogliente»; mentre dall’altra «quelle che considerano la famiglia come una fortezza e vivono la vita familiare come un bene prezioso in costante pericolo»: queste ultime famiglie sono autoreferenziali e non aperte, come è evidente dalle loro case, che rifletterebbero questi atteggiamenti «sia nell’architettura sia nei sistemi di protezione». Anche in questo caso nessuna relazione è ipotizzata tra architettura e sistemi di protezione abitativa e livelli di reddito e di criminalità (reali o percepiti) del contesto sociale. Quest’ultima polarità si affiancherebbe così alle prime due, anche se con modalità piuttosto oscure, sicché non è chiaro se sia lecito aspettarsi una relazione positiva tra una certa struttura familiare, un dato sistema familiare e determinati valori casalinghi. È interessante notare come questa ripresa della chiave interpretativa familistica avvenga tuttavia in un clima intellettuale profondamente diverso da quello in cui essa fu forgiata: durante il mezzo secolo di storia del concetto di familismo amorale il tema cardine verso cui si è indirizzata l’analisi è stato quello dello sviluppo economico – verso il quale esso finiva per svolgere in negativo più o meno lo stesso ruolo che l’etica protestante svolge nella celeberrima tesi di Max Weber relativa allo sviluppo del capitalismo. Oggi, tuttavia, tale prospettiva appare per molti aspetti usurata. È significativo che sia stato proprio Ginsborg a rigettare l’avventurosa affermazione formulata da Francis Fukuyama in un suo libro intitolato “Trust” secondo la quale il familismo andrebbe in sostanza considerato un freno al dispiegarsi della fiducia collettiva e dunque alla qualità dello sviluppo economico capitalistico, con la conseguente classificazione delle liberaldemocrazie in più moderne e sviluppate (Germania, Giappone, Stati Uniti) e meno moderne (Cina, Corea del Sud, Francia e Italia). Nello stroncare tali elucubrazioni, fondate sulla ripresa di un concetto carico di «insensato determinismo antropologico», Ginsborg ricordava giustamente come tutta l’industria più avanzata e attiva sia in Italia, e non solo in Italia, a base familiare. È interessante in questa discussione il ruolo che finiva per giocare il Meridione come antitipo della modernità. Fukuyama infatti – basandosi ancora una volta su Banfield – indicava il Sud dell’Italia come un caso estremo, come l’area limite dell’Europa progredita, quella in cui la fiducia collettiva non poteva dispiegare i suoi benefici effetti sull’economia a causa di un tratto culturale familista che egli qualificava in modo assai bizzarro come «confucianesimo»: affermazione che oggi nessuno si sentirebbe di ripetere, non perché il confucianesimo non sia stato un credo che abbia privilegiato il ruolo della famiglia, ma perché, nel frattempo, lo straordinario successo industriale cinese ha insinuato più di qualche dubbio non solo sulla veridicità ma anche sulla semplice sensatezza di queste contrapposizioni. Vi è in queste tesi un tratto evidentemente paradossale: il comportamento degli abitanti di Montegrano, così scopertamente orientato a massimizzare l’utile, diviene il prototipo di un’etica in fondo anticapitalistica; e ciò dopo che – com’è stato acutamente notato – sin dai filosofi morali scozzesi del Settecento la retorica liberista ha teorizzato l’ostinato e angusto perseguimento di fini personali come necessaria premessa al dispiegarsi del bene collettivo, secondo la celebre palingenesi dei vizi privati in pubbliche virtù. Il familismo resuscitato da Ginsborg non è più dunque quello di una volta; non costituisce più una chiave per spiegare il maggiore o minore successo economico: egli ne opera una vistosa revisione, torcendo il concetto in senso culturalista ed etico. Opponendosi a quelle concezioni del capitale sociale che da un lato puntano a sganciarlo dal sistema dei valori, e dall’altro a farne una base per nuove tassonomie economiche, questa visione tende a qualificare il capitale sociale come impegno civico, e a ribadire un nesso tra civismo e alcune pratiche associative, distinte sul piano valoriale e, verrebbe da dire, politico. La società civile viene infatti descritta come un essere fragile e in pericolo, assediata da mali antichi e nuovi, che hanno il nome di clientelismo, corruzione, familismo, nepotismo, monopolio mediatico. Si tratta, in altre parole, di un malato, per il quale Ginsborg propone la cura della democrazia partecipativa economica, citando l’esempio dei soviet ma sostituendo il soggetto portatore delle speranze di rinnovamento: non più evidentemente la classe operaia ma «la popolazione urbana istruita del Nord del mondo», solo provvisoriamente (anche se alquanto volontariamente) «assoggettata al capitalismo consumista e all’arricchimento personale». Evidentemente non tutti i modi di partecipare alla vita sociale risultano, in questa prospettiva, «civici» allo stesso modo: non lo sono i rapporti di vicinato, una partecipazione che «non equivale al vero impegno civico», non l’appartenenza alle associazioni di categoria, inficiate da evidenti interessi particolaristici, non i legami comunitari e l’affiliazione a movimenti di rivendicazione locale a base identitaria, sospetti di razzismo e xenofobia, e non (si suppone) quel vasto mondo, alquanto elitario, di club e associazioni di ex allievi, sorta di compagnonnage delle professioni liberali così diffuso in quella cultura anglosassone che affida al college una parte importante della formazione dei giovani. Ma soprattutto sembra esservi in questa concezione del civismo uno spazio limitato per la partecipazione basata su schemi ideologici o ideologico-religiosi: dovendosi in questo caso prendere in considerazione non solo i dimostranti di Teheran e di Bangkok e i partecipanti all’universo del volontariato ma evidentemente anche i membri dei movimenti del risveglio religioso cristiano, i fanatici antisionisti, gli iscritti a partiti che propugnano l’ineguaglianza sociale o l’esaltazione di figure di leader telegenici dal senso civico alquanto incerto. E dire che nella raccolta di saggi contenuti in “Famiglie del Novecento” vi erano esempi molto diversi, in grado di allargare la visione a famiglie cattoliche familiste ma disobbedienti ai precetti dell’enciclica “Humanae Vitae” del 1968 o a famiglie comuniste fortemente coese (entro quelle reti di vicinato e di comunità intessute di tradizione politica costitutive delle cosiddette Regioni rosse) ma al contempo devote al partito, controfigura e promessa dello stato socialista che verrà, e in un modo così assoluto da fare esclamare a Marina Sereni: «Il Partito si è fuso per me con la mia vita privata così strettamente e completamente da darmi sempre la certezza di essere una particella di quella immensa forza che porta il mondo in avanti». Solo una visione fortemente limitata della società civile permette di opporla specularmente al familismo, un’attitudine di cui non viene spiegato sulla base di quali parametri possa essere indagata. Gli studi condotti in questo senso dai sociologi mediante interviste qualitative volte a comprendere cosa la gente pensi della propria famiglia e della società che la circonda offrono migliori spunti di riflessione. Loredana Sciolla, ad esempio, ha argomentato con forza che, scomponendo il concetto di cultura civica nelle sue componenti diverse (valoriale, fiduciaria, identitaria) la supposta antitesi tra familismo (l’atteggiamento di chi ha fiducia esclusivamente nella famiglia) e civismo risulta falsa, che gli italiani non mostrano un abnorme attaccamento alla famiglia ma simile o anche inferiore a quello di popoli di radicata cultura civica, che le regioni meridionali sono meno familiste della media nazionale e più inclini ad avere fiducia nelle istituzioni. Sicché non resta che concludere con Giulio Bollati che «ogni discorso sull’indole, la natura, il carattere di un popolo appare come un’equivoca combinazione di conoscenza e di prescrizione, di scienza e di comando. Quello che un popolo è (o si crede che sia) non si distingue se non per gradi di dosaggio da ciò che si vuole debba essere».

Poletti, il calcetto e tutte le gaffe su giovani e lavoro. Dai "bamboccioni" di Padoa Schioppa alla monotonia del posto fisso di Monti. Oltre Poletti, tutti i politici che sono scivolati sui giovani e il loro futuro, scrive Maria Franco il 29 marzo 2017 su "Panorama". Questa volta non si è trattato di un congiuntivo sbagliato, di un errore di geografia, di una citazione erroneamente attribuita e nemmeno di sviste sulla Costituzione. A scatenare la polemica che ha investito il ministro del Lavoro Giuliano Poletti è stata infatti una frase espressa in italiano corretto, secondo molti anche onesta nel contenuto ma per tutti tragicamente inopportuna.

Il calcetto. Incontrando gli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna, Poletti ha infatti suggerito loro di coltivare il più possibile le relazioni sociali. Nulla di male se non avesse anche aggiunto che per trovare lavoro è “più utile giocare a calcetto che mandare in giro curricula”. Molte ricerche gli danno ragione: secondo i dati Isfol solo il 3% trova lavoro attraverso i centri per l'impiego mentre “l’Italia continua ad essere un paese – ha dichiarato il Commissario straordinario dell'ente pubblico di ricerca Stefano Sacchi - dove per trovare lavoro conta moltissimo la rete di conoscenze che un individuo può mettere in campo”. Eppure il ministro è stato travolto da critiche e attacchi e le opposizioni, Lega e Movimento 5 Stelle in testa, ne hanno chiesto le dimissioni.

I cervelli in fuga. D'altra parte il ministro del Lavoro non è nuovo a questo tipo di esternazioni scivolose. Qualche mese fa, a colloquio con dei giornalisti in difesa del Jobs Act, Poletti usò frasi piuttosto sprezzanti nei confronti di chi decide di lasciare l'Italia per cercare miglior fortuna all'Estero: “conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Anche allora il ministro tentò di correggere il tiro e si scusò: “non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero. Penso, semplicemente, che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri”. Un'altra polemica risale a circa un anno fa quando sempre Poletti dichiarò che “prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”.

Fornero e i giovani “choosy”. Tra i ministri meno amati nella storia della Repubblica italiana, Elsa Fornero viene ancora oggi ricordata come la professoressa che ha sbagliato i conti sui cosiddetti “esodati” e che ha dato dei “choosy” (schizzinosi) ai giovani che non si accontentano di ciò che gli viene offerto quando si affacciano al mondo del lavoro. Per esattezza ciò che allora fece la ministra fu elargire loro il consiglio di “non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi”. Ricordando ciò che ella era solita dire sempre ai suoi studenti, Fornero suggeriva che fosse opportuno prendere subito il primo lavoro che capitava per poi “da dentro” guardarsi intorno. Anche in questo caso sarebbe ipocrita negare che il 99% dei genitori italiani suggeriscano la stessa cosa ai loro figli. Ma da un ministro del Lavoro i giovani italiani si aspettano non consigli bensì soluzioni che li sottraggano a un futuro da precari a tempo indeterminato.

Monti e il posto fisso. Certo è che dentro il governo Monti, di cui Fornero ha fatto parte, il posto fisso non ha mai goduto di un particolare favore. “Che noia” dichiarò infatti l'allora premier Mario Monti a Matrix. “I giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per tutta la vita. Del resto, diciamo la verità, che monotonia un posto fisso per tutta la vita. È più bello cambiare”. Peccato che in un Paese dove, secondo dati Istat, la disoccupazione giovanile si attestava a gennaio al 40,6%, il problema non è più nemmeno quello di trovare un posto fisso ma di trovarne uno qualsiasi.

Anna Maria Cancellieri e i mammoni. Quasi che denigrare i giovani fosse diventata l'ossessione di molti dei membri del governo Monti, anche l'allora ministro dell'Interno Anna Maria Cancellieri non si fece scappare l'occasione di lanciare la propria personale bombetta. Intervistata da Tgcom24, la ministra che fu costretta a dimettersi quando da Guardasigilli del governo Letta fu coinvolta nel caso Ligresti, in una sola frase Cancellieri rievocò la celebre etichetta di “bamboccioni” appiccicata addosso ai giovani dal Padoa Schioppa e ribadì il giudizio espresso da Monti sul posto fisso: “Siamo fermi al posto fisso nella stessa città – disse infatti – di fianco a mamma e papà...”.

Martone e gli sfigati. Sui giovani, il lavoro e il loro futuro anche l'allora viceministro al Welfare (sempre del governo Monti) volle consegnare alle cronache una perla di presunta saggezza ma di dubbia opportunità. Alla sua prima uscita pubblica, un convegno sull'apprendistato organizzato dalla Regione Lazio, Michel Martone bollò infatti come uno “sfigato” chi a 28 anni ancora non è riuscito a mettersi una laurea in tasca. “Dobbiamo dire ai nostri giovani - disse il vice della Fornero - che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa”. Anche in questo caso il consiglio dall'alto, paternalistico e secchione, di un “giovane” particolarmente fortunato, fu respinto al mittente con profluvio annesso di infuocate polemiche.

Padoa Schioppa e i bamboccioni. A conquistarsi il titolo di “madre di tutte le gaffe” fu quella scappata allo scomparso ministro dell'Economia nel secondo governo Prodi Tommaso Padoa Schioppa. Nel presentare la finanziaria del 2007, l'allora titolare di via XX Settembre disse infatti che le misure a favore delle famiglie sarebbero servite anche “a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa". Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi”. Ma quanti sono quelli che non si rendono autonomi per scelta? Una domanda che evidentemente il ministro non si pose o che non ritenne opportuno porsi per evitare di essere in futuro ricordato solo per questo episodio nonostante una prestigiosa e lunga carriera ai vertici sia della Commissione europea che della Banca d'Italia.

Brunetta e l'Italia peggiore. Anche perdere la pazienza in pubblico può giocare brutti scherzi a chi fa politica. È successo per esempio al capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta all'epoca in cui era ministro della Funzione Pubblica. Al termine del suo intervento a un convegno sull'innovazione, un gruppo di precari chiede di prendere la parola. Il ministro chiamò sul palco due donne (precarie dell'agenzia tecnica del ministero del Lavoro) e appena quelle pronunciarono la parola “precarie”, Brunetta scese dal palco pronunciando uno stizzito “siete l'Italia peggiore”.

Poletti, Padoa-Schioppa, Berlusconi: dieci anni di battute contro i giovani precari. "Meglio il calcetto del curriculum" è stato solo l'ultimo sfottò di una lunga serie di uscite governative. Da Donne sposate mio figlio! agli sfigati senza ancora una laurea, scrive Wil Nonleggerlo il 28 marzo 2017 su "L'Espresso". Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti "Sfigati", "poco occupabili", "bamboccioni", "choosy"”. Insomma, "l'Italia peggiore". Dieci anni di crisi economica, dieci anni di battutine, sfottò, consigli imbarazzanti per studenti, precari e mondo del lavoro in generale. Ecco la risposta governativa ad una disoccupazione giovanile che veleggia stabile sul 40%, tra le più alte dell'Eurozona. L'ultimo caso riguarda il ministro del Lavoro Poletti: inviare curricula? Meglio il calcetto, crea più opportunità. Scivoloni di questo tipo non riguardano ovviamente solo i governi Renzi-Gentiloni, partono da Padoa-Schioppa e attraversano 10 anni di esecutivi, politici e tecnici. Li abbiamo raccolti per voi.

- Meglio il calcetto dei curricula (Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti agli studenti dell'istituto tecnico professionale Manfredi-Tanari di Bologna - 27 marzo 2017): Nella ricerca di un lavoro "il rapporto di fiducia è un tema sempre più essenziale", si creano più opportunità "a giocare a calcetto che a mandare in giro i curricula".

- Dopo lo scoppio delle polemiche il ministro Poletti prova a spiegare meglio il concetto (28 marzo 2017): "Critiche? È una stupidaggine sintetizzare in una riga due ore di dialogo con i ragazzi. Il calcetto, se volete, è la metafora della relazione sociale".

- Fuori dai piedi (Il ministro Poletti a colloquio con i giornalisti a Fano - 19 dicembre 2016): "Bene così: se 100mila giovani sono andati via non vuol dire che qui siano rimasti 60 milioni di pistola. Quelli che se ne sono andati è bene che stiano dove sono, il Paese non soffrirà sicuramente nel non averli più tra i piedi".

- Consigli per la laurea (Il ministro Poletti - non laureato - durante la convention di Veronafiere "Job&Orienta" - 26 novembre 2015): "Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21".

- Italiani poco occupabili (Enrico Giovannini, ministro del Lavoro nel governo Letta - 9 ottobre 2013): "L'Italia esce con le ossa rotte dai dati dell'Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco 'occupabili', perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro".

- Choosy (Elsa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti, durante un convegno a Milano - 22 ottobre 2012): "I giovani escono dalla scuola e devono trovare un'occupazione. Devono anche non essere troppo choosy, come dicono gli inglesi". 

- Sfigati (Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti, alla sua prima uscita pubblica, in un convegno sull’apprendistato organizzato dalla Regione Lazio - 24 gennaio 2012): "Dobbiamo iniziare a far passare messaggi culturali nuovi, dobbiamo dire ai nostri giovani che se non sei ancora laureato a 28 anni, sei uno sfigato".

- Precari, siete l'Italia peggiore! (Renato Brunetta, ministro per la Funzione Pubblica del governo Berlusconi, risponde così ad un gruppo di precari durante la terza edizione della “Giornata Nazionale dell’Innovazione” - 14 giugno 2011): Il ministro invita due donne che chiedono di fare una domanda sul palco, ma non appena pronunciano la parola "precari" Brunetta perde completamente la pazienza: "Grazie, arrivederci. Questa è la peggiore Italia!". Uscendo dalla sala strapperà pure il cartellone dei manifestanti.

- La ricetta di Berlusconi contro la precarietà: donne, sposate mio figlio! (L'allora premier risponde ad una studentessa che nel corso della rubrica del Tg2 Punto di vista gli chiede come sia possibile, per una giovane coppia, farsi una famiglia senza un lavoro stabile - 13 marzo 2008): "Intanto bisognerebbe che in questa giovane coppia - ed è un consiglio che da padre mi permetto di dare a lei - dovrebbe cercarsi magari il figlio di Berlusconi o di qualcun altro... Lei col sorriso che ha potrebbe anche permetterselo!".

- I bamboccioni (Tommaso Padoa-Schioppa, ministro delle Finanze del governo Prodi, promuovendo agevolazioni all'affitto per i più giovani - 6 ottobre 2007): "Mandiamo i bamboccioni fuori casa!".

 “Sfigati”, disse il dottor Michel Martone, viceministro per un quarto di stagione. “Bamboccioni”, disse il ministro Tommaso Padoa Schioppa. “Choosy”, schifiltosi e pigri, così il ministro Elsa Fornero. “Giovani in fuga? Conosco gente che è meglio non averla tra i piedi”, dice il ministro Giuliano Poletti in carica al dicastero del Lavoro. In principio fu Tommaso Padoa Schioppa. Nel 2007 l'allora ministro dell'Economia, scomparso nel 2010, definì "bamboccioni" i giovani italiani. "Mandiamoli fuori di casa", disse all'epoca. E giù polemiche, con l'Italia spaccata tra bamboccioni sì e bamboccioni no. Da allora è stato un susseguirsi di sparate sui ragazzi del Belpaese. Fornero, Martone, Giovannini e il 26 novembre 2015 Giuliano Poletti secondo cui una laurea presa a 28 anni con 110 e lode non serve a un fico.

Basta! Ora siamo pure incompetenti. Da Padoa-Schioppa a Fornero, da Martone a Giovannini: i ministri se la prendono sempre con gli italiani in difficoltà. Bamboccioni, choosy e chi ne ha più ne metta. Ma perché non si guardano allo specchio? 9 ottobre 2013 da Libero quotidiano. Dopo “choosy”, “scansafatiche” e “bamboccioni”, ora gli italiani sono pure “incompetenti”. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, dopo sei mesi a palazzo Chigi centra subito l’obiettivo: farsi odiare da chi lavora e soprattutto da chi un lavoro non ce l’ha. Intervenendo a un convengo sul Senato sui 10 anni della legge Biagi, Giovannini afferma: “L’Italia esce con le ossa rotte dai dati dell’Ocse diffusi ieri: dati che ci mostrano come gli italiani siano poco occupabili, perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro”. Affermazioni pesanti di per sé, ancora di più se a pronunciare è il ministro del Lavoro”. Ma il ministro non fa marcia indietro: “Quelle cifre – ha aggiunto – ci mostrano quanto siamo indietro in termini di capitale umano e di occupabilità. La responsabilità di questa situazione – ha concluso – è di tutti”. Il dato di ieri dell’organizzazione mostrava come l’Italia sia tra gli ultimi posti al mondo per le competenze fondamentali necessarie a muoversi nel mondo del lavoro e della vita sociale. Ma quei dati di certo non sono il passaporto per poter definire gli italiani come “incompetenti” e “inoccupabili”. Insomma Giovannini si accoda subito alla buona tradizione di offese che sono piovute sugli italiani negli ultimi anni. Giovannini come la Fornero – L’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero qualche mese prima di lasciare il suo incarico disse chiaramente: “Gli italiani costano tanto e lavorano poco”. La bordata era arrivata subito dopo l’attacco ai giovani disoccupati che, sempre la Fornero, definì “choosy”, ovvero “stizzinosi, con poco spirito di adattamento”. Infine l’attacco di Giovannini è in linea con quello dell’ex ministro del Tesoro, Tommaso Padoa Schioppa che definì i giovani disoccupati come “bamboccioni”. Mentre l’ex sottosegretario al Lavoro, Martone disse che “laurearsi dopo i 28 anni, è roba da sfigati”.

Bamboccioni, choosy, pistola: quando i ministri fanno infuriare i giovani, scrive Ugo Barbàra su "Agi" il 20 dicembre 2016. Le scuse non bastano a fugare le nubi di tempesta che si addensano sul ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. "Non mi sono mai sognato di pensare che è un bene per l'Italia il fatto che dei giovani se ne vadano all'estero" ha detto dopo che sul web si è diffusa alla velocità della luce una sua affermazione riportata dalla stampa su alcuni giovani andati all'estero, "questo Paese non soffrirà a non averli più tra i piedi". "Evidentemente mi sono espresso male e me ne scuso", si legge nella nota di precisazione. "Penso, semplicemente", aggiunge, "che non è giusto affermare che a lasciare il nostro Paese siano i migliori e che, di conseguenza, tutti gli altri che rimangono hanno meno competenze e qualità degli altri. Ritengo, invece, che è utile che i nostri giovani possano fare esperienze all'estero, ma che dobbiamo dare loro l'opportunità tornare nel nostro paese e di poter esprimere qui le loro capacità e le loro energie". 

Il Fatto Quotidiano traccia un parallelismo tra le parole di Poletti e quelle di Claudio Scajola, che definì "rompicoglioni" Marco Biagi, il giuslavorista ucciso il 19 marzo del 2002 dalle nuove Brigate Rosse. Ricercatori, ma anche liberi professionisti di livello, imprenditori, inventori di start up: per Poletti meglio che se ne siano andati, ad arricchire con le loro conoscenze, la loro capacità di intuito e di analisi, la loro immaginazione e fantasia, altri paesi. 

Non è la prima volta che Poletti attira su di sé le ire dei laureati. Poco più di un anno fa se ne uscì con un'altra frase destinata a scatenare ondate di polemiche: "rendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21". Ma non è l'unico, tra i vertici delle istituzioni, a primeggiare per impopolarità tra i giovani. 

In ottobre è stato il ministero dello Sviluppo economico a fare una gaffe non da poco: la blogger Eleonora Voltolina aveva trovato in un opuscolo destinato agli investitori esteri un invito forse allettante per loro, ma non lusinghiero per i lavoratori italiani il cui senso era questo: costano poco anche quando hanno un elevato tasso di scolarizzazione. 

Nell'ottobre del 2012 fu l'allora ministro del Lavoro, Elsa Fornero, a finire sotto il fuoco delle polemiche per una frase sui giovani che non devono essere troppo schizzinosi al momento dell'ingresso nel mercato del lavoro. “Non devono essere troppo choosy nella scelta del posto di lavoro. Meglio cogliere la prima occasione e poi guardarsi intorno”.

Dieci mesi prima, nel gennaio del 2012, era stato il viceministro del Lavoro, Michel Martone, a dare degli 'sfigati' ai giovani: "Se a 28 anni non sei ancora laureato - aveva detto partecipando a un incontro sull'apprendistato - sei uno sfigato. Bisogna dare messaggi chiari".

Nell'ottobre del 2007 era stato l'allora ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa a usare un termine destinato a diventare di uso comune nel dibattito politico. Le misure a favore delle famiglie, disse presentando la finanziaria, serviranno anche "a mandare i 'bamboccioni' fuori di casa. Cioé incentivare l'uscita di casa da parte dei giovani che adesso restano fino a età inverosimili con i genitori. Non crescono mai, non si sposano, non si rendono autonomi". 

UN PAESE DI SANTI, POETI ED EMIGRATI. Andrea Carli per Il Sole 24 ore il 10 ottobre 2019. Un paese che iscrive una pesante ipoteca sul suo futuro. L’Italia, sottolinea il nono Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Leone Moressa, presentato oggi, 8 ottobre a Palazzo Chigi, da circa un decennio è tornata a essere terra di emigrazione: in dieci anni ha perso quasi 500 mila italiani (saldo tra partenze e rientri di connazionali). Tra questi, quasi 250 mila giovani (15-34 anni). Considerando le caratteristiche lavorative dei giovani in Italia, la Fondazione stima che questa “fuga” ci sia costata 16 miliardi di euro (oltre 1 punto percentuale di Pil): è infatti questo il valore aggiunto che i giovani emigrati potrebbero realizzare se fossero occupati nel nostro paese.

È il paese più anziano d’Europa. Considerando anche la denatalità e l’allungamento della speranza di vita, il paese si ritrova a essere quello più anziano d’Europa, con ripercussioni sociali ed economiche di una certa entità. Secondo le stime Eurostat, da qui al 2050 l’Italia potrebbe perdere tra i 2 e i 10 milioni di abitanti, mentre gli anziani aumenterebbero di circa 6 milioni, arrivando a rappresentare oltre un terzo della popolazione (dall’attuale 22,4%, rappresenterebbero tra il 33,8% e il 37,9% nel 2050).

Lavoro motivo prevalente dell’emigrazione. Dall’analisi del tasso di occupazione (15-24 anni) emerge che il lavoro è il motivo prevalente dell’emigrazione. Se in Italia il tasso di occupazione dei giovani italiani si attesta al 16,9%, tra i giovani italiani all’estero sale al 50,8% (nel restante 50% sono inclusi anche gli studenti, sicuramente numerosi in quella fascia d’età).

I giovani partono da Lombardia, Sicilia e Veneto. Per quanto riguarda le regioni di provenienza, quasi un quinto dei giovani che hanno lasciato l’Italia negli ultimi dieci anni viene dalla Lombardia (18,3%). Seguono Sicilia, Veneto e Lazio, con oltre 20 mila emigrati ciascuno. Da notare che questo dato comprende solo i giovani emigrati all’estero e non le migrazioni “interne”, da Sud a Nord. In rapporto alla popolazione giovanile residente, negli ultimi dieci anni hanno lasciato l’Italia circa 20 giovani ogni 1.000 residenti della stessa fascia d’età. I picchi massimi in Trentino Alto Adige (38,2) e Friuli Venezia Giulia (28,7%), su cui probabilmente incide la posizione di confine. Sopra la media anche altre regioni del Nord come Lombardia, Veneto e Liguria. Come detto, per le regioni del Sud questo dato è probabilmente “mascherato” dal fatto che molti giovani si sono trasferiti in altre regioni d'Italia, generalmente al Nord.

Londra la meta più ambita. In attesa di capire se Brexit avrà un effetto dissuasivo sulle emigrazioni verso il Regno Unito, Londra è la meta più ambita dai nostri giovani (scelta dal 20,5% di chi è partito nel 2017 e dal 19,3% di chi è partito negli ultimi dieci anni). Al secondo posto la Germania, dove evidentemente i giovani trovano occasioni di formazione e lavoro. Molti anche coloro che scelgono di trasferirsi in Svizzera e Francia, agevolati evidentemente anche dalla vicinanza geografica. Tra le prime destinazioni compaiono però anche Paesi extra europei come Usa, Brasile o Australia, ma anche Canada e Emirati Arabi.

Il declino demografico. Al nodo della fuga dei giovani fa il paio un altro problema: il declino sempre più accentuato a livello demografico. La popolazione italiana sta infatti diminuendo: si fanno pochi figli (in media 1,32 per donna) e il saldo tra nati e morti è negativo da oltre 25 anni. Risultato: calano i giovani e aumentano gli anziani. L’Istat prevede che nel 2038 gli over 65 saranno un terzo della popolazione (31,3%). Ciò determinerà squilibri economici e finanziari, dato che proporzionalmente diminuiscono i lavoratori e aumentano i pensionati.

Presenza stabile: 5,2 milioni di stranieri residenti. Nell’ottica di una stabilità del sistema, soprattutto sotto il profilo finanziario, va la presenza di stranieri in Italia, stabile negli ultimi anni: 5,2 milioni di persone residenti a fine 2018 (8,7% della popolazione). Il saldo migratorio, ricorda il Rapporto, rimane positivo (+245 mila), anche se la composizione dei nuovi arrivi è molto diversa rispetto al passato: prevalgono i ricongiungimenti familiari, si stabilizzano gli arrivi per motivi umanitari, mentre sono quasi nulli gli ingressi per lavoro. Vi è nel complesso una lieve prevalenza di donne (52%) e una netta dominanza di paesi dell’Est Europa (oltre il 45% del totale). Le prime nazionalità (23% Romania, 8,4% Albania, 8% Marocco) evidenziano che la maggior parte degli immigrati è qui da oltre dieci anni.

La guerra infame del potere contro i giovani di questo Paese. Da Poletti alla Fornero. Ma il suo capostipite fu il ministro Padoa Schioppa, passato alla storia con la sua invettiva contro "i giovani bamboccioni", scrive Luca Telese il 20 dicembre 2016. Dei pistola. Malagente. Persone indesiderate da tenere - addirittura - fuori dall'Italia. L'incredibile gaffe del ministro al Lavoro Giuliano Poletti questa volta va studiata nel dettaglio. E non per ridicola e flebile richiesta di scuse che ha seguito l'infelice sortita, ma perché - purtroppo - non rappresenta un caso isolato. "Se 100mila giovani se ne sono andati dall'Italia - ha detto il ministro con incomprensibile fare aggressivo - non è che qui sono rimasti 60 milioni di 'pistola'". Il ministro del Lavoro, conversava amabilmente con i giornalisti a Fano e pochi minuti prima aveva difeso il Jobs Act del governo e aperto alla possibilità di rivedere le norme sui voucher. Già questa, a ben vedere, era una manifestazione di stato confusionale, visto che solo tre giorni prima lo stesso ministro si augurava una crisi anticipata del suo governo, pur di impedire il referendum abrogativo sui voucher e sull'articolo 18. Ma evidentemente, mentre fingeva di aprire, Poletti sembrava anche interessato a punire, se non altro sul piano simbolico: "Intanto - osservava stilando il suo atto d'accusa - bisogna correggere un'opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei 'pistola'. Permettetemi di contestare questa tesi". E a questo punto che era arrivato il colpo di grazia, la mazzata sui reprobi. "Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi". A chi si riferisse Poletti, non è dato di saperlo, resterà un mistero. Però ci sono almeno due indizi importanti da seguire. Il primo: le parole del ministro arrivano dopo un preferendo in cui le tesi del governo sono state bocciate a maggioranza quasi unanime, dagli elettori compresi nella fascia anagrafica fra i 18 e i 35 anni. La seconda, però, è molto più profonda, sottile, e merita una riflessione.

Denigrare i giovani è diventato uno sport nazionale. La guerra infame ed ideologica dei governi italiani contro i giovani in questo paese parte da lontano, e non è stata incominciata da Poletti. Ha il suo capostipite nelle parole scioccanti del ministro Padoa Schioppa che con il sorriso sulle labbra la sua celebre invettiva contro "i giovani bamboccioni". Italiani infantili e colpevoli perché incapaci di trovare una strada, mammoni, desiderosi di protezioni, pappe pronte e tutele. Non era che l'inizio. Quindi dopo il ministro dell'ulivo, fu la volta della ministra Fornero, la sacerdotessa del rigore con la lacrima facile, in uno dei suoi momenti di melodrammatica megalomania, si lanciò in una invettiva contro "i choosy", gli schizzinosi, contro i ragazzini che non hanno voglia di fare la propria parte. La faceva egregiamente lei, peraltro, massacrando i pensionati, battezzando con le sue lacrime di coccodrillo, battaglioni di esodati.

E che dire dell'allora sottosegretario al lavoro, Michel Martone? Anche lui ci era andato giù duro: "Hai 28 anni e non ti sei ancora laureato? Allora sei uno sfigato". A queste frasi, divenute ormai proverbiale, si sono aggiunte decine di dichiarazioni, di gaffe rivelatrici, di infortuni lessicali, seguiti da scuse più o meno maldestre in alcuni casi, e da nessuna scusa, nella maggior parte. Piuttosto che considerare questo florilegio una collezione di parole dal sen fuggite, o casi isolati, bisognerà rassegnarsi a prendere in considerazione questo repertorio di errori come una sorta di inconsapevole ma fluente manifesto ideologico. Come una dichiarazione di guerra a una classe sociale, anagrafica, che le classi dirigenti italiane considerano nemica. Mentre smantellavano diritti in tutte le leggi sul lavoro a partire dal pacchetto Treu, mentre colpivano la #buonascuola, mentre bastonavano, e non solo metaforicamente la precarietà, costruivano una apartheid di diritti, i governi italiani si sono dati la staffetta in un opera di demolizione psicologica delle loro vittime. Non sono loro ad avere colpa dell'esodo, non nel loro la responsabilità della fuga dei cervelli, non sono loro ad essere deficitari nelle loro risposte e iniqui nel loro operato. Con un geniale riflesso istintivo, hanno trasformando le loro vittime in carnefici, e viceversa.

Per alcuni i privilegi sono ormai una grazia dovuta. A sentire le sparate di Poletti e dei suoi epigoni, è chi paga il prezzo delle loro politiche che si deve vergognare e non viceversa. C'è dietro questa retorica cattiva, anche qualcosa di più, un istinto corporativo. La classe dirigente dei garantiti, che pensa a se stessa, ai propri figli e ai propri privilegi come ad una grazia dovuta. Come al biglietto di ingresso nel club dell'aristocrazia e delle elite. A tutti gli altri, invece, guarda come una masnada di usurpatori, disperati che si affollano bussando alle porte delle loro fortezze. I giovani che sono partiti, in verità, sono quelli che non rinunciano a muovere l’ascensore sociale. Sono quelli che non si mettono in fila di fronte ai nonni e ai baroni. Sono quelli che non accettano la geometria di potere delle vecchie e nuove caste, coloro che non vogliono pagare la tassa d'ingresso nelle corporazioni garantite. Fra qualche anno, quando tutto sarà più chiaro, le Fornero e i Poletti, che in questi anni la stampa e i media hanno trattato con i guanti di velluto, saranno ricordati come i razzisti americani degli anni ‘60, quelli che sorridevano con i colletti inamidati, mentre dormono coperture ideologica discorso lui, ai cappi, e ai roghi in cui si bruciavano i "negri" che non volevano piegarsi e accettare la parte dello zio Tom.

Concorsi, bandi, dottorati, cattedre: se all’università è tutto truccato. Rivelazioni shock di un insegnante della Statale, scrive “Leggi Oggi” il 18 marzo 2015. Concorsi truccati, sprechi, favoritismi a non finire. Il ritratto dell’università italiana, certo non al top della sua popolarità, firmato da Matteo Fini, dottore di ricerca con dieci anni in ateneo alle spalle. Lo racconta l’Espresso, in un articolo inchiesta che mette in evidenza tutte le leve che muovono l’istruzione accademica e definiscono le possibilità di carriera nelle cattedre del nostro Paese. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano”, scriveva il giovane dottore di ricerca sulla sua pagina Facebook, dove puntualmente aggiornava, senza troppi sottintesi, sui peggiori vizi del sistema universitario italiano. Una protesta che gli ha procurato anche una diffida legale, con il suo editore, per cui aveva pubblicato un libro dal titolo “Non è un Paese per bamboccioni” di non pubblicare i post più polemici e ambigui. Docente di metodi quantitativi per l’economia e la finanza alla Statale di Milano, dottore di ricerca per il Dipartimento di scienze economiche dell’Università meneghina, Matteo si è però rifiutato di eliminare le sue riflessioni dalla pagina Facebook. E racconta, ancora oggi, un sistema che lo ha portato a fare di tutto: le lezioni, i ricevimenti, gli esami: un professore a tutti gli effetti, se non per il titolo e, ovviamente, lo stipendio. Come si diventa ricercatore? “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato”. Cosa spinge ad andare avanti? La fiducia nella figura del docente che ha aperto la strada. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Avanti così per anni, peccato che nel frattempo i contatti tra i due si fanno sempre più radi fino a che, un giorno, non viene indetto il concorso che proprio lui avrebbe dovuto vincere e il professore “chioccia” nemmeno si fa vivo. Matteo capisce che il suo posto non è più suo. “In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. I concorsi. Si arriva così al capitolo dei concorsi, dall’esito puntualmente scontato. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo.” I fondi. C’è poi, nel suo racconto, un capitolo fondamentale sul gettito di fondi pubblici che arriva nelle casse delle università: “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto. Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie”. Un quadro deprimente, che sullo sfondo dei recenti scandali sui test di ammissione, prove sbagliate, ricorsi e qualità dell’insegnamento sempre più bassa, rende l’università italiana poco credibile anche da chi la fa.

"Università, altro che merito. E' tutto truccato. Vi racconto come funziona nei nostri atenei". Fondi sperperati, concorsi pilotati, giovani sfruttati. Un ex dottorato spiega nel dettaglio come si muove il mondo accademico tra raccomandazioni e correnti di potere. E qualcuno non vuole che il libro in cui riporta tutti gli scandali venga pubblicato, scrive Maurizio Di Fazio su “L’Espresso”. Non è un Paese per giovani docenti universitari. E' quanto ha scoperto sulla sua pelle da Matteo Fini, classe 1978, appena riemerso da quasi dieci anni di esperienza accademica come dottore di ricerca in statistica nel Dipartimento di scienze economiche dell’Università degli studi di Milano. “Tante illusioni svanite via via nel nulla”. Alla Statale si occupava di metodi quantitativi per l’economia e la finanza. “In pratica facevo tutto: lezioni, ricerca, davo gli esami, mettevo i voti – ci dice Fini – Ero un piccolo professore fatto e finito, senza titolo. E questa è una roba normalissima”. La sua è la storia di un giovane italiano che non ce la può fare nonostante tutto. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano” aggiunge. E ne esce, e pensa di raccontarlo. Di dissacrarlo. Ne fa la sostanza del suo libro: la vita accademica vista dall’interno, nei suoi gangli ordinari. Episodi quotidiani che non danno scandalo abbastanza se presi singolarmente. Comincia a scriverlo, e ne posta qualche estratto su Facebook. Un giorno riceve una diffida legale, girata anche all'editore con cui aveva già fatto un libro ("Non è un paese per bamboccioni"), che gli intima di non pubblicare e di eliminare tutti i post “allusivi” dal social: tra questi, una citazione di Lino Banfi/Oronzo Canà. “I post non li ho affatto tolti, e tra l’altro erano generici e astratti – racconta Matteo Fini –. Questa è censura preventiva”. Il libro è pronto, anzi c’è tutta una piccola community sul web che ne attende l’uscita; ma non si sa più quando, né con chi vedrà la luce. Abbiamo incontrato l’autore per saperne di più di questo suo pamphlet arrabbiato, rimandato a settembre per “condotta”. L’inizio del percorso da ricercatore universitario è comune a tutti. “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato e la strada si fa cieca”. Al “meccanismo” ci si abitua subito. Prendere o lasciare. I più, prendono, compreso Matteo Fini. “Ho capito subito che c’erano delle regole bislacche, ma le ho accettate: sai benissimo che lì dentro funziona così, è un sistema che non puoi cambiare, immutabile, e sai anche che la tua carriera è totalmente indipendente da quello che dici o che fai: conta solamente che qualcuno voglia spingerti avanti”. Anche Matteo ha il suo protettore. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Va avanti così per anni. Ma le cose non sono eterne. “All’improvviso la sua attenzione si è completamente spostata altrove. Dal chiamarmi quattro volte al giorno, l’ultimo anno è scomparso. Fino al gran finale: il dipartimento bandisce il concorso per il posto a cui lavoravo da otto stagioni,“che avrei dovuto vincere io”. Lui nemmeno me lo comunica. Io ne vengo a conoscenza e partecipo lo stesso, pur sapendo che, senza appoggi, non avrei mai vinto. In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. In questo volume intra–universitario che non c’è, ma c’è, Fini spiega gli ingranaggi universitari più comuni. Talmente elementari che nessuno aveva mai pensato di raccontarli. Sfogliamolo virtualmente.

Neet Generation. Neet è l’acronimo di “Not (engaged) in Education, Employment or Training”, cioè nullafacente, sia dal punto di vista dello studio che del lavoro.

Scrive Francesco Pastore, Economista, il 27 Febbraio 2018 su Il Fatto Quotidiano. Il mio amico e collega di lunga data, Hans Dietrich, ricercatore presso lo IAB, un grande centro studi tedesco che fa la valutazione delle politiche attive per l’impiego, ha visto il mio paper recente dal titolo molto di richiamo sulle transizioni scuola-lavoro in Italia: “Why so slow?”. L’articolo riassume i risultati di una lunga ricerca che è sfociata anche in un libro in italiano dal titolo altrettanto significativo: “Fuori dal tunnel”. Allora, Hans mi ha chiesto: “Tu accenni solo ai Neet, dicendo che sono tantissimi in Italia, ma non spieghi da dove escono fuori e perché sono così numerosi”. Io ho provato a dare una spiegazione e credo che la risposta sia di interesse per tanti e quindi la propongo qui.

Cause e rimedi. Ci sono milioni di articoli che misurano i Neet. Si sa quanti sono regione per regione e anno per anno; si sa anche la composizione per genere, età, livello d’istruzione e background familiare. Insomma, tanti dottori girano intorno al malato con la lente d’ingrandimento e perlustrano ogni centimetro del suo corpo. Sappiamo tutto sulla dimensione e forma del bubbone e su dove è localizzato, ma pochi parlano di cause e rimedi. All’accanimento descrittivo, non segue una adeguata diagnostica e terapia. Proviamoci noi, allora. Il motivo per cui ci sono così tanti Neet è che c’è un enorme carenza di esperienza lavorativa dei giovani. Più che altrove, i giovani hanno in Italia un’istruzione molto generale ed astratta, anche a livello universitario. Non dico di scarsa qualità intellettuale. Tutt’altro: quella è fuori discussione, ma l’istruzione è solo una delle componenti del capitale umano. Le imprese cercano capitale umano a tutto tondo e quest’ultimo non è costituito solo dall’istruzione, ma anche dalle competenze lavorative. Non mi stancherò mai di dirlo. È per questo che ci sono tanti Neet: molti hanno un basso livello di istruzione che rende la loro ricerca di un lavoro difficile se non vana in partenza; altri hanno istruzione medio-alta, ma nessuna competenza lavorativa e, perciò, è poco appetibile per le imprese.

Formazione professionale e garanzia giovani. In aggiunta, c’è poca formazione professionale o, quando c’è, è, in media, di scarsa qualità e poca attività in azienda. Una volta usciti dal circuito scolastico, le politiche attive per l’impiego sono il rimedio tipicamente utilizzato in altri paesi per coprire i gap lasciati dalla scuola. In Germania si ragiona così: tutti quelli che non vanno al ginnasio (circa il 40% di ogni coorte) devono fare l’apprendistato scolastico ed acquisire le competenze lavorative in azienda, per metà settimana. Si guadagno il 60% dello stipendio di un operaio adulto e, quando finisce, l’azienda ti assume subito. Quei pochi, spesso immigrati, che non sono riusciti ad acquisire una qualifica con l’apprendistato possono entrare nei programmi di formazione professionale e di assistenza alla ricerca di un posto di lavoro offerti dai centri per l’impiego. La Garanzia Giovani Europea è apparsa subito come un elemento importante, ma a parte le difficoltà organizzative che derivano dallo stato comatoso in cui versano ancora i nostri centri per l’impiego, non ci sono abbastanza soldi per tutta la platea potenziale. Il governo ha riformato già nel 2015 i centri per l’impiego, ma la mancanza di risorse ha reso il meccanismo dei quasi-mercato, potenzialmente molto efficiente, sostanzialmente inattuato. In Italia, l’apprendistato non scolastico riguarda ancora solo un 5%dei giovani di ogni coorte. E  perciò neppure questo è proprio un viale alberato.

Crescita debole ed incerta. È vero, il mercato del lavoro è divenuto più flessibile e quindi, in teoria, i giovani potrebbero acquisire l’esperienza lavorativa che gli serve direttamente sul posto di lavoro, non avendola trovato a scuola e/o all’università. Però, la crescita economica, ancorché finalmente in terreno positivo da due anni, il che non è poco, è ancora, purtroppo, percepita come incerta dalle imprese. Perciò, nonostante lo sforzo del governo di rendere il costo del lavoro permanente sempre più simile a quello del lavoro temporaneo, le imprese assumono ancora poco a tempo indeterminato, senza incentivi. Ciò significa che le occasioni lavorative, quando ci sono, sono di breve durata e non consentono perciò di acquisire esperienza lavorativa specifica, ma solo generica. Speriamo che il nuovo governo non interrompa, ma anzi rafforzi la crescita. Una strada potrebbe essere rendere gli incentivi a favore dei giovani permanenti con la defiscalizzazione delle assunzioni di tutti gli under-30. Ecco perché ci sono tanti Neet in Italia. Bisogna partire da qui per aggredire il bubbone!

Non lavorano, non studiano… Ma cosa fanno i “Neet”. Chi sono? E soprattutto, esistono davvero? Non esattamente, scrive Elisabetta Longo l'1 novembre 2014 su Tempi. Il sociologo Dario Nicoli prova a tracciare l’identikit di una categoria che “ingloba” il 32 per cento dei giovani italiani ma che di fatto è indefinibile (non sono i “bamboccioni”). Si chiamano “Neet” e si aggirano tra noi. Neet è l’acronimo di “Not (engaged) in Education, Employment or Training”, cioè nullafacente, sia dal punto di vista dello studio che del lavoro. Il fenomeno riguarda secondo le statistiche soprattutto questi ultimi anni, ed è localizzato principalmente nella fascia di popolazione di età compresa tra i 20 e i 30 anni, con alcune eccezioni. Il rapporto 2014 dell’EU Social Justice Index 2014 – un progetto del think tank tedesco Bertelsmann Stiftung che mette a confronto 28 paesi europei in termini di giustizia sociale (prevenzione della povertà, diritto allo studio, accesso al mercato del lavoro, coesione sociale, sanità, giustizia intergenerazionale) – ha decretato che in Italia i Neet sono il 32 per cento dei giovani, la più alta percentuale in Europa. Nel nostro paese, insomma, un ragazzo su tre attualmente non sta studiando né sta cercando lavoro. Ma è davvero così radicata questa “tendenza” tra i giovani italiani? Tempi.it lo ha chiesto a Dario Nicoli, professore di sociologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Professor Nicoli, il dato del Social Justice Index le sembra rispecchiare la realtà?

«Più che commentare la percentuale del 32 per cento, vorrei innanzitutto domandarmi, e domandarlo a chi stila questo tipo di rapporti, come si possa pretendere di calcolare esattamente quanti siano i cosiddetti Neet. Per calcolare questa percentuale di popolazione, si deve partire da una negazione. Chi non ha comunicato allo Stato di essere impegnato in studi universitari o impiegato in un lavoro viene quantificato come Neet. Ma non è detto che queste persone siano necessariamente nullafacenti. Magari lavorano in nero, o sono sottopagati, per questo sono invisibili agli occhi della società».

Quindi i Neet soffrono di esclusione sociale?

«Non è detto. Nel mondo della comunicazione, per esempio, ci sono tantissimi cosiddetti Neet. Prendiamo il caso di un giornalista musicale, uno che scriva tutti i mesi su una rivista prestigiosa del settore, che vada ai concerti, che compri i dischi per recensirli. Certo, uno così non si sente socialmente escluso, anzi, si sente riconosciuto, viene lodato per il suo lavoro. Ma in quanto a compensi magari ottiene poco, viene pagato saltuariamente e in nero, e dunque per lo Stato non esiste. È un Neet, ma di fatto non lo è».

I Neet, di dice, hanno di solito alle spalle una famiglia che li sostiene. Subito il pensiero va al termine “bamboccione”.

«La famiglia diventa il proprio datore di lavoro, nel senso che provvede al mantenimento in caso di disoccupazione o di retribuzione insoddisfacente. Quello che i genitori si concedono è un lusso rischioso. Non voglio dire che invece dovrebbero disinteressare dei figli, per carità, solo che il ragazzo che si trova in questa condizione di limbo potrebbe adagiarsi. E non darsi più da fare, alla lunga, crea una spirale negativa».

È possibile cercare di dare un’immagine dei Neet?

«Il dato di fatto iniziale è che i Neet sono un’insieme di storie, ognuna delle quali è un caso a sé. È difficile dare un’immagine unica. Potremmo cominciare col dire che sono ragazzi che hanno sbagliato il percorso di studio, che dopo la triennale hanno fatto la biennale, e poi ancora un master, un altro master, hanno cercato di entrare nel mondo della ricerca universitaria ma non ci sono riusciti. Anno dopo anno sono arrivati a compierne 35, inseguendo qualcosa che non è mai stato troppo concreto. Poi ci sono i ragazzi meridionali, intesi come residenti al Sud, dove non c’è domanda e non c’è offerta di lavoro, tutto è immobile e nessuno riesce a trovare un impiego. Lì non si può parlare di crisi, la situazione economica è stabile da decenni, e talvolta i genitori, per riuscire a mantenere tutti i figli a carico, sono costretti a trasferirsi dalla città alla casa in campagna del nonno. Poi ancora ci sono gli studenti “persi”. Quelli che non si sono mai impegnati realmente, che si lambiccano nella propria pigrizia con la scusa che “c’è la crisi”. Li riconosco subito, questi Neet, tra i ragazzi ai quali insegno».

Lei insegna a studenti universitari, cosa cerca di spiegare loro riguardo al futuro?

«Alcuni fin dalla prima lezione mi chiedono: “Prof, saremo disoccupati?”. E io rispondo, molto tranquillamente: “Ragazzi, voi dovete ancora entrare nel mondo del lavoro, per essere un disoccupato bisogna prima aver avuto un’occupazione e averla persa”. Quest’ansia della crisi che c’è al di fuori dei chiostri universitari talvolta diventa un alibi. Credo comunque che alla base per gli aspiranti lavoratori di domani debba cambiare il tipo di percorso formativo, cosa che per altro sta già avvenendo in parte».

Lei che soluzione propone?

«A mio avviso, ci sarebbe bisogno di nuove figure di riferimento che facciano da “tramite” con i ragazzi, per evitare che si smarriscano. Chi sceglie giurisprudenza oggi sa già che purtroppo il settore degli avvocati è del tutto saturo. Al contrario, se un’impresa cerca operai specializzati, gli annunci rimangono senza risposta. Quando viene il momento di scegliere l’istruzione superiore, è un errore non valutare cosa chiede il mercato: non si può solo inseguire i propri sogni, bisogna che i sogni siano attaccati alla realtà. Serve un filo diretto con le imprese, per indicare ai ragazzi quali sono i mestieri più richiesti del momento. Così forse avremo meno Neet in Italia».

I Neet. Giovani «né studio né lavoro»: e se fosse (anche) un problema di carattere? Scrive Massimo Calvi mercoledì 22 marzo 2017 su Avvenire. Autostima e fiducia in se stessi sono decisivi per il successo negli studi o nel lavoro. Le ricerche dimostrano che è importante investire nell'educazione. E se fosse un problema di autostima? Se cioè la condizione dei giovani che non studiano e non lavorano fosse dovuta non soltanto alla crisi economica e alla mancanza di opportunità di impiego, ma dipenda anche dai tratti della personalità? L’ipotesi è tanto suggestiva quanto inquietante. Eppure è quello che emerge da diversi studi scientifici. Negli anni della Grande Crisi il numero dei cosiddetti Neet (Not in Employment, Education or Training), cioè i "ragazzi" dai 15 ai 29 anni che né lavorano né sono impegnati in programmi di formazione, è aumentato vertiginosamente. In Italia sono quasi 2 milioni e mezzo, il 29% dei giovani, uno dei dati più alti in tutta l’area Ocse, dove la media è del 14,6%. Fatto che ci costa quasi 1,5 punti di Pil. Nel 2007 il tasso italiano di Neet era poco sotto il 20%: è chiaro che la mancanza di lavoro e il boom della disoccupazione, soprattutto di quella giovanile che ha raggiunto il 40%, hanno avuto un ruolo determinante. Ma il solo dato economico non spiega tutto: perché un giovane che non studia, non sta cercando lavoro? E perché un ragazzo che non lavora, non è impegnato in un percorso di formazione? Tanto si è detto e scritto intorno ai figli che restano in casa, anche se un lavoro l’hanno trovato, quelli che un po’ superficialmente definiamo "mammoni", "bamboccioni", o "generazione Tanguy". E ora una ricerca della Fondazione Visentini ci informa che l’età dell’autonomia sta salendo velocemente, a 40 anni nel 2020, e in futuro crescerà ancora: nel 2030 i figli si renderanno autonomi dalla famiglia di origine a 50 anni. Ma, tornando al punto di partenza, se la condizione di Neet fosse anche un problema di carattere? Cioè di qualcosa che si è formato in tenera età e durante l’adolescenza? La letteratura scientifica indaga da tempo il ruolo delle competenze non cognitive e della personalità sul successo scolastico o sulle probabilità di essere disoccupati in futuro. Una ricerca condotta da Silvia Mendolia e Ian Walker (U. of Wollongong e Lancaster U. – "Do Neets Need Grit?"), ad esempio, ha studiato il legame tra il carattere e il rischio di diventare Neet tra gli adolescenti inglesi. Ed è emerso che i ragazzi con bassi livelli di autostima o che attribuiscono a fattori esterni l’origine delle proprie "fortune" hanno una probabilità molto più elevata di diventare Neet. Al contrario, essere dotati di "grinta", della capacità di perseguire un obiettivo, mette al riparo dall’insuccesso, tanto che la sicurezza nei propri mezzi può essere equiparata a un talento. Non sono considerazioni scontate, tutt’altro. Le ricerche dimostrano che più tempo si passa senza lavorare né studiare, più aumentano le probabilità di avere risultati economici negativi in futuro. Dunque trovare un modo per influire sulla personalità quando è ancora possibile, cioè nelle fasi iniziali della vita e nell’età in cui il carattere è malleabile, grazie a programmi educativi mirati, può rappresentare un investimento significativo in favore dei giovani. Forse non riusciremo a renderli tutti autonomi all’età in cui lo si dovrebbe essere. Ma almeno sarà meno angosciante chiedersi se la generazione che resta in casa non sia anche il prodotto di un’altra crisi: quella della fiducia nei propri mezzi.

Millennial, la generazione smarrita: ma di chi è la colpa se non lavorano? Hanno tra i 15 e i 33 anni: negli Usa sono pronti a scalzare dalla scena politica ed economica i "vecchi" che la occupano da quarant'anni. E in Italia? Hanno perso il bandolo del futuro. Schiacciati dalla crisi economica. E Intrappolati da genitori che hanno promesso il mondo, ma non hanno insegnato come  prenderselo. Gloria Riva il 09 luglio 2015 su L'Espresso. Hanno tra i 15 e i 33 anni , li chiamano Millennial, Echo Boomer ma anche Y, Next o Net Generation: tanti modi per definire una generazione il cui tallone d’Achille è il lavoro, che non c’è o non vogliono fare, fra stage sottopagati, tirocini in scienze delle fotocopie, stipendi da fame, finte partite iva e gavette infinite. Tutt’altra storia rispetto ai genitori o nonni, quei Baby Boomer, nati tra il ’46 e il ’64, traghettati senza patemi dalla rivoluzione alla carriera. Oggi hanno tra i 50 e i 70 anni e ancora non mollano i posti di comando, parcheggiando i figli nella sala d’attesa. Da Washington il prestigioso think-tank Pew Research Center racconta che i Millennial a stelle e strisce nel 2015 hanno numericamente superato i Baby Boomer, sono pieni di entusiasmo e pronti a spingere i loro vecchi fuori da una scena che occupano da quarant’anni. In Italia invece i giovani sono il più delle volte bollati di indifferenza, disinteresse, avversione al lavoro, attaccati a un divano e a un iPad nell’assenza di valori e motivazioni. Michele Serra, nel libro dedicato al figlio, li definisce “Sdraiati” e ammette di non riuscire a comprenderli. Il filosofo Umberto Galimberti ne “I vizi capitali e i nuovi vizi” li descrive come accidiosi, debolezza cara a Flaubert che ci ha ricamato attorno l’antieroina Emma Bovary.

Ma davvero sono così i Millennial italiani? Fra statistiche ballerine e mille studi contraddittori, ne esce un ritratto complesso: quello di una generazione che, sul fronte lavoro, un po’ c’è e un po’ ci fa. «Faccio autocritica: siamo viziati e pigri, anche se sappiamo che chi si sbatte può trovare lavoro e progettare un percorso: università, carriera, famiglia. Ma anche tra i miei amici più bravi, dai 23 ai 30 anni, nessuno ce la fa da solo. L’aiutino c’è sempre: per macchina, vacanze, affitto paga papà».

Lorenzo Camerini, 28 anni, vive nella costosa Milano. Dopo il classico si è iscritto a Scienze Politiche, la laurea è in dirittura d’arrivo: «In effetti me la sono presa con calma, ma mi son dato da fare». Fino a qualche tempo fa era dietro al bancone del bar Jamaica di Brera, anche se il sogno è lavorare nell’editoria, «ma ci vuole la raccomandazione giusta», dice lui. Dunque addio stampa. È andato all’estero per un po’, ma il primo posto di lavoro l’ha perso perché il padrone del pub voleva forzarlo a scaldare il prosciutto crudo nel microonde: «Mia nonna è marchigiana, non potevo farle un torto così». Basta, come motivo per lasciare? A lui è bastato e si è messo in proprio. «Il bello dell’Inghilterra è che ti viene un’idea e il giorno dopo sei in pista, mica come in Italia». Mette su un catering di cibo italiano. Ma Londra non è il paradiso: disumana, competitiva, così la racconta Lorenzo. Torna in Italia, oggi fa l’assistente in uno studio fotografico. Per ora in stage. In futuro chissà. Lorenzo è uno dei tanti ragazzi italiani un po’ velleitari, un po’ scansafatiche descritti dalle statistiche, accusati di non voler accettare lavori sempre troppo faticosi. Di sicuro si confrontano con la concretissima grande recessione cominciata nel 2008, contro la quale la Generazione Y lotta senza armi. La crisi ha sterminato posti di lavoro, e prosciugato speranze di futuro professionale.

L’Istat dice che il 40 per cento dei ragazzi non ha un’occupazione e 1 su 4 -2 milioni e mezzo di under 30- è arruolato tra le fila dei Neet (Not in Education, Employed or Training), insomma non studia né lavora. «L’Italia è la più grande fabbrica di Neet d’Europa», commenta Alessandro Rosina, professore di Demografia alla Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano, grande esperto del rapporto giovani-lavoro. «Il nostro è uno dei paesi avanzati che meno ha investito in politiche attive per il lavoro, ricerca sviluppo e innovazione rispetto al resto d’Europa. Significa che chi ha un titolo di studio basso fa fatica a trovare un posto di lavoro, e chi ha studiato di più spesso deve accontentarsi di essere sotto inquadrato e sotto pagato. I giovani sono frustrati per il sottoutilizzo delle loro potenzialità, e sfiduciati nella politica. Tutto questo li rende sensibili e reattivi rispetto alle critiche», dice Rosina. Un esempio? Poche settimane fa Jovanotti ha spronato i ragazzi a fare esperienze anche a costo di lavorare gratis, per far parte di un progetto e mettersi alla prova. I giovani l’hanno massacrato: «Che vada lui a far volontariato, con quello che guadagna», ha risposto il popolo del web. Il biasimo, per i Millennial, è sempre in agguato. Più volte Riccardo Illy, il patron dell’azienda di caffè, da vari quotidiani nazionali li ha criticati perché non avrebbero voglia di fare fatica, di svegliarsi presto per andare al lavoro. Colpa, per Illy, soprattutto di iperprotettivi genitori e nonni che invece dovrebbero insegnargli a mantenersi da soli. In passato era stata Elsa Fornero, da ministro del Lavoro del governo Monti, a definirli “choosy”, schizzinosi. Recentemente è stata l’agenzia di selezione Manpower a farli infuriare, sostenendo che il 46 per cento dei mille candidati idonei per l’Expo aveva rifiutato il posto offerto: indisponibili a lavorare nei week end e a rinunciare alle vacanze. I ragazzi si sono scatenati di nuovo, lamentando paghe troppo basse che rendevano impossibile, per chi veniva da fuori, mantenersi a Milano, selezioni poco serie e tempi di decisione strettissimi. «La verità? Nel mezzo», interviene Alberto Caccia, 27 anni, laurea in Matematica, emigrato dall’Abruzzo negli States in cerca di un futuro migliore. «In Italia ho lavorato in una grossa società di Milano che fa algoritmi matematici di cifratura, in pratica codici di sicurezza dell’home banking. All’inizio ero in stage non pagato e mi appoggiavo a zii di Pavia. Tre ore per il viaggio, mi svegliavo alle 6. Col primo contratto mi sono permesso una stanza a Milano. Ma se io facevo sacrifici, i miei amici si lamentavano e basta». Però anche Alberto se n’è andato. Ora lavora in Silicon Valley, a San Jose, centro ricerche Ibm, «Perché l’Italia è un paese che non sa valorizzare i giovani, neppure quelli in gamba».

L’intero contesto italiano li respinge. Gessica Carelli che ha da poco superato i trent’anni. Laurea in Marketing, fino a poco tempo fa viveva nel comasco: «In una agenzia di selezione del personale seguivo selezione, amministrazione e commerciale per soli mille euro al mese e nessuna prospettiva di carriera. Ogni mese potevo essere licenziata. Una volta, in ritardo con la rata del mutuo, in banca mi hanno spiegato che, se mi fossi ritrovata senza lavoro, avrei potuto bloccare il debito per un anno. L’ho fatto. Ho messo in stand-by la mia vita lavorativa e ora vado in Nepal per dare una mano a ricostruire Kathmandu».

Gessica in in 5 anni di selezione del personale si è fatta un’idea precisa sui giovani. «Tendenzialmente non vogliono fare sacrifici, non hanno capito che oggi è indispensabile saper fare e sapersi vendere. Ai colloqui c’era chi si lamentava perché il posto di lavoro era troppo lontano da casa, chi si presentava con la madre, chi non si era neppure informato sul tipo di mestiere ma voleva solo sapere quanto avrebbe guadagnato, chi arrivava in ritardo, chi rifiutava per principio turni perché troppo faticoso, chi rinunciava perché il lavoro cominciava a luglio e avrebbe compromesso le ferie», ricorda.

Roberto Galantuomo, 29 anni di Monte Romano (Viterbo), ha avuto esperienze simili. Ha preso in gestione la pizzeria dello zio e lavora tutto il giorno, la sera organizza eventi nelle discoteche: «Doppio turno, niente domenica né festivo. Ho faticato a trovare un aiutante al ristorante: nessuno voleva lavorare a Ferragosto. Molti si tirano indietro al primo ostacolo».

Allora è questo il ritratto dei Millennial? «Non sono né parassiti né indolenti, ma molto diversi dal mondo degli adulti», spiega Giovanni Siri, professore di Psicologia all’Università San Raffaele di Milano. Per lui soffrono di una sorta di “Sindrome della Principessa”. «Le famiglie hanno investito parecchio su questi ragazzi, li crescono con grandi aspettative. Caricati come molle, si credono “principesse” cui tutto sarà concesso e poi vanno a sbattere contro un mondo del lavoro diverso da quello che si aspettavano: stage sottopagati e pochissime prospettive. Scoprono che lavorare significa sacrificio, compromesso, ma nessuno glielo aveva spiegato. All’estero non succede: specialmente in Nord Europa e Usa c’è sensibilità verso il divario generazionale e si fanno corsi di formazione per imprenditori e responsabili del personale. L’idea è rendere i Millennial produttivi nelle aziende», prosegue Siri, secondo cui il modello è quello dell’azienda aperta e flessibile, stile Apple, perché per i giovani il lavoro non è semplice mezzo di guadagno, ma obiettivo di vita, piacere.

L’ideale sarebbe un’occupazione stimolante, in un luogo di condivisione. «Il modello culturale è quello dei telefilm di successo, come Grey’s Anatomy o Csi, dove gruppi di amici lavorano e fanno una vita interessante. Per l’Expo di Milano si sono trovati molti volontari perché l’obiettivo principale dei giovani non è far soldi ma sentirsi utili, dare significato alla vita. Lo fanno anche quando cercano opportunità nel servizio civile». Paolo Cappelli, 27 anni di Poggibonsi (Siena), fa il volontario e vorrebbe lavorare nel sociale. In tasca ha una laurea magistrale in Studi Geografici Antropologici all’Università di Firenze e lo sbocco concreto in Italia sarebbe entrare all’Istituto Geografico Militare di Firenze, ma lì bisogna indossare la divisa: «Sono contrario, quindi devo trovare un’altra strada. Ho fatto lavoretti stagionali, ora il volontario per la Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia, onlus che porta aiuto a bisognosi. Spero diventi un lavoro», dice Paolo, che sta anche studiando il cinese e spera in un futuro stabile. «Tutto sommato sono fiducioso. In Italia non è impossibile trovare lavoro ma bisogna impegnarsi e non tutti hanno voglia di fare sacrifici. Ho amici che per principio non accettano di lavorare il sabato e si lamentano in continuazione». Paolo invece è stato tra i primi ad aderire al progetto del ministero del Lavoro Garanzia Giovani (garanziagiovani.gov.it) che, partito mesi fa, punta ad aiutare i ragazzi con meno di 29 anni a trovare impiego. 600mila ragazzi si sono iscritti, solo 70 mila hanno ricevuto una risposta, spesso un tirocinio o un percorso formativo. «Specie al Sud le selezioni sono in ritardo, le agenzie pubbliche o private devono darsi una mossa», spiega Romano Benini, consulente del ministero del Lavoro e promotore del sistema Garanzia Giovani. I ragazzi scendono dal divano per migliorare il loro futuro, spiega Benini, ma meno del 10 per cento è disposto ad accettare un’offerta lontano da casa. Per molti l’indipendenza da mamma e papà non è un valore. Di tutt’altra pasta i ragazzi che se ne vanno all’estero - trentamila l’anno quelli con una laurea in tasca - in cerca di alternative alla stagnante Italia. «I più dinamici fuggono. Chi resta, fatica a spostarsi anche di pochi chilometri: perché le offerte lavorative sono pagate poco, e perché non si mettono in gioco. Inoltre il 40 per cento è disorientato, non conosce neppure l’esistenza dei servizi per l’impiego provinciali. La debolezza dell’inserimento al lavoro è un forte alibi per i Neet», commenta Benini. Eppure, grazie al Jobs Act che ha creato 133 mila posti di lavoro in più ad aprile, qualcosa sta cambiando: «Per ogni persona che trova una nuova occupazione due si mettono in cerca. Paradossalmente, l’aumento dei giovani disoccupati è un buon segnale: significa che gli inattivi ricominciano a darsi da fare, recuperano fiducia, tornano a spulciare le offerte, si iscrivono alle liste di collocamento gonfiando il numero dei disoccupati e smagrendo quello degli inoccupati». Eppure c’è ancora molta strada da fare se, come racconta il dossier “La Condizione giovanile in Italia” condotto su 9 mila ragazzi e pubblicato a marzo dall’Istituto Toniolo dell’Università Cattolica di Milano, il 30 per cento dei Neet italiani non ha intenzione di mettersi all’opera e il 36 per cento delle ragazze non accetterebbe un lavoro per alcun motivo e a nessuna condizione. «La metà dei disoccupati e i tre quarti degli inattivi sono persone scoraggiate, che sanno di non avere la formazione giusta per essere selezionati dalle aziende. In Italia mancano percorsi di attivazione, che accompagnino questo “zoccolo duro” verso la condizione di occupabile. Il rischio è perdere questa generazione per strada», incalza Benini. I giovani non sono però tutti scoraggiati allo stesso modo. Uno su 10 sarebbe pronto ad accettare qualsiasi lavoro, ma non lo cerca perché convinto che non ci siano sbocchi. Uno su 5 non è interessato alla questione. Il restante 60 per cento sarebbe disposto ad accettare un lavoro a certe condizioni: occupazione di prestigio, che dia reddito alto, non troppo distante da casa. Di questi tempi, si trova solo sull’Isola che non c’è.

Il lavoro preferito degli under 30? Un posto al catasto. Secondo un'indagine su novemila "millennials" fare l'impiegato statale è in testa ai sogni dei laureati e diplomati. Gettonati anche il bancario e il postino. Gloria Riva il 09 luglio 2015 su L'Espresso. Un posticino al catasto o in biblioteca. Nemmeno lo sportello dell’anagrafe comunale sarebbe male. È l’impiegato statale il lavoro che più affascina gli under 30, laureati o diplomati: tutti senza esclusione vogliono lavorare lì. A rivelarlo, i professori di Economia alla Cattolica di Milano Ivana Pais ed Emiliano Sironi nel capitolo “Lavoro e professioni, le aspettative dei giovani” del dossier sui giovani dell’Istituto Giovanni Tonolo. Dall’indagine su 9mila Millennial italiani emerge che il “lavoro dei sogni” è quello statale, seguito da negoziante, impiegato di banca, postino. Si contendono il quinto posto il panettiere e il pasticcere. In fondo alla classifica i lavori da incubo: il peggiore è il dentista. Per Pais e Sironi «è una scelta curiosa, forse dovuta al fatto che è una professione difficile con lungo percorso formativo e in più
i rischi del lavoro in proprio». Poco apprezzati i mestieri faticosi e manuali (muratore, saldatore, pellettiere, marmista, macellaio); le donne non vorrebbero mai fare l’estetista, la badante o la sarta. L’artigianato, che pure continua a chiedere persone cui insegnare un mestiere, interessa solo l’1 per cento dei ragazzi. Salvo ricredersi più avanti. Racconta l’imprenditore artigiano vicentino Luca Bortolotto:

«Ai centri di formazione professionale si iscrivono persone di 35 anni, ex studenti, a volte laureati, che vogliono rimettersi in gioco. Forse hanno capito che imparare una professione manuale è oggi uno dei pochi modi per dare un calcio alla disoccupazione». Intanto imprese come Bosch, Ducati, Tetrapak, Loccioni, Dallara e Bruno Cucinelli attraverso percorsi di alternanza scuola e lavoro cercano di far scoprire ai più giovani il bello d’imparare un mestiere.

Italia, siamo il paese dei giovani "Neets". Nessuno in Europa fa peggio di noi. Gli ultimi dati di Eurostat parlano chiaro: battiamo tutti per numero di giovani disoccupati che non vanno a scuola né imparano un mestiere. Ignorati dai media e dalla politica, i ragazzi in questa condizione sono aumentati di sette punti percentuali dal 2008. Alessandro Gilioli il 16 aprile 2015 su L'Espresso. Finalmente c'è una classifica in cui l'Italia batte tutti, nell'Unione europea. Purtroppo, però, è una di quelle gare in cui vince il peggiore. Ieri il nostro Paese si è visto infatti aggiudicare da Eurostat il primo posto dell'Unione Europea per giovani Neets, acronimo che sta per “Neither in employment nor in education or training”: persone che non lavorano, non studiano e non imparano alcun lavoro, neppure in modo informale. La percentuale di Neets italiani tra i 15 e i 24 anni supera infatti il 22 per cento: oltre un ragazzo su 5 si trova in questa condizione. Battiamo, in questa classifica, perfino la Bulgaria, la Grecia e Cipro; ultimi arrivati – cioè quelli che stanno meglio – Germania, Danimarca, Olanda e Lussemburgo. La media europea è del 13. La Repubblica federale tedesca e il Granducato sono anche gli unici due paesi in cui dal 2008 al 2013 il numero di Neets under 25 è in discesa; spaventoso invece l'aumento che si è verificato nello stesso periodo in Italia (più sette punti). Non meglio vanno le cose nella fascia di età successiva, quella tra i 25 e i 29 anni: qui il Paese maglia nera è la Grecia, ma noi veniamo subito dopo con una percentuale di Neets pari al 33 per cento: un terzo esatto. Un quadro in cui a pagare di più sono le donne, che in questa classifica raggiungono addirittura il 39 per cento (i maschi invece sono al 28). Secondo Eurostat, la percentuale di Neets «rappresenta un indice dello scollegamento tra le persone e il mondo del lavoro» ed è «strettamente collegata con il rischio di esclusione sociale». Il fenomeno dei Neets infatti, spiega la letteratura sociologica che negli ultimi anni si è sviluppata sul tema, non indica soltanto un problema di disoccupazione e di abbandono scolastico, ma anche una condizione psicologica di “distacco sfiduciato”: il Neet, non formandosi in vista di alcun lavoro, ha rinunciato di fatto anche alla speranza di un inserimento sociale. In termini assoluti, questa condizione riguarda in Italia oltre due milioni di persone. Ciò nonostante la questione non è al centro del dibattito politico, mentre in altri Paesi europei che pure soffrono di meno il fenomeno, il confronto pubblico in merito è ampio: in Gran Bretagna, ad esempio, è uno dei temi su cui si confrontano il leader dell'opposizione laburista Ed Milliband e il primo ministro uscente conservatore David Cameron, che ha appena lanciato un progetto per affrontare la questione. A livello Ue, la Commissione ha dato il via da tempo a diversi programmi per coinvolgere aziende, scuole e parti sociali per favorire il ritorno dei Neet a scuola e creare contatti  con il mercato del lavoro: finora con scarsi risultati, peraltro, visto che i Neets sono in aumento in quasi tutta l'Unione. 

Hikikomori: in crescita i giovani italiani che non studiano, non lavorano e non escono mai di casa.

I giovani reclusi che dicono no alla vita. Stanno in camera tutto il giorno, connessi ma senza contatti con l'esterno. Sono 100mila i nuovi eremiti per la disperazione dei genitori, scrive Terry Marocco il 22 aprile 2019 su Panorama. Prigionieri di sé stessi. Iperconnessi e soli. Una gioventù bloccata nel tempo e nello spazio, che si rifiuta di crescere. E si ritira dal mondo. «Sono un hikikomori» dice Marco Brocca, 23 anni, parlando a voce bassa dalla sua casa di Treviso, dove vive recluso da quasi dieci anni. «Tutto ha avuto inizio a 13 anni. Non mi trovavo bene con la mia classe. Stavo male, soffrivo di una forte dermatite, nessuno mi capiva. A 16 anni, dopo essere stato umiliato in classe da una professoressa, ho detto basta. E ho smesso di andare a scuola». Marco per mesi non è uscito dalla camera. «Alleno una squadra di calcio sul pc con calciatori da tutto il mondo. Gioco fino alle cinque del mattino, mi sveglio alle tre del pomeriggio. Di notte mi sento al sicuro. Al mattino cresce l’ansia. Il computer è il mio mondo. Non ho mai avuto una fidanzata. Ho paura di soffrire ancora, come quando ero alle medie». I genitori sono separati e in famiglia nessuno ha preso bene la sua scelta. «Mi dicevano che ero pigro, un inetto, uno che non aveva voglia di fare niente. Solo mia madre mi ha capito. L’ho portata allo sfinimento, ma ha compreso il mio dolore e mi ha sostenuto». Ha capito che non era il solo a comportarsi così, ma era un «hikikomori», parola giapponese che significa stare in disparte, ritirarsi. In Giappone, dove il fenomeno è nato negli anni Ottanta, si stima che siano un milione gli autoreclusi. Una generazione perduta. In Italia i dati parlano di 100 mila ragazzi. Ma sono molti di più, c’è un mondo sommerso che ha paura a mostrarsi. Eppure moltissimi sono stati i genitori che tramite l’Associazione Hikikomori Italia, fondata nel 2017 dallo psicologo Marco Crepaldi, si sono fatti avanti per raccontare la loro storia. Un dolore profondo difficile da affrontare. La parola chiave è vergogna. «È l’elemento fondamentale. La vergogna ti porta a sparire, a nasconderti» spiega lo psicoterapeuta Antonio Piotti, tra i primi in Italia a occuparsi di ritiro sociale, autore del saggio Il banco vuoto. Diario di un adolescente in estrema reclusione (Franco Angeli). Nulla viene perdonato dai coetanei, neanche un brufolo, siamo in una società prestazionale, dove la bellezza è centrale e lo sguardo dell’altro il giudice più temuto. Spiega Piotti: «Se ti senti brutto, goffo, impacciato l’unica soluzione è togliere di mezzo quel corpo che ti fa soffrire e vivere in una realtà virtuale dove non ne hai più bisogno. E così non devi sottostare ad aspettative sempre più alte. Internet li protegge e nello stesso tempo imprigiona». Nella società dell’apparire un figlio che invece vuole sparire sembra inconcepibile. Irma Bonanno, madre e insegnante di Catania con un figlio di 14 anni, vuole metterci la faccia: «Magari potrà servire a fare coraggio ad altre famiglie». Racconta: «In prima liceo di colpo ha smesso di andare a scuola. Si è chiuso in camera, usciva solo per mangiare o se doveva comprare qualcosa per il computer. Non gioca più a calcio. Gli amici passavano a cercarlo, ma lui si negava. Da otto mesi è così. Non so dove sbattere la testa. Sono separata, mio marito non è presente». «La scuola a febbraio mi ha consigliato di ritirarlo per evitare la bocciatura» continua. «Così ho fatto e il giorno seguente mi sono trovata a casa gli assistenti sociali. Un altro disagio. Lui non mi ha mai spiegato nulla. Quando entro in camera urla: “Esci, vattene”. Guarda Netflix, gioca con la PlayStation o semplicemente sta sdraiato sul letto. Di notte lo sento parlare in cuffia con gli amici conosciuti sul web. I parenti mi dicono: “Se fossi al tuo posto lo avrei preso a sberle. Invece tu non fai niente”. Chi non vive questa realtà non può capire». Sindrome sociale, colpisce nell’80 per cento dei casi i maschi. In Giappone soprattutto primogeniti o figli unici, ma il numero delle ragazze è in continuo aumento. Solitamente si tratta di intelligenze sopra la media, carriere scolastiche brillanti interrotte e mai riprese. Gli anni di ritiro vanno da tre fino a dieci. Una piccola percentuale si spinge anche oltre. Famiglie benestanti, genitori spesso laureati. Ultimamente il fenomeno si sta diffondendo anche nelle classi medio-basse. Padri perlopiù assenti, madri iperprotettive. Un’alta incidenza di coppie divorziate. «Sono sicura che ci sia un mondo di cui nessuno parla. Ragazzi che all’improvviso spariscono da scuola. All’inizio non ci facevo caso, ora so cosa succede» racconta una madre milanese. «Mio figlio ha 18 anni, quest’anno farà la maturità, ma è stata durissima. Dalla prima media ha manifestato questo disagio. Non voleva andare a scuola. Lo portavo di peso. Lui diceva che stava male, aveva mal di testa, dissenteria. Sui banchi era assente e mi sentivo ripetere: “Può fare, ma non fa”. Gli abbiamo regalato una PS4 e lui ci passava sempre più tempo. Quando ha iniziato il liceo le aspettative erano più alte. Così si è rifugiato nella sua stanza. Era molto ingrassato, lo sguardo vuoto, se non giocava stava sdraiato sul letto. Anche per i fratelli era una sofferenza immensa. Parenti e amici ci guardavano come fossimo degli incapaci. Poi un’amica mi parlò degli hikikomori giapponesi e ho capito che lui era uno di loro». Matteo Lancini, psicoterapeuta e presidente della Fondazione Minotauro, ha appena pubblicato il saggio Il ritiro sociale negli adolescenti (Raffaello Cortina Editore). «Dieci anni fa arrivarono da noi i primi ragazzi. Giocavano ai videogame tutta la notte, di giorno dormivano e non andavano a scuola. Alla base di questa scelta di solito c’è una delusione, un caso di bullismo, anche solo una frase sbagliata. C’è il crollo dell’Ideale dell’Io. Si cresce in una società individualistica, dove i ragazzi sono fragili. La scelta radicale diviene il ritiro nella propria casa che consente di allontanarsi dagli sguardi giudicanti dei pari, dalle emozioni». Concetta Signorello, madre di un venticinquenne, riflette: «Se mi chiedono da quando lui è un hikikomori, io rispondo da sempre. Ricordo una frase della sua maestra: “I ragazzi come suo figlio non sono rulli compressori, ma questa società richiede che lo siano. Chi non si allinea viene schiacciato”». L’estate è dolorosa, come spiega Lancini: «Un ritirato sociale non va al mare, è impensabile che si metta in costume da bagno». Il corpo va nascosto, il sesso non interessa. Molti hikikomori si professano asessuali. Il primo campanello d’allarme è l’abbandono della scuola. L’anno critico scatta solitamente in seconda o terza media, oppure durante il primo anno di liceo. Ma ormai ci sono ritirati sociali molto giovani, come il figlio di M.V che ha solo 11 anni: «È stata una chiusura graduale, iniziata in prima media. Era uno studente modello, ma non voleva più frequentare. Fu lui a dirmi “sono un hikikomori”, io non avevo mai sentito quella parola». Dalla provincia di Agrigento la madre lo porta con sé in una città del Nord dove lavora, ma le cose non migliorano. «Camminava guardando per terra, diceva che era brutto. Per due anni è rimasto nella sua camera. Era raro mangiare insieme, gli portavo un vassoio. Si interessa all’astronomia e al latino, che studia per conto suo. Mi ha detto che con i compagni non poteva parlare di queste cose. Sua nonna è stata molto dura, lo spingeva fuori dalla stanza, urlava. Io non ci riuscivo. Penso che abbia bisogno di tanta comprensione». Amore e una paziente attesa. Come nella storia di M.R, torinese, anche lei con un figlio adolescente: «Le prime avvisaglie sono arrivate a 13 anni dopo ripetuti atti di bullismo a scuola. Tutto è iniziato con una professoressa che lo umiliava davanti ai compagni. Aveva voti bellissimi, ma non ce la faceva a sopportare la situazione. Mi diceva: “Non è che non voglio, non ci riesco”. Chiuso a chiave in camera, tapparella abbassata, usciva solo di notte per saccheggiare il frigo. Siamo diventati reclusi sociali anche noi. Mio marito è della vecchia scuola. Sono venuti alle mani, è intervenuto il 118 un paio di volte. Oggi è in cassa integrazione. Così sono tutti e due a casa. Lui chiuso in camera. Mio marito nel suo dolore». Per i padri è ancora più difficile da affrontare, come confessa un genitore romano: «L’ho sgridato molto. E ho sbagliato. Ma la mia generazione viene da una storia diversa. I genitori si imponevano, i figli ubbidivano. Credo che la nostra educazione morbida sia uno dei motivi della loro crisi. Li abbiamo cresciuti nella bambagia, incapaci ad affrontare le difficoltà. Non siamo stati in grado di dargli le armi per affrontare questo mondo». Eremiti metropolitani profondamente narcisisti. E ormai ci sono anche le ragazze. Come racconta L.Q, madre piemontese di un’adolescente: «Aveva 12 anni quando si è ritirata. Stava a letto, non si alzava, non si lavava, si lasciava andare. Rifiutava qualsiasi contatto. Ha smesso anche di mangiare con noi. Guarda i social, segue alcuni YouTubers. So che a scuola è successo qualcosa. L’hanno presa in giro per i vestiti non all’ultima moda, l’hanno messa da parte durante un lavoro di gruppo. Oggi da sola studia l’inglese e il giapponese. E noi abbiamo riorganizzato la nostra vita per lei». Non bisogna rompere la bolla esistenziale dentro cui vivono, ma in punta di piedi provare a entrarci. Anche se sono uomini e non più ragazzi. Spiega una madre del Lazio, con un figlio di 25 anni: «Da sei vive nella sua camera. Dopo la maturità non è più uscito. Dieci ore davanti al computer, gioca con gli amici virtuali. Solo così è contento. Se gli togliessi Internet lo ucciderei. Quando è buio e la casa deserta esce per mangiare qualcosa. Cerco di parlargli, ma lui mi risponde “Sei tu che hai problemi, io sto bene così”. Non ha autostima, anche se è un bel ragazzo. Non vuole responsabilità, né crescere. Neanche i carcerati vivono così. Loro almeno escono durante l’ora d’aria. Quando gli ho chiesto cosa volesse fare del suo futuro mi ha risposto: “Ci sto pensando”». Migliaia sono i genitori iscritti all’Associazione Hikikomori Italia, l’unico punto di riferimento per le famiglie, che con più di quaranta gruppi di mutuo aiuto è riuscita a farli sentire meno soli. Il fondatore Marco Crepaldi è il loro unico faro: «Da una nostra indagine è emerso che il fenomeno è più presente al Nord, mentre il Lazio è la regione con più casi. La pulsione all’isolamento di un hikikomori non dipende mai esclusivamente dall’attrazione verso la Rete. Non è internet la causa del disagio, anzi toglierlo può solo peggiorare la situazione. Il computer è la loro finestra sul mondo, l’unico mezzo di contatto con la società esterna e anche il principale strumento di svago». Umberto C, vedovo, vive a Roma con il figlio diciassettenne. «Al secondo anno delle superiori, un istituto tecnico informatico, non ha più voluto frequentare. Non si alzava dal letto. Lo chiamavo, urlavo e lui si girava dall’altra parte. Dovevo andare a lavorare e mi sentivo morire a lasciarlo lì da solo al buio davanti al computer. È sempre stato un ragazzo socievole, con molti amici, nessun problema di bullismo. Intelligente, ipersensibile. Diceva solo che il mondo esterno non lo interessava. A volte usciva dalla stanza per mangiare. Noi due soli, in silenzio. Ha cancellato dal cellulare tutti i numeri degli amici e per due anni lo ha tenuto spento. Ho fatto di tutto. Ho tentato ogni escamotage per farlo uscire. Quest’anno l’ho iscritto in una piccola scuola privata. In classe sono solo sette e dopo due anni di assenza lui è tornato. Non sono riuscito a capire cosa gli sia successo. E ancora non posso dire che sia guarito». È l’espressione di una ribellione solitaria al mondo conflittuale e competitivo che gli abbiamo confezionato noi. Conclude la psicoterapeuta Michela Parmeggiani: «A scuola gli proponiamo solo programmi che li annoiano. Non abbiamo avuto l’umiltà di ascoltarli. Li abbiamo trasformati in oggetti di consumo, triturati in vite frenetiche. E allora è meglio ritirarsi e vivere su un’altra dimensione». Un mondo celato al mondo. 

Scrive Simone Stefanini il 20 Febbraio 2018 su Dailybest. La parola giapponese hikikomori significa letteralmente stare in disparte e isolarsi. È un termine che fa riferimento a tutte quelle persone che decidono di non volere più aver niente a che fare con la società e con le sue regole, ma invece di andare in eremitaggio sui monti o nel bosco, si ritirano in casa propria e ne escono raramente, solo per i fondamentali tipo fare la spesa. Come si evince dalla parola, il fenomeno è nato in Giappone come una sorta di ribellione alla cultura tradizionale dei giovani tra i 14 e i 30 anni, mediante un’esclusione sociale volontaria. Questo pericoloso fenomeno che in Giappone ha raggiunto la cifra incredibile di un milione di casi, sta interessando anche l’Italia. Son infatti in crescita i ragazzi che mollano la scuola e invece di cercare lavoro o realizzazione, smettono semplicemente di avere rapporti con l’esterno e si chiudono a riccio in un ambiente protetto, che presto diventa una gabbia. Gli hikikomori decidono di vivere in rete, connessi a internet durante la notte e a letto durante il giorno, invertendo così il normale ciclo sonno-veglia, rifiutando ogni rapporto fisico, leggendo libri, giocando a videogames o oziando senza mai mettere il naso fuori dalla propria camera. Non crediate però che i giovani che soffrono di questo disturbo siano da etichettare superficialmente con appellativi come bamboccioni, mammoni, vagabondi ochoosy. Essere hikikomori significa vivere molto male, impauriti dalla gente, dai rapporti d’amicizia o d’amore, terrorizzati dall’idea di andare a scuola e ancor di più da quella di cercare un lavoro, senza nessun tipo di volontà di comunicare con famiglia o amici. Un disturbo che può essere progressivo o avere motivo scatenante: un litigio coi genitori, un brutto voto a scuola, un licenziamento, episodi di bullismo o di violenzapossono portare alla segregazione volontaria, all’allontanamento da quelli che sono avvertiti come pericoli provenienti dall’esterno. Le pressioni sociali sempre più forti, la necessità di arrivare sempre primi, di farcela durante la crisi sono i fattori che un hikikomori decide di non voler affrontare più, gettandosi in una spirale discendente fatta di menzogne e stratagemmi per stare a casa, creandosi alias e vite parallele online,  finché quest’ultime non siano percepite come la vita vera. Benché presenti caratteristiche simili, l’hikikomori non è da confondersi con la dipendenza da internet, la depressione o la fobia sociale, è piuttosto una pulsione all’isolamento che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale (tipiche delle società capitalistiche economicamente più sviluppate). È necessario capire fin da subito il problema e intervenire: nel caso vostro figlio, fratello, amico o voi stessi siate ragazzi introversi, timidi, vittime di bullismo, nel caso vi sentiate diversi e non capiti dal mondo esterno, visitate il sito Hikokomoriitalia.it creato dall’Associazione Hikokomori Italia Genitori, in cui la problematica viene spiegata perfettamente e potete informarvi approfonditamente, partecipare attivamente al forum o alla chat, sia per i ragazzi che per i genitori che si trovino ad affrontare questo disturbo tanto subdolo quanto pericoloso, per superare la paura del giudizio.

Hikikomori, è boom anche in Italia: migliaia di giovani si recludono in casa, scrive Matteo Zorzoli su it.businessinsider.com il 15/2/2018.  Hanno tra i 14 e i 25 anni e non studiano né lavorano. Non hanno amici e trascorrono gran parte della giornata nella loro camera. A stento parlano con genitori e parenti. Dormono durante il giorno e vivono di notte per evitare qualsiasi confronto con il mondo esterno. Si rifugiano tra i meandri della Rete e dei social network con profili fittizi, unico contatto con la società che hanno abbandonato. Li chiamano hikikomori, termine giapponese che significa “stare in disparte”. Nel Paese del Sol Levante hanno da poco raggiunto la preoccupante cifra di un milione di casi, ma è sbagliato considerarlo un fenomeno limitato soltanto ai confini giapponesi. “E’ un male che affligge tutte le economie sviluppate – spiega Marco Crepaldi, fondatore di Hikikomori Italia, la prima associazione nazionale di informazione e supporto sul tema – Le aspettative di realizzazione sociale sono una spada di Damocle per tutte le nuove generazioni degli anni Duemila: c’è chi riesce a sopportare la pressione della competizione scolastica e lavorativa e chi, invece, molla tutto e decide di auto-escludersi”. Le ultime stime parlano di 100mila casi italiani di hikikomori, un esercito di reclusi che chiede aiuto. Un numero che è destinato ad aumentare se non si riuscirà a dare al fenomeno una precisa collocazione clinica e sociale. Associazioni come Hikikomori Italia ormai da anni stanno facendo il possibile per sensibilizzare l’opinione pubblica intorno ad un disagio che viene troppo spesso confuso con l’inettitudine e la mancanza di iniziativa delle nuove generazioni. Un equivoco che ha trovato terreno fertile nel dibattito politico, legislatura dopo legislatura, fornendo stereotipi come “bamboccioni”, definizione coniata nel 2007 dall’allora ministro dell’Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, o “giovani italiani choosy” (schizzinosi) dell’ex ministro del Lavoro, Elsa Fornero, fino ad arrivare al mare magnum dell’acronimo Neet, i ragazzi “senza studio né lavoro”, che secondo un sondaggio dell’Università Cattolica del 2017 sarebbero 2 milioni in tutta la Penisola. Anche dal punto di vista medico l’hikikomori soffre di una classificazione nebulosa. Nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), la “Bibbia” della psichiatria, è ancora iscritto come sindrome culturale giapponese: un’imprecisione che tende a sottostimare la minaccia del disagio nel resto del mondo e che crea pericolose conseguenze. “Molto spesso viene confuso con sindromi depressive e nei peggiori casi al ragazzo viene affibbiata l’etichetta della dipendenza da internet” – spiega Crepaldi – Una diagnosi di questo genere normalmente porta all’allontanamento forzato da qualsiasi dispositivo elettronico, eliminando, di fatto, l’unica fonte di comunicazione con il mondo esterno per il malato: una condanna per un ragazzo hikikomori”. L’ambiente scolastico è un luogo vissuto con particolare sofferenza dagli hikikomori, non a caso la maggior parte di loro propende per l’isolamento forzato proprio durante gli anni delle medie e delle superiori. E’ in questo periodo che di solito si verifica il cosiddetto “fattore precipitante”, ovvero l’evento chiave che dà il via al graduale allontanamento da amici e familiari. Può essere un episodio di bullismo o un brutto voto a scuola, ad esempio. “Un avvenimento innocuo agli occhi delle altre persone, ma che contestualizzato all’interno di un quadro psicologico fragile e vulnerabile, assume un’importanza estremamente rilevante – spiega Crepaldi – E’ la prima fase dell’hikikomori: il ragazzo comincia a saltare giorni di scuola utilizzando scuse di qualsiasi genere, abbandona tutte le attività sportive, inverte il ritmo sonno-veglia e si dedica a monotoni appuntamenti solitari come il consumo sregolato di serie TV e videogames”. E’ fondamentale intervenire proprio in questo primo stadio del disturbo, quando si manifestano i primi campanelli di allarme. In questa fase i genitori e gli insegnanti rivestono un ruolo cruciale in chiave prevenzione: indagare a fondo sulle motivazioni intime del disagio e, nel caso, cercare in breve tempo il supporto di un professionista esterno può evitare il passaggio ad una fase più critica, che richiederebbe un intervento lungo potenzialmente anche anni. È innegabile che la cultura giapponese sia storicamente caratterizzata da una serie di fattori che aumentano la portata del fenomeno, tanto da poter già parlare di due generazioni di hikikomori, la prima sviluppatasi negli anni Ottanta. Il sistema sociale e scolastico ultra competitivo e il ruolo della figura paterna spesso assente a causa di orari di lavoro estenuanti sono alla base di aspettative opprimenti, spesso non realizzate. Seppur con le dovute proporzioni anche in Italia le pressioni sociali sono molto forti. Determinanti fin dai primi casi di hikikomori diagnosticati nel 2007, sono il calo delle nascite con il conseguente aumento dei figli unici, di norma sottoposti a pressioni maggiori, la crisi economica che rende più lontano l’ingresso (reale) nel mondo del lavoro e l’esplosione della cultura dell’immagine, esasperata dalla diffusione capillare dei social network. In Italia la sindrome non colpisce solo i maschi, come avviene in Giappone, ma riguarda anche un discreto numero di hikikomori-femmine, con un rapporto di 70 a 30. “Per una questione culturale le famiglie considerano, tuttavia, la reclusione della figlia come un problema minore – spiega Crepaldi – Probabilmente perché la vedono come una futura casalinga o sperano che un domani si sposi ed esca di casa”. All’interno del contesto italiano, ci sono poi differenze addirittura tra una regione e l’altra: gli hikikomori del Nord Italia hanno, infatti, delle caratteristiche diverse rispetto a quelli del Sud Italia. Proprio per questo il sito di Hikikomori Italia mette a disposizione chat regionali,in cui i ragazzi possono discutere dei problemi con i loro conterranei affetti dalla stessa sindrome. C’è un’unica regola all’interno della chat: chi ci entra non è costretto ad interagire, ma è gradita una breve presentazione. Chi non la rispetta, viene “bannato”. Per chi vuole raccontare la propria storia c’è anche il Forum, aperto sia ai ragazzi che ai genitori: un mondo parallelo, silenzioso, impalpabile. Una bacheca di richieste di aiuto e di sofferenza, ma anche di storie a lieto fine. Come quella di Luca, 25 anni: “Il giorno e la notte erano identici, dormivo quando avevo voglia, mangiavo quando avevo voglia. Ho perso tutti gli amici e lo schermo era uno “stargate” per un altro universo. Il tempo si dilatava quando cliccavo sulla tastiera e non volevo mai smettere. Quando dovevo lavarmi fremevo sotto la doccia per rimettermi a giocare. Ho passato così più di due anni giocando a Wow [World of Warcraft, un videogioco di strategia ndr] in totale isolamento. Non riuscivo neanche più a camminare. Tutto questo è successo senza che mia madre si accorgesse di nulla: lavorava dalle 8 alle 17 e io facevo finta di andare a scuola. Non avevo più voglia di tornarci. Troppa pressione. L’isolamento è una battaglia che alla fine diventa una cura. Cresceva dentro di me come un’onda, lentamente, fino al momento in cui tutto iniziava a darmi fastidio, non sopportavo cosa facevo, non sopportavo chi ero. Oggi ne sono fuori, vivo all’estero e ho una fidanzata bellissima. Sono o sono stato un hikikomori? Non lo so, ma quello che so è che la forza per combattere quel demone sta e risiede solo dentro di voi, nessuno vi può aiutare, nella taverna di qualche montagna virtuale dove voi stessi vi siete persi, con la sensazione di pace che vi avvolge la mente. L’unico consiglio che mi sento di darvi è: scappate da quel computer”.

Hikikomori: gli adolescenti chiusi in una stanza Il disagio giapponese dilaga in Italia. Le stime parlano di 30mila casi ma potrebbero essere di più i giovani che non vogliono uscire dalla loro camera per mesi, a volte anche per anni. Tra i sintomi del malessere, avversione per la società, fobia scolastica e fuga in Rete.  Lo psicoterapeuta Piotti: «Più che di depressione si tratta di un sentimento di vergogna», scrive Luciano Grosso il 22 giugno 2015 su L'Espresso. Per anni è stato considerato una questione tutta giapponese, una di quelle cose strane che fanno laggiù, come l’inchino, il biglietto da visita porto con due mani e le cene seduti per terra. E invece no. Perché gli Hikikomori, cioè gli adolescenti che rifiutano il mondo e si chiudono in camera per non uscirne più per mesi, anni o addirittura per tutta la vita, adesso ci sono anche in Europa e in Italia. “I primi casi italiani, sporadici e isolati, sono stati diagnosticati nel 2007, e da allora il fenomeno ha continuato a crescere e, seppure con numeri diversi da quelli giapponesi, a diffondersi”. A spiegarlo è Antonio Piotti, psicoterapeuta in forze al centro milanese Il Minotauro, che da sempre studia il disagio adolescenziale e autore, insieme a Roberta Spiniello e Davide Comazzi, del libro ‘Il corpo in una stanza’ (Franco Angeli) la prima indagine organica sugli hikikomori italiani. “Ad oggi non sappiamo con precisione quanti siano i giovani italiani che si sono ‘ritirati’- spiega Piotti-. Le stime parlano di 20/30 mila casi, ma il fenomeno potrebbe essere più ampio. In Francia se ne contano quasi 80 mila, mentre in Giappone, dove il fenomeno è quasi endemico, si parla di cifre che oscillano tra i 500 mila e il milione di casi”. Difficile riconoscere i sintomi di un Hikikomori, che possono essere confusi con quelli di una più comune depressione, anche se si tratta di due forme di malessere molto diverse. “Chi è depresso - spiega Piotti - tipicamente ha crisi di pianto, incapacità di relazione, continue lamentazioni su di sé e, nella sua sofferenza, c’è una forte componente di senso di colpa. Negli Hikikomori, invece, il sentimento prevalente è la vergogna. Si vive come un fallimento la distanza tra il mondo che si è immaginato e previsto per sé e quella che invece  è la realtà: tanto più grande è la distanza tra la realtà che si era idealizzata e quella vera, tanto più grande sarà la vergogna che si prova”. Così, in un’età che tipicamente si colloca tra la terza media e la prima superiore e indipendentemente dalla posizione geografica e sociale, posti di fronte alle comuni sfide della crescita, alcuni giovanissimi fanno crash e  prendono a evitare sempre di più il mondo esterno, fino a scegliere l’autoreclusione in un universo minimo, fatto solo di una stanza, in cui i contatti con il prossimo sono relegati solo all’universo virtuale dei social network o dei videogiochi e in cui non di rado il ritmo sonno veglia è completamente invertito. “Tra i sintomi presentati dagli Hikikomori c’è una forte avversione per tutti i tipi di attività sociali, dall’uscire con i coetanei alla pratica di sport di gruppo, e, soprattutto, un’accentuata fobia scolare, non necessariamente motivata da brutti voti. Il problema a scuola non riguarda né le materie, né lo studio, né gli insegnanti, ma la socialità complessiva, l’incontro con membri dell’altro sesso e, quindi, il rischio del rifiuto, e la competizione, non sempre vincente e felice, con quelli del proprio”. A saziare le esigenze di chi si taglia fuori dal mondo esterno, pensa la Rete che dà  risposte e aiuta a costruire legami senza troppi pericoli e senza metter in gioco il corpo. E proprio Internet è al centro di un’ampia discussione nella quale ci si chiede se il rapporto parossistico tra Hikikomori e web sia la causa o l’effetto della malattia. “In merito ci sono due teorie: secondo la prima gli Hikikomori nascono per colpa della rete, che con le sue mille attrattive ti tira dentro e ti allontana dal mondo. La seconda, invece, a cui credo io, sostiene che i ragazzi stanno male comunque, perché non reggono il peso del confronto e della continua aspettativa che arriva dalla cultura contemporanea;  una volta che ci si è reclusi in casa, poi, la Rete è oggettivamente un posto bellissimo dove andare, potenzialmente infinito e pieno di stimoli, in cui crearsi una vita fuori dalla vita”. In attesa di decidere se è nato prima l’uovo dell’attaccamento a internet o la gallina dell’isolamento dal mondo reale, l’unico dato di fatto è che dalla rete, spesso, arriva anche l’unico modo per curare gli Hikikomori. “Al terapeuta tocca trovare il modo per entrare in contatto ragazzi che, appunto, non vogliono nessun contatto e, spesso l’unico modo per farlo passa proprio internet, con Skype o con le chat”.

Roberto D’Agostino per Vanityfair.it il 10 ottobre 2019. Sono stato giovane una volta - avevo 20 anni nel 1968 - ma sono fermamente deciso a non esserlo mai più: troppo faticoso. Prendere tutto sul serio, dire sempre di no, credere nella violenza, per non ripetere quel verso di Rimbaud: "Per delicatezza ho perduto la vita". E allora, su il sasso, giù i capelli, cariche di poliziotti e sfoghi di studenti, katanghesi autonomi e pariolini autosufficienti, Lotta Continua e "da oggi prendo la pillola", cantautore stonato e complessino scordato, eskimo e Adidas, la frittatina al topo nell'osteria alternativa, "il privato è politico", "vogliamo tutto", "checcazzo", viva lo spino, camuffarsi da proletari o da ragazzo di riformatorio, immaginazione al potere e corteo con P38, "Sce-mo, sce-mo", Moro tra errore e terrore. Ho creduto in cazzate e pronunciato sciocchezze. Mi rivedo riflesso in quel “rap” di Alberto Arbasino: "Dieci/undici anni di lotte - Discorsi, dibattiti, discussioni - Attentati, ferimenti, uccisioni - Per mandar Castellina e Capanna - All'assemblea di Strasburgo”. In fondo, il sessantottismo nasceva non da un bisogno di ribellione contro la tirannia e l'ingiustizia ma piuttosto per bisogno mistico, biologico di calore umano, di "camaraderie", di fratellanza, di solidarietà. Che cos'è la gioventù, se non un popolo, un mondo, un continente che sviluppa ombrosamente i propri valori, disvalori, gusti, disgusti, sapori, abitudini di abbigliamento e, attraverso il rock (ieri) e i social (oggi), il suo particolare sistema di comunicazione? E' la "sofferenza" di diventare grandi il punto di partenza; un frenetico modo di riempire i buchi della vita, sia quelli del dolore sia quelli della noia. Quel paradosso irresolubile che sta dietro ogni gioventù - integrarsi? ribellarsi? - a partire dagli Ottanta è stato messo da parte. E per anni la Società dei Costumi (intellettuali, sociologi, psicologi) si è occupata con fervido entusiasmo del quindicenne precipitoso, della ragazzina stupidona, del rockettaro selvaggio, della piccina brufolosa stanca di sopravvivere a una giovinezza ricca di proteine e vitamine e soldi in tasca e scuole facili e famiglie disposte a tutto, priva di ideologia, di ideali ma anche di idee, quindi priva di senso. E la matita aguzza di Altan poteva gettarla nell'olio bollente, come un sofficino Findus: "Questi giovani d'oggi non credono a niente: noi, alla loro età, eravamo pieni di delusioni". Sorpresa: nelle settimane scorse un’onda verde di ragazzi e ragazze ha riempito le strade di ogni città del mondo per accusare il mondo degli adulti di essere sordi e ciechi di fronte ai cambiamenti climatici che stanno alterando profondamente l’habitat terrestre. Così, dopo anni di cretinismo senza limitismo, oggi, la gioventù si è rimessa in marcia infiammata dal “gretinismo”. Oggi è Greta Thunberg l’adolescente più conosciuta e influente del pianeta. Dato che è difficile, quasi impossibile, contestarle che qualcosa si è rotto nell’equilibrio tra gli uomini e la Terra, l’obiettivo si è spostato sulle treccine di Greta. Da filosofi (Cacciari) a politici di qualsiasi risma (Trump) - perfino Radio Maria l’ha scomunicata (“Cara Greta, dopo che abbiamo buttato Dio nella pattumiera, vogliamo salvare il pianeta?”) - , uno “shitstorm” di imitazioni critiche e battutacce si è abbattuto sulla ragazzina svedese. Ora, è lunga la scia di bambine osannate dagli ecologisti e poi sparite. Una per tutte: chi si ricorda di Severn Cullis che ebbe i suoi 15 minuti di fama nel 1992? Greta no. Greta è diventata un simbolo. Perché? Come scriveva Baudelaire: ‘’Viviamo in un'epoca in cui le cose non deformate non hanno volto”. E Greta, fisicamente, è lo specchio deformante della nostra realtà. Colpita dalla sindrome di Asperger, ha un volto difficile da decifrare, non molto sviluppata fisicamente e non esibisce i comportamenti convenzionali degli adolescenti, t-shirt, scarpe da ginnastica di marca, tatuaggi. Una volta vista, non è possibile cancellarla dalla memoria. In più, quando va a parlare all’Onu, strabuzza gli occhi come la ragazzina della “Famiglia Addams” ma s’incazza come Giovanna d’Arco (“Come osate?”). Un discorso che si è trasformato in un bombastico “J’accuse” capace di compiere, attraverso i social, il miracolo: risvegliare, dopo decenni di abulia, una gioventù sazia e disperata.

Greta Thunberg e Carola Rackete, ambientalisti e Ong fanno un partito insieme. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 6 Ottobre 2019. Tira una brutta aria in politica. Eravamo convinti di aver visto il peggio con la nascita del governo giallorosso, i grillo-comunisti al potere e la loro ideologia a metà tra Utopia e Incompetenza. E invece, tenetevi forte, al peggio non c' è mai fine perché stanno arrivando i gretini al seguito della Thunberg, il movimento dei Fridays For Future, ossia del cazzeggio del venerdì per bigiare la scuola, che ora ha intenzione di trasformarsi in un partito. Sì, ma mica un partito di periferia, buono a candidarsi per le elezioni locali. No, un partito globale. Dopo il successo avuto dalle piazzate dei ragazzini ecologisti in mezzo mondo, Greta & Co. sono pronti a fare il grande passo, a scendere in politica, sfidando dall' interno quel Palazzo che contestano, anzi aprendolo come una scatoletta di tonno, se non fosse che questa espressione è già stata usata ed è un po' troppo poco ecologista. Il Climate Party, il partito del Clima, cui darebbe vita la Thunberg, intende superare i «partiti verdi e ambientalisti che si sono impantanati nei giochi di potere dei parlamenti nazionali e regionali», si legge su Italpress, e proporre «una piattaforma programmatica alle elezioni, comune in tutti i Paesi occidentali», per dare vita - udite udite - a una «leadership governativa internazionale».

CORSI E RICORSI. L' ultima volta che un partito ha avuto una vocazione Internazionale è stata ai tempi del Partito comunista, e sappiamo come è finita. I proletari di tutto il mondo non si sono uniti spontaneamente; viceversa l' idea è stata imposta negli altri Paesi con esiti sanguinari. A questo retaggio globalista i gretini associano il mito della democrazia diretta e digitale, della E-democracy come a loro piace chiamarla. L' obiettivo è portare in politica i cittadini comuni, gli adolescenti dell' antipolitica, volti nuovi, candidi e quindi candidabili, facce pulite anche perché odiano tanto lo smog e l' anidride carbonica. Ma il problema, oltre che anagrafico, è di competenza: con quale esperienza, con quali conoscenze, con quali capacità di leadership questi sbarbatelli andranno a comandare, per dirla con Rovazzi? Non rischiamo una nuova accozzaglia di incapaci buttati lì nei Palazzi, mandati al macello, e allo stesso tempo in grado di mandare in malora tutto l' Occidente? Non bastavano i grillini, ora ci toccano pure i gretini. Il dramma è che alla loro ingenuità sommano pretese smodate come quella di salvare il pianeta, con un cocktail letale tra inettitudine e scarso senso della realtà. Questo Partito del Clima intende addirittura sfidare le superpotenze del Male come Cina, Russia, India, Pakistan, Iran, che «hanno anteposto gli interessi militari e nazionali al rispetto dell' ambiente». Ma ve li vedete quattro adolescenti imberbi e una paladina delle emissioni zero con le treccine far cambiare rotta a Putin, a Xi Jinping, a Modi? Ah be', c'è Greta Thunberg, c'è il partito del Clima, deindustrializziamo subito, torniamo a un' economia rurale Orsù, non fateci ridere. Aggiungici poi l' ideologia dello sconfinamento. Perché tutto, secondo i gretini, deve stare entro i parametri, i limiti (le emissioni, i consumi, lo sfruttamento delle terre coltivate), tranne le nazioni che devono perdere i loro confini e diventare globali. E qua l' ideologia di Greta si salda con quella di Carola, con lo slogan No Borders, con l' essere cittadini del mondo, e non figli di un luogo e di una storia. Soprattutto, però, quello che nausea è scoprire che la partecipazione genuina, l' ambizione nobile a cambiare le coscienze dei grandi del mondo, la battaglia senza doppi fini dei ragazzini si risolve, come sempre, in scopi molto più meschini: l' obiettivo di far carriera, di essere eletti e magari riuscire a occupare un giorno le stanze dei potenti.

COME FINIRÀ. Resta solo da capire chi guiderà, quali saranno i colori e come si chiamerà ufficialmente questo partito del Clima. Per la leadership Greta pare avvantaggiata, anche se al momento non può ancora eleggere né essere eletta e quindi per un paio d' anni dovrà farsi aiutare da qualche vicario. Per il colore, il verde sarebbe troppo sputtanato perché già utilizzato dai Verdi e dalla Lega: i gretini farebbero meglio a utilizzare un colore trasparente, come l' aria che vogliono respirare e come le loro idee, così trasparenti da essere invisibili. Per il nome, si potranno sbizzarrire con le sigle: Il Partito della Tripla Fi come Fridays For Future oppure C & G che non è la versione tarocca di Dolce e Gabbana ma sono le iniziali di Carola e Greta. Oh, però sti ragazzini devono fare in fretta. Nel 2030 il pianeta si estingue e, se non scendono in campo ora, rischiano di essere morti prima ancora di essere eletti. Gianluca Veneziani  

Il nuovo fascismo: Liberale, Antifascista ed Europeista. Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019 su Nicolaporro.it.  Caro Nicola, oggi il mio pezzo comincia a mo’ di lettera perché dobbiamo riconoscerci sconfitti. La nostra battaglia per la libertà, di parola prima di tutto, condotta fin dall’inizio da te, e da noi tutti, è persa. Me lo confermano due recenti fatti. Uno, di cui scrive Azzurra Barbuto su Libero del’8 ottobre: un insegnante livornese accusata di razzismo, e richiamata dai superiori, per aver proposto in classe un’esercitazione in cui si contrapponevano le ragioni dei favorevoli a quelle dei contrari all’immigrazione, senza prendere posizione. Come ha osato? Sarebbe come se nella Germania nazista si fronteggiassero le ragioni dei nazisti a quelle degli altri: l’accusa di essere ostile al Fuhrer sarebbe scattata subito. O come se in uno qualsiasi dei regimi comunisti si opponessero le ragioni del marxismo-leninismo a quelle degli altri: insegnante buttata fuori subito in quanto “traditrice del popolo”. Secondo fatto, da La Verità del 9 ottobre: i verdi italiani, riunitisi in una cabina telefonica, chiedono formalmente ai giornali e alle Tv di non ospitare le ragioni degli scienziati negazionisti: quelli che non credono alla (balla) della emergenza climatica. Non si capisce quale ritorsione i gretini nostrani minaccino, per i reprobi che continuino a pubblicare, ad esempio, Franco Battaglia. Ma l’avvertimento è lanciato. Di fronte a tutto ciò dobbiamo dichiararci sconfitti. E in nome del “nuovo umanesimo” professato da Giuseppi e i suoi fratelli (nel doppio senso) dobbiamo essere costruttivi. Ecco alcune proposte. Gli insegnanti di ogni grado, dai nidi all’università, dovranno rispettare i valori del SELA (Stato Etico Liberale Antifascista) che sono: 1) l’Antifascismo (che non abbisogna di spiegazioni, esso è, come l’Essere parmenideo); 2) l’immigrazione è positiva e gli immigrati (tutti profughi) sono intrinsecamente buoni, ci arricchiscono sia materialmente che spiritualmente; 3) l’emergenza climatica è un dogma inoppugnabile; 4) l’Europa è la nostra patria, le nazioni e i confini non esistono, l’Euro ci ha reso tutti più ricchi e felici. Gli insegnanti sono obbligati, al di là delle loro materie, a insistere sempre su questi valori e a ribadirli durante le ore di lezione: quindi avremo la Letteratura Liberale, la Matematica Liberale, il Disegno tecnico Liberale, la Musica liberale, e via dicendo. Apposite ore saranno tuttavia riservate per l’insegnamento della MLAE (Mistica Liberale Antifascista Europeista). Qualsiasi insegnante sia colto a mettere in dubbio questi valori sarà immediatamente licenziato ed eventualmente deferito al TDRLA (Tribunale per la Difesa della Razza Liberale Antifascista). Sarà fatto divieto agli insegnanti di mettere in dubbio i valori del SELA anche sui social, che saranno controllati da un‘apposita commissione del Ministero della Educazione Liberale Europeista. Chiunque anche solo ponga un like su post contrari ai valori del SELA sarà licenziato. Ma poiché il privato è pubblico e il pubblico è privato, grazie ai sistemi di ricognizione facciale e alle tecnologie introdotte dalla Cina comunista (un modello per il SELA), l’insegnante sarà licenziato anche se dovesse dubitare dei valori Liberali Antifascisti Europeisti in piscina o al bar. Sui pensieri, si sta lavorando, ma anche qui con l’apporto di Pechino si stanno facendo passi avanti. Per quanto riguarda invece i giornalisti, chiunque voglia scrivere su testate cartacee, on line o in tv o in radio dovrà possedere la tessera dell’OGLE (Ordine dei Giornalisti Liberali Europeisti). Qualsiasi giornale ospitasse pezzi scritti da estranei all’Ordine sarà chiuso. Ogni pezzo sarà comunque preventivamente controllato dal Ministero della Cultura Liberale Antifascista, ricordato più speditamente come MINCULA (senza apostrofo). Il MINCULA provvederà, attraverso appositi algoritmi, a modificare e a riscrivere pezzi che mettano in dubbio i valori del SELA. E’ chiaro che alla quinta modifica di pezzo nel corso di un mese, il MINCULA farà chiudere il giornale. Tutto questo, oltre che estremamente Liberale Antifascista ed Europeista, mi sembra anche nuovo per il nostro paese. O no? Marco Gervasoni, 10 ottobre 2019

·         Volgare 2.0. L’Esperanto dei ragazzi.

L'ESPERANTO DEI RAGAZZI. Marino Niola per ''la Repubblica'' il 28 settembre 2019. Un' onda verde si è riversata nelle strade del mondo. Solo in Italia più di un milione di ragazzi hanno sfilato pacificamente, festosamente, ironicamente. Sorprendendo tutti con la forza di una protesta mite, che rivendica il diritto dei giovani al futuro. Ma non odia nessuno, non brucia le foto di Bolsonaro, né quelle di Trump. Non incendia bandiere, non spacca vetrine. Piuttosto gioca con le parole, perché sa che nella società della comunicazione chi lancia i messaggi giusti vince e convince. Così mostrano di aver imparato la lezione, molto prima di noi adulti che pensavamo di insegnargliela. E così, sulle ali di Twitter e sulle pagine Instagram volano slogan come un galileiano "Vi siete goduti le stelle, ci avete lasciato il cielo a pecorelle". O un neo-hippy, "We want a hot girl, no a hot climate", cioè vogliamo una ragazza caliente, non un clima bollente. Che, fatte le debite trasposizioni è un po' come il "Fate l' amore non fate la guerra" del pacifismo anni Sessanta. Mentre il lennoniano "Give peace a chance" oggi, tradotto nel vocabolario dei Fridays4Future, diventerebbe "Give Earth a Chance". Anche l' uso generalizzato dell' inglese ha qualcosa di incoraggiante, di speranzoso. Anzi di "esperantoso". È la lingua franca che permette a tutti i millennials di ritrovare una koinè, un fondo comune di valori e di aspettative. È la faccia buona della globalizzazione. La stessa Greta Thunberg, nei sui primi discorsi pubblici in inglese ha chiesto venia per il suo accento scandinavo e per eventuali errori, sdoganando di fatto l' idea che anche chi non ha studiato a Oxford, ma ha un cuore verde, ha diritto di essere ascoltato. Ed è solo l' inizio. Perché l' ecologismo di oggi, ormai si è capito, non è un capriccio da ragazzini viziati o da sdraiati annoiati. È un' obiezione di coscienza che sta cambiando gli usi e i consumi di una generazione che spreca decisamente meno della precedente. E cerca di vivere con poco, senza per questo sentirsi sfigata. Ha bisogno solo di un telefonino. Ma anche su questo sta cambiando. Perché uno dei tam tam che ieri hanno attraversato le piazze delle nostre città era "Usciamo dai social". Che esprime il bisogno di relazioni fisiche, occhi che si guardano e corpi che si toccano. Come dire che la realtà dell' umano è il "face to face" e non quella sua protesi digitale che è il "Face to Facebook". Perché il web è molto, ma non può essere tutto. Così, in assoluta controtendenza rispetto a una società che trasforma le persone in cose, in merci, in microchip, questi ragazzi trasformano il Pianeta in una persona. Non a caso i nostri figli sono nati negli stessi anni delle tecnologie che hanno messo la Terra a portata di click. Come Google Earth, l' applicazione del colosso informatico californiano che ha la stessa età di Greta e che offre gratuitamente la possibilità di esplorare a volo d' uccello mari, monti e deserti. Il motto dell' app è da sempre "Lasciati trasportare nel globo, il mondo è tuo". Tutto questo ha avvicinato il pianeta all' orizzonte dei millennials, lo ha reso una presenza familiare, monitorabile nel più piccolo dettaglio. Ne ha fatto la moderna incarnazione di Gaia, l' antica dea della terra. Il cui destino è legato a doppio filo al nostro. E i ragazzi ce lo stanno insegnando.

Sciopero per il clima, “Daje Greta salviamo sto pianeta” – Gli striscioni più creativi fatti dai ragazzi al corteo di Roma. 

Il corteo è partito da Piazza Venezia, gremita già alle 9 di mattina. Gli studenti di politica non sanno, né voglio sapere, quasi nulla, ma sono angosciati dal fatto che del tema si parli poco e che gli adulti non lo considerino nella sua urgenza. Elisabetta Ambrosi il 27 settembre 2019 su Il Fatto Quotidiano. Alle nove di mattina Piazza della Repubblica, luogo di inizio dello sciopero dei ragazzi romani, era già gremita all’inverosimile. Una folla di ragazzini e ragazzi, pochi gli adulti, arrivati a gruppetti quasi tutti con i mezzi pubblici. Alcuni giustificati dalla scuola, altri no: dai racconti si capisce che la circolare del ministro Fioramonti è stata recepita a macchia di leopardo; ma non importa, loro sono lì. Il fiume di studenti percorre via Cavour per arrivare a piazza Venezia. Il clima è allegro, gruppi di ragazzini saltano al grido di “Siamo più felici, prendiamo la bici”, ma anche “Più benzina, la fine si avvicina”. Nei cartelli si scatena l’ilarità, declinata in romanesco: “Vacce te su Marte”, “Daje Greta”, “Ahò, ma lo volemo salvà ‘sto pianeta?”, “Sta a schiumà”, “Stò a fa la colla”, “Sciopero dei taxi, annamo a fette”. Altri giocano con ironia sul sesso: “I want a hot boyfriend not a hot planet”, ma anche “Più sesso orale meno riscaldamento globale” , “Fuck me, not the planet”. A intervistarli, in realtà, si scopre che sono spaventati, anche se spesso non sanno dire esattamente di cosa o quali siano le conseguenze del riscaldamento globale che più temono. Avvertono una minaccia vicina, e insieme, quasi tutti, sono angosciati dal fatto che del tema si parli poco e che gli adulti non lo considerino nella sua urgenza. Difendono Greta da ogni critica con parole semplici – “Ha detto cose ovvie, sensate, come si fa a criticarla?” e di politica non sanno, né voglio sapere, quasi nulla. Qui, almeno a Roma, in piazza c’è la sensazione che il problema del riscaldamento globale sia enorme ma che serva ancora urlare per cambiare la testa dei legislatori. Eppure il cambiamento è già qui e ora: fine settembre, trenta gradi, stare al sole è temerario. Ma come dice una giovane ragazza: “Io non posso votare, posso solo sfilare”.

Greta, dai suoi cartelli nasce un nuovo carattere di stampa. «Ora tutti potranno scrivere come lei». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. Lasciamo stare che in Italia c'è pure chi ha pensato bene di appendere da un ponte il manichino con il suo fantoccio (è accaduto l'altra notte a Roma). La verità è che Greta Thunberg, l'attivista svedese di 16 anni sui cambiamenti climatici, si può ormai unanimemente considerare l'ispiratrice di un'intera generazione di persone. Specie ragazzi. Milioni di persone in tutto il mondo che hanno deciso di prendere posizione per la salute del pianeta. Ebbene ora — stando a quanto riporta il sito Adage.com — non saranno solo le idee della ragazza ad essere prese ad esempio, ma anche la sua scrittura. Chiunque, cioè, potrà protestare utilizzando la vera calligrafia della paladina dell'ambiente. Ciò sarà possibile grazie all'intuizione del team dalla startup «Uno», che, studiando lettera per lettera il celeberrimo cartello di protesta utilizzato da Greta per i suoi scioperi per l'ambiente, ha sviluppato un intero alfabeto, scaricabile gratuitamente a questo indirizzo. «Per costruire il carattere tipografico — riporta Adage — il team ha analizzato i segni di Greta e convertito le lettere in immagini vettoriali. Per le lettere con più opzioni tra cui scegliere, come la "T" che compare due volte in "Klimatet", hanno scelto quella che si adattava meglio agli altri caratteri». «È un semplice insieme di caratteri — hanno detto i designer — lettere maiuscole, numeri e alcuni segni di punteggiatura, ma è sufficiente per trasmettere la giusta dose di indignazione».

Volgare 2.0, la nuova lingua dei giovani che non si può non conoscere. Pubblicato domenica, 29 settembre 2019 da Corriere.it. Piccolo test dedicato al popolo milanese (doc o acquisito). Alzi la mano chi sa tradurre, in inglese, le parole «alùra», «zanza», «sciura», «rebelòt», «danè», «ghisa». O le espressioni «fa balla l’oeucc», «andà in vaca», «disciules». Se avete figli, probabilmente loro rispondono più velocemente di voi. Il dialetto sta vivendo un revival inaspettato tra i giovani di oggi, che conoscono e usano termini che la generazione dei «baby boomer» non sapeva (o non voleva) utilizzare, perché considerati troppo volgari. A spingere la moda — in realtà, uno slang che mescola dialetto, italiano e termini nuovi — è ancora una volta lo strumento principe della comunicazione under 30: i social network. L’ultimo arrivato viaggia su Instagram e gioca la carta dell’ironia per ribadire quant’è bello vivere sotto la «Madunina»: creato da giovani e destinato ai giovani, Milano.says traduce e spiega in inglese una lunga serie di termini, vecchi e nuovi. Ci sono espressioni puramente dialettali, come «va a ciapà i ratt», tradotta con il corrispettivo di un «vaffa». E ci sono neologismi coniati ad hoc dai giovani come «tazzare», alias «verbo regionale che indica il bere pesantemente, con l’intenzione di ubriacarsi». Vero o reinventato che sia, il neo-dialetto è sempre più in voga tra i meneghini juniores, al punto che molti genitori non riescono (come è giusto che sia) a seguire i discorsi dei rampolli. Il trend non è solo milanese, ovviamente. Nello slang giovanile si sono diffuse in tutta Italia parole come «pirla» (lombardo); «sgamare» o «arrapare» (romanesco), «scialla» (genovese). L’aspetto ludico del dialetto si mescola all’italiano e perfino all’inglese con espressioni nuove che riempiono il web e spesso diventano fenomeni virali. Online spopolano youtuber, influencer e pagine Facebook e Instagram dedicate al «localismo», ovvero ai vezzi e ai modi di dire regionali, dal veneto al napoletano, dal milanese al romano. Fra i più seguiti, Inchiostro di Puglia, Il terrone imbruttito, Il Milanese imbruttito, Casa Surace... (e chissà quanti ne dimentico). Nati in genere come esperimenti di comunicazione tra amici ora sono colossi social da migliaia di clic, a volte con tanto di merchandising. Da ricordare. Nell’Italia dell’Alto Medioevo il latino fu relegato a lingua scritta mentre nel parlato si svilupparono una pluralità di idiomi locali, i volgari italiani. Solo quando il volgare fiorentino si affermò come lingua nazionale, tutti gli altri retrocessero alla condizione di dialetti. 

·         La coerenza? Non esiste!

La coerenza? Non esiste! Mario Furlan il 23 settembre 2019 su Il Giornale. Alberto Sordi nel film Il moralista: un censore incoerente. “Ipocrita!” “Incoerente!” “Voltagabbana!” Sono tra gli insulti più usati, quotidianamente, nell’agone politico. Ai politici rimproveriamo a di cambiare opinione; e poi di predicare bene, e razzolare male. Gli esempi sono innumerevoli. Anzi, si fa molto prima a citare politici che non sono così, piuttosto che politici che lo sono. In aggiunta, non credo proprio che tra i pochissimi casi citati ve ne sia uno solo di politico di spicco. Perché? Siamo messi così male? Potenti e governanti sono tutti traditori, voltafaccia, incoerenti? Certo. E sai perché? Perché lo siamo anche noi. Lo sei anche tu. Sebbene tu non voglia riconoscerlo, e pretendi di essere puro e illibato come una margheritina. Oggi Conte, Di Maio, Renzi e Zingaretti vengono accusati di incoerenza perché si sono alleati con quelli che prima osteggiavano. Lo stesso discorso, a ben vedere, vale per Salvini: prima delle elezioni del marzo 2018 assicurava che mai e poi mai avrebbe governato con i Cinquestelle. Ma la coerenza, si sa, non fa parte della politica. E nemmeno della vita privata. Sono coerenti i sedicenti comunisti, come il greco Yanis Varoufakis, che hanno un superattico con vista mare? E’ coerente quel politico sovranista svedese che aveva in casa, come domestica, un’immigrata illegale, nera e in nero?  Sono coerenti Berlusconi, la Meloni e Salvini, che sono andati al Family Day e proclamano ad alta voce la supremazia della cosiddetta “famiglia tradizionale”, pur avendo loro stessi famiglie che, tra separazioni e divorzi, amanti e figli nati fuori dal matrimonio, sono tutt’altro che tradizionali? Potremmo continuare a lungo. Sono forse coerenti gli ecologisti che usano bottiglie di plastica e vanno in aereo? Era coerente il simpatico Don Camillo di Guareschi e tutti i preti come lui, che anziché porgere l’altra guancia tirava grandi sganassoni? E’ coerente il medico che fuma? Riconosciamolo: la coerenza al 100% non esiste. E, probabilmente, neanche al 50%. Perché siamo esseri umani. Fondamentalmente, irrimediabilmente incoerenti. Volubili. E peccatori. Ci piace impancarci a giudici degli altri, col ditino puntato. Dimenticando che, come avverte un detto orientale, se punti l’indice contro un altro, le altre tre dita sono puntate contro di te. Dalla mia esperienza moralisti e moralizzatori, censori e fustigatori, intolleranti e integralisti sono i peggiori ipocriti. Come nel film Il Moralista, con Alberto Sordi: l’arcigno presidente dell’Associazione del Buoncostume è in realtà un trafficante di prostitute. Quanti di noi che gridiamo ai politici ladri e corrotti faremmo ancora peggio di loro, se fossimo al loro posto? Come spesso si dice, “il più sano ha la rogna”. La verità, però, è che la rogna ce l’ho anch’io che sto scrivendo. Ce l’abbiamo anche noi. Noi che pretendiamo trasparenza e correttezza da chi ci governa, ci scandalizziamo ad ogni loro piccola mancanza, ma poi, appena possiamo, evadiamo il fisco; paghiamo l’idraulico in nero, per avere lo sconto; parcheggiamo in sosta vietata; non facciamo la raccolta differenziata dei rifiuti; cerchiamo raccomandazioni per nostro figlio; cornifichiamo nostra moglie; e così via. E, prendendocela con gli altri che sono incoerenti, siamo come il bue che dà del cornuto alla lumaca. Perché gli incoerenti, gli ipocriti, i falsi siamo, innanzitutto, noi.

·         L’Italia sta pagando caro l’analfabetismo digitale.

L’Italia sta pagando caro l’analfabetismo digitale. Le colpe e i rimedi. Pubblicato lunedì, 09 settembre 2019 da Milena Gabanelli e Mauro Magatti su Corriere.it. Di fronte a questi cambiamenti il nostro Paese, pur avendo eccellenze, ha un ritardo drammatico. Secondo l’indice internazionale che misura il livello di competenze digitali, nel 2018 l’Italia si piazza quartultima fra i Paesi dell’Unione Europea, seguita solo da Bulgaria, Grecia e Romania. Una posizione che resta simile sia che si guardi alle competenze di base che a quelle specialistiche. La prima causa riguarda l’arretratezza del nostro sistema scolastico e formativo di base. Secondo il PIAAC (l’Indice delle competenze degli adulti) «solo il 3,3% degli adulti italiani raggiunge alti livelli di competenza linguistica, contro l’11,8% della media dei 24 paesi partecipanti, e il 22,6% del Giappone, il Paese in testa alla classifica. Inoltre, solo il 26,4% ha un livello buono. Significa che il 70% della popolazione ha livelli di competenze inferiori in lettura e scrittura. Un dato molto preoccupante perché si traduce in maggiori probabilità di avere problemi di salute, nella convinzione di avere poco peso sul processo politico, nella non partecipazione alle attività associative e minor fiducia nel prossimo. Anche per quel che riguarda le competenze matematiche, solo il 4,5% degli adulti italiani raggiunge un livello alto. La seconda causa riguarda l’accesso e l’utilizzo della rete. Sul piano privato, resta bassa la percentuale di chi in Italia utilizza Internet regolarmente (69%). Un ritardo che si riflette poi sugli altri principali indicatori quali l’internet banking (con il 31% restiamo in posizioni di retrovia), l’e-commerce, la partecipazione ai social network, la lettura di quotidiani online, l’ascolto della musica. Restiamo indietro anche nell’’utilizzo dei servizi di e-government: nel 2018, soltanto il 13% ha sottoposto moduli digitali compilati all’amministrazione. La media europea è del 30%.Sul piano delle imprese le cose non vanno molto meglio. La percentuale di Pmi che vendono online è dell’8% (dopo di noi solo la Bulgaria). Spagna e Germania arrivano rispettivamente al 20% e al 23%. Entrando nello specifico, secondo il Centro Studi di Confindustria – che si basa sulle rilevazioni Istat – l’89% delle 67.000 piccole imprese manifatturiere, comprese fra i 10 e 49 addetti, sono ancora oggi analogiche o digitali incompiute. Un dato impressionante e che certamente contribuisce a spiegare i nostri problemi di competitività. La situazione migliora solo nelle imprese con 250 e più addetti, dove quasi la metà delle imprese rientra negli «innovatori 4.0 ad alto potenziale». Sommando a questo dato anche i «possibili innovatori» si raggiunge l’88% del totale. Il problema non è solo la scarsa diffusione dei mezzi digitali. Ancora oggi solo un quarto dei lavoratori usa quotidianamente software da ufficio (elaborazione testi o fogli di calcolo), e, secondo la già citata indagine sulle competenze degli adulti (PIAAC), è dovuto al fatto che oltre il 40% dei lavoratori non è nelle condizioni di farne un utilizzo efficiente. Da notare poi che sussiste un differenziale di genere – a discapito delle donne – nell’uso di Itc e nell’accesso a Internet. Il ritardo nella preparazione digitale si ripercuote poi sul mercato del lavoro. Nonostante l’elevato tasso di disoccupazione giovanile (24%), la richiesta di nuove figure collegate proprio alla conoscenza digitale (robotic & automation manager, T expert ed engineer, cognitive computing expert) rimane in parte inevasa poiché questi profili professionali sono di difficile reperimento. Un vero paradosso che impedisce a molti giovani di sviluppare percorsi con sbocchi professionali certi. È in queste condizioni di squilibrio che l’Italia, secondo l’Ocse, produce il basso livello di competenze di buona parte della manodopera, che finisce poi per indebolire anche la domanda di lavoro qualificato da parte delle imprese e le spinge di conseguenza a non investire in innovazione. Una congiura contro il futuro. Per modificare una situazione, che di fatto costituisce un ostacolo allo sviluppo della nostra società, sono necessari interventi urgenti. Gli orientamenti generali sono quelli già indicati dall’Unione Europea a partire dal 2012.Per tradurli in linee operative concrete bisogna intervenire sul sistema «istruzione» con la digitalizzazione della scuola, ovvero sulla diffusione dell’impiego delle tecnologie digitali nei percorsi di insegnamento e apprendimento. Il presupposto è la digitalizzazione degli insegnanti. Per incentivare tale processo è necessaria anche l’introduzione di un patentino digitale obbligatorio per tutti i giovani che entrano nel mercato del lavoro, indipendentemente dalla qualifica o dalla funzione. Parallelamente, per i lavoratori, occorre avviare un piano nazionale per lo sviluppo delle competenze e delle abilità digitali attraverso gli strumenti della formazione continua, non solo estendendo il diritto di usufruire dei permessi di studio (ancora previsti dalla vecchia legge delle 150 ore) a tutti coloro che frequentano corsi che elevano il livello di competenza, ma anche prevedendo incentivi fiscali per i lavoratori e le aziende che si muovono in questa direzione. Per le fasce deboli (disoccupati, neet, anziani): creazione di un fondo nazionale per l’alfabetizzazione digitale che affidi ai Comuni il coordinamento per l’avvio di un’azione mirata a dotare le fasce deboli delle conoscenze digitali necessarie. Coinvolgendo in modo particolare le periferie e i gruppi sociali più fragili, che da soli non hanno la possibilità di accedere alla società digitale, e si avviano verso l’emarginazione. Con ricadute equivalenti all’analfabetismo.

·         Quando il nerd si fa hard.

QUANDO IL NERD SI FA HARD. Francesco Semprini per “la Stampa” il 22 agosto 2019. Quando i primi estratti del suo libro sono iniziati a circolare negli ambienti hi-tech della West Coast americana è risultato chiaro che di lì a poco si sarebbe registrato un vero e proprio terremoto. Nulla a che vedere con la faglia di Sant' Andrea, epicentro sismico per antonomasia, poiché la scossa in questione avrebbe riguardato piuttosto la Silicon Valley. E la causa non era da ricercare nelle viscere della Terra, ma nella tagliente penna di Emily Chang, audace cronista del comparto hi-tech e autrice di Brotopia: Breaking Up the Boy' s Club of Silicon Valley (Penguin Putnam Inc), «Brotopia: spaccato nel club per soli uomini di Silicon Valley». Si tratta di un viaggio nel lato più oscuro e decadente della Valle del Silicio, quello «orgiastico» e «stupefacente» (nel senso narcotico del termine). Chang veste i panni di un Caronte del nuovo millennio che traghetta il lettore in una sorta di Sodoma e Gomorra a sfondo tecnologico, dove festini a base di sesso, alcol e droga si svolgono con regolarità nella camere occulte delle magioni di manager rampanti e facoltosi investitori del comparto tecnologico. Come quelli organizzati nell' abitazione di Steve Jurvetson, talentuoso ventur capitalist costretto all' esilio per un' indagine su «comportamenti disdicevoli» nei confronti delle donne. Ed è questo l' altro elemento che emerge in Brotopoia (l'utopia dei brothers, ovvero degli uomini), l' approccio maschilista e omofobo basato su sfruttamento e molestie. E che racconta la discriminazione di genere in molti ambienti lavorativi della Silicon Valley, schiacciata e deformata dal dominio maschile. Un tema che la trentanovenne Chang ha affrontato proprio mentre, nella vicina Hollywood, esplodeva il movimento #MeToo innescato dagli scandali sessuali del produttore «orco» Harvey Weinstein. «Durante il boom degli anni 60 e 70 la Silicon Valley era alla ricerca di cervelli e così reclutò due psicologi di punta, William Cannon e Dallis Perry, per selezionare i candidati più talentuosi, in particolare nel ruolo di programmatori», racconta l' autrice. I due talent scout, nel corso dei colloqui con 200 donne e 1.200 uomini, arrivarono alla conclusione che i migliori programmatori sono quelli più asociali, ovvero meno inclini a interagire col gruppo. Un criterio che è stato adottato nelle selezioni di settore per diversi decenni. «Se cerchi persone asociali, automaticamente assumi più uomini che donne, uno stereotipo che si è trascinato sino ai nostri giorni», afferma Chang descrivendo la genesi del fenomeno. Con la predominanza maschile «i comportamenti riprovevoli sono stati tollerati, anzi normalizzati per tanto, troppo tempo». Il riferimento dell' autrice è proprio alla cultura alla base del rapporto uomo-donna che ha imperato nel feudo hi-tech. Una cultura emersa nel corso di interviste condotte per circa due anni a professioniste del settore coinvolte, ad esempio, in festini hard e costrette a tacere sotto minaccia. «Era una questione di potere ancor prima che di sesso», chiosa la cronista, raccontando come la cosa che l' ha più sconvolta è l' assoluta consapevolezza, nelle sue intervistate, di un disagio diffuso, codificato quasi istituzionalizzato. «Nessuna si è dimostrata sorpresa quando Susan Fowler, ex ingegnere di Uber, fu tra le prime nel 2017 a denunciare pubblicamente i comportamenti discriminatori e molesti di cui erano protagonisti i colleghi». Chang racconta di aver parlato con donne, impiegate come ingegneri nella società di App per servizio auto, e «che venivano invitate nei locali per spogliarelliste o nei bondage club», ovvero luoghi dedicati a feticismo o sadismo. E questo avveniva in pieno giorno. «Spesso andavano perché era quello che tutte facevano. Era la cosa che bisognava fare per essere inserite e considerate». E questo riguardava altre realtà dell' industria tecnologica, una situazione tale che la cronista si è sentita in dovere di portare alla luce anche a rischio di creare un terremoto. Ma che può essere combattuta con successo, secondo l' autrice. «Il cambiamento deve avvenire dall' alto, dagli amministratori delegati attraverso una comunicazione efficace, politiche di inclusione e tolleranza zero» su ogni genere di discriminazione e molestie. Chang, che ha dedicato il volume a uno dei tre figli, dice di aver pensato proprio a loro, alle giovani generazioni e al loro futuro, nel realizzare Brotopia. "«La Silicon Valley controlla quello che vediamo, cosa leggiamo, come compriamo, in che modo comunichiamo e in che maniera si è interrelati gli uni con gli altri. Non è un problema di tecnologia, è un problema che riguarda la società. E l' industria che ha cambiato il mondo più cambiare anche questo».

LA SILICON VALLEY DEL SESSO HURD. Altro che nerd senza vita sociale e imbranati con l’altro sesso: la Silicon Valley oggi è meglio di Hollywood - Dalle molteplici amanti del presidente di Google Eric Schmidt all’ex ad di HP Mark Hurd che invitò la coniglietta a cena, ecco un’antologia degli scandali sessual-tecnologici…Andrea Andrei per Dagospia il 26 luglio 2013. Da "Business Insider.com" e "Nypost.com". Altro che nerd. Altro che cervelloni senza vita sociale e imbranati con l'altro sesso. Oggi la Silicon Valley è a tutti gli effetti la terra dei nuovi potenti, con tutte le mondanità e le frivolezze che questo comporta. Giusto ieri il "New York Post" riportava i rumors secondo cui il presidente di Google Eric Schmidt spenderebbe milioni di dollari per cercare di coprire le sue molteplici relazioni clandestine. Il magazine americano ne riporta almeno due: quella con la dirigente del Consiglio per le relazioni estere Lisa Shields e quella con la pianista vietnamita Chau-Giang Thi Nguyen. Schmidt ha acquistato varie residenze, fra New York e Saint Tropez. Lì la sua privacy è sacra. Addirittura alcune stanze sono insonorizzate e non c'è nemmeno un maggiordomo, in modo che nessuno possa vedere chi entra e chi esce da casa sua. Il tutto, ovviamente, alle spalle della moglie Wendy. Ma il capo di Google non è certamente l'unico nel suo ambiente ad avere qualche "liaison dangereuse". La scorsa settimana la moglie dell'ad del motore di ricerca "Cha Cha" ha accusato pubblicamente il marito di avere una relazione extraconiugale, scrivendolo sul suo blog per poi dirsi pentita. Lui ha negato le accuse, ma ormai il danno era fatto. Nel 2010 l'ad di Hewlett Packard, Mark Hurd, fu costretto a dimettersi dopo essere stato accusato di "molestie sessuali". In realtà Hurd non fece altro che invitare a cena una collaboratrice dell'azienda, Jodie Fisher, che era anche una ex modella di Playboy. Insomma, nonostante abbia probabilmente raccolto la solidarietà maschile di mezzo mondo, perse il posto di lavoro. Oggi comunque è il presidente di Oracle. Quest'ultima azienda, proprio nel 2010, è stata travolta da uno scandalo sessuale riguardante il suo ex presidente Chuck Phillips: la donna che fu l'amante di Phillips per otto anni, in un attacco d'ira pensò bene di tappezzare New York, Atlanta e San Francisco con immagini di loro due insieme. L'uomo lasciò Oracle per diventare amministratore delegato di "Infor". Incredibilmente, è ancora sposato. Ma il 2010 fu un anno davvero "piccante". Alla lista degli scandali si aggiunse anche quello del co-fondatore di "Intelius", John Kenneth Arnold, che fu incriminato per aver mentito a una giuria, negando di aver fatto sesso con una ballerina in un club di strip-tease. Fu condannato a 45 giorni di carcere a e al pagamento di una multa da 40 mila dollari. Ad amare certi locali è anche l'ex ad di "Savvis" Robert McCormick, il quale nel 2003 riuscì a spendere allo "Scores", un topless bar di New York, ben 241 mila dollari con tre suoi collaboratori. Peccato che il dirigente poi se ne sia andato senza pagare. La sua azienda lo difese dicendo che era stato vittima di una truffa. L'anno scorso Ellen Pao, partner dell'azienda di venture capital Kleiner Perkins, ha denunciato la compagnia per non averla difesa quando accusò un socio di averla molestata. La donna ha anche perso il lavoro cinque mesi dopo aver fatto causa all'azienda. Ma la lista non finisce qui. Keith Rabois, ex dipendente di PayPal, si è dovuto dimettere quest'anno da "Square" perché accusato di molestie. Si è giustificato dicendo che il rapporto fra lui e una collega era consenziente. Più serio fu il caso di Michael Arrington, ex ad di TechCrunch, la cui vicenda è abbastanza simile a quella che in questi giorni affolla i giornali italiani, e cioè quella riguardante il cantante Massimo Di Cataldo e la ex compagna Anna Laura Millacci. L'ex fidanzata di Arrington, Jenn Allen, ha accusato il manager di violenza sessuale e abusi fisici. Arrington ha querelato la donna nel maggio scorso per diffamazione. In America, a differenza che in Italia, l'integrità morale è percepita dall'opinione pubblica come una caratteristica determinante, specialmente per chi ricopre ruoli di potere. Ecco perché un manager ha di che temere per la sua carriera se i suoi "vizietti" diventano pubblici. Ma comunque, alla fine, gli affari sono affari, e quindi spesso e volentieri  queste storie si riducono a semplici pettegolezzi.

BASTA DIGITARE SU GOOGLE LE PAROLE “SILICON VALLEY” E “FRAT BOY CULTURE”... Nina Burleigh per “Newsweek” il 30 gennaio 2015. In un bistrot di San Francisco, un anno fa, due persone della comunità tech misero a punto la loro start up. Come tutti i ventottenni della Silicon Valley avevano smartphone e sogni. Lavorarono intensamente all’idea, capendone il potenziale. Poteva essere il nuovo “Pinterest”. Aziende e utenti l’avrebbero amata. Misero a punto il piano d’azione, creando attesa e interesse fra investitori. Trovarono il primo finanziatore, una donna che diede una piccola somma che permise ai due sviluppatori di lasciare il lavoro e dedicarsi al progetto. Si appoggiarono in un angolo, negli uffici di un’altra start up, e misero su uno staff per lo più non pagato. I programmatori testarono l’algoritmo. Alla fine si trovarono 50 investitori, 1.500 potenziali clienti. Lo scorso mese hanno finalmente lanciato la start up, incassando un investimento di 400.000 dollari, misera somma rispetto ai 525.000 dollari che si aspettavano. Cosa mancava al loro progetto? Non avevano il fallo. Lauren Mosenthal e Eileen Carey sono due sviluppatrici donne e il pene è una condizione necessaria per avere successo alla Silicon Valley. Da qui non è mai uscita la versione femminile di Gates o Zuckerberg. Ci sono imprenditrici di successo, ma in numero minuscolo. Basta digitare su Google le parole “Silicon Valley” e “frat boy culture” che escono articoli, blog, lettere, tweet di sessismo e misoginia, storie di assunzioni e licenziamenti in base al sesso, cause per molestie sessuali e accuse di un sistema finanziario che ricompensa uomini e donne in maniera diversa. C’è il giovane dirigente di una azienda che vale 250 milioni di dollari che in una conferenza parla di “colloqui gang-bang” e di come iniziò, mandando ad inafferrabili amministratori delegati foto in bikini prese da calendari di ragazze liceali. C’è il video di Gurbaksh Chahal, scapolo d’oro della Bay Area, che picchia per mezz’ora la sua fidanzata (non è finito in prigione e se l’è cavata con 25 ore al servizio della comunità). La Silicon Valley è il posto in cui la storia di violenza dei capi non ha ripercussioni ma le impiegate vengono licenziate se twittano i giochi sessisti che origliano in ufficio. E’ il luogo dove, alle conferenze, le donne sono puntualmente molestate tanto che c’è stato bisogno di stabilire delle regole di rigore. E’ il posto in cui un investitore ha detto a Kathryn Tucker, creatrice della app “RedRover”: «Non mi piace il modo in cui le donne pensano. Non padroneggiano un pensiero lineare». Tre grandi cause per molestie sessuali sono partite nel 2014: contro “Tinder”, “Kleiner Perkins Caufield & Byers” e “CMEA Capital”. I dirigenti chiamavano le assistenti con nomignoli sessuali, si riferivano spesso al porno e al pelo pubico. Dalle cene con i clienti si escludevano le donne perché “smorzavano le vibrazioni”. La Silicon Valley rievoca la cultura anni ‘80 e ‘90 ritratta in “Wolf of Wall Street”. Non è vero che sono poche le donne a laurearsi nel settore. Sono molte, ma sono i colleghi maschi a fare carriera. Poche vanno al vertice e quindi mancano gli esempi, mancano le “guide” per le più giovani. Le donne sotto i 30 anni sono più soggette a molestie sessuali, quelle che restano in gioco oltre i 30 anni però, data l’età, hanno meno possibilità di fare carriera. L’anno scorso un gruppo di donne ha scritto una lettera aperta al settore del tech, lamentando continue mail a sfondo sessuale e l’esclusione professionale. Carey e Mosenthal conoscono bene i problemi delle donne del tech e per questo hanno creato la app “Glassbreakers”, piattaforma per le aziende che vogliono assumere e promuovere le donne. Funziona quasi come una app di “dating”: si scelgono le persone per le caratteristiche professionali, il curriculum, gli obiettivi. Insomma una forza lavoro tutta al femminile. Il problema non è solo di sessismo, ma anche di atteggiamento. Le donne non fanno le spavalde come gli uomini, non ostentano e glorificano i loro risultati e hanno difficoltà a chiedere soldi. A confermarlo è Vivek Wadhwa, che alla Silicon Valley insegna alle colleghe a non sottovalutarsi. I vertici sono maschili, come venti anni fa. E la nuova generazione di “millennials” non ha cambiato il sistema. Alcuni dei nuovi miliardari sono Peter Thiel (che finanziò Zuckerberg) e David Sacks, due ex studenti a Stanford, noti per aver scritto articoli anti-femministi e anti-gay sul giornale di scuola. La mancanza di donne ai vertici comporta che gli uomini ai vertici non abbiano mai confronto con l’altro sesso. L’interazione si limita alle loro mogli, fidanzate, e assistenti. Mai a pari livello professionale, mai un’altra visione sui progetti e sugli investimenti. Secondo lo studio della fondazione Kauffman, quasi l’80% di imprenditrici donne non parte da investimenti esterni ma da risparmi propri. Il sesso è una barriera e sono tante le storie che lo dimostrano. Basta raccontare quella di Heidi Roizen che per festeggiare la chiusura di un accordo, potenzialmente da milioni di dollari, accettò di andare a cena con il vicepresidente, pensando di parlare d’affari. A metà serata lui disse di averle portato un regalo. Le chiese di allungare la mano sotto al tavolo per riceverlo e, quando lei ingenuamente lo fece, si ritrovò la mano nei suoi pantaloni, prontamente tirati giù. La Wadhwa spiega: «Le donne non capiscono perché ricevono subito risposte, telefonate e piccoli fondi dagli uomini. Lo scoprono dopo. Sono disgustosi pervertiti». Per evitare la stessa fine, Carey si è tinta i capelli biondi di castano e si veste sobria. Incontra solo investitori che hanno ottenuto buone referenze da altre donne. Gli uomini giovani, bianchi e appartenenti alla classe medio-alta, hanno creato o alimentato una tecnologia che riflette i loro desideri e la loro cultura. Le donne che si lamentano per i videogiochi sessisti ricevono minacce di morte da utenti cresciuti pensando che sia loro diritto salvare o molestare fanciulle nude sullo schermo. E l’anonimato di internet li aiuta. I prodotti creati sono per un unico genere. “Apple” per esempio ha creato “Siri” (che in norvegese significa “bella donna che ti porta alla vittoria”), un software che si comporta come una assistente personale e trova prostitute e Viagra. Se vuoi notizie su dove praticare un aborto, non ce ne sono.

·         La "vera" Biancaneve? Era una baronessa cieca.

La "vera" Biancaneve? Era una baronessa cieca. A Bamberg una lapide ricorda la nobildonna bavarese che si pensa ispirò i fratelli Grimm. Sara Mauri, Mercoledì 07/08/2019 su Il Giornale. Una fervida immaginazione, spesso, necessita di ispirazione. Non viviamo nelle favole, ma a volte esiste una qualche verità alla base di una fantasia. E ci sono tante leggende, come quella secondo cui il cartoonist Segar, per il suo Popeye, si sarebbe ispirato a Frank «Rocky» Fiegel, un barman suo concittadino. Nel 1996, sulla tomba di «Rocky» è stata posta una lapide che ricorda Braccio di Ferro, the sailor man. E si ritiene anche che la storia de La Bella e la Bestia, di Gabrielle-Suzanne Barbot de Villeneuve, pubblicata nel 1740, si sia probabilmente ispirata alle vere vite di Petrus Gonsalvus, un nobile spagnolo con ipertricosi, e della sua sposa Catherine. La storia di Cenerentola ricorda la fiaba di Rhodopis, raccontata da Strabone. Raperonzolo assomiglia a Santa Barbara, rinchiusa nella torre. Pocahontas, invece, nata attorno al 1596, si chiamava Matoaka. Ma la sua esistenza, a differenza della storia, è stata tragica: a 17 anni fu fatta prigioniera dai colonialisti inglesi, fu tenuta in ostaggio per più di un anno, dovette sposare John Smith e morì giovane. Ma che dire di Biancaneve? Una matrigna cattiva che vuole uccidere una ragazza per gelosia, uno specchio magico, i sette nani che lavorano in una miniera, una mela avvelenata, il principe che trova la bella principessa e la bacia: sì, perché si dice che anche la storia dello specchio più famoso del mondo sia stata ispirata da una donna in carne e ossa. Ma come a Pocahontas, anche alla vera Biancaneve la vita ha regalato un amaro destino. Baronessa, non principessa, Biancaneve si chiamava Sophia. Cieca già da giovane, morì a 71 anni in un convento. Veniva da Lohr, all'epoca, dove si producevano oggetti di vetro e specchi. E niente principe azzurro: non si sposò mai. Nella realtà non sempre tutti «vissero felici e contenti». Una pietra restaurata è appena stata esposta al Museo Diocesano di Bamberg, nella Germania meridionale. È quella della nobildonna che si ritiene abbia stimolato l'estro creativo dei fratelli Grimm per la scrittura di Biancaneve. Originariamente, la pietra si trovava in una vecchia chiesa che fu demolita. Data per persa, è stata recentemente scoperta in una casa ereditata a Bamberg e poi donata al Museo Diocesano della città bavarese. Il museo ha controllato, pulito e restaurato la lapide. «Specchio, specchio delle mie brame», c'era una volta, la vita della ragazza da cui la favola probabilmente è tratta: una giovane nobildonna cresciuta in un castello a Lohr am Main, a ovest di Bamberg, nella Baviera settentrionale. Si chiamava Maria Sophia von Erthal ed era una baronessa; morì nel 1796. Ci sono poche tracce della vita di Maria Sophia von Erthal in un monastero di Bamberg, scrive Deutsche Welle. Philipp Christoph, il padre di Sophia, dopo la morte della prima moglie, sposò una donna non gentile. La foresta spaventosa potrebbe essere quella di Spessart. Una miniera fuori dalla cittadina poteva aver ispirato il luogo in cui faticavano i sette nani. Infatti, in molti lavoravano nella miniera e indossavano abiti con cappuccio per proteggersi dalla caduta di pietre. «La storia della vita di Sophia era ben nota all'inizio del XIX secolo», ha dichiarato alla Bbc il direttore del museo Holger Kempkens. I fratelli Grimm vissero a lungo vicino a Hanau, a soli 50 km da Lohr am Main. La fiaba di Jacob e Wilhelm Grimm, è stata pubblicata nel 1812. Nel 1937, quando Walt Disney creò il film d'animazione, la storia di Biancaneve diventò nota al pubblico mondiale.

Biancaneve, ritrovata in Germania la lapide della baronessa che ispirò la fiaba dei fratelli Grimm. Pubblicato martedì, 06 agosto 2019 da Corriere.it. Non fu salvata da un principe né visse felice e contenta, ma la sua tragica storia ispirò una delle fiabe più famose dei fratelli Grimm. Il museo della diocesi di Bamberg, in Germania, ha annunciato di aver ritrovato la lapide di Maria Sophia von Erthal, baronessa vissuta nel ’700 che avrebbe suggerito ai due scrittori la fiaba di «Biancaneve e i sette nani». L’aristocratica, descritta in una cronaca locale come una ragazza d’insolita bellezza, proprio come il personaggio di fantasia avrebbe sofferto per mano di una matrigna cattiva e sarebbe morta, sola e cieca, nel 1796, lontana dalla sua città natale. La lapide sarebbe stata custodita in una chiesa fino alla demolizione avvenuta nel 1804, poi se ne sarebbero perse le tracce. In seguito sarebbe stata ritrovata da una famiglia durante lavori di ristrutturazione in casa e donata al museo della diocesi. Restaurata, la tomba è presto diventata una reliquia preziosa per gli abitanti della città tedesca. Maria Sophia von Erthal sarebbe cresciuta in un castello a Lohr am Main, circa 100 km a ovest di Bamberg nella Baviera settentrionale, e avrebbe perso la madre quando era ancora adolescente. Il padre, che possedeva una grande fabbrica di specchi (Lohr am Main era un centro dove si produceva vetro circondato da una foresta piena di miniere, dove potevano entrare solo uomini di statura molto bassa), si risposò con Claudia Elisabeth Maria von Venningen, donna autoritaria che fece del suo meglio per escludere la figliastra a favore dei propri eredi. La matrigna riuscì nel suo intento: Maria Sophia non trovò marito e successivamente fu costretta a trasferirsi nella casa di una conoscente inglese a Bamberg, dove morì a 71 anni nel 1796. Secondo Holger Kempkens, direttore del museo di Bamberg, i fratelli Grimm vivevano a 50 km dal castello di Lohr am Main e conobbero presto la storia di Von Erthal: «Molte delle loro fiabe sono ispirate a storie raccontate dalle persone comuni — ha dichiarato alla Bbc —. La vita di Maria Sophia era ben nota già all’inizio del XIX secolo. Ci sono diverse testimonianze, anche se non possiamo provarlo con certezza, che Sophia fosse la fonte ispiratrice del personaggio di Biancaneve».

·         Il Cinema e la dittatura.

Il "New York Times" stroncò Fellini E Scorsese: "Questa è chiusura mentale". Difesa e attacco: «La diversità garantisce la nostra sopravvivenza culturale». Martin Scorsese, Sabato 28/09/2019, su Il Giornale.  New York 19 novembre 1993. Al Direttore Responsabile: Mi scusi; devo essermi perso una parte del film: The Week in Review, del 7 novembre, cita Federico Fellini come esempio di regista il cui stile interferisce con la sua narrazione e i cui film non sono facilmente accessibili al pubblico. Ampliando questa considerazione, l'articolo include altri artisti: Ingmar Bergman, James Joyce, Thomas Pynchon, Bernardo Bertolucci, John Cage, Alain Resnais e Andy Warhol. Non è il punto di vista che mi turba, ma l'atteggiamento sotteso verso un'espressione artistica che sia diversa, difficile o impegnativa. Era necessario pubblicare questo articolo a pochi giorni dalla morte di Fellini? Lo percepisco come un atteggiamento pericoloso, restrittivo, intollerante. Se questo è l'atteggiamento nei confronti di Fellini, uno dei vecchi maestri, e per altro il più accessibile, immaginate quali prospettive abbiano nuovi film e registi stranieri in questo paese. Mi è venuto in mente lo spot pubblicitario di una birra trasmesso qualche tempo fa. Lo spot cominciava con una parodia in bianco e nero di un film straniero - ovviamente una miscela di Fellini e Bergman. Due ragazzi lo stanno guardando, perplessi, in un videonoleggio, mentre una loro amica sembra più interessata. Compare il titolo: «Perché i film stranieri devono essere così stranianti?». La soluzione è ignorare il film straniero e noleggiare un film d'azione, pieno di esplosioni, per il disappunto della donna. Sembra che quello spot pubblicitario metta sullo stesso piano allusioni negative verso le donne e verso i film stranieri: debolezza, complessità, tedio. Anche a me piacciono i film d'azione. Mi piacciono anche i film che raccontano una storia, ma il modo americano di raccontare una storia è l'unico possibile? Qui non si tratta di teoria cinematografica, ma di diversità e apertura culturale. La diversità garantisce la nostra sopravvivenza culturale. Quando il mondo va frammentandosi in gruppi di intolleranza, ignoranza e odio, un film è un mezzo potente per trasmettere conoscenza e comprensione. Con nostra vergogna, l'articolo in questione è stato ripreso in dettaglio dalla stampa europea. L'atteggiamento che ho cercato di descrivere celebra l'ignoranza. E, sfortunatamente, rinforza anche le peggiori paure dei registi europei. È questa chiusura mentale che vogliamo tramandare alle generazioni future? Se si accetta la risposta dello spot pubblicitario, perché non la si porta al suo sviluppo naturale:

Perché non fanno film come noi?

Perché non raccontano storie come noi?

Perché non si vestono come noi?

Perché non mangiano come noi?

Perché non parlano come noi?

Perché non pensano come noi?

Perché non credono come noi?

Perché non assomigliano a noi?

In conclusione, chi decide chi siamo noi?

Traduzione a cura di Rory McKenzie (con la supervisione di Marco Sonzogni e Antonella Sarti-Evans)

Da Mussolini a Stalin. Quando la dittatura è un "bellissimo" film...Uno studio sul rapporto tra controllo delle masse e storia del cinema nei regimi del Novecento. Claudio Siniscalchi, Martedì 16/07/2019, su Il Giornale. Lo scrittore russo Maksim Gor'kij è uno dei primi spettatori a raccontare, nel 1896, cosa si prova in una sala buia davanti allo scorrimento delle immagini: «sono stato ieri nel regno delle ombre». Resta però scettico sul valore artistico del cinematografo. La nuova invenzione conduce lo spettatore per mano «nel regno delle ombre», lo rende dipendente dalle immagini, gli «logora i nervi», ottunde la sua sensibilità. Quando Lenin prende il potere l'unico sostegno autentico al nuovo corso arriva dal frastagliato universo avanguardista. Fra gli scrittori famosi il solo Gor'kij collabora con i bolscevichi, spesso però con toni assai critici, che Lenin preferisce ignorare. Sul cinema Lenin e Gor'kij hanno idee abbastanza simili. Ma Lenin è un tattico. Piega il pensiero alle esigenze storiche. Infatti, il fido collaboratore Anatolij Lunacharskij che a differenza del capo credeva senza riserve nel potere educativo e artistico del cinema riporta un suo giudizio che è diventato celebre: il cinema è «la più importante forma d'arte dell'epoca contemporanea». La «settima arte» dunque, per il leader bolscevico, rappresenta uno strumento decisivo ai fini della comunicazione nella moderna società, oltreché un'arma efficace da utilizzare nella contesa ideologica. Alle proiezioni ufficiali Lenin come ricorda la moglie Nadeda Krupskaja era piuttosto impaziente e non vedeva l'ora di tornare a casa per immergersi nella lettura. Invece Lev Trockij è di altro avviso: ritiene il cinema «il miglior strumento della propaganda», in grado di contrastare efficacemente il monopolio anestetico della vodka sulla popolazione. Lo scrive in un articolo apparso sulla Pravda il 12 luglio 1924. Il cinema per Trockij «compete non soltanto con la taverna ma anche con la chiesa. E questa competizione può rivelarsi fatale per la chiesa se noi realizzeremo la separazione della chiesa dallo Stato socialista fondendo lo Stato socialista con il cinema». Anche Stalin, grande appassionato di cinema, sempre nel 1924 assegna al film la funzione di importante «strumento di agitazione delle masse». Quando prenderà il potere, senza più avversari, si servirà delle immagini di finzione per rendere popolare il suo «mito». Ricorrerà ad un sosia: Mikheil Gelovani. Gli piaceva molto la sua recitazione, soprattutto per l'interpretazione nell'eroico La caduta di Berlino (1949) di Michail Ciaureli. Alla fine della proiezione privata al Cremlino c'è chi lo vide con il fazzoletto in mano asciugarsi una lacrima. Sapeva anche come adulare o ammansire i registi indisciplinati. Al grande Sergej Ejzentejn dopo la visione di Alexandr Nevskij (1938), battendogli la mano sulla spalla gli disse: «dopo tutto, sei un buon bolscevico!». Lo fece sudare freddo quando nel 1946 lo convocò di notte al Cremlino per discutere dei difetti della seconda parte di Ivan il Terribile.

Questa e tante altre informazioni si trovano nel bel libro di Peter Demetz Diktatoren im Kino. Lenin - Mussolini - Hitler - Goebbels - Stalin (Paul Zsolnay Verlag, pagg. 254, euro 24). Demetz, nato a Praga nel 1922, è un germanista che ha insegnato a Yale, ha scritto di Kafka e D'Annunzio. In questo suo essenziale ma acuto ritratto del rapporto fra i dittatori e il cinema, evidenzia soprattutto un elemento: senza le immagini le dittature novecentesche avrebbero avuto un altro volto.

Adolf Hitler era un grande appassionato di cinema. Prima della guerra tutte le sere dopo cena, salvo impegni istituzionali, assiste ad una proiezione presso il Palazzo della Cancelleria a Berlino, o, quando è in vacanza, nella sala del ricevimento al Berghof. Il cinema per Hitler è una vera e propria «ossessione». Vede volentieri le comiche con Stan Laurel e Oliver Hardy. Il suo film preferito è Viva Villa! (1934), biografia di produzione americana dedicata al rivoluzionario messicano Pancho Villa, diretta da Jack Conway e Howard Hawks. Il Führer indica quali film vuole vedere. Appena si spengono le luci smette di parlare. L'universo cinematografico per Hitler si divide in tre categorie: i buoni film, i brutti film, i film la cui visione va interrotta in corso d'opera, anche dopo pochi minuti. Nella finzione delle immagini, ricorda il suo stretto collaboratore Otto Dietrich, «trovava quel contatto con il mondo umano che gli mancava completamente nella vita». Joseph Goebbels il cinema lo ha amato durante gli anni di Weimar, e condotto con mano ferma durante il Terzo Reich. Si è guadagnato sul campo il titolo di «stallone di Babelsberg». Quando si tratta di assegnare il ruolo di una protagonista, l'ultima parola spetta a lui. Fatto incontestabile, che ha alimentato senza sosta una «vulgata» non rispecchiante la portata del suo operato. Rischia di mandare in frantumi la sua carriera per amore di un'attrice, la cecoslovacca Lída Baarová. Il ministro ha conosciuto la ragazza, ventunenne, nel 1936. I due non fanno nulla per nascondersi. Goebbels vorrebbe addirittura divorziare dalla moglie Magda. Hitler, loro testimone di nozze, da sempre venera Magda. Il Führer non approva il divorzio. L'attrice di fatto viene esiliata. I gusti cinematografici di Goebbels sono diversi da quelli di Hitler. Il suo film preferito è Via col vento (1939) di Victor Fleming. Il cinema che realizzava, spesso finanziandolo senza riserve, doveva essere di ottima qualità, necessaria a celare la propaganda, che doveva rimanere impercettibile. Anche durante la guerra il suo modello di riferimento è un film statunitense: La signora Miniver (1942) di William Wyler. Annota nel diario: «gli americani hanno un modo magistrale nel trasformare dettagli marginali in autentici ornamenti artistici. Mai una sola volta i personaggi manifestano la loro collera contro la Germania. Mostrerò questo film ai nostri produttori».

Il cinema è la modernità. L'avanguardia futurista idolatra il cinema, innalzandolo ad arte nuova, modernissima. E il totalitarismo è il frutto avvelenato della modernità. Mussolini, nella costruzione dell'uomo nuovo fascista, assegna al cinema la funzione di «arma più forte». A due uomini fidati viene dato il compito di organizzare il settore: Luciano De Feo per ciò che riguarda la documentaristica e Luigi Freddi per l'industria del divertimento. Il Duce si riconosce nel documentario nei panni dell'eclettico sportivo che cavalca, nuota, scia e tira calci al pallone. Si riconosce un po' meno in Annibale Ninchi di Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone, kolossal fascista che fa rivivere gli antichi fasti romani. Insomma, per concludere, i dittatori al cinema hanno chiesto e dato molto. Hanno capito che più della radio, del teatro e della letteratura, le immagini sarebbero state il vero perno per mantenere vivo il consenso popolare.

Quando Truffaut era di destra e stroncava i film ideologici. Vicino agli Ussari, il futuro regista firmò recensioni di fuoco. Ora in un volume. Claudio Siniscalchi, Domenica 18/08/2019 su Il Giornale. Nel novembre del 1955 un giovane e furioso critico cinematografico di successo, François Truffaut, decide di incontrare un vecchio collega (così si autodefinisce), Lucien Rebatet. Truffaut ha 23 anni e sale le scale di corsa. Rebatet ne ha 52, ed è infiacchito, nel corpo come nel morale. I due pranzano lungo la Senna, a bordo di un bateau-mouche. Rebatet, più conosciuto per lo pseudonimo di François Vinneuil, dal 1930 ha scritto di cinema per L'action française (sino al 1939) e, a partire dal 1935, per il settimanale Je suis partout. Nel 1941 ha pubblicato un odioso pamphlet, nel quale denuncia la «grande invasione» degli ebrei nel cinema e nel teatro francesi. L'anno successivo è diventato una celebrità con un voluminoso atto di accusa della Francia del Fronte popolare e di Vichy, Les décombres. Convinto sostenitore dell'alleanza franco-germanica, oltreché aggressivo antisemita, Rebatet per questi motivi viene condannato a morte nel 1946 (pena mutata nel 1947 con il carcere a vita). Dal 1952 vive in libertà. Ma è un reietto. Le patrie lettere lo hanno rifiutato, nonostante Les deux étendards, uscito in due volumi da Gallimard nel 1951. François Mitterrand, parlando di questo sterminato romanzo d'amore e metafisica, ha affermato che il mondo si divide in due: chi lo ha letto e chi non lo ha letto. Truffaut, il «giovane amatore», ha deciso di incontrare il «vecchio critico», sfidando le convenzioni. L'idea di provocare, di scandalizzare, è un tratto essenziale della personalità di Truffaut. Ma c'è qualcosa di più profondo a suggellare l'incontro. Rebatet, piaccia o meno, appartiene ad una delle maggiori tradizioni anticonformiste della cultura francese, che parte con Charles Maurras e arriva agli Hussards. E, a tutti gli effetti, Truffaut è il capofila della critica cinematografica Hussards. Si è da poco imposto nel palcoscenico francese con uno scritto esplosivo, dal titolo Une certaine tendance du cinéma français, uscito nel primo fascicolo del 1954 sulla rivista mensile Cahiers du cinéma. È «un attacco alla baionetta», nel quale Truffaut riscrive la storia del cinema francese. Se il prodotto nazionale è diventato così scadente e ripetitivo, la colpa è di registi per nulla coraggiosi e sceneggiatori impegnati a «inventare senza tradire», che privilegiano la parola sull'elemento visivo. Il regista alla fine si riduce ad una presenza insignificante: un prestatore d'opera, pagato per realizzare soltanto belle inquadrature. Truffaut ha l'idea geniale di riadattare, alla metà degli anni Cinquanta, la querelle già proposta dagli scrittori romantici del XIX secolo, tra «antichi» e «moderni». Per il «Rimbaud della critica» la polemica rappresenta quasi una «esigenza morale». Ma ha bisogno di una tribuna adatta per diventare lo «stroncatore del cinema francese», l'uomo più odiato di Parigi, una sorta di terrorista in perenne movimento. La tribuna adatta per far esplodere il talento di Truffaut è Arts, la vetrina settimanale degli Hussards, fondata nel 1952. Nel 1954 il nuovo direttore è Jacques Laurent, a caccia di giovani talenti anticonformisti da gettare nella mischia. Se Breton è il papa del surrealismo e Sartre dell'esistenzialismo, Laurent lo è degli Hussards. Apre le porte della rivista agli scrittori emarginati dopo la Liberazione: Jacques Chardonne, Paul Morand, Marcel Jouhandeau, Marcel Aymé, Henry de Montherlant. E allo stesso tempo promuove i nuovi scrittori ostili all'impegno politico a sinistra: Roger Nimier, Michel Déon, Antoine Blondin. Il termine Hussard (ussaro, militare) è mutuato dal romanzo di Roger Nimier Le hussard bleu (1950). Sul piano letterario gli Hussards si oppongono alla «dittatura sartriana». La letteratura, come la intende il filosofo diventato intellettuale mediatico, viene mescolata all'impegno politico (marxista) e metafisico (esistenzialista). Ad aprire il fuoco contro gli Hussards è Les temps modernes. La testata di Sartre analizza in un ampio saggio del 1952 il risveglio intellettuale fascista. Il seguito degli Hussards, turbolenti reazionari, è un segno preoccupante: «Come tutti i fascisti scrive Bernard Frank detestano discussione, lungaggini, idee». Truffaut collabora con il settimanale dal febbraio 1954 al dicembre 1958, scrivendo 460 articoli, raccolti da Gallimard in Chroniques d'Arts-Spectacle 1954-1958 (528 pagine, 24 euro). Per chi vuole comprendere la cultura francese, non solo cinematografica, degli anni Cinquanta del XX secolo, ritenuta erroneamente dominata da Sartre e dai suoi imitatori, un vuoto viene riempito. Di Truffaut sono stati celebrati soprattutto gli scritti apparsi sui Cahiers du cinéma. Su quelli di Arts si è preferito sorvolare, altrimenti l'icona dell'artista di sinistra che nel 1968 fa chiudere il Festival di Cannes e nel 1960 firma il Manifeste des 121 in favore dei soldati disertori in Algeria ne esce sporcata. La collaborazione con Arts iscrive di diritto il giovane critico nel panorama della destra letteraria. Gli avversari etichettano Truffaut come fascista, disimpegnato, provocatore di destra. Il suo stile nervoso e aggressivo esalta il cinema francese degli amati Jean Renoir, Sacha Guitry, Max Ophuls, Robert Bresson. Detesta senza mezzi termini Jean Delannoy e Claude Autant-Lara. Difende Roberto Rossellini. Refrattario ad ogni messaggio ideologico, alle produzioni sovietiche preferisce i film americani, anche di serie B. Sostiene i giovani registi Alain Resnais, Agnès Varda e soprattutto Roger Vadim. Quando nel dicembre 1956 esce Et Dieu créa la femme è fra i pochi a difenderlo. Brigitte Bardot gli appare magnifica, in un film tipico «della nostra generazione perché è amorale (in quanto rifiuta la morale corrente e non ne propone nessuna altra) e puritano (in quanto è cosciente di questa amoralità e se ne inquieta)». Unico neo di questa splendida pubblicazione è la nota introduttiva di Barnard Bastide, un lungo esercizio di equilibrismo per non affrontare il vero nodo della raccolta. François Truffaut dalle colonne di Arts edificò, mattone dopo mattone, una critica di destra estrema o meno poco importa della cinematografia corrente, di grande qualità stilistica, lontana dalle mode imperanti. Ma da un libro non si può avere tutto.

·         Mostra del cinema di Venezia: scandali e follie.

Mostra del cinema di Venezia: scandali e follie di ieri e di oggi in laguna. Leda Balzarotti su Iodonna.it il 26 agosto 2019. Balli e gran gala degni di principi e di Hollywood, coppie che hanno dato scandalo, film che hanno suscitato scalpore (e talvolta hanno ricevuto anche denunce per oscenità)... non c’è stata edizione della Mostra del cinema di Venezia senza un pizzico di clamore o di polemica. Ecco quelle più memorabili. A vivacizzare l’atmosfera unica della Mostra del cinema di Venezia, oltre a film che hanno suscitato scalpore, hanno contribuito feste e gran gala degni di fasti dimenticati. E non poteva essere che così per una kermesse nata per volontà del conte Giovanni Volpi di Misurata nel 1932 proprio per attirare il bel mondo al Lido, forse con un vezzo un po’ troppo cosmopolita per l’epoca fascistissima. Fatto sta che già due anni più tardi il pubblico mondano si trovò ad assistere alla proiezione del film cecoslovacco Extase di Gustav Machatý – il film torna restaurato al festival nella serata di pre-apertura di martedì 27 agosto – che proiettava sul grande schermo il primo nudo integrale del cinema. A dare scandalo più di tutto era stata la scena di un atto sessuale, solo suggerito dalla mimica del volto in primo piano della protagonista, che fece scrivere a un giovane Michelangelo Antonioni, alla Mostra in veste di critico: «Nel giardino dell’Excelsior, quella sera, si udiva il respiro degli spettatori attentissimi, si udiva un brivido correre per la platea». Fu così che la diciannovenne Hedy Lamarr, che nei fotogrammi si aggirava nuda in un bosco, si bagnava nel fiume e cedeva al piacere in un lungo piano sequenza, stregò proprio tutti, pure un Benito Mussolini non proprio felice del successo straniero (la pellicola conquistò la Coppa Città di Venezia), e partecipò da diva alle feste organizzate da Edda Ciano in onore del film.

Con gli anni Cinquanta la voglia di ricominciare a vivere e sognare del dopoguerra si faceva sentire anche in Laguna grazie alle prime grandi star americane che approdavano alla Mostra del Cinema. la gossip writer Elsa Maxwell era l’ape regina della notte attorno a cui girava tutto il mondo del festival, che si divideva in invitati ed esclusi, scatenando maremoti di invidie non senza il compiacimento della giornalista più pettegola di sempre. «Non venite in smoking o in abito da sera, ma vestiti come il personaggio che vorreste essere» imponevano gli inviti alle sue feste memorabili, a cui partecipavano i ricchissimi e nobili che si confondevano con selezionate star del momento. La sua preferita? Maria Callas, a cui fece da cupido presentandole Aristotele Onassis, mandando a monte di conseguenza il matrimonio della cantante con Giovanni Battista Meneghini, e dando il via a una schermaglia amorosa che durerà una vita e terrà banco sulle colonne della cronaca rosa per anni. Sul grande schermo a fare diventare il clima rovente ci pensava Luigi Zampa con il film La Romana, e la grande Gina Lollobrigida nei panni della prostituta Adrianafaceva imbizzarrire il cuore degli italiani. Non mancavano naturalmente i bagni di folla per l’immancabile Silvana Pampanini che non rinunciava alle entrate da diva, per Sophia Loren, Coppa Volpi nel ‘58 come migliore interprete per Orchidea neradi Martin Ritt, e per la coppia indissolubile del cinema italiano Antonella Lualdi e Franco Interlenghi, tra i tanti vip che negli anni d’oro del Festival animavano le serate mondane al Lido.

Nel 1962, era toccato a Mamma Roma, il film di Pasolini a Venezia in concorso con una nomination al Leone d’Oro, beccarsi una denuncia per oscenità (poi archiviata), ma ciò non aveva scalfito la voglia di divertirsi di Anna Magnani, del regista e del giovane Ettore Garofolo che finita la proiezione si erano scatenati sulla pista ballando tutta la notte. L’anno dopo Monica Vitti trascinava in un hully gully di gruppo Sophie Daumier protagonista del film Confetti al pepe – vietato ai minori di 18 anni -, il produttore Tonino Cervi e il press-agent delle dive Enrico Lucherini. Nel 1966 il film della regista Mai Zetterling – Giochi di notte – era stato considerato tanto sconvolgente da dirottare la proiezione riservandola ai soli giornalisti accreditati, escludendo così migliaia di spettatori che affollavano il Palazzo del Cinema e l’Arena.

Scandali e sensualità. Giochi di notte, candidato al leone d’Oro suscitò tanto clamore da accendere dibattiti infuocati sui rotocalchi per settimane. «Un attacco alla sensibilità femminile» tuonavano giornalisti e psicologi invitando le lettrici al dibattito, e incalzavano: «la pellicola svedese è un concentrato di tutto ciò che la censura italiana, laica e religiosa, usa bollare come osceno e offensivo del comune senso del buon costume. Ci sono l’orgia, l’incesto e altri pervertimenti sessuali, l’adulterio, il dialogo osceno, le nudità integrali, le offese alla religione, la sconsacrazione della maternità, la corruzione programmata di un minorenne». Poi tutti erano andati a stemperare le tensioni e le polemiche del festival alla grandefesta nelle sale del palazzo Ca’ Rezzonico, a fare gli onori di casa Sandra Milomadrina della serata, e sulla passerella lungo il Canal Grande avevano sfilato Amedeo Nazzari, Linda Christian con la figlia Romina, Ira Fürstenberg, che all’epoca stava cercando di sfondare nel cinema, e Vittorio Gassman con l’allora compagna Juliette Mayniel. L’anno successivo Piero Zuffi si era occupato della scenografia per la festa dellacontessa Marina Cicogna, che quell’anno con la sua casa di produzione Euro International Film presentava in concorso Edipo re, Lo straniero e Bella di giorno, e aveva trasformato il cortile e l’ingresso di Palazzo Vendramin in una gabbia di luce. Claudia Cardinale, con un vestito di Nina Ricci da fare invidia, Liz Taylor e Richard Burton, Jane Fonda e Roger Vadim erano stati i più fotografati, mentre Gina Lollobrigida, che indossava un particolare abito di rete arancione, aveva ballato tutta la notte uno shake dopo l’altro dividendo la pista con chi aveva la sua stessa energia, e scherzosa si difendeva: «Questi balli di oggi poi sono una cosa così innocente, così bella, che male faccio se mi piace ballare?». Feste e balli, del tutto inadatti a chi era allergico alla mondanità. Poi era arrivata la contestazione del ’68 spazzando via ogni anelito di frivolezza e il clima al Lido era diventato quasi modesto lasciando spazio, più che altro, ai veri amanti del cinema.

La Politica entra al cinema (con visi d'angelo). I misteri di Jean Seberg, la leggendaria Imelda Marcos e la Grecia schiacciata dalla troika...Luigi Mascheroni, Sabato 31/08/2019 su Il Giornale. Se quest'anno la crisi di governo ha tenuto lontano dal Lido i politici in crisi, la Politica, con la C maiuscola di cinema, entra e esce da ogni proiezione, tra film sull'oggi (The Perfect Candidate di Haifaa Al Monsour, passato il primo giorno, su una giovane saudita candidata donna al governo della sua città: il tema è perfetto per un festival, ma lo svolgimento ha stroncato anche i critici più pazienti), non fiction d'attualità (oggi è il giorno di Citizen K sull'oligarca e poi dissidente russo Mikhail Khodorkovsky, ma arriverà anche State funeral di Sergei Loznitsa sul culto della personalità di Stalin) e opere di grandi maestri: stamattina sarà di scena Adults in the Room di Costa-Gavras sulla sua Grecia caduta sotto la dittatura dell'austerità dell'Eurogruppo...E così, lontana dal red carpet, la politica resta nel cuore della Mostra: le sale. Ieri, accanto al J'accuse di Roman Polanski (su un pezzo di Storia e di Politica di Francia), l'altro film in concorso è stato Seberg dell'australiano Benedict Andrews, che narra, basato tutto su fatti veri, gli anni d'oro e di tragedia della bellissima attrice Jean Seberg (interpretata da una altrettanto bellissima e applauditissima Kristen Stewart: il pubblico non ha dimenticato quando s'invaghì di un vampiro in Twilight), morta misteriosamente suicida a quarant'anni, nel 1979. Già stella giovanissima in due pellicole di Otto Preminger, la Seberg divenne un'icona di Francia dopo aver interpretato il capolavoro di Jean-Luc Godard Fino all'ultimo respiro, opera-culto della Nouvelle Vague, e poi, arrivata a Hollywood sull'onda del successo, alla fine degli anni '60, si avvicinò pericolosamente alla causa rivoluzionaria delle Black Panthers. Ed eccoci al centro del più che convincente biopic: la relazione segreta tra la giovane diva e l'attivista per i diritti civili Hakim Jamal, l'operazione illegale di sorveglianza dell'Fbi, la campagna diffamatoria con la complicità della stampa compiacente - che fa saltare il già instabile equilibrio psichico di Jean Seberg... Razzismo, poteri occulti, diritti costituzionali violati e fake news. Ieri uguale a oggi, o quasi. E oggi uguale a ieri è la sensazione che procura l'altro titolo politicissimo passato nel pomeriggio al Lido, il documentario The Kingmaker di Lauren Greenfield, definita dal New York Times «la più grande documentarista visiva americana della plutocrazia»: cento minuti di ritratto-intervista (con moltissimo spazio ovviamente per le voci «contro») dell'indomita Imelda Marcos, che oggi ha 90 anni, ma è stata prima una splendida Miss Manila, poi la moglie fedelissima dell'infedelissimo presidente-dittatore delle Filippine Ferdinand Marcos, quindi la first lady più celebre degli anni '60 e '80, una icona pop che quando fuggì dal suo Paese, nel 1986, lasciò dietro di sé una nazione in ginocchio, un Palazzo preso d'assalto dalla folla, una collezione di 3mila paia di scarpe ma anche l'affetto indelebile e la voglia di rivalsa di moltissimi filippini. Cosa che le ha permesso (incredibilmente) di tornare a Manila nel 1991, di farsi eleggere nella Camera dei Rappresentanti, rifarsi una seconda vita politica (grazie al denaro incalcolabile che i Marcos erano riusciti a nascondere) e a trasformarsi da Regina in kingmaker. Ossia colui o colei - che ha grande influenza in una successione monarchica o politica, senza poter però essere un possibile candidato. Oggi Ferdinand «Bongbong» Marcos jr., suo figlio, è senatore, e nel 2016 ha perso per un pugno di voti la carica di vicepresidente delle Filippine.

Un Leone (e applausi buonisti) per Almodóvar. La presidente di giuria attacca "l'estrema destra". E Giusy Versace sfila con protesi e tacchi. Alessandro Gnocchi, Venerdì 30/08/2019, su Il Giornale.  Solo cose belle. Brad Pitt circola da un paio di giorni con una coppola in testa, performance eccezionale, considerata la temperatura (40 gradi). Scarlett Johansson ha spento subito eventuali pensieri maliziosi con una castigata polo a righe orizzontali. Sul red carpet per fortuna è un'altra storia. Solo cose belle. Pedro Almodóvar si becca il Leone d'oro alla carriera, tre standing ovation e venti minuti di applausi. Ringrazia commosso. Il simbolo della trasgressiva «movida» anni Ottanta, dopo un paio di Oscar, è diventato il simbolo della normalità festivaliera, inclusa la festa organizzata da una famosa stilista. La Laudatio è affidata a Lucrecia Martel, presidente della giuria e si conclude con un accorato appello contro «l'estrema destra» seguito da una frase a effetto: «I nostri bikini si bagnano in un mare pieno di morti». C'era proprio bisogno di queste parole, la democrazia si sente già meglio, i migranti anche, la «estrema destra» (cioè tutto ciò che non è di sinistra) sarà battuta, adesso ne siamo sicuri. Un minuto dopo Almodóvar dice di non avere la pretesa di cambiare il mondo ma di raccontare il suo. Novanta minuti di applausi. Solo cose belle. Commenti di alcuni critici raccolti in sala dopo la visione del film d'inaugurazione La vérité di Kore'eda Hirokazu: «Noioso», «Due ore della Deneuve non si reggono», «Versione edulcorata di un altro film dello stesso regista». Il giorno dopo, sui quotidiani e sui siti: capolavoro di finezza, strepitosa la Deneuve. Ci hanno ripensato o non dicono la vérité ai lettori? Solo cose belle. L'Hotel Excelsior, dove si festeggia sulla spiaggia, è preso d'assalto da cacciatori di fotografie. L'ingresso viene transennato. «Ti fai un selfie con me?». «Ma io sono un giornalista». «Ah, allora niente, scusa». All'ingresso ti accolgono con bottiglie ghiacciate di champagne munite di imbuto per bere a collo. Finezza o cafonata? Sulla spiaggia le tavolate sono disposte in ordine gerarchico. Quelli importanti a sinistra. Gli altri a destra. Dopo una certa ora regna l'uguaglianza e tutti vanno dappertutto ma in particolare all'angolo cocktail della Campari. Molti notano l'assenza della musica. Niente danze. Peccato, Emir Kusturica era già pronto a scendere in pista. Molti notano che più di un vip si è dileguato in un battibaleno. I maligni dicono che sono andati a mangiare da Cipriani (Harry's Bar) dove è passato anche Brad Pitt. L'attore ha ordinato tre primi: cannelloni, ravioli e tagliolini gratinati al forno. Occhio alla linea, Brad. Solo cose belle. Catherine Deneuve ha un vestito che la rende identica al Re Vega di Goldrake, simpatica. Pedro Almodóvar è il sosia di Lello Arena, qualcuno lo avverta. Antonio Monda dice di avere in serbo una grande festa del cinema di Roma. Replica immediata: «Qua dicono che Lei sarà il successore di Alberto Barbera». Monda nega. Però sfodera un sorrisone. A proposito di Barbera, pare sia ancora arrabbiato con la Martel, che diserterà gli eventi legati al film di Roman Polanski, condannato nel 1977 per aver abusato di una minorenne. Proprio al primo giorno doveva dirlo? Non poteva parlare alla fine della Mostra? Paolo Baratta, presidente della Biennale, è un abilissimo anfitrione. Generoso nello stringere mani e dire due parole a tutti, riesce a liquidarti con squisita gentilezza. Il ministro della Cultura Alberto Bonisoli è circondato di belle ragazze ma passano in secondo piano quando arriva Jo Squillo. La cantante e l'atleta paralimpica Giusy Versace hanno conquistato tutti sul red carpet dove hanno sfilato assieme. La prima con i tacchi a spillo. La seconda con le protesi al titanio. Entrambe magnifiche. Analisi finale di un esperto di cinema e politica. «Ma non c'è la crisi di governo?». «Sì ma Bonisoli resta». «Non doveva esserci anche Tria?». «Sì ma Tria se ne va». «Scusa, che c'entra con la Mostra se vanno o restano?». «Boh».

Marco Giusti per Dagospia il 31 agosto 2019. Qualcosa non funziona nel J’accuse di Roman Polanski presentato ieri a Venezia. Malgrado gli applausi anche eccessivi del pubblico in sala, come se l’industria cinematografica, soprattutto italiana, si volesse liberare delle polemiche legate al MeToo, la critica americana ha massacrato il film. Owen Gleiberman di “Variety” trova “osceno” il fatto che Polanski paragoni il suo caso a quello di Alfred Dreyfus. "Possiamo discutere, e dovremmo farlo, su come Hollywood e il sistema legale americano dovrebbero trattare oggi Roman Polanski", scrive il critico. Ma dobbiamo ricordarci, prosegue, che "Alfred Dreyfus, tuttavia, era un uomo innocente. Mentre Polanski, prima di fuggire dagli Stati Uniti in attesa di essere condannato nel 1977, ha confessato in tribunale." Anche il critico di “The Wrap” punta il dito sul confronto Polanski-Dreyfus. “Qualsiasi controversia che potrebbe scaturire dalla decisione di Roman Polanski di paragonarsi a una delle più grandi vittime dell'ingiustizia della storia viene dissipata dalla fredda apatia del risultato di quel che vediamo”. David Ehrlich di “Indiewire” parla invece solo del film. “Costruito con una metodo delicato e soddisfacente che svela l'affare Dreyfus con tutta la confusione giornalistica di Spotlight, ma senza la stessa integrità”. Xan Brooks del “guardian”, invece, ne parla bene: “E’ un pezzo di carpenteria professionale solida e ben realizzata, come uno di quei pesanti mobili vittoriani. Costruito per durare, per essere utilizzato. Più a lungo lo guardi, più cresce”. Molto meno convinto, anche come film, Owen Gleiberman di “Variety”: “La prima metà del film ti prende subito, ma dopo un po’ inizia a sembrare come la versione cinematografica di una voce di Wikipedia”. Ecco. Anche Deborah Young di “The Hollywood Reporter” si mostra parecchio delusa. “Il risultato è stranamente carente di cuore e anima, come se un armatura di rigida disciplina militare lo tenesse sotto controllo”. Esaltati, invece, i critici francesi.  “Qualunque cosa si pensi dello stato giuridico attuale di Roman Polanski, il suo ventiduesimo film si rende indispensabile per rigore e bellezza.”, scrive “Le Monde”.

Polanski divide il Lido in nome del #MeToo. La presidente di giuria Martel contesta il regista. Ma dopo le accuse dei produttori fa retromarcia. Luigi Mascheroni, Giovedì 29/08/2019 su Il Giornale. Venezia resiste a tutto, da sempre: alle pellicole scandalose, alle proteste, ai film politici, alla passerella dei politici stessi...Film belli, film brutti, polemiche, provocazioni, tutto passa persino il 68, che qui al Lido durò dieci anni - ma il festival resta. Però, questa cosa del neofemminismo di ritorno, le quote rosa cinematografiche, il #MeToo a proiezione continua, rischia di inceppare il perfetto meccanismo della Mostra del cinema, che peraltro quest'anno presenta un'edizione monstre, per quantità e qualità delle opere, con mezza Hollywood per dieci giorni in trasferta venexiana. Comunque, già lo scorso anno le paladine rosa americane la rivista Hollywood Reporter in testa, che ci ha riprovato anche stavolta - avevano attaccato il direttore della Mostra Alberto Barbera, rinfacciandogli di aver invitato in concorso troppe poche registe, rispetto ai colleghi maschi. Barbera rispose che se volevano qualcuno che scegliesse un regista solo perché donna, e non un regista quale sia il sesso perché bravo, chiamassero un altro al suo posto. E la faccenda, digerito qualche mugugno delle femministe più engagé, finì lì. Questa volta, però, c'è stato un upgrade. Pronti via, ieri - giornata di inaugurazione la presidente della giuria «Venezia76», la regista argentina Lucrecia Martel, ha confessato un certo diciamo così «imbarazzo» per la presenza in concorso del film J'Accuse di Roman Polanski perché su di lui pende un mandato di cattura americano dopo la condanna per aver avuto nel 1977 un rapporto sessuale con una tredicenne con l'aiuto di sostanze stupefacenti (il regista al Lido ovviamente non verrà, perché gli Stati Uniti potrebbero chiederne l'estradizione). E poi ha tirato la molotov: «Non ci sarò alla proiezione ufficiale per il suo film per non dovermi alzare e applaudire» (e il fatto che la Martel autrice di quattro film, nessuno finora entrato nella storia del cinema dica «Non applaudirò Polanski», ha fatto notare qualcuno, suona un po' come se Eros Ramazzotti dicesse «Non applaudirò Bob Dylan»). Insomma, Lucrecia Martel concede una chance all'opera di Polanski, ma non accetta di distinguere l'opera dall'uomo (insomma, vedrà il film, ma non lo festeggerà). C'è da chiedersi a questo punto quante probabilità abbia J'Accuse di essere preso in considerazione artisticamente per un premio (ben poche, appunto). In più, in molti iniziano a dubitare della necessaria obiettività di giudizio della Martel: ieri pomeriggio sui social e al Lido giravano già richieste di dimissioni. A complicare le cose, in serata, Luca Barbareschi, coproduttore di J'Accuse, ha dichiarato che si sta valutando se ritirare il film dal concorso, «a meno che non arrivino scuse ufficiali», perché «preoccupati che il film non venga giudicato serenamente». Poco dopo, la velata marcia indietro della regista: «Nessun pregiudizio sul film, le mie parole sono state fraintese». Chiamato direttamente in causa, Alberto Barbera ha risposto da signore, ma con fermezza maschile, alle rimostranze maschie della regista donna: «Sono fermamente convinto che bisogna fare distinzione tra uomo e artista. La storia dell'arte è piena di artisti che hanno commesso crimini. E di cui ancora ammiriamo le opere d'arte. Io ho visto il film di Polanski e mi è piaciuto, quindi ho invitato il film in concorso», ha spiegato pacato ma inflessibile. «L'unico modo per giudicare un film è la qualità del film stesso. Io non sono un giudice, non posso stabilire se un uomo debba andare in galera oppure no. Sono un critico e posso giudicare se un film merita di stare nella selezione veneziana. Il mio lavoro finisce qui». E speriamo, a questo punto, che inizi il festival. Sempre che le percentuali femminili coinvolte lo permettano. La regista argentina è tornata anche a parlare della scarsa presenza di donne nel cartellone veneziano. «Il discorso delle quote rosa non è mai soddisfacente ma in una fase di transizione da un modello ad un altro non mi sembra ci siano altre strade. Senza registe, così come senza persone non bianche, il cinema non può riuscire a riflettere la complessità della realtà», ha detto. Tutto vero. Ma, per completezza, va aggiunto che: 1) se in programma a Venezia ci sono molti film di registi e pochi di registe, nelle giurie ci sono più donne che uomini, a partire dalla stessa Martel che è persino presidente; 2) tantissimi film scelti per il festival affrontano la condizione femminile nelle diverse società, anche se girati da maschi; 3) il comitato di selezione dei film è composto per metà da donne; 4) qualche film girato da una donna forse è a Venezia proprio perché donna (qualche critico qui al Lido fa il nome di Nevia di Nunzia De Stefano, l'ex moglie di Matteo Garrone). Per il resto, buon Leone, e leonesse, a tutti.

Marco Giusti per Dagospia il 30 agosto 2019. “Spero che il fatto di essere ebreo non influisca sul suo giudizio su di me”, chiede all’inizio del film il capitano Alfred Dreyfus al suo superiore e maestro Georges Picquart. “No, starò attento a separare i sentimenti dai fatti”, risponde Picquart, lasciando così modo a Dreyfus di fargli presente che il suo giudizio è già in qualche modo compromesso. In modo non tanto diverso ci si pone un po’ tutti noi rispetto a questo J’accuse di Roman Polanski, sceneggiato assieme al Robert Harris di The Ghostwriter e prodotto da Alain Goldman con Luca Barbareschi, Paolo Del Brocco e Roman Abramovich. Anche noi stiamo “attenti” rispetto al film proprio perché è di Polanski in un momento particolare della sua vita. Quando cioè i vecchi processi americani per violenza carnale e le polemiche legate al MeToo e alla presenza di questo film a Venezia ne compromettono in ogni modo uno sguardo neutrale. Sia che lo si ritenga un fresco capolavoro o un buon polpettone un filo polveroso girato da un grande maestro a 86 anni, non riusciamo davvero mai a distinguere l’opera dall’autore. Anche perché, e mai come in questo caso, l’opera è l’autore. E’ Polanski a farci sapere da subito che lui si sente da tutta la vita massacrato e additato come il capitano Alfred Dreyfus, un ufficiale francese innocente degradato e punito come traditore dalla destra reazionaria e fintopatriottica francese solo perché ebreo. E per questo finirà rinchiuso per anni in una cella coi ceppi ai piedi in quel dell’Isola del Diavolo, prima che il colonnello Picquart, interpretato qui da un grande Jean Dujardin, e Emile Zola sulla prima pagina di “L’Aurore” salvino il suo corpo e soprattutto il suo onore di militare e di francese. Ma c’è di più. Perché, proiettandosi nella storia di Dreyfus, Polanski affronta una serie di situazioni pur di fine ’800 che oggi ci appaiono estremamente attuali. Come se poco o niente fosse cambiato nella vecchia Europa. Il sovranismo, l’odio per l’Internazionale Ebraica della propaganda fascista, il gioco al massacro delle fake news. Se ci fu un vero e proprio Affare Dreyfus, prototipo di tanti se non tutti i casi giudiziari-politici del 900, seguito da centinaia di articoli sui giornali e con uno strascico che portò alla realizzazione di film celebri, come The Life of Emile Zola di William Dieterle con Paul Muni come Zola e Joseph Schlidkraut come Dreyfus, c’è anche un vero e proprio Affare Polanski, con martirio dello stesso regista, centinaia di articoli e polemiche su polemiche. Ripeto. E’ Polanski, nel bene e nel male, con un po’ di grandeur poco polanskiana (lui che è se,pre stato così ironico), a vedere il proprio caso riflesso nella storia di Dreyfus, condannato ingiustamente dalle forze fasciste e razziste francesi a un martirio infinito. Come fu ingiustamente condannato, dall’opinione pubblica mondiale, addirittura a causa demoniaca della tragedia della moglie Sharon Tate. Condannato perché non americano, regista di un film come Rosemary’s Baby, perché star della Swinging London piena di eccessi, orge e droga. E così, in questo caso, non è semplice, per lo spettatore cresciuto con i capolavori del regista, ma che dagli anni di John Ford e di Pablo Picasso, sa distinguere tra opera e autore, staccarli. Certo. Come film, questo J’accuse è un perfetto esempio di grande scrittura e messa in scena. Fotografia meravigliosa di Pawel Edelman, lo stesso de Il pianista e di tutti gli ultimi film di Polanski. Scenografie ricchissime di Jean Rabonne. Bellissimo cast, con Louis Garrel cone Dreyfus, Mathieu Amalric come grafologo, Emmanuele Seigneur come amante di Picquart, una serie di nomi eccelsi della Comédie. Non è un film moderno, diciamo. E Polanski è più vicino agli anni di Dreyfus che a quelli del Jocker. E non è per nulla un film alla Polanski, con svelamenti di identità. Anzi. Con questo è una macchina narrativa costruita alla perfezione. Per vecchi signori, ovvio. Ma, ripeto, il problema del nostro sguardo sul film è quasi insormontabile. E anche i grandi applausi, che partono dall’industria cinematografica europea che rivendica la propria indipendenza da Hollywood, ricevuti a tutte le proiezioni tradiscono un po’ questo problema. Chissà se la festa per il film l’hanno fatta all’Isola del Diavolo?

MA È UNA MOSTRA DEL CINEMA O UN TRIBUNALE SPECIALE? Lettera a Il Fatto Quotidiano il 30 agosto 2019. Gentile redazione, ogni volta mi stupisco di come Polanski venga trattato dai colleghi, ultima la presidente di giuria a Venezia, che si rifiuta di andare alla proiezione di gala del suo film per le accuse di molestie su una minorenne. Sono accuse orribili, per cui il regista è stato anche condannato, ma cosa c' entrano con l' arte? Ma è una Mostra o un tribunale? Io sto con il direttore Barbera: non siamo giudici, ma critici di cinema. Eliana Parenti

LA RISPOSTA DE "IL FATTO". Gentile Eliana, la ringrazio per le sue riflessioni, che considero una giusta reazione rispetto a un comportamento reiterato. Anzitutto mi permetto di darle alcune novità sulla questione, tuttora in corso di dibattito nell' ambito della Mostra veneziana iniziata da pochi giorni. Roman Polanski non sarà presente alla première del suo film, "J' accuse". La sua scelta, di cui non sappiamo le ragioni, è stata comunicata prima che la polemica prendesse corpo, è dunque precedente alle dichiarazioni della presidente di giuria di Venezia 76, Lucrecia Martel. Poi se oggi al Lido vedremo comparire il grande cineasta polacco saremo felici della sorpresa, naturalmente. Chiaramente la questione è delicatissima e come purtroppo spesso accade, viene cavalcata dai media (soprattutto "social") con quel "tanto al kilo" da svilirla e anzi fraintenderla proprio. Martel ha sbagliato il tiro: se questa era ed è la sua posizione, doveva dimettersi dal ruolo di presidente di giuria non appena è stata comunicata la selezione del concorso veneziano, vale a dire a metà luglio. Questo suo comportamento non solo è discutibile, ma anche goffo. E, ancor più grave, rischia di minare la bontà di qualsivoglia verdetto sortirà la Mostra. Ma non solo. Seppur la sua posizione sia legittima, farne oggetto di dibattito e polemica in pasto alla folla ha portato allo svilimento - se non addirittura a un vero e proprio depotenziamento concettuale - della battaglia di molte donne contro violenze e molestie. L' effetto è un clamoroso boomerang: tutti (e quasi tutte le donne) si sono schierati a favore di Polanski - che ricordiamo vittima egli stesso per la sua vita intera di ogni genere di sopruso a partire dall' Olocausto in poi -, il quale ha scontato e tuttora sta pagando cara la molestia sulla ragazza avvenuta decenni fa. La stessa sua vittima rilasciò a suo tempo delle dichiarazioni ed è noto che Polanski le abbia chiesto scusa per i suoi atti, certamente da condannare ma non tali da costargli una crocifissione praticamente reiterata a ogni festival che ospiti una sua opera. Anna Maria Pasetti

CHIUSO IL CASO POLANSKI: CON LE SCUSE DI LUCRECIA MARTEL, PRODUTTORI SODDISFATTI. Da la stampa.it il 30 agosto 2019. Il caso Polanski che ieri, con le dichiarazioni della presidente di giuria, l'argentina Lucrecia Martel, ha dominato l'apertura della Mostra del cinema di Venezia, può ritenersi chiuso, almeno per quanto riguarda la produzione che pure aveva ipotizzato il ritiro del film.

«A nome di tutta la compagine produttiva accettiamo - fanno sapere ufficialmente oggi - le scuse della Presidente della Giuria Lucrezia Martel. Nella certezza che rimarrà la serenità di giudizio nei confronti del film, J'accuse di Roman Polanski resta in concorso alla 76/ma Mostra del Cinema di Venezia».

MALATI DI METOO. Simonetta Sciandivasci per ''La Verità'' il 30 agosto 2019. C' è una bellissima canzone di Franco Battiato che parla di una puttana, «la più grassa puttana che mai avessi visto», alla quale uno scemo disse che era una schifosa montagna di grasso, mentre invece tutti gli altri sapevano, avendolo sperimentato, che a letto lei diventava più bella di Marylin Monroe. «Vedete come va il mondo? Ecco com' è che va il mondo», così fa il ritornello. Significa che la mole non schiaccia ma eleva e che spesso, nella vita, a essere spacciati, o almeno condannati all' insipienza, non sono quelli impacciati dai propri difetti, bensì quelli che non ne hanno neanche uno, e sono dritti, e retti, e magari anche magri. Significa anche che il mondo è molto strano, va per conto suo, e in momenti in cui viene investito da epidemia di demenza come da un po' di anni a questa parte, può capitare che un grande scrittore come Franzen dica che siccome Caravaggio è stato un maluomo, allora non vuole vedere i suoi quadri. E che la presidente della giuria del Festival di Venezia, Lucrecia Martel, si rifiuti di presenziare alla cena di gala in onore del regista Roman Polanski e dica che non applaudirà il suo film e che se fosse stato per lei non lo avrebbe mai invitato e che quando ha scoperto che ci sarebbe stato anche lui era troppo tardi per tirarsi indietro e abbandonare il ruolo gentilmente concessole. La ragione è sempre la stessa: Polanski sarebbe uno stupratore seriale pedofilo e non avrebbe saldato il suo debito con la giustizia (e pensare che sono anni che la ragazzina che violentò, ormai signora, Samantha Geimer, implora di lasciarlo in pace). Ora, vedete come va il mondo. Lucrecia Martel vanta «diversi riconoscimenti internazionali» (quando nelle bio non specificano quali, insospettirsi sempre, come per i giornalisti che scrivono di scrivere «per diverse testate») e nessuno di voi ha visto un suo film. Roman Polanski è quello di Rosemary' s baby, un capolavoro che hanno visto anche quelli che non l' hanno visto, tanto ha fatto la storia. Ed ecco com' è che va il mondo: non è lui a non applaudire lei, ma lei a non applaudire lui e, inelegante e scema com' è, ci tiene anche a sottolinearlo, perché non sa che la maleficenza, come la beneficenza, si fa di nascosto.

"PERCHÉ NON REAGISCO? SAREBBE COME COMBATTERE CONTRO I MULINI A VENTO". GIANNI SANTORO per repubblica.it il 30 agosto 2019. "Perché non reagisco? Perché sarebbe come combattere contro i mulini a vento". Parola di Roman Polanski. Il regista parla per la prima volta del suo film in gara alla Mostra di Venezia, J'accuse, che i produttori hanno minacciato di ritirare dal concorso dopo le critiche da parte della presidente di giuria Lucrecia Martel ("Non separo l'uomo dall'opera: non lo applaudirò"). Da anni ricercato dalla polizia statunitense e perseguitato dalle polemiche per la condanna per "rapporto sessuale con minorenne" del 1977, il regista si paragona al protagonista della storia, Alfred Dreyfus, il capitano dello stato maggiore francese ebreo condannato per alto tradimento, accusa poi rivelatasi falsa. La rara intervista a Polanski è parte del materiale stampa del film e ne è venuto in possesso il sito americano Deadline, che ne riporta le frasi salienti. Intervistato dallo scrittore francese Pascal Bruckner, spiega perché ha deciso di raccontare il caso Dreyfus: "Da grandi storie spesso nascono grandi film. La storia di un uomo accusato ingiustamente è sempre affascinante e attuale, visti i rigurgiti di antisemitismo. (...) Un caso simile potrebbe ripetersi. Ci sono tutte le circostanze: accuse false, superficialità giudiziarie, magistrati corrotti e soprattutto i social media che ti condannano senza un giusto processo né il diritto di appello". Bruckner poi chiede a Polanski se "da ebreo perseguitato in tempo di guerra e regista perseguitato in patria, sarà in grado di sopravvivere al maccartismo neo-femminista". "Un film come questo mi aiuta molto", risponde il regista, "ho ritrovato esperienze personali, la stessa determinazione a negare i fatti e a condannarmi per reati che non ho commesso. La maggior parte delle persone che mi molestano non mi conoscono e non sanno niente del caso". E ricorda poi come gli attacchi siano iniziati nel 1969 con l'uccisione di sua moglie Sharon Tate: "Stavo già attraversando un periodo tremendo, la stampa si impadronì della tragedia e la gestì nel modo più deplorevole possibile, sottintendendo che ero uno dei responsabili del suo omicidio, in un contesto di satanismo. Per loro, il mio film Rosemary's baby era la prova che fossi in combutta con il diavolo. Durò per mesi, finché la polizia non trovò i veri assassini, Charles Manson e la sua "family". Tutto questo ancora mi perseguita. È come una valanga, si aggiunge sempre uno strato. Storie assurde di donne che non ho mai visto che mi accusano di cose che sarebbero accadute più di mezzo secolo fa". "Non vuole reagire?", chiede l'intervistatore. "A che serve? Sarebbe come combattere contro i mulini a vento".

Venezia: il J'Accuse di Roman Polanski parla molto di sé e della sua "persecuzione". Film storico, rigoroso ma poco vibrante, ricostruisce lo scandalo Dreyfus della Francia di fine Novecento. Una vicenda che per il regista assomiglia molto alla sua vicenda giudiziaria. Simona Santoni il 30 agosto 2019 su Panorama. Al Lido di Venezia è il giorno di J'accuse (L'ufficiale e la spia) di Roman Polanski, che arriva in scia alle polemiche che hanno aperto la 76^ edizione della Mostra del cinema. In corsa per il Leone d'oro, è un film dall'impianto classico, di stile rigoroso, che sembra il J'accuse del regista stesso contro il sistema giudiziario e l'opinione pubblica che l'hanno messo sulla griglia. Racconta l'affaire Dreyfuss, con toni più solenni che vibranti.  Ma andiamo per gradi. 

La polemica Polanski a Venezia. Il dilemma atavico è sempre quello: è giusto dare onore e spazio - e in questo caso la platea internazionale del concorso di Venezia 76 - a un ricercato dalla legge? Il regista polacco di origini ebraiche, a cui la Francia ha dato cittadinanza negandone l'estradizione, è accusato di violenza sessuale compiuta ai danni di una minorenne negli anni '70 negli Stati Uniti, da cui da allora si è tenuto sempre alla larga. Nella conferenza stampa di apertura della Mostra del cinema, a tale dubbio il direttore artistico Alberto Barbera ha risposto da cinefilo qual è: l'opera d'arte deve essere distinta dall'uomo che la realizza. E quindi, ben venuto a J'accuse di Polanski. La presidente di giuria Lucrecia Martel, dal canto suo, è stata più severa. Ha ammesso che non avrebbe partecipato al galà del film per evitare di dover applaudire il suo autore. Questa affermazione, estrapolata da una dichiarazione più ampia, è stata poi rilanciata da testate giornalistiche e social a suon di polemiche, con qualcuno che ha anche messo in dubbio il suo ruolo di presidente di giuria e la sua obiettività di giudizio. A noi non sembra che l'osservazione della regista argentina intacchi la sua capacità di valutazione. Eccola: "Non voglio partecipare al gala perché rappresento donne nel mio Paese che sono vittime di questo tipo di abusi, per cui non mi sento di alzarmi e applaudire ma il film c'è. Su questo tema c'è un dibattito e quale miglior luogo che questo, il festival, per il confronto? Non intendo essere il giudice di una persona, occorre affrontare il tema attraverso il dialogo". Insomma: il film è il film. L'uomo è l'uomo. Si può applaudire il film, si può non applaudire l'uomo. Polemica chiusa. E ora si parli del film. 

Rivive il caso Dreyfus. J'accuse (L'ufficiale e la spia) è stato applaudito alla prima proiezione per la stampa in Sala Darsena. Con una ricostruzione solida che lascia però pochi picchi emotivi, racconta l'affaire Dreyfus, uno dei fatti più controversi della storia francese del Novecento. Un episodio che ha proiettato un'ombra lunga su quello che sarebbe successo da lì a breve, con la vergogna dell'Olocausto. Il 5 gennaio 1895 il capitano ebreo Alfred Dreyfus, promettente ufficiale dell'esercito francese, dopo essere accusato di essere un informatore dei tedeschi, viene degradato e condannato alla deportazione a vita nell'Isola del Diavolo nell'oceano Atlantico, al largo delle coste della Guyana francese. Lo incarna un Louis Garrel irriconoscibile, stempiato, ben diverso dal sex symbol noto. Umiliato e circondato da un crescente clima di antisemitismo, Dreyfus continua a sostenere la sua innocenza. Il colonnello Georges Picquart (interpratato da Jean Dujardin), che era stato suo maestro senza averlo particolarmente in simpatia, assiste alla sua umiliazione. Quando Picquart viene promosso a capo dell’unità di controspionaggio che ha accusato Dreyfus, scopre però che l'informatore dei tedeschi è ancora in circolazione e che le prove e le indagini contro Dreyfus sono state superficiali e farraginose: Dreyfus è davvero innocente. Da allora Picquart si batte contro tutti i suoi superiori e collaboratori per far emergere la verità, che però l'Esercito francese vuole seppellire per non ammettere i propri errori. A sostenerlo, nella sua battaglia per la verità contro l'Esercito e contro l'opinione pubblica, c'è lo scrittore Émile Zola che pubblicha sul giornale L'Aurore il suo celebre "J'accuse", una lettera indirizzata al presidente della Repubblica in cui accusa diversi alti ufficiali di falsità, corruzione e bugie.

L'affaire Dreyfus secondo Polanski. Nello scandalo Dreyfus si intrecciano l'errore giudiziario, il fallimento della giustizia e l'antisemitismo. Il caso Dreyfus divise la Francia per dodici anni: Polanski oggi lo rievoca, come simbolo delle iniquità di cui sono capaci le autorità politiche, ergendo lo scudo degli interessi nazionali. È impossibile non leggerci anche qualcosa a lui molto vicino. Nel materiale stampa diffuso a Venezia, in un'intervista fattagli dallo scrittore francese Pascal Bruckner, Polanski (assente al Lido) ammette: "In questa storia trovo momenti che ho vissuto anche io: la stessa determinazione nel negare i fatti e nel condannarmi per cose che non ho fatto. La maggior parte delle persone che mi tormenta non mi conosce e non sa nulla del caso". Polanski tratta la vicenda con occhio attento e mano sicura, senza orpelli, sulla musica severa di Alexandre Desplat. C'è sostanza, tanta, ma la tensione emotiva è all'osso.  Al Lido Emmanuelle Seigner, che interpreta l'amante di Picquart, ha definito J'Accuse un "thriller politico e non un film storico". La sensazione, invece, è quella di trovarsi di fronte a un film storico, senza la suspense richiesta ai thriller. Da Garrel, anche lui presente a Venezia insieme a Dujardin e al produttore Luca Barbareschi, trapela un anedotto interessante e triste: durante le riprese del film, sul set si è presentata una delle figlie di Dreyfus. Purtroppo anche lei ha subìto la persecuzione: i figli più giovani di Dreyfus sono stati deportati durante l'Olocausto. Garrel dice con desolazione: "Anche la discendenza ha vissuto l'inferno".

Polanski: «Io come Dreyfus» Applausi al suo film «J’accuse». Pubblicato venerdì, 30 agosto 2019 da Stefania Ulivi su Corriere.it. Al Lido, come era risaputo, non c’è. Ma la presenza più significativa di questa Venezia 76 è certo quella di Roman Polanski, 86 anni, uno degli ultimi grandi maestri del cinema del Novecento che evoca, a distanza, un parallelo diretto tra l’affaire Dreyfus e il suo. Il film con cui torna in concorso, «J’accuse», dedicato al celebre caso giudiziario («L’evento più importante della storia francese contemporanea», secondo Louis Garrel che presta il volto al capitano degradato e condannato all’ergastolo per un tradimento mai compiuto) ha ricevuto un’accoglienza molto calda: applausi alle proiezioni e alla conferenza stampa dove tutti, a cominciare dai produttori, considerano superate le polemiche seguite alle dichiarazioni della presidente di giuria Lucrecia Martel (che, anziché alla proiezione ufficiale, lo ha visto la mattina mescolata ai giornalisti). «Questo non è un tribunale morale ma una mostra del cinema. Il film deve parlare, la giuria giudicare, il pubblico se vuole applaudirà», dice a nome di tutti (il francese Alain Goldman e RaiCinema) Luca Barbareschi. Ma se il caso «J’accuse» è chiuso, la questione Polanski resta aperta. Ci pensa la moglie, l’attrice Emmanuelle Seigner, a evocarla: «È difficile mettermi nei panni di Roman. Oggi festeggiamo 30 anni di matrimonio. Nei suoi film c’è sempre il tema della persecuzione? Mi sembra comprensibile se si guarda alla sua vita». Più esplicito il regista 86enne. Che ha fatto sentire la sua voce, forte e potente, attraverso le parole della dettagliata intervista pubblicata sul pressbook del film (in cui fa capolino, mescolato al pubblico di un concerto di pianoforte), affidata all’amico Pascal Bruckner, saggista e scrittore, critico del movimento #MeToo, autore di «Venere in pelliccia» che Polanski portò sullo schermo. Un altro caso Dreyfus è possibile, gli chiede? «Sì, visto il risorgere di tendenze antisemite. Ci sono tutti gli ingredienti perché accada: accuse false, procedimenti legali discutibili, giudici corrotti, e soprattutto i social media che incolpano e condannano senza un processo regolare». Ogni riferimento alla sua vicenda processuale è, ovviamente, tutt’altro che casuale. I fatti risalgono al 1977, la violenza sessuale ai danni della 13enne Samantha Geimer. Reo confesso, fu condannato: passò 42 giorni in carcere, poi fuggì dagli Usa. Il caso riesplose nel 2009 quando fu arrestato in Svizzera su mandato Usa, e passò dieci mesi agli arresti domiciliari. La giustizia americana ha rifiutato le richieste dei suoi legali di chiudere il caso senza recarsi negli Stati Uniti dove rischia il carcere, mentre la stessa Geimer ha (senza successo) chiesto alla Corte superiore di Los Angeles di chiudere il caso, e l’Academy Award lo ha espulso dalle sue fila. Un vero accanimento, suggerisce Bruckner. «In quanto ebreo perseguitato durante la guerra e come cineasta perseguitato dagli stalinisti in Polonia, sopravviverai al maccartismo neo-femminista?». Mi ha aiutato il lavoro, risponde Polanski. «Nella storia ho trovato momenti che io stesso ho vissuto, posso riconoscere la determinazione a negare i fatti e condannarmi per cose che non ho fatto. Molti atti dell’apparato persecutorio mostrati nel film mi sono familiari e mi hanno ispirato». Tutto parte da lontanissimo, sostiene, con l’assassinio di Sharon Tate, sua moglie. «Il modo in cui sono visto ha avuto inizio lì. Sebbene stessi vivendo un momento terribile, la stampa trattò la storia nel modo peggiore, lasciando sottintendere che io fossi uno dei responsabili della sua morte, ci misero mesi a arrestare Manson. “Rosemary’s Baby” era la prova che ero in combutta con il diavolo». Cita «le storie assurde di donne che non ho mai visto in vita mia e mi accusano di cose che sarebbero successe più di 50 anni fa». Ha ancora voglia di combattere, gli chiede lo scrittore? «E per cosa? È una lotta contro i mulini a vento». Ma non sembra affatto arreso.

Polanski: «Io perseguitato fin dal caso Sharon Tate». Pubblicato venerdì, 30 agosto 2019 da Corriere.it. Al Lido non è arrivato, come previsto, giacché l’Italia è uno dei paesi in cui rischia l’estradizione negli Usa, ma la presenza di Roman Polanski, in concorso oggi con J’accuse dedicato all’affaire Dreyfus, si fa sentire, attraverso l’intervista che accompagna il pressbook del film interpretato da Louis Garrel e Jean Dujardin (in cui lo stesso regista polacco, 86 anni, fa capolino, mescolato al pubblico di un concerto di pianoforte). Si è fatto intervistare da un amico, lo scrittore Pascal Bruckner (l’autore di Luna di fiele, da ci ha tratto un film): «La storia di un uomo accusato ingiustamente è sempre affasciante ma è anche molto attuale, visto il risorgere di tendenze antisemite. Un altro caso è possibile. Ci sono tutti gli ingredienti perché accada: accuse false, pessimi procedimenti legali, giudizi corrotti, e soprattutto i social medi che accusano e condannano senza un processo regolare». Ogni riferimento alla sua vicenda è, ovviamente, tutt’altro che casuale. Bruckner gli domanda: In quanto ebreo perseguitato durante la guerra e come cineasta perseguitato dagli stalinisti in Polonia, come ha potuto sopravvivere al maccartismo neofemminista che cerca di bloccare le proiezioni dei suoi film e altre ingiustizie come il fatto di essere stato espulso dall’Academy Award?. «Mi ha aiutato il lavoro — risponde Polanski. — Nel film ho riconosciuto momenti che io stesso ho vissuto, posso trovare la stessa determinazione a negare i fatti e condannarmi per cose che non ho fatto. Devo ammettere che molti atti dell’apparato persecutorio mostrati nel film mi sono familiari e mi hanno ispirato». Tutto è cominciato, sostiene, con l’assassino di Sharon Tate, sua moglie. «Il modo in cui sono visto ha avuto inizio lì. Quando successe, sebbene io stessi vivendo un momento terribile, la stampa trattò la storia nel modo peggiore, lasciando sottintendere che io fossi uno dei responsabili della diffusione del satanismo, grazie a Rosemary’s Baby. Ci vollero mesi perchè fossero arrestati i colpevoli, Charles Manson e la sua family». E ora, dice «le storie assurde di donne che non ho mai visto in vita mia e mi accusano di cose che sarebbero successe più di mezzo secolo fa». Ancora voglia di combattere, gli chiede lo scrittore? «E per cosa? È come battersi contro i mulini a vento». Anche se l’intervista stessa è un segno che la voglia di combattere c’è. Intanto il film alla proiezione stampa del mattino - dove tra il pubblico c’era, molto discreta, anche la presidente della giuria Lucrecia Martel - è stato molto applaudito.

La Mostra del Cinema di Venezia tra scandali e controversie, dai film censurati agli insulti in sala. Le polemiche nella storia del festival da «Extase», la pellicola di Gustav Machatý che aprirà la 76ma edizione. Arianna Ascione il 27 agosto 2019 su Il Corriere della Sera.

«Extase». Sarà, per così dire, un ritorno sul luogo del misfatto: la serata di pre-apertura della 76ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia (di scena al Lido dal 28 agosto al 7 settembre) vedrà come protagonista quella che fu la prima pellicola-scandalo della rassegna. Parliamo di «Extase» (1933) del regista ceco Gustav Machatý: il film, che fu presentato durante la seconda edizione del festival, fece scalpore per il primo nudo integrale della storia del cinema, quello dell'allora 19enne Hedwig Eva Maria Kiesler - in seguito nota come Hedy Lamarr - che all'epoca sostenne di essere quasi stata obbligata a girare la scena in cui appariva senza veli per non dover pagare una sostanziosa penale (pare anche avesse firmato il contratto senza leggerlo e che il regista le avesse promesso soltanto inquadrature a campo lungo e nessun dettaglio visibile). Inoltre il personaggio femminile da lei interpretato, Eva, non veniva punito per aver abbandonato il marito, cosa inconcepibile per la morale del tempo. L'eco dello scandalo fu tale che il marito dell'attrice, l'imprenditore Fritz Mandl, provò ad acquistare tutte le copie del lungometraggio esistenti al mondo per distruggerle. Ovviamente senza successo.

Lo scandaloso Pasolini. «Extase» non è stato l'unico film a dare scandalo alla Mostra del Cinema: nel 1968 Pier Paolo Pasolini presentò «Teorema» (tratto da un suo romanzo), chiedendo agli spettatori di non guardarlo perché in concorso contro la sua volontà. La pellicola, già vietata ai minori di 18 anni, in ogni caso rimase pochissimi giorni nelle sale: la Procura di Roma a distanza di pochi giorni dalla presentazione ne predispose il sequestro «per oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali, alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose, e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ospitava». Il regista e il produttore Donato Leoni finirono a processo - rischiavano fino a sei mesi di carcere - ma entrambi furono assolti dal Tribunale di Venezia.

L'occupazione della sala Volpi. Nello stesso anno l'evento fu scosso dalle contestazioni, ma - a differenza di quanto accaduto a Cannes (lì il festival del cinema fu bloccato) - i manifestanti ebbero come risultato soltanto uno slittamento della partenza. Il 26 agosto Pasolini fu protagonista (insieme a Cesare Zavattini, Lionello Massobrio, Marco Ferreri, Alfredo Angeli, Francesco Maselli e Filippo De Luigi) dell'occupazione della sala Volpi contro la direzione del festival allora guidato da Luigi Chiarini - che si dimise a fine Mostra -, ma in seguito all'intervento della polizia, che fece irruzione alle 2 di notte, il giorno successivo la kermesse fu ufficialmente inaugurata.

Fischi in sala. Nonostante l'indubbio valore delle loro produzioni i registi italiani, dai neorealisti ai grandi cineasti del dopoguerra come Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, hanno faticato non poco per riuscire ad ottenere gli ambiti riconoscimenti del Lido. Luchino Visconti ad esempio ha sfiorato due volte il Leone d'oro, con «Senso» (1954) e «Rocco e i suoi fratelli» (1960): quando quest'ultimo fu sconfitto da «Le passage du Rhin» di André Cayatte i fischi in sala dei viscontiani sommersero il Palazzo del Cinema.

Kubrick tra «Lolita» ed «Eyes Wide Shut». Come Pasolini anche Stanley Kubrick ha sempre smosso i benpensanti ogni volta che ha messo piede al Lido. A partire dal 1962, quando portò in concorso «Lolita»: alla proiezione ufficiale in Sala Grande il regista non c'era. Era presente soltanto l'attrice principale, l'allora 14enne Sue Lyon. Dieci anni dopo fu «Arancia Meccanica» ad essere accolto da feroci critiche: il regista ricevette il Premio Pasinetti ma la pellicola finì sotto la scure della censura (vietato ai minori di 18 anni fin dal 1971 è riuscito ad approdare in televisione soltanto a 36 anni di distanza dalla sua uscita nelle sale). Pochi mesi dopo la sua scomparsa Kubrick è stato omaggiato a Venezia con una premiere postuma in occasione dell'uscita di «Eyes Wide Shut»: quella del 1999 fu un'edizione particolarmente seguita grazie alla presenza dei protagonisti - Nicole Kidman e Tom Cruise -.

Cinema e religione. Martin Scorsese scatenò un vero putiferio quando uscì il suo tormentato film basato sui Vangeli apocrifi, «L'ultima tentazione di Cristo», presentato fuori concorso durante la 45ma edizione (1988). La pellicola fu proiettata regolarmente in un clima molto teso nonostante le numerose critiche provenienti dagli ambienti religiosi. «Sanguinolento, provocatorio…Quante ne dissero. Eppure, come spiegò Martin, è un film religioso sulla sofferenza e sullo sforzo di trovare Dio» ricordava al Corriere il protagonista Willem Dafoe, vincitore della Coppa Volpi nel 2018 per «At Eternity's Gate di Julian Schnabel». Una cosa è certa: quando il cinema incontra la religione sotto i riflettori di Venezia la polemica è assicurata. Ultima in ordine di tempo quella sollevata nel 2012 da una scena controversa di «Paradise: Faith» del regista austriaco Ulrich Seidl in cui la protagonista utilizza un crocefisso come oggetto sessuale.

Il premio a Michelle Bonev. L'istituzione nel 2010 del riconoscimento Action for Women durante la 67ma edizione del festival (era già esistente ma fino a quel momento era destinato a cortometraggi a sfondo sociale) destò molto scalpore, per la presenza di alcuni esponenti del governo come la ministra per le Pari opportunità Mara Carfagna e il ministro per le Politiche agricole ed ex governatore del Veneto Giancarlo Galan alla cerimonia di premiazione ma anche per il film premiato, «Goodbye Mama» di Michelle Bonev, attrice e regista bulgara considerata vicina al primo ministro della Bulgaria e all'allora premier Silvio Berlusconi. Nel mirino finirono anche le spese per la partecipazione alla Mostra del Cinema: si parlò di fondi pubblici, ma sia il governo italiano sia quello bulgaro smentirono ogni addebito (in seguito Bonev raccontò di aver sostenuto ogni costo personalmente attraverso la sua società di produzione).

La maglietta pro Weinstein e gli insulti sessisti a Jennifer Kent. Quella del 2018 è stata la prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia post #MeToo, ma alcuni episodi hanno dimostrato quanto ancora ci sia da lavorare per ottenere la parità di genere nel cinema come in molti altri settori professionali. Escludendo la provocazione del regista Luciano Silighini Garagnani, che sul red carpet della premiere di «Suspiria» di Luca Guadagnino ha esibito una t-shirt recante la scritta «Weinstein è innocente» (in riferimento al produttore di Hollywood accusato di violenza sessuale da decine di donne), l'edizione dello scorso anno ha visto solo uno dei 21 film in concorso diretto da una regista. Come se non bastasse Jennifer Kent è stata anche insultata da un giovane giornalista al termine della proiezione stampa del suo «The Nightingale» - vincitore del Premio speciale della giuria - che ha urlato in sala una serie di improperi sessisti (scusandosi qualche ora dopo con un messaggio pubblicato sulla sua pagina Facebook).

Venezia, settant’anni di scandali in Mostra, a cura di Fabio Fusco. CentroStusiPierPaoloPasoliniCasarsa.it il 5 settembre 2013. Dal nudo di Hedy Lamarr alle "vergogne" di Fassbender, dai diavoli di Ken Russell al "fantasma" di Joao Pedro Rodriguez, ripercorriamo i film che hanno segnato la Mostra del cinema di Venezia tra polemiche, scandali (veri o mancati) o fenomeni di costume. Non c’è Festival – o kermesse, evento, manifestazione – che si possa definire pienamente riuscita senza uno scandalo, anche piccolo, che faccia discutere i media, spesso a vantaggio del festival stesso e che metta in luce le ipocrisie e i tabù della società in un determinato periodo storico. Se poi il festival in questione si svolge in Italia, un paese nel quale ci si scandalizza spesso per cose di poco conto, senza però indignarsi davvero per questioni gravi, allora il gioco è fatto: a volte basta un nome a suscitare scalpore – ad esempio quello di Alberto Moravia, come vedremo – oppure una sequenza suggestiva, o semplicemente le chiacchiere messe in giro dai press-agent per sollevare un polverone. Nei settant’anni di vita della Mostra del Cinema di Venezia gli scandali non sono affatto mancati, e ad eccezione di un paio di decenni, si tratta di episodi che "raccontano" in maniera efficace il periodo in cui sono avvenuti, svelandone gli aspetti più oscuri o i limiti del livello di apertura mentale generale.

Gli anni Trenta: estasi e orchidee nere. Hedy Lamarr nuda in una celebre scena di Estasi (1933). Appena un anno di vita, e la Mostra si infiamma con un nudo femminile diventato poi leggendario, quello di Hedy Lamarr in Estasi di Gustav Machatý, la storia di una donna che sentendosi trascurata dal marito inizia una relazione con un giovane incontrato nei pressi di un lago. Ed è proprio la sequenza in cui la bellissima attrice fa il bagno nuda, oltre a quella in cui si concede al suo amante a far discutere. Siamo in pieno regime fascista, e nella questione interviene persino Mussolini, che esige una visione privata del film, ma alla fine resta colpito dalle grazie della diva di origine austriaca, che sarà ricordata soprattutto per questo film e le scene di nudo, ma non per il suo importante contributo alla scienza.

Neanche la presenza della star delle revue parigine Josephine Baker, nel 1935, riuscirà a fare tanto scalpore e per un nuovo scandalo – di entità minore, stavolta – dovranno passare altri tre anni con la presentazione di Sentinelle di bronzo, nel quale Doris Duranti appare spogliata e nel ruolo esotico di Dahabo, una donna di colore. Il film – che mette in luce l’eroismo degli italiani in Abissinia – ottiene un premio, e la Duranti ha modo di farsi notare per la sua avvenenza e di imporsi, successivamente, come diva di regime (grazie anche alle sue amicizie importanti) oltre a conquistare l’appellativo di orchidea nera sulle pagine dei giornali.

Gli anni Cinquanta: un decennio “perbene”. Negli anni Quaranta la Mostra torna ad essere una manifestazione completa – e non di facciata – solo a partire dall’immediato dopoguerra, e arriva agli anni Cinquanta senza troppi clamori, ma con la voglia di ricominciare a vivere e sognare, grazie anche alle prime grandi star americane che approdano in Laguna. In questi anni a movimentare un po’ le edizioni della kermesse ci sono Ingmar Bergman con il suo Donne in attesa – che nel ’53 scandalizzò alcune signore del pubblico, forse perché descriveva in maniera schietta e senza falsi pudori l’universo femminile – e Louis Malle che invece fece parlare di sé per Les Amants, che nell’edizione del ’58 ottenne anche un premio. Nel ’54 però, furono Gina Lollobrigida e Alberto Moravia a scaldare l’attesa per La Romana di Luigi Zampa, e solo perché il film era tratto da un romanzo dell’autore de Gli indifferenti. Il ruolo della Lollo, quello della prostituta Adriana, fu definito scabroso e si parlò di possibili interventi da parte della censura. Persino coloro che furono invitati alla prima del film – tra cui Giulio Andreotti – si chiedevano se il film sarebbe stato audace, come si riteneva, ma alla fine tutto si concluse senza troppo rumore. Il clima rovente che precedette la presentazione del film, in ogni caso, contribuì a riempire le tasche dei bagarini, che vendettero i biglietti a prezzi salatissimi.

Gli anni Sessanta: oscenità e furore. In netto contrasto con il decennio precedente, gli anni Sessanta sono quelli delle contestazioni studentesche, che rischiarono di compromettere lo svolgimento del Festival nel 1968. Lo stesso anno in cui Pier Paolo Pasolini presentò il suo Teorema, che fu contestato sia dalla critica di sinistra che di destra, ma soprattutto dalle gerarchie ecclesiastiche, che puntarono l’indice sul sottotesto religioso. Il film fu sequestrato per oscenità, e sia Pasolini che i produttori furono denunciati e successivamente assolti. Ad oggi risultano incomprensibili le accuse di oscenità nei confronti di un film del quale ricordiamo sicuramente una certa tensione erotica che pervade tutta la pellicola, ma soprattutto gli intensi e magnetici primi piani di Laura Betti – che infatti fu premiata con la Coppa Volpi – ma Teorema non è l’unico film di Pasolini, tra quelli presentati a Venezia nell’arco di questo decennio, che andò incontro a problemi simili. Nel 1961 infatti, era già toccato a Mamma Roma beccarsi una denuncia per oscenità (poi archiviata), e pochi anni dopo anche Il Vangelo secondo Matteosuscitò un dibattito piuttosto aspro, considerato che il regista solo pochi mesi prima era stato condannato per vilipendio alla religione di stato per un altro film. Tra una provocazione pasoliniana e l’altra, a far gridare preventivamente allo scandalo, nel 1962, ci si mette anche Stanley Kubrick che porta a Venezia la sua Lolita. Le cronache dell’epoca riferiscono di una grande agitazione e fermento tra associazioni cattoliche e di genitori, ma dopo la proiezione del film – che si rivelò meno scabroso rispetto al romanzo di Vladimir Nabokov – le polemiche si ridimensionarono (anche se il film, in ogni caso, andò incontro a diverse censure prima dell’uscita in sala). Qualche anno dopo, nel 1967, fu un’altra iconica figura femminile cinematografica ad agitare le acque della Laguna: la Bella di giorno di Luis Buñuel, l’algida Severine interpretata da Catherine Deneuve, che conquistò anche un Leone d’Oro.

Gli anni Settanta: Salomè e i diavoli. Dopo che aveva già suscitato un certo clamore con Nostra Signora dei turchi, nel caldissimo ’68, Carmelo Bene torna a Venezia con la sua Salomè, nel 1972 e la reazione di pubblico e critica è, se possibile, ancora più selvaggia. L’adattamento pop della Salomè firmato da Bene – coloratissimo, trasgressivo, sicuramente molto personale e quanto di più vicino ai videoclip si fosse visto fino ad allora – smuove un’indignazione generale così accesa, che si fu costretti a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Qualche tempo dopo, Bene ricordò che alla prima del film si era ritrovato “al Palazzo del Cinema, stipato di più di tremila bestiacce” e che riuscì ad evitare il linciaggio grazie alla polizia, ma non gli furono risparmiati gli insulti e “gli sputi dei veneziani in frac”.

Ma il Cristo che si trasforma in vampiro portato in scena da Bene – insieme all’esotica Salomè nera Donyale Luna – non è l’unica provocazione religiosa di questo decennio, visto che l’anno prima Ken Russell aveva incendiato la mostra con I Diavoli, accusato di blasfemia e successivamente sequestrato al momento dell’uscita nelle sale. Viene chiesto il licenziamento di Gian Luigi Rondi, e fanno discutere le sequenze più calde del film, tra cui quella del sogno di Suor Jeanne (Vanessa Redgrave) che bacia la ferita sul costato di Urbano Grandier (un massiccio Oliver Reed, già interprete per Russell di Donne in Amore). Nello stesso periodo fanno discutere Domenica maledetta domenica di John Schlesinger – incentrato su due coniugi che condividono lo stesso amante, il giovane Bob – il nuovo film di Fassbinder, Attenzione alla puttana santa!, ma soprattutto Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, che fu accolto con entusiasmo ma indignò le istituzioni per la rappresentazione esplicita della violenza ed è rimasto vietato ai minori di 18 anni fino al 2007, anno della sua prima messa in onda televisiva. Dopo un inizio così discusso, gli anni Settanta della Mostra si chiudono con un’edizione dai contenuti forti: c’è La Luna di Bertolucci, ad esempio, che parla di droga e incesto – con sequenze molto forti – ma anche altre storie che hanno per protagonisti i giovani, tra cui Vereda Tropical, di Joaquim Pedro de Andrade, incentrato su un ragazzo il cui oggetto del desiderio è una succosa anguria (molti anni prima de Il gusto dell’anguria, che vivacizzò più di un festival con il suo colorato cocktail di sesso, canzoni e cocomeri).

Gli anni Ottanta e Novanta: querelle, tentazioni e scandali mancati. Gli scandalosi protagonisti di questo periodo, saturo di provocazioni costruite a tavolino, più che di vere pellicole in grado di lasciare un segno (nell’arte come nell’immaginario collettivo) sono due: Fassbinder e Scorsese. Il regista tedesco è scomparso da appena due mesi, eppure il suo Querelle de Brest, presentato in concorso nel 1982, solleva un tale polverone mediatico – ancor prima della presentazione alla Mostra – che il direttore della kermesse si vide costretto a rilasciare un comunicato per calmare le acque, e difendere la scelta di includere il film in cartellone. Anche il presidente della giuria di quell’anno, Marcel Carné, difese il film – che nelle sale italiane uscirà con un taglio di circa due minuti su una sequenza di sesso gay – non essendo riuscito a fargli avere un premio. Ma l’approdo del marinaio Georges Querelle in Laguna non susciterà lo stesso clamore riservato al Gesù di Martin Scorsese, sei anni dopo. Se per l’ultimo film di Fassbinder si era mossa la censura, per L’ultima tentazione di Cristo arrivano anatemi dalla Chiesa Cattolica, ma anche da rappresentanti del mondo del cinema e interventi “preventivi” dei magistrati. Zeffirelli attribuisce il film a “quella feccia culturale ebraica di Los Angeles, sempre in agguato per dare una botta al mondo cristiano”, e le associazioni cattoliche promuovono il boicottaggio della pellicola che racconta un Gesù più umano, rispetto alle precedenti rappresentazioni. Per il film di Scorsese è tutta pubblicità, e la sua presentazione alla Mostra è il chiaro segnale che ormai, a far scandalo non è tanto il sesso, ma un approccio controverso (o alternativo) a tematiche religiose. Una tendenza che poi sarà confermata negli anni a venire. Per il resto, nell’arco di questi vent’anni alla Mostra, il comune senso del pudore non subisce grandi scossoni. All’inizio degli anni Ottanta fa discutere Ferreri con il suo Storie di ordinaria follia, ma ad un certo punto – con l’esclusione di Velluto blu dal cartellone – qualcuno, come la Aspesi, chiede ironicamente a gran voce “pietà, dateci uno scandalo”, rivolgendosi evidentemente a Gian Luigi Rondi, che non aveva accettato il film di Lynch in cartellone semplicemente perché gli dava fastidio vedere la figlia di Ingrid Bergman senza veli. Per tutti gli anni Novanta si tenta di conquistare la laguna con l’eros spinto, estremo – quello della serie “lo famo strano?” – si parla tanto di Boxing Helena con Sherilyn Fenn affettata come un cotechino da Julian Sands, di Bambola, con Valeria Marini seduta su una mortadella, e dell’altro film di Bigas Luna presentato alla Mostra, Prosciutto prosciutto, così come delle attrici nude di Tinto Brass che arrivano in gondola per fare un po’ di chiasso insieme al loro pigmalione. Ma si tratta di chiacchiere (e sesso da salumeria, come abbiamo visto) che sfumano nel nulla, e che vengono riservate anche ad altri film in odore di scandalo come Guardami – pretestuosamente ricalcato sulla storia di Moana Pozzi – o Una relazione privata di Frederic Fonteyne. Neanche l’attempato gelataio dai gusti particolari di João César Monteiro ne La commedia di Dio riesce a scandalizzare seriamente qualcuno, e a questo punto non c’è da stupirsi se qualcuno paragona la mostra di quegli anni a eventi popolari, ma meno prestigiosi come Miss Italia o Sanremo. Le uniche discussioni più seriose riguardano Assassini Nati e soprattutto l’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut che viene presentato furbescamente come una pellicola scandalosa, addirittura “un film a luci rosse d’autore”, ma non desta scalpore e lascia la critica con l’amaro in bocca.

Dagli anni Zero ad oggi: Il fantasma e il sessodipendente. I primi anni Zero della Mostra si aprono con un film sessualmente esplicito e cupo, che fa discutere moltissimo e non piace a tutti. La storia di Sèrgio, netturbino gay interpretato da Ricardo Meneses, è l’unica che scuote davvero il Festival in questi anni, anche se non mancheranno certo le pellicole controverse. Il fantasma di João Pedro Rodrigues mostra il protagonista impegnato in una serie di scene che non lasciano nulla all’immaginazione, tanto sono esplicite – sesso orale in bagni pubblici, masturbazioni con ipossia, costumi in latex nero: ce n’è abbastanza per far arrossire il povero Fassbinder di Querelle – e lo stesso Meneses, a Venezia, appare un po’ frastornato, sorridente, ma certamente non abituato a gestire tanta attenzione e curiosità sulle sue performance, e d’altronde O Fantasma sarà la sua unica prova interpretativa, oltre che l’unico film capace di scuotere il Festival nella “vecchia maniera” in cui si intendeva fino a qualche anno fa. Venezia cambia – e cambiano anche i critici che la vivono, oltre che gli addetti ai lavori – quindi se è vero che alcuni film si prestano a qualche chiacchiera – parliamo dei due film di Larry Clark presentati a inizio anni Zero, Bully e Ken Park, ma anche del piccante Y tu mamá también, che porterà fortuna ai due simpatici protagonisti Gael Garcia Bernal e Diego Luna – la maggior parte delle pellicole presentate negli ultimi anni si prestano a far discutere più per i temi affrontati che per le sequenze calde o per scene d’amore omosessuali. Ad esempio I segreti di Brokeback Mountain, così come A Single Man, non saranno accolti con lo stesso sconcerto riservato al film di Rodrigues, ma se ne parlerà soprattutto per le qualità artistiche. Più che sollevare polemiche, i film degli ultimi anni hanno contribuito a rilanciare dei dibattiti molto interessanti, anche se accesi: si è parlato di eutanasia in occasione della presentazione di Mare dentro e più recentemente della Bella addormentata di Bellocchio (che tra l’altro era ricalcato sulla vicenda di Eluana Englaro, quindi un argomento ancora caldissimo sui media), si è parlato di controversie legate alla religione con i transessuali islamici di Tedium, ma soprattutto con Magdalene, del 2002 – in cui si denunciavano gli abusi subiti dalle giovani “peccatrici” ospiti dei conventi della Maddalena, in Irlanda – e più recentemente con Paradise: Faith, soprattutto per una sequenza di masturbazione con un crocefisso. E se Bertolucci, trent’anni prima, parlava di droga, negli ultimi anni la Mostra si aggiorna affrontando il tema delle dipendenze (generiche, ma non meno insidiose) con Shame, per il quale si spende qualche battuta colorita sulle “misure” di Michael Fassbender, ma soprattutto fa parlare per l’intensità del tema e delle sequenze che vedono protagonista il bravo e affascinante attore tedesco. Anche il nostro Stefano Accorsi aveva smosso un po’ le acque a Venezia con il suo celebre nudo integrale in Ovunque sei, ma i temi affrontati dal film di Placido non avevano certamente lo stesso impatto di quelli del film di Steve McQueen. Shame: Michael Fassbender a letto con il suo computer in una scena del film. A fare scandalo – e sul serio – in questi ultimi anni, sono alcune presenze legate al clima politico. Non è tanto l’approdo di una starlette come Noemi Letizia a suscitare sdegno – d’altronde la ragazza, dopo le vicissitudini con Papi, era in cerca di visibilità – ma il fatto che per la bulgara Michelle Bonev, vicina all’ex-premier, sia stato istituito un premio speciale, nel 2010, e siano state spese cifre ingiustificate. Insomma, nessuna scena hot, nessun tema caldo riesce a mettere in ombra certe bassezze. E quest’anno? The Canyons promette sicuramente di fomentare un po’ di discussioni – soprattutto sul fronte del gossip – ma tra i film presentati alla 70esima Mostra del Cinema, quello che ha un buon potenziale di lanciare un vero dibattito è Gerontophilia, per il quale il provocatorio Bruce La Bruce mette in scena il rapporto tra un ragazzo di diciotto anni e l’anziano ospite di una casa di riposo, che ne ha ottantadue. Staremo a vedere cosa ci aspetta.

·         Cinema e motori.

Quella passione della settima arte per le due ruote e l'alta velocità. Il cinema, da sempre, corre in moto: sono molte le pellicole del grande schermo che hanno messo al centro le due ruote, creando indimenticabili immagini iconiche. Fabio Franchini, Martedì 29/10/2019, su Il Giornale. Dalla Harley-Davidson di Easy Rider alla Vespa di Nanni Moretti in Caro Diario. La filmografia mondiale è ricca di pellicole in cui le due ruote fanno capolino, facendola da protagonista. Insomma, moto e cinema, cinema e moto: una sinergia che esiste da sempre, o quasi, e che ha resistito ai tanti cambiamenti del grande schermo in 16:9. Se si chiudono gli occhi e si pensa a una scena del cinema sulle due ruote, la mente non può che andare a Audrey Hepburn abbracciata a Gregory Peck a bordo di una Vespa 125. Il film, ovviamente, è Vacanze Romane. Correva il 1953 e imperava il bianco e nero. Appena sette anni prima nasceva il mitico scooter della Piaggio, che grazie al movie diretto da William Wiler diventò famoso in tutto il mondo. Facendo un salto in avanti di trent'anni, era invece una Yamaha XT 250 quella utilizzata da Sylvester Stallone nella scena della fuga in montagna dalla polizia: era il 1982 ed era il primo, epico Rambo. Esattamente in mezzo, tra il 1953 di Vacanze Romane e il 1982 di Rambo-First Blood c'è stato il 1968. E nel 1969 esce negli Stati Uniti d'America una delle pellicole simbolo della "Nuova Hollywood", nonché uno dei film che esaltano di più l'essenza delle due ruote. Forse, si può non averlo visto, di sicuro non si può non averlo mai sentito nominare: Easy Rider, il road movie per eccellenza. Due chopper e un viaggio d'avventura attraverso gli States, simbolo di un'intera generazione che ha sognato grazie all'indimenticabile moto a stelle e strisce di Peter Fonda, alias Wyatt "Capitan America", a Jack Nicholson (George Hanson) e Dannis Hopper (Billy). E pensare che uno dei due chopper è andato distrutto per esigenze di copione, mentre il secondo è stato rubato. Ecco allora gli anni Settanta, inaugurati nel 1971 da On Any Sunday, un film-documentario Usa con il leggendario Steve McQueen che racconta le appassionanti corse motociclistiche fuoristrada, dal deserto alle spiagge, passando anche per le piste ovali. Due anni dopo, nel 1973, Al Pacino in Serpico monta in sella a una Honda CB 77, mentre in Ufficiale e gentiluomo (1982) il cadetto Zack Maio, nonché Richard Gere, possiede una Triumph Bonneville 750 T140E. Ma queste ultime due, a dirla tutta, sono solo "comparsate" che non scaldano troppo il cuore agli appassionati delle due ruote. Diverso il caso di Top Gun (1986), dove Tom Cruise veste i panni del giovane aviatore Pete "Maverick" Mitchell: oltre agli aerei da combattimento F-14, la sua Kawasaki Ninja 900/GPZ900R è estremamente legata al personaggio, completandone la sua caratterizzazione. E, infatti, quella scena di Cruise in sella alla moto al tramonto è una delle “polaroid” più belle del film d’azione e d’amore. Sulla stessa falsariga, la moto e il personaggio sono un tutt’uno nel più recente Come un tuono (2013), in cui Ryan Gosling interpreta lo stuntman-rapinatore Luke Glanton. Un film che dopo tanti anni rimette al centro le due ruote. E, per l’esattezza, i motori rombanti di una Suzuki DR-Z 400 e di una Honda XR 650 R. Gli appassionati, infine, non possono rimanere indifferenti – nonostante le basse cilindrate – neanche di fronte a Caro Diario di Nanni Moretti. Il primo episodio della pellicola, datata 1993 e vincitrice al Festival di Cannes del '94 per la miglior regia, si intitola appunto "In Vespa" e vede protagonista una Vespa 125 guidata da Moretti e scorrazzante per le strade e i quartieri di una Roma estiva e deserta. Immagini che hanno ispirato – e continuano ispirare – tanti appassionati, che magari proprio d'estate indossano il casco e ingannano la canicola e la calura con una gita cittadina, o fuori porta, con l'aria tra i capelli. Perché il fascino di una Vespa, o più semplicemente delle due ruote, è tutto un mondo a sé. Che non si può spiegare se non vivendolo. Col vento in faccia.

·         L’Italia dei Tabù. Il sesso è solo vintage.

Eleonora D’Amore per fanpage.it l'11 novembre 2019. La sigla dello storico cartone animato “Siamo fatti così” su Netflix include la scena iniziale del rapporto sessuale censurato invece in Italia. La versione originale in francese iniziava proprio con una coppia di esseri umani che si accoppiavano e poi volavano in cielo, trasformandosi in un ovulo dal quale poi nasceva una nuova vita. L'origine della vita e la nascita sono le prime due puntate della serie animata nata in Francia con il titolo Il était une fois… la Vie, ideata da Albert Barillé con musiche di Michel Legrand. Quando il cartone animato arrivò in Italia. La primissima versione importata in Italia risale al 1987 e si intitolava C'era una volta la vita: la favolosa storia del corpo umano, apparsa solo in Canton Ticino nel 1987, la quale mantenne inalterata la sigla originale cantata da Sandra Kim, pseudonimo di Sandra Caldarone, cantante e conduttrice televisiva belga. Divenne successivamente Esplorando il corpo umano, progetto edito da DeAgostini, e Siamo fatti così su Mediaset. La messa in onda è partita il 26 febbraio 1989, infatti quest'anno abbiamo festeggiato il trentennale della serie, e dal 5 novembre 2016 su Italia 1 è ripartita con una programmazione mattutina nel contenitore per bambini Latte & Cartoni. Dal 4 novembre è sbarcata su Netflix. La sigla italiana è stata sempre affidata alla voce di Cristina D'Avena, fatina delle maggiori sigle dei cartoni, e ha una durata di circa un minuto e mezzo come l'originale francese, dalla quale però differisce proprio per la censura delle immagini sull'accoppiamento. Stesso discorso per gli episodi dell'edizione italiana, che seguono l'ordine originale di quella francese eccetto che per la posizione del secondo episodio, trasmesso come ultimo a causa degli argomenti inerenti il sesso e la riproduzione.

Fulvia Caprara per “la Stampa” il 25 novembre 2019. Crescere dietro lo schermo di un cinema porno, ascoltando ogni giorno urla, gemiti, sospiri, senza vedere immagini, ma coltivando timori e curiosità senza risposte. Nei ricordi di Wayne (Nathanael Chadwick), protagonista di The Last Porno Show, regia di Kire Paputts, c' è un padre strampalato, ma anche, a suo modo, affettuoso che, per proteggere il figlio dal fiume di sequenze hardcore, lo obbliga a tenere gli occhi puntati su un viewmaster dove scorrono foto di animali: «Ho 36 anni - spiega l' autore -, volevo raccontare una storia di traumi e riconciliazioni, di perdono e di nostalgia. Mi interessava descrivere il modo con cui, a un certo punto della vita, ci si separa dai genitori e si trova la propria identità». Nella trama del film, in cartellone domani al Tff (nella sezione «After hours»), Paputts riesce a intrecciare la vicenda personale dell' attore dilettante Wayne con quella della sparizione di un celebre cinema porno di Toronto e, con essa, di un' era cancellata dall' arrivo di piattaforme su cui i film di sesso sono fruibili in modi molto più semplici e diretti. Eppure, in quelle sale, popolate di spettatori abituali, in quegli attori, specializzati nel genere, in quel cinema, estremo e liberatorio, Wayne, e il regista che ne descrive il percorso, riconosce una verità affascinante, l' eredità di un' epoca legata a successi come Gola profonda e Behind the Green Door: «Volevo parlare dell' industria del cinema per adulti, della fine di una comunità, della scomparsa di una sala e anche di un modo diverso di vivere il sesso». Oggi, dice Paputts, «c'è una gran voglia di cancellare il passato, senza fermarsi a pensare. Negli Anni 70 il linguaggio del porno era stato accettato, poi è successo che siamo tornati indietro, e oggi il sesso, che è una cosa naturale, viene spesso demonizzato o rappresentato in chiave violenta». Durante l' età d' oro del porno, ricorda il regista, le sale a luci rosse avevano un notevole seguito, a Toronto la più famosa si chiamava «Cinema Metro»: «L' invasione dei multiplex ha spazzato via tutto, qualcosa si sta perdendo per sempre. Io, quando posso, vedo film al cinema, credo sia un' esperienza diversa rispetto a quella di guardarli sul divano di casa. E poi, sia da regista che da spettatore, mi piace osservare le reazioni della platea». Anche i corpi degli attori di quegli anni erano differenti da quelli mostrati oggi, tutti uguali, patinati e omologati: «Si vedevano donne vere, senza seni finti e labbra gonfiate, c' era l' idea della diversità». Produrre il film, già applaudito al Toronto Film Festival, non è stato semplice: «C' è una tendenza alla normalizzazione, siamo stati respinti da tutti i principali istituti cinematografici canadesi. Non hanno capito il film. Così lo abbiamo prodotto con le sovvenzioni del Consiglio Artistico, con il crowfunding e con i miei risparmi». Appassionato dei film di John Waters, di Harmony Korine e di Abel Ferrara, Kire Paputts spiega di aver avuto con il padre una «relazione rock, nel senso che lui era un musicista e forse non si trovava nella migliore delle condizioni per fare il genitore. C' era gente che giudicava il suo stile di vita, usando molti pregiudizi. Mio padre non era un pornografo, ma mi sono identificato nella figura di Wayne». Non a caso nei suoi panni recita Chadwick, «un mio grande amico, avevo bisogno di una persona di cui fidarmi completamente, in grado di affrontare scene complesse». Sul piano della regia The Last Porno Show è un film raffinato, in cui succede che, sullo sfondo di sequenze sessualmente esplicite, si innestino primi piani e silhouette degli interpreti, in un gioco di sovrapposizioni che riflette i vari livelli del racconto: «E' importante spingersi oltre i propri limiti, attraverso la forma, la storia, la tecnica. Un film dovrebbe condurre il pubblico in un posto in cui non è mai stato prima e che può essere una montagna russa emotiva».

Roberto D’Agostino per “Vanity Fair” il 21 novembre 2019. Perché il capezzolo dell’uomo è “accettabile” mentre quello della donna è provocante e bollato come “offensivo”? La donne è una specie anatomicamente inferiore, ma così inferiore che va "piallata"? Vi concediamo, bontà nostra, di mostrare il sedere decappottabile e uno spicchio di pancetta sciolta, la papilla mammaria, no. Chi lo dice? il fanatico del Corano, l'integralista di Teheran, il bigotto talebano? Risposte sbagliate. Ad avanzare un simile, drastico "ritocco" alla femminilità deputata è Instagram. La top model e attrice Cara Delevingne, con oltre 33 milioni di follower, su "Vogue" si auto-rivolge una domanda: "Se Instagram fosse una persona alla quale tu potessi chiedere qualcosa, cosa chiederesti?". Risposta: "Chiederei di poter mostrare i capezzoli nelle foto che posto". Il social più gettonato - un miliardo di utenti in tutto il mondo (19 milioni in Italia, dati 2018) - scarica la colpa sulle policy dell'App Store di Apple, che permette il nudo solo nelle app valutate 17+. Perché la piattaforma possa mantenere il suo rating 12+ sull'App Store e non escludere gli utenti più giovani, deve censurare i capezzoli. Ovviamente se sei un uomo, nessun problema, ma se sei una donna, be', mi dispiace, lo devi coprire. Non è raro che Instagram rimuova foto scapezzolate e, se recidivi, elimini interi account senza preavviso. Dal momento che quasi totalità è munita dalla natura di almeno due capezzoli, questo tipo di norma non sembra troppo amata. Anzi: sui social è decollata qualsiasi diavoleria per fregare la capezzolo-fobia digitale. E come successe al tempo del proibizionismo americano (tutti ubriachi), si assiste oggi a un delirio di truppe scapezzolate mascherate, pixellate, trasformate in disegni, emoji, sticker o coperte da polpastrelli, fragole, nastro isolante nero messo a croce se siete devoti del fetish. Assodato da molti autorevoli centro studi anglosassoni che le donne possono arrivare all’orgasmo anche soltanto grazie alla stimolazione dei capezzoli - per l’uomo può essere piacevole ma la sensibilità non è accentuata come quella femminile -, qualche anno fa spuntò addirittura il movimento “Free the nipple” che guadagnò qualche clamore con manifestazioni a tetta sguainata. Per aggirare le linee guida dei social e continuare a combattere questa politica discriminatoria e sessista, l’artista Micol Hebron ha invitato gli utenti a incollare un “accettabile” capezzolo maschile sopra gli “inaccettabili” capezzoli femminili. Geniale. Dalla criminalizzazione del capezzolo alla sparizione del seno, il passo è breve. Una simile, drastica "censura" alla femminilità mammellare, prima di Instagram, è da sempre infatti la fissa di molti “sarti cesarei”. Le sfilate spesso evocano la coventrizzazione delle ghiandole pericolose, addirittura la "purificazione della materia". Guidata dalla martire di riferimento, Sant'Agata da Catania, cui nel II secolo il crudele imperatore Decio fece mozzare le mammelle, che nella vasta iconografia popolare se ne stanno neglette su un vassoietto, il compianto stilista Karl Lagerfeld, a proposito dei seni fu di una severità chirurgica: "Via, via, il nuovo non sa che farsene di quella cosa lì, infastidisce l'abito, rovina la linea, non è moderno!". E il grande Giorgio Armani perse l'ago e il filo per una donna dotata di un "seno naturale, quasi inesistente... il torace acerbo, verginale". Infine, poetico fu il commento dello storico del costume Quirino Conti: "Il seno deve sparire, come le lucciole di Pasolini". Zac! Zac! Via le tette tattiche, arroganti in alto e straripanti in basso, orrore degli orrori. Ammettiamolo: i nostri stilisti hanno qualche buon motivo per storcere l’ago e arrotolare il filo a mo’ di cappio. Oggi vediamo seni che sono più che seni: bombe prosperose, protesi minacciose, super-mammelle in rodaggio che devono ancora fare il primo tagliando. Il seno piccolo o "medium" è ormai indizio sicuro di gravi turbi psichiche; di certo, nasconde qualcosa di guasto. L'arroganza contemporanea delle ghiandole mammarie è lo specchio fedele dell'arroganza sessuale di una neo-donna che ha trasformato le proprie tette in un simbolo fallico. Una forza travolgente che condanna gli uomini a una eterna ansia sessuale. Voi tirate fuori il vostro fallo? Bene, noi squaderniamo le nostre tette e vi schiacciamo! Oggi la tetta si vede di più. Si vede di più perché ha diritto di parola. Oggi si interroga il seno in pubblico, ed esso concede interviste. Oggi il seno pensa! E' un "Se sapesse le idee che mi frullano per le zinne!" esibito fino al parossismo, che ha ormai travolto i confini canonici dei calendari per barbieri e dilaga per ogni dove.

Sesso, cinema e censura. Così l’Italia ipocrita mandò al rogo Ultimo tango. E poi se ne innamorò. A un anno dalla morte di Bertolucci, l’archivio di Stato di Bologna ha recuperato le carte del processo che portò alla condanna del film. Uno squarcio su un Paese diviso. E su un meme che dura da mezzo secolo. Aldo Nove il 21 novembre 2019 su L'Espresso. C’era una volta, in un passato non troppo lontano, un panetto di burro. C’era e c’è un immaginario che, nel corso di una svolta di secolo, si è declinato in infinite forme, seguendo le anse di un fiume, quello della Storia, sempre più accelerato e sopra quelle anse noi, soggetti a una velocità insidiosa, tra ostacoli di ogni tipo e una moltitudine di svolte improvvise. Guardarsi indietro può sembrare a tratti impossibile, oppure l’unica risorsa rimastaci per capire dove stiamo andando. La navigazione è perigliosa, si procede a vista. La cultura, differentemente dall’informazione, ha bisogno di tempi più lenti. Ha bisogno di fermarsi a studiare la mappa per intuire qualcosa del pur cangiante territorio, per ritrovarvi quei “vorticosi souvenirs” (come li chiama Hans Magnus Enzensberger nel suo vertiginoso “La fine del Titanic”) che sono poi frammenti di quello che, immediatamente alle nostre spalle, ci dice perché siamo arrivati nel punto in cui ci troviamo. Sono come tessere di un puzzle che già sappiamo essere interminabile. Pure, sono preziosissime. Come il panetto di burro a cui abbiamo accennato all’inizio. Quel panetto di burro, come i residui di una civiltà troppo piena di merci che tanto bene ci hanno illustrato Samuel Beckett in letteratura e Jean Baudrillard nella riflessione filosofica, ci racconta qualcosa di noi e, come un vero reperto archeologico, più lo si studia più diventa testimone di un mondo intero, che ancora, e nient’affatto poeticamente, abitiamo. Il panetto di burro in questione è ovviamente il meme che ha perpetuato nei decenni un film controverso e di cui l’Archivio di Stato di Bologna ha raccolto, in due ponderosi faldoni, tutta la documentazione relativa ai processi che ha subito, agli strascichi che nel frattempo si affastellavano sui giornali e nelle lettere ricevute dalla magistratura. Documenti processuali e testimonianze individuali (recuperati e riordinati dall’archivio di Stato di Bologna, che li ha appena messi a disposizione del pubblico) attorno al caso di un film, “Ultimo Tango a Parigi”, che ha costituito una sorta di multiforme punto di fuga prospettico dal pensiero comune, intrecciando (come forse solo “L’impero dei sensi” è parimenti riuscito a fare), le più profonde tematiche dell’arte con la sessualità esplicita, ed in quel termine, “esplicita”, si fa largo quello che, diceva un altro grande regista, Luis Buñuel, potremmo definire “l’oscuro oggetto del desiderio”: oscuro perché non perfettamente visibile, perché “proibito”, o perché, come nell’attacco del capolavoro dantesco, foriero di chissà quali mostruosità?

Proviamo a rispondere attraverso quell’ormai proverbiale panetto di burro, all’intero mondo che ne ebbe un’origine scontornandolo dal suo contesto.

Siamo nel 1972. Il 14 ottobre, “Ultimo tango a Parigi” viene proiettato integralmente in anteprima mondiale a New York e, in anteprima europea, a Parigi. Il giorno dopo approda in Italia, all’interno della Mostra internazionale del cinema libero al cinema Kursall di Porretta Terme. Ne sono protagonisti Marlon Brando, fresco di Premio Oscar per “Il padrino”, e una bellissima Maria Schneider. Il film ruota attorno all’incontro fatale tra i due durante la visita di un appartamento in affitto, dando luogo a una serie di incontri a carattere esclusivamente sessuale, come a precludere tutto ciò che non sia disperatamente piacere o, meglio, direbbe la psicanalisi lacaniana, godimento. Potenti emergono le personalità dei due protagonisti: la loro fuga sensuale dal mondo è disperata ricongiunzione (carnale) di fronte a una disperazione esistenziale che Bernardo Bertolucci tratteggia con incredibile poesia, degno erede del padre, il poeta Attilio. Ma lo stesso giorno fioccano da parte di alcuni spettatori le denunce per il contenuto “osceno” dell’opera. Tanto che sei giorni dopo il sostituto procuratore presso la procura della Repubblica di Roma predispone il sequestro di tutte le copie. Il caso viene passato a Bologna per competenza territoriale e parte così una vicenda processuale (che nel frattempo diventa sociale) che andrà avanti fino al 1976, attraverso i tre canonici gradi di giudizio, con interventi di filosofi, artisti, autorità di vario tipo e di tanta gente comune attorno a quello che diverrà il perfetto caso di “attentato al comune senso del pudore”.

Il comune senso del pudore. Una sorta di araba fenice che risorge dalle proprie ceneri in differente guisa con frenetica, multiforme sembianza, quasi non fosse la stessa creatura. Anche perché, in effetti, indeterminata com’è, appare ogni volta irriconoscibile e non solo: da tutti diversamente interpretabile. Leggendo i faldoni che ne riportano le accuse e le difese, si avverte quasi l’impressione di scivolare nell’impossibilità di una definizione. Perché il senso del pudore non è “comune”. Vi si prova in tutti i modi, ad afferrarlo, tra le carte processuali, definendolo come “ciò che può turbare l’integrità morale dell’uomo medio”, che è poi dire tutto e niente. Non esiste “uomo medio” e non esisteva certo in un momento storico in cui istanze di segno contrario ancora si scontravano violentemente in nome dell’eco sempre più flebile di un Sessantotto del quale uno dei motti più celebri fu, guarda il paradosso, “Vietato vietare”. Pare, sfogliando le migliaia di pagine ormai ingiallite delle fasi processuali, che il caso vertesse sulla scissione tra arte e pornografia. In quegli anni, nell’editoria accadde qualcosa di diverso. La scissione non fu tra arte e pornografia, ma tra informazione e pornografia. Diversi giornali (tra tutti, ABC, Men e Le ore) alla fine degli anni Sessanta iniziarono a includere nella cronaca (nera e rosa) anche una sempre più esplicita esibizione visiva dei “fatti”. Ma solo con “Ultimo tango a Parigi” emerse in modo esemplare il contrasto tra l’esibizione dell’atto sessuale e la sua liceità di essere reso pubblica. Arte e edonismo. Masturbazione e diritto di cronaca. Preservazione di valori cristiani versus liberazione dei costumi e, non ultima, la pressione di un business oggi divenuto planetario. Nei tre gradi di processo, il punto su cui accusa e difesa di “Ultimo tango a Parigi” fanno maggiormente leva è il diritto dell’arte di esprimersi liberamente, scontrandosi con ripetitività, in una sorta di paradossale minuetto ideologico, su cosa quella “libertà” comporti. Le infinite citazioni di artisti del passato che hanno rappresentato in letteratura e nelle arti visive si stempra in continuazione in un improbabile ed in effetti irrisolvibile ricerca di una “linea di demarcazione” tra arte e pornografia, saldamente ancorati a quel “nescio quid” di Benedetto Croce intorno ai criteri ultimi di distinzione tra arte e non arte, lasciati infine in mano a un’autorità che ne stabilisse a proprio piacere i parametri. Perché “Ultimo tango a Parigi” era e rimane davvero un’opera d’arte in cui il sesso estremo è intrinsecamente legato all’intero prodotto. Vederlo ridotto a una sequenza di carte bollate, di disquisizioni zoppicanti sul diritto di un pubblico adulto (il film venne subito classificato come “X”, e quindi per adulti) rivela quanto fosse immatura e confusa la classe dirigente di quegli anni. Confusa e spaventata. In un breve stralcio dell’accusa, si legge che il film può addirittura istigare, con la sua licenziosità, al divorzio e all’aborto. Appaiono così (nelle carte indirizzate ai giudici che, in appello e in Cassazione, condannarono l’opera), lettere come quella della “famiglia normale” che ringrazia per il loro operato «rispettoso di una sana moralità cristiana contro le degenerazioni del mondo moderno». Dall’altra parte, in un’altra lettera pubblicata sul Corriere della Sera nel 1976, una sedicente «ragazza normale» condanna «il bigottismo degli adulti, sempre più lontani dalla realtà» …

La realtà. Riprendiamo quella del film. Il 2 febbraio 1973 la sentenza di primo grado assolve tutti gli imputati (che sono poi quattro: il produttore Alberto Grimaldi, il regista Bertolucci e i due attori, Brando e la Schneider) e il 4 giugno 1973 si va in appello, annullato alla fine dello stesso anno per difetto di motivazione e di nuovo istruito l’anno successivo con condanna di tutti gli imputati a due mesi di carcere e al pagamento di 30 mila lire ciascuno, oltre alla confisca di tutte le opere sequestrate. Nel 1976, la Corte di Cassazione conferma e condanna gli accusati a pagare tutte le spese processuali e a versare non più 30 mila ma 100 mila lire a testa, oltre alla distruzione di tutte le copie del film (a parte tre, consegnate alla Cineteca nazionale). Bertolucci nel frattempo scrive a Giovanni Leone, allora Presidente della Repubblica, implorando la grazia, senza ottenere risposta e perdendo per cinque anni i diritti civili. Nell’arco di tempo del processo Gola profonda (pellicola basata sulle vicende di Linda Lovelace che, avendo il clitoride in gola, attraverso una serie di superesplicite e variegate vicende cerca di risolvere il suo problema) diventa il film più visto di tutti i tempi (fino a essere superato da E.T.), i “cinema a luci rosse” diventano un terzo del totale e le riviste esplicitamente pornografiche hanno un boom (nel 1976, Le Ore è la quinta rivista più venduta d’Italia). Nel 2018 la Cineteca restaura l’opera sotto la cura di Vittorio Storaro (già autore della fotografia del film) e oggi è tornato finalmente, e pacificamente, quello che è sempre stato: uno dei capolavori della storia del cinema e, al contempo, un sempre più logoro ma vitale meme: quanti lo conoscono (non il film, ma il meme) per averne visto la parodia di Ultimo tango a Zagarolo? Ancora, a passare è quel panetto di burro, questa volta non usato per favorire un rapporto anale ma divorato. Nel 2019, anno in cui sono presenti in rete più di 5.000.000 di film pornografici, buona parte dei quali esplicitamente dediti a perversioni inguardabili tali da ricordare il Pasolini delle 120 giornate di Sodoma, l’intera vicenda appare grottesca e amara. Con un unico antidoto: guardare “Ultimo tango a Parigi” davvero. Per il capolavoro che, burro o non burro, è e rimane.

DAGONEWS il 18 novembre 2019. La pornostar Kiki Vidis ha iniziato a lavorare nell'industria del porno ormai un decennio fa, ma adesso afferma che la cosa più importante è stato il sostegno della sua famiglia. In particolare della madre con la quale ha posato nuda per riviste maschili. La 30enne australiana ha iniziato come cameriera in topless per integrare il suo stipendio come infermiera e ora vive tra il suo Paese e Miami. Una carriera di successo lunga oltre 10 anni che l’ha portata anche a ricevere delle nomination per l’Oscar del porno.  Ma ciò che le ha dato più sicurezza è ricevere l’appoggio della madre e della sorella. Entrambe si sono spogliate per riviste maschili e le hanno mostrato tutto il loro sostegno. Ma nonostante l’amore per il suo lavoro, ritiene che oggi l'industria del porno sia cambiata molto con la crisi finanziaria del 2008. «Molte aziende sono fallite e hanno venduto i loro contenuti a Pornhub, che ha messo tutto gratuitamente su Internet - ha detto Vidis a Perth Now - I dvd sono diventati rapidamente obsoleti, causando la riduzione degli stipendi. A peggiorare le cose ci sono gli attori che hanno iniziato a deprezzarsi per trovare lavoro. Mi manca il periodo in cui ognuno aveva una stella del porno preferita. Ora le persone non hanno una star preferita, ma hanno una categoria preferita.  Oggi gli attori integrano il loro stipendio con sponsorizzazioni per riuscire a guadagnare come prima». La società Vodaire ha recentemente modellato una bambola del sesso iperrealistica sul corpo di Vidis: la sex doll sarà venduta per circa 5mila dollari e, sulla base delle esperienze di vendita precedenti, è pronta per avere successo soprattutto in Cina e Giappone dove gli uomini stanno esplorando il mondo dell’intelligenza artificiale.

George Harrison per “The Sun” il 28 ottobre 2019. Le donne edoardiane non erano così pudiche come si pensa. Queste foto risalgono al 1903, furono pubblicate in una edizione speciale della rivista americana ‘Vanity Fair’, che non aveva nulla a che fare con quella conosciuta oggi. Non si era soliti vedere gambe nude, anzi non si era soliti vedere le gambe, ben nascoste sotto lunghi vestiti perciò oggetto di mistero e desiderio. Qui le modelle le mostrano al naturale o le esibiscono in pantaloni stretti, hanno atteggiamenti maschili, bevono e fumano come uomini, vanno a letto con altre donne, si sculacciano. Le chiamavano le "biforcate", proprio perché indossavano il cavallo dei pantaloni e indulgevano in pose gay. Tra loro c’era il sex symbol Lona Barrison, attrice nota per le sue esibizioni rischiose da vaudeville insieme alle sorelle. Erano cinque bionde che ballavano, si tiravano la gonna al ginocchio e chiedevano: «Volete vedere la nostra fica?». Il pubblico pagante rispondeva di sì, e loro alzavano di più.

Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” il 4 novembre 2019. A quanto pare la Commedia sexy, color rosa, raramente rossa per gli amanti delle sfumature, ha anche delle tinte noir: "Dopo tutti questi anni di ricerca, scritti, indagini e approfondimenti, resta un dubbio: perché questo genere è partito dall' Italia?". L'interrogativo lo pone proprio il professor Marco Giusti, docente in "Commedia sexy non applicata", cattedra nata, voluta e coltivata da lui stesso, all' interno dell' Università di cinematografia mondiale, genere nostrano in grado negli anni Settanta di incassare anche due, tre o quattro miliardi a film, di portare i cinema italiani a 9.000 sale (attualmente siamo poco oltre i 3.000 schermi), di far ottenere ad attrici come Edwige Fenech cachet da 75 milioni di lire ("50 Gloria Guida, tra i 10 e i 15 la Benussi"), e di esportare in tutto il mondo l' ultimo genere di commedia nostrana ("nei Paesi latino-americani molti dei nostri attori sono diventati idoli"). Marco Giusti da quasi vent' anni racconta quella stagione nella sua trasmissione su Rai2, e ora è uscito un suo libro maniacale per quanto esaustivo: Dizionario Stracult della Commedia sexy. "E non volevano pubblicarlo".

Come mai?

«Perché la Commedia sexy è ritenuta ancora imbarazzante, e poi le case editrici considerano i testi di cinema invendibili».

C'è del fondamento.

«Allora anche i film al cinema vanno male; ma dovevo pubblicarlo ora, con alcuni dei suoi protagonisti ancora in vita, e poi è un genere da veri fuori di testa che abbraccia pellicole molto serie con altre considerate di serie B».

Serie, come?

«La nostra Commedia sexy non nasce "sexy", ma come cinema erotico, pure d' autore, e poi si tramuta in genere».

Esempio.

«Gli spaghetti western iniziano grazie a Sergio Leone, dopo di lui una serie di registi segue il percorso tracciato; allo stesso modo la Commedia sexy si sviluppa attraverso influenze varie che arrivano da Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, il Decameron di Pasolini, Vedo nudo di Risi e le pellicole con Lando Buzzanca protagonista».

Lando Buzzanca idolo.

«C' è un altro lato che coinvolge Lando e gli altri protagonisti di allora: in Italia il loro successo parte intorno al 1968 e dura fino al 1975 circa, poi esplodono all' estero con tempi differenti, e questo è il caso della Spagna».

Cioè?

«Appena finito il franchismo scoprono un' esigenza di libertà, pure erotica, e le nostre Commedie sexy si inserivano perfettamente in quel clima, tanto da rendere Lino Banfi, Edwige Fenech o lo stesso Buzzanca idoli assoluti con ospitate nei programmi televisivi di prima serata».

Iva Zanicchi la settimana scorsa al "Fatto" ha raccontato: "Negli anni Settanta Lando era un mito in Iran".

«Solo nei Settanta? Durante la prima guerra del Golfo, i cinema di Baghdad proiettavano i film con Gloria Guida; ribadisco, è una questione di tempi: se con gli spaghetti western la diffusione è stata immediata e trasversale, con la commedia sexy no, e a causa dei nudi».

Benedetti nudi.

«Resta quell'interrogativo sul perché eravamo così schiavi del sesso; non trovo la risposta, e non tutto è causato dalla nostra cultura cattolica: la Chiesa è una componente, non di più».

Il Sud il più ricettivo.

«Quando i film sono usciti in sala i produttori hanno scoperto che la Puglia e la Sicilia erano le piazze migliori, e proprio tra Martina Franca e Trani hanno girato pellicole importanti come quelle dedicate alle professoresse sexy».

È più fan della Fenech o della Bouchet?

«Edwige in questo genere non si batte, mentre la Bouchet è più forte nel noir».

Come mai la Fenech è la più amata?

«In parte è un altro mistero, in generale resta l' insieme di sfumature che ne rendono la complessità: è madre, è straniera, accento francese, è proibita, è ammiccante senza esagerare, è sfuggente e infine è uscita di scena».

La Guida si è pentita: "Ho fatto troppe docce".

«Quasi tutte hanno un pessimo rapporto con il passato; la Fenech non ne vuole parlare, e non ha mai accettato un invito in trasmissione anche se siamo amici; (ci pensa, storce la bocca) a loro non piace l' immagine di quel tempo».

Proprio a nessuna?

«Forse a Nadia Cassini, mentre la Bouchet è più cinica e pragmatica, quindi ci scherza; comunque c' è anche un problema di rapporto con il corpo».

La Guida è sempre bella.

«Pure Edwige, ma non cambia idea».

L'altro sogno erotico degli italiani è stata Laura Antonelli.

«Il vero prototipo della donna sexy, talmente alto da non diventare un genere; la Antonelli è stata veramente una delle più grandi».

La Commedia sexy ha grandi caratteristi.

«Meravigliosi, alcuni di loro protagonisti pure della commedia all' italiana: da Riccardo Garrone a Carlo Delle Piane, fino a Mario Carotenuto e Alvaro Vitali; i più ricercati sono arrivati a girare dieci film all'anno».

Che fine hanno fatto?

«Alcuni non bella, scomparsi, altri come Lino Banfi sono stati bravi a riciclarsi dentro la narrazione televisiva».

Alvaro Vitali?

«L'unico dei big non recuperato, è andato troppo oltre: con Pierino si è sputtanato».

Jimmy il Fenomeno.

«Anche lui male, gli ultimi anni passati in un ospizio, solo e dimenticato; non era un vero attore, ma una persona simpatica e assatanato di donne».

Chi non ha conosciuto?

«Renzo Montagnani e Nando Cicero: quest' ultimo è considerato il Sergio Leone della Commedia sexy; gli altri li ho incontrati e in certi casi, quando li chiamavo per la prima volta, neanche si stupivano, rispondevano: "Ti stavo aspettando"».

Qual è la battuta che ama di più dentro questo genere?

«Non è sexy, ma c' è una frase di Mario Carotenuto in grado di condensare la saggezza popolare romana: "È sempre l' ultimo rigatone quello che te frega"».

Ugo Tognazzi.

«Ha interpretato ruoli estremi, ha partecipato a film complicati: sui travestiti, lo scambio di coppia, o scene nude imbarazzanti. E spesso è l' autore».

Perché Tognazzi?

«Un po' come Pasolini o Bertolucci, viveva il suo lavoro con uno spirito rivoluzionario».

E queste pellicole lo erano?

«Probabilmente; Tognazzi allora era molto vicino a Marco Ferreri, e si lancia immediatamente nel gioco, si spinge sempre più in alto, così come Pasolini con il Decameron; solo che da Pasolini uno se lo aspettava, da Tognazzi no, e per questo aveva molto da perdere».

Simonetta Stefanelli ha rivelato: "A quel tempo se non ti facevi toccare sul set, passavi per una che se la tirava".

«Lei si era proprio incazzata, ma in quei contesti le attrici restavano perennemente nude, il rapporto con il corpo era letto in maniera differente; durante il Dacemeron si racconta di orge reali tra gli interpreti».

Sui set statunitensi adesso c' è il garante delle scene di nudo.

«Non si può sapere, non metto la mano sul fuoco rispetto a quello che accade oggi».

Insomma, allora.

«Anche qui: la Fenech e le altre erano sempre nude, ma quando vengono intervistate lo rinnegano».

Gli uomini attori?

«Buzzanca si è sempre vantato di averle sedotte tutte. Ma lui è sempre un caso a parte».

E Lino Banfi?

«Lory Del Santo ha definito quei set molto casti, e le credo: di quel genere se ne giravano circa venti all' anno, con un nucleo di interpreti molto ristretto che si incrociava: alla fine era una famiglia allargata».

Attore preferito?

«Alvaro Vitali è il Clint Eastwood del genere, poi Banfi e Montagnani».

Come la giudicano i suoi colleghi rispetto a questa passione?

«I critici? Prima non apprezzavano, da un po' di tempo l' argomento ha acquistato delle sfumature storiche; ma io questi film li vedo dagli anni Settanta: andavo in sala e venivo considerato un pazzo».

Per alcuni sono i migliori anni della nostra vita.

«Per me è così; allora uscivano contemporaneamente le Commedie sexy e le commedie classiche di Pasquale Festa Campanile o Castellano e Pipolo con Adriano Celentano protagonista, oppure i tardo Risi e Monicelli: per me quest' ultimi erano borghesi, piatti, modesti, mentre i sexy erano più rivoluzionari e basati sul reale».

"Fantozzi" è borghese o rivoluzionario?

«Vive da sé».

Quindi nel 1977 tra "Ecce bombo" e un "Giovannona", lei preferiva…

«Ecce bombo era carino: io andavo contro i film da figlio di papà, quelli considerati ricchi, da persone perbene, invece erano flosci, come con Bolognini o Comencini».

A posteriori?

«Ci ho preso, sono rimaste più le Commedie sexy».

Quando muore qualcuno degli attori lei è l'unico a scrivere il necrologio su "Dagospia".

«Mi chiamano i parenti, e arrivo prima dell' Ansa, ma non è un punto d' onore, più di dolore perché vedo piano piano scomparire un percorso umano e professionale».

Tra le attrici di allora c' è Ewa Aulin, suocera del premier Conte.

«È una delle protagoniste di Candy, film assurdo con Walter Matthau e Marlon Brando. Poi ha partecipato ad altre pellicole, compresi i decamerotici (film erotici ispirati al Decameron); non diciamo niente di male perché voglio recuperarla».

Dicevamo la Bouchet.

«Barbara è furba e sempre sexy, con alle spalle un passato importante, intenso: era la migliore amica di Sharon Tate, ha vissuto in pieno quella tragedia (ex moglie di Roman Polanski, uccisa a Los Angeles nel 1969 dai seguaci di Charles Manson)».

Pasolini e il "Decameron".

«Ha rivoluzionato il cinema anche solo per aver messo in scena i peni, e alla fine si è un po' pentito perché riteneva di aver dato sfogo a un cinema basso e adatto ai guardoni».

In un film appare Giusva Fioravanti.

«Follemente innamorato di Edwige: quando è uscito in sala Grazie nonna lui era già latitante o stava per diventarlo, ma quelli erano veramente set assurdi, figli dei tempi pazzeschi».

Altro esempio?

«In Mordi e fuggi, film di Dino Risi dedicato alla fuga di una banda di brigatisti, ebbe dei problemi Nicoletta Machiavelli quando arrestarono il suo fidanzato.

Come vorrebbe venir ricordato, come esperto di Commedia sexy o di Spaghetti western?

«I western li amo di più, ma perché ero ragazzo quando li ho visti per la prima volta; a posteriori considero superiore la commedia sexy, ma solo perché mantiene una qualità media più alta».

Bell'azzardo.

«Se parliamo di apici, gli Spaghetti western toccano punte pazzesche. (sorride) Una volta Bombolo mi definì "il critico della merda", perché gli chiesi se le "scuregge" al cinema le avesse in inventate lui».

Tra Sergio Corbucci e Sergio Leone?

«Il secondo è senza dubbio superiore».

Il fenomeno Tarantino ha rilanciato il genere.

«Solo per sé, non ha toccato il genere in quanto tale, bensì alcuni dei suoi protagonisti ed Ennio Morricone per le musiche».

Il ruolo della censura.

«Rispetto alla commedia sexy è stato fondamentale: ha indirettamente spinto film che non sarebbero mai stati notati, però in altri casi li ha distrutti, soprattutto quando è riuscita a bloccarli per due anni».

Sono stati realizzati miliardi.

«I film costavano magari 50 milioni di lire, e incassavano un miliardo e mezzo, e alcuni produttori sono diventati veramente ricchi; altri si sono giocati intere fortune perché fuori di zucca».

Il suo film stracult?

«Uno di Nando Cicero, una delle sue "insegnanti", come per Un pugno di dollari: un propellente per la liberazione dei costumi, e ciò non può venir letto in maniera negativa; poi c' è La pretora scritto da Fulci con la Fenech completamente nuda, ma a lei non piace e non capisce che quel genere di pellicole funzionano quando sono basse, non pretenziose, quando mantengono una narrazione lineare e coerente».

Fulci nasce come giornalista.

«Lui ci credeva, tanto da girare una pellicola sui democristiani: All'onorevole piacciono le donne; film strepitoso, tanto da causare un caso politico, con dibattiti e censura».

I cinepanettoni.

«Mi sembrano una deriva facile della formula proposta negli anni Settanta, e neanche si spogliano più (ride); se oggi giri lo stesso tipo di scene, forse scoppia la rivolta, e magari non avrebbero neanche torto».

Alberto Piccinini per ''Il Venerdì - la Repubblica''  il 27 ottobre 2019. Cominciamo dalla fine. «Ricordo perfettamente il lancio che Carlo Freccero, allora responsabile dei film di Canale 5, fece delle commedie sexy con Edwige Fenech e Gloria Guida» scrive Marco Giusti in fondo alla chilometrica introduzione al suo Dizionario Stracult della Commedia Sexy (Bloodbuster, pp. 528, euro 35). Erano i primi anni Ottanta, età dell' oro della nostra televisione. Continua Giusti: «Non era facile accettare che, di tutta la grande esperienza rivoluzionaria e liberatoria del cinema erotico italiano degli anni Sessanta, quello che rimaneva erano la poliziotte e le liceali della Medusa nelle reti berlusconiane». Conosco Marco dai tempi di Blob, andato in onda una decina d' anni dopo, e penso di sapere che l'«esperienza liberatoria e rivoluzionaria» di film come - cito a caso sfogliando il dizionario - La bella Antonia, prima monica e poi dimonia, La dottoressa del distretto militare, La signora gioca bene a scopa? non è una simpatica boutade da critico stracult. Ed è sincera la delusione per l' imbellettamento televisivo del genere più scorretto e sottoproletario di tutti - commediacce che alla fine si vedevano solo nelle sale di provincia e nei pipparoli palinsesti notturni delle private. La citazione di Freccero, attuale direttore di Rai2, come quelle - nel libro - di Goffredo Fofi e Mereghetti, degli scomparsi Alberto Farassino e Giovanni Buttafava (il critico dell' Espresso, indimenticato maestro stracultista di Marco), rivangano schermaglie tra vecchi cinefili, quando i social e tante altre cose erano di là da venire. Ok Buzzanca e Lino Banfi, ok la Fenech e Gloria Guida, il trash e il revival. Ma la tesi rivoluzionaria del Dizionario è un' altra. Scrive Giusti: la commedia sexy e in generale «la via al cinema erotico in Italia è stata una rivoluzione artistica e politica, dal momento che ad aprire la strada è stata la prima linea del cinema più impegnato e artistico, diciamo la nostra nouvelle vague». Possiamo infatti considerare (ecco la tesi) le commedie sexy come "varianti" (non certo copie, giammai sequel) di uno dei quattro film campioni di incasso nelle sale tra il 1970 e il 1974: il Decameron, con l' intera Trilogia della vita, di Pier Paolo Pasolini (da cui i "decamerotici"), Malizia e Peccato veniale di Salvatore Samperi (da cui cameriere, nipotine, erotismo siculo, buchi della serratura ecc.), Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci e Amarcord di Fellini (fondamentale per la tabaccaia e le successive commedie "scolastiche", dal momento che lì nasce il personaggio di Alvaro Vitali). Giusti cava dall' archivio Stracult la testimonianza di Gabriele Crisanti, produttore del Decameron n. 2 di Mino Guerrini: «Arrivammo alla De Paolis e vedemmo che stavano girando il Decameron di Pasolini. Chiamai subito uno sceneggiatore. Punto di forza dei decameroni era il dialetto. Non servivano più gli attori ma i caratteristi () Chiamammo il fioraio della De Paolis. La sceneggiatura fu scritta man mano che si girava». Furono prodotti 31 film decamerotici nel 1972, 13 nel 1973. Possiamo ridere di gusto ancor oggi alla lettura dei titoli (vecchio espediente comico): Decameron Proibito,Decameron Proibitissimo (Boccaccio mio statte zitto), Decameroticus, Fra' Tazio da Velletri, I racconti di Viterbury, Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno, E si salvò solo l' Aretino Pietro, con una mano davanti e l' altra dietro...Benissimo anche il folklore del cinema di serie b, dai produttori all' ultima comparsa. Il succo del discorso è però un altro: «Persino nei decameroni più sciatti e modesti si sente qualcosa della libertà di messa in scena del sesso e dell' esibizione dei corpi nudi perfettamente riconducibili a Pasolini» scrive Giusti con sincera passione. «Lo notai allora da spettatore, e l' ho notato anche nelle visioni recenti». Primo corollario stracult: i film vanno visti. Tutti. Posso testimoniare che molte delle parole che Marco usa nelle sue schede sono le stesse che appuntava all' epoca della visione in sala su certi suoi quadernetti. Sua la raccolta - riprodotta in piccola parte nel Dizionario - di flani, le matrici di stampa delle "frasi di lancio" che uscivano sui quotidiani nelle pagine dei cinema. Vecchia fissa. Frase di lancio del Decameron Proibitissimo: «S' è già sparsa la voce: è il più comico e il più audace!». Il ricordo di certi turbamenti privati aggiunge una svagata dimensione letteraria al tutto: «Ricordo un trailer di Le conseguenze di Sergio Capogna con Marisa Solinas che turbava le mie visioni estive tra un film western e uno di Franco e Ciccio, mettendomi in testa un' idea di sesso come malattia e tragedia». Secondo corollario stracult: maggiore è l'apparente disvalore dell' oggetto, più appuntito e ossessivo dev'essere il dibattito critico. Giusti su Grazie zia di Salvatore Samperi (1968): «Già allora lo leggemmo come una specie di film alla Bellocchio in salsa erotico-politica». Seguirono gli altri titoli del filone: Peccato veniale e, soprattutto, Malizia, invitato al Festival di Berlino, con Laura Antonelli, modello per decine e decine di cameriere, cognatine, vedove, nipotine che andranno avanti per un decennio (e non sono mai passate di moda, nemmeno su YouPorn). Oreste del Buono, pazzo dell' Antonelli: «Il film dovrebbe portare come sottotitolo "il disgusto indiscreto della borghesia"». Buttafava: «Sesso italico, voyeurismo endemico e piccole porcherie esplosive fissati in un catalogo da variare all' infinito». Due cose si possono appuntare invece su Ultimo tango a Parigi, massimo incasso italiano di tutti i tempi. Uno: l' incredibile follia della censura che toccò tutti i film erotici del tempo col sequestro (temporaneo) da parte di pretori di provincia, per lo più del Sud (Bari, Catanzaro, Sulmona), paradosso o no quasi gli stessi ambienti in cui film erano girati e visti. Spiega Giusti: «La censura diventa, nel bene e nel male, parte attivissima del sistema cinematografico. Può rovinare per sempre un film, ma anche farne un fenomeno talmente grande da portarlo a un successo inaspettato». Due: la questione critica aperta da Ultimo Tango a Zagarol di Nando Cicero, grande totem stracultista, ponte tra il cinema erotico e la commedia sexy. Giusti, ancora turbato: «In qualche modo questo nel ricordo di allora ci apparve però una rivelazione che contraddiceva il naturale collegamento tra i generi». Marco ha scritto dizionari sul western, gli spy-movie, i caroselli. Ora la commedia sexy. Affezionato a una forma ormai ingombrante che guarda (e sfida, in una specie di parodia) i dizionari "seri". Ha intervistato decine di registi, produttori e caratteristi del cinemaccio italiano prima che tirassero le cuoia, ha curato due rassegne "epocali" a Venezia sui generi western e comico (proiettò W la foca e qualcuno se ne adontò). Quando usa il plurale evoca comunità cinefile, collettivi e riviste che non ci sono più: i critici di Nocturno e Amarcord, i milanesi di Bloodbuster, che gli hanno stampato il volumone. Anni Ottanta-Novanta, i tarantinati. Cerca interlocutori nelle generazioni dei blogger e dei twittaroli. Dove sono i nuovi "ragazzi terribili"? Dove il buongusto da sfidare? Questa ricerca è la forza e il limite di tutta la critica stracult. I «filmacci di terza visione» si leggeva in un pezzo di Re Nudo del 1976, sempre ripescato da Giusti e inserito tra i materiali dell' introduzione, «sono questi i film che bisogna recensire, perché sono i film che vanno nei quartieri, che influenzano indubbiamente comportamenti di massa in una precisa direzione ideologica». Intanto, stesso anno, i compagni dei circoli giovanili di Milano, «Prima visione, facciamo l' autoriduzione!». E qualche anno prima, 1973, Pasolini, intervenendo a un convegno parla della sua Trilogia della vita, ma si allunga in una cupezza inattesa: «L' ansia di conformismo ha trasformato i giovani in miseri erotomani nevrotici». È proprio vero? Ce lo chiediamo da quarant' anni, di Pasolini e delle sue "profezie". Se qualcosa manca da questo enciclopedico sguardo sulla commedia sexy, forse è proprio una storia del pubblico: i giovani, i vecchi, la città, la provincia. Solo maschi? «La commedia sexy è parolaccia, sbirciatina, scappatella» scrive in un esergo Alberto Farassino, critico gentile e coltissimo di Repubblica negli anni Ottanta. È «grammatica della reticenza». Che effetto ebbero sul finire degli anni Settanta, il femminismo, la politica, i generali cambiamenti della società italiana sulle fortune di un genere (e di una macchina narrativa) inevitabilmente adulto, cialtrone e d' altri tempi, ma soprattutto così inutilmente "reticente"? Che effetto ha avuto su tutti noi la trasformazione di quella stessa macchina nell' immaginario televisivo del passato ventennio berlusconiano? «A colori e gratis. Prezzo imbattibile. Per chi voleva di più c' era l' hard».

Steve Della Casa per “la Stampa – Tutto Libri” il 23 dicembre 2019. Con il Dizionario stracult della commedia sexy, appena uscito per i tipi di Bloodbuster, Marco Giusti aggiunge un ulteriore tassello alla sua personale rilettura del cinema italiano. Il volume fa seguito infatti a quelli sul western, sulle imitazioni di 007, sui film mitologici e sugli horror: quindi sui generi cinematografici con i quali l’industria di Cinecittà si è alimentata negli anni d’oro. Negli anni Sessanta e Settanta, infatti, in Italia si giravano anche 400 film all’anno, si facevano coproduzioni e soprattutto i nostri film (anche quelli più miseri e raffazzonati) erano venduti in tutto il mondo perché avevano una forza e una originalità che li rendevano unici. E’ però evidente che alla commedia sexy Giusti ha dedicato una particolare attenzione. Il dizionario dettagliato di tutti i film inscrivibili in questo genere sono preceduti da una documentatissima introduzione nella quale si ripercorrono quegli anni con un’ottica nuova e decisamente non banale. La commedia sexy è infatti considerata da Giusti una sorta di cartina di tornasole per raccontare come si evolveva il costume in Italia. Sono registrati con precisione i sequestri, le cause intentate, i pretori moralisti che riempivano le pagine dei giornali; ma anche la nascita delle riviste sexy e soprattutto la presenza sempre più importante di scene di sesso spinto anche nel cinema d’autore. Non si parla solo di Edwige Fenech e di Barbara Bouchet, ma si analizza anche come Pier Paolo Pasolini e Bernardo Bertolucci abbiano loro malgrado influenzato le commedie fescennine (quando il primo diresse il Decameron, innescò una gara a chi faceva uscire imitazioni povere e destituite di ogni ambizione che non fosse quella di strappare qualche risata e di mostrare qualche nudità; quanto al secondo, Ultimo tango a Zagarol con il solitario Franco Franchi e la conturbante Martine Beswick è diventato negli anni un titolo quasi altrettanto famoso del plurisequestrato Ultimo tango a Parigi). Il punto di partenza di Giusti è lo stesso dei suoi volumi precedenti dedicati al cinema popolare: negli anni Sessanta e Settanta la forza del cinema italiano consisteva nella mancanza di barriere tra il cinema «alto» (intellettuale, ricco, ben curato) e il cinema «basso» (girato in fretta, senza troppe pretese). Erano due mondi contigui, che si parlavano e che interagivano molto più di quanto si pensasse (e di quanto la critica tradizionale, sempre molto ideologica e altezzosa, si accorgesse). E il sesso diventa una componente sempre più importante per il nostro cinema. Come scrive lo stesso Marco Giusti, «tra la fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta l’Italia, sia quella povera e cattolica del dopoguerra sia quella più ricca e non troppo meno cattolica e democristiana del boom economico, grazie alla rivoluzione culturale del 1968, agli acidi, a Jean-Luc Godard, a Carosello, a Wilhelm Reich, al PCI, alla minigonna, al rock inglese scopre il sesso, il peccato e l’erotismo». Un’onda che coinvolge in primo luogo il cinema ma anche le edicole: e infatti Giusti fornisce ampia documentazione su rotocalchi e fumetti sempre più spinti che escono contemporaneamente. La forza del suo ragionamento è nel saper coniugare i successi di Fellini, di Pasolini e di Bertolucci con quelli di Edwige Fenech e di Barbara Bouchet: e questo partendo dalla constatazione che il pubblico che vedeva i film degli uni e delle altre era in gran parte sovrapponibile. Le attrici, in effetti, sono molto importanti. Titoli ormai mitici come Quel gran pezzo della Ubalda tutta nuda e tutta calda e La signora gioca bene a scopa? vedono Edwige Fenech protagonista assoluta. I film sono prodotti da Luciano Martino, un genio nel creare titoli con il doppio senso ma anche un intellettuale sorprendentemente raffinato. Aveva iniziato scrivendo sceneggiature impegnate assieme a Pier Paolo Pasolini e forse a quel suo passato allude il personaggio interpretato da Oreste Lionello nel secondo dei due film citati: è infatti uno sceneggiatore politicamente impegnato che afferma sicuro: «Io scrivo film di rottura» con la cameriera che gli termina beffarda la frase: «…di coglioni!». Le attrici avevano cachet abbastanza elevati (la Fenech si aggirava sui 70 milioni di lire a film, Gloria Guida ne prenedeva circa 50, più in basso troviamo le altre tra le quali spicca Femi Benussi, che si spogliava per 20 milioni ma che aveva al suo attivo anche un ruolo importante proprio per Pasolini). Oggi la Fenech, come la Bouchet o la Guida, sono considerate delle signore dello spettacolo. E la stessa sorte è capitata ad alcuni dei loro colleghi maschi dell’epoca, primo tra tutti Lino Banfi che è diventato un po’ il nonno degli italiani. Banfi, come molti dei suoi colleghi che vediamo in ruoli di varia pezzatura in queste commedie, si era formato in una scuola importante quale era l’avanspettacolo: si faceva la fame, si dormiva in pensioni infime mangiando solo piatti di pasta cucinata clandestinamente su un fornelletto, ma se superavi quella scuola poi sapevi fare di tutto. Anche Lando Buzzanca ricorda gli inizi caratterizzati dalla fame più nera: poi sotto la guida di Marco Vicario diventerà Homo eroticus, vantandosi di prendere per ogni suo film un cachet che non doveva essere inferiore a quello che percepiva Gian Maria Volontè fresco di premio Oscar. La maggior parte dei nomi che troviamo nelle commedie sexy diventeranno poi negli anni Ottanta, quando il genere si esaurisce, i protagonisti delle televisioni private, in particolare di Mediaset. Quando Colpo grosso di Umbero Smaila attizza gli italiani, l’idea del sesso come trasgressione appartiene al passato: negli anni dell’edonismo reaganiano (mai definizione fu più beffarda ma anche più felice) i Peccati in famiglia (altro titolo indimenticabile) non hanno più senso, la morale è cambiata e con essa anche il senso comune del pudore. Però pensiamoci: quel filone prende il via dalla Antonelli di Malizia, diretto dal regista sessantottino Salvatore Samperi, mentre nel decennio successivo i moralisti diventano proprio alcuni eredi del ’68…

Erotismo, botteghino e liceali. Quel gran pezzo dei Settanta. Luigi Mascheroni, Giovedì 26/09/2019, su Il Giornale. Se gli italiani hanno una predisposizione, ben prima dell'Alighieri, è alla commedia (genere nel quale, fin dai latini, hanno sempre eccelso, più che nella tragedia). E se hanno un'inclinazione, è al sesso. Il teatro comico romano, Giovenale, le satire, la commedia dell'arte, Goldoni, il varietà, la grande commedia all'italiana del cinema degli anni '50-60... C'era una volta - epoca d'oro e Lingua d'argento, sono gli anni Settanta - la commedia sexy. Al netto dei sottofiloni e ramificazioni (i decamerotici, poliziottesche, caserme, la famiglia, l'erotismo alla siciliana, le liceali...) è considerata un fenomeno con caratteristiche uniche nel panorama cinematografico mondiale: l'abbiamo creata, declinata in tutte le varianti possibili, e esportata, dalla Francia al Brasile, fino al Giappone (arricchendo la versione base con inserti hard). Quando c'è da (far) ridere e giocare col sesso, ci siamo sempre fatti notare. Intrighi amorosi, invenzioni linguistiche, battute, maschere, equivoci, scambi di persone, erotismo e belle dame. Gli elementi sono gli stessi che usava Plauto. Il nostro cattolicesimo ci ha aggiunto il peccato, la Democrazia Cristiana il comune senso del pudore, il Sessantotto ha lasciato in dote il nudo e un produttore ha scoperto Edwige Fenech. Tutto il resto è venuto da sé. ...e si salvò solo l'Aretino Pietro, con una mano davanti e l'altra dietro... Era il 1972, e la creatività titolistica non era neppure ancora ai suoi massimi. Il massimo esperto, oggi, con una decennale carriera in sale di quartiere, è Marco Giusti - autore televisivo, critico e storico del cinema, conoscitore di serie A degli Italian Kings of B's - che aggiunge ora un altro tassello alla sua opera di catalogazione antropofilmica del cinema popolare italico. Ed ecco, dopo i volumi dedicati al peplum, agli spaghetti-western e agli 007 di casa nostra, il monumentale Dizionario Stracult della Commedia Sexy (Edizioni Bloodbuster, pagg. 528, euro 35). Più di 400 titoli schedati (dati tecnici, trama, critica e aneddotica varia, dalla frase di lancio sulle locandine al grado di nudità delle dive, vicissitudini processuali, incassi, stroncature, infortuni sul set, numero di metri tagliati dalla censura... dio mio, quante inquadrature ci siamo perse...), dalla A di Acapulco, prima spiaggia a sinistra (Sergio Martino, 1983) a Zucchero, miele e peperoncino (Sergio Martino, sempre lui, 1981), lungo poco più di un decennio, quel gran pezzo dei Settanta (poi la tv commerciale inghiottirà sesso, commedia e tutti i suoi protagonisti, da Gianfranco D'Angelo a Lory del Santo), oltre un inserto fotografico con i flani d'epoca (imperdibile quello de Il merlo maschio, 1971) e i migliori manifesti disegnati dal maestro del genere, Enzo Sciotti (gli originali costano anche 6mila euro). Ma soprattutto con una sontuosa introduzione (80 fittissime pagine) in cui Marco Giusti ricostruisce nascita, contesto storico, evoluzione, crisi e resurrezione critica della commedia sexy. Testo definitivo. Di definito, in realtà, non c'era molto quando tutto iniziò. Se non che a un certo punto, '68&dintorni, grazie alla rivoluzione culturale, alla minigonna e Wilhelm Reich, mentre i primi giornaletti spinti arrivano in edicola, l'Italia - sia quella povera e cattolica del dopoguerra sia quella più ricca e democristiana del boom economico - scopre che il sesso, oltre a farlo, si può raccontare, guardare, discutere, svelare, spiare. Spogliamoci così, senza pudor... 1977. Meno pudore e più trasgressione, mentre nel Belpaese (Luciano Salce, 1977) si comincia a sparare nelle strade, «la prima linea del cinema più impegnato e artistico, diciamo la nostra Nouvelle vague» - scrive Giusti - indica la via italiana all'erotismo. Curioso: non sono i mestieranti, gli artigiani, le seconde linee, ma i grandi registi a firmare film che da lì a poco, certo in modo molto più godereccio e scollacciato, daranno vita a varianti fortunatissime. Il Decameron di Pasolini (1971). Ultimo tango a Parigi di Bertolucci (1972). Malizia di Salvatore Samperi (1973). Amarcord di Fellini (1973), che tratta il sesso in maniera marginale, ma già fortemente erotica e iconica. L'impronta dei maestri, un pubblico enorme pronto a farsi un'abbuffata di sesso, produttori che sfruttano l'onda, budget in fondo limitati e incassi per il tempo faraonici, una classe di favolose attrici minorenni, ragazzine, adolescenti, liceali, nipoti, Grazie zia, cugine e cognate, mogli, amanti e sorelle bone. Oppure vestite da infermiere, dottoresse, poliziotte... Il gradimento nazional-popolare delle dive desnude determinava il loro cachet. Edwige Fenech, regina del genere sexy, poteva ottenere 70 milioni a film, Gloria Guida 50, Femi Benussi tra i 10 e i 15. Tra i maschi, la star assoluta che trasformava in code al botteghino ogni pellicola che interpretava, era Lando Buzzanca (che prendeva gli stessi soldi di un Volontè). Donne nude e Homo eroticus. Il fatto, è che non era solo una questione di donne nude e erotismo casereccio. I film della commedia sexy proiettano, come sempre, i desideri, le frustrazioni e le abitudini degli spettatori che li (ri)guardano. Peccati di provincia, vizi di famiglia, calde notti e collegiali, sogni di classi miste, storielle di corna e di passione, Innocenza e turbamento, notti peccaminose e novelle licenziose... Non c'è nulla da fare. Il Paese in quegli anni ha Il sesso in testa. I corpi sono bellissimi, a volte leggermente imperfetti ma più veri e sensuali. A portata, come si dice, di mano. La censura è occhiuta e più morbosa degli sceneggiatori, la critica militante fatica parecchio a capire, gli spettatori neppure si sforzano di farlo, gli bastano collant e scollature, il politicamente corretto non era ancora nato (e si poteva intitolare un film Elena sì, ma ... di Troia), le femministe protestavano, ma anche loro senza reggiseno, e comunque solo nel 1974 si produssero 176 film e le sale erano 9.089. Di quell'anno, peraltro, si ricorda La signora gioca bene a scopa? con la più bella battuta dell'intero filone (Oreste Lionello, che interpreta uno sceneggiatore, rivendica: «Io faccio un cinema di rottura!», cui la cameriera risponde: «Di coglioni»), e una scena di nudo memorabile della Fenech. La pellicola fece 718 milioni di lire di incassi.

Franco Giubilei per “la Stampa”l'8 ottobre 2019. Lo spettatore che diede il via all' odissea giudiziaria di "Ultimo tango a Parigi" era un 32enne della provincia di Bologna che vide il film al cinema Kursaal di Porretta Terme, dove veniva proiettato per la prima volta. Era il 15 dicembre del 1972 e il giovane, choccato da quel che aveva visto, corse in procura e mise nero su bianco: «Singole scene e sequenze hanno offeso la mia sensibilità morale e le mie aspirazioni ideali di cittadino (…) Scene che turbano il senso morale di un onesto cittadino». Cominciava così un' altalena di sequestri, ricorsi e dissequestri, con la gente che intanto riempiva le sale approfittando delle temporanee riapparizioni del film. E il dibattito pubblico assumeva toni da crociata: sui muri fiorivano scritte spray come quelle comparse a Firenze che bollavano come "porci" autore e protagonisti. Queste foto, con tutti gli atti del processo all' opera-scandalo di Bernardo Bertolucci - finito a giudizio insieme con Marlon Brando e Maria Schneider, il produttore Alberto Grimaldi e il distributore Ubaldo Matteucci -, stanno per essere rese pubbliche in versione digitale. L' Archivio di Stato di Bologna, su sollecitazione del tribunale che custodiva i due faldoni del processo con circa duemila carte, ne ha completato il restauro e dalla fine di ottobre saranno consultabili. Il clima di quegli anni riecheggia nelle denunce che la restauratrice Rita Capitani ha salvato dal deterioramento della carta: «E' un manuale di pornografia e di immoralità - si legge in un esposto -, il pubblico che come me aspetta ben diversa storia rimane senza parole». E poi ci sono le raccolte di firme per ottenerne il bando: «Detto spettacolo offende la nostra dignità di uomini, di cattolici e di cittadini italiani». Le petizioni di gruppi di ragazzi: «Di fronte all' impressionante "porno-escalation" che ha vanificato i valori culturali e artistici, noi giovani dichiariamo apertamente il nostro dissenso e la più ferma condanna». "Ultimo tango", vietato ai minorenni, era stato presentato senza problemi a Parigi e New York. Ma in Italia la musica era diversa: il pm bolognese Gino Paolo Latini lo descrive così: «Un film di contenuto osceno in quanto offensivo del pudore, inteso a sollecitare i deteriori istinti della libidine, dominato dall' idea dell' eccitamento e dello sfrenato appetito dei piaceri sessuali, da un linguaggio scurrile e triviale, con crude, ributtanti e veristiche rappresentazioni di congressi carnali, anche innaturali, con descrizioni continue e compiacenti di masturbazioni, atti libidinosi, lubriche nudità, accompagnate da gemiti, sospiri e urla di godimento». «La procura di Bologna aprì le indagini per oscenità, un pm romano ne dispose il primo sequestro - dice l' archivista Francesca Delneri -. Il processo per direttissima si concluse con l' assoluzione». Come il linguaggio dell' accusa riflette la ripugnanza dell' Italia più bacchettona, la sentenza di primo grado esprime una sensibilità opposta: «Nessuna delle tre sequenze sembra offensiva del comune sentimento di pudore in questo determinato momento storico di evoluzione culturale anche della media società italiana». Quindi il giudice si lancia in una dissertazione da cinéphile: «Ultimo tango a Parigi è la traduzione in immagini di una ricerca rivelatrice verso l' inesplorato dell' uomo; trattasi di una indagine antologica, per cui non a caso il film evoca una Parigi degli anni Trenta dove fervevano, sulla riscoperta di De Sade, i Georges Bataille e Louis-Ferdinand Céline, dov' erano concentrati i surrealisti e tutti gli umori della cultura europea». Il pm però non si arrende e ricorre in appello, che il 4 giugno 1973 ribalta la decisione del tribunale: macché De Sade, Bataille o Céline, «l' uomo comune non è tenuto a leggerli». Ma per la Cassazione è tutto da rifare e così, nel settembre del 1974, la corte d' appello di Bologna condanna tutti a due mesi di carcere e a 30mila lire di multa. La situazione precipita nel gennaio 1976: condanna confermata in Cassazione e perdita dei diritti civili per 5 anni per il regista, con distruzione di tutte le pellicole. Bertolucci scrisse all' allora presidente Leone per ottenere la grazia. Un decreto del ministero della Giustizia risparmiò tre copie dalle fiamme, perché venissero conservate presso la Cineteca nazionale. Undici anni dopo, la riabilitazione: oggi "Ultimo tango" è il secondo film italiano più visto di sempre.

Dagospia l'1 ottobre 2019. Da Dizionario stracult della commedia sexy di Marco Giusti - edizioni Bloodbuster. Vedetela come volete. Tra la fine degli anni ’60 e per tutti gli anni ’70 l’Italia, sia quella povera e cattolica del Dopoguerra sia quella più ricca e non troppo meno cattolica e democristiana del boom economico, grazie alla rivoluzione culturale del 1968, agli acidi, a Jean-Luc Godard, a Carosello, a Wilhelm Reich, al P.C.I., alla minigonna, al rock inglese, scopre il sesso, il peccato e l’erotismo. Tutto ciò si traduce in edicola in una valanga di giornali e  giornaletti porno, e nel cinema nella nascita di un cinema erotico che passa senza una precisa strategia dal drammatico al politico al cinema autoriale alla commedia. Ma è solo quando sfiora la commedia, anzi la nostra commedia, evolvendosi dall’erotico con pretese o dall’erotico drammatico, che darà vita a un nuovo genere tutto italiano, quello cioè della commedia sexy. Con mille sottogeneri e ramificazioni. Sarà proprio questo genere spesso poco chiaro, quasi un ibrido, la commedia sexy, contaminazione fra cinema erotico internazionale e commedia all’italiana, il genere che verrà esportato in Spagna, quando finirà la censura di Franco, in Francia e, soprattutto, in Brasile, dove darà vita alla porno-chanchada, in Messico, e che detterà legge fino ai primi anni ’80. Quando cioè la televisione, sia nazionale che commerciale, inghiottirà sesso e commedia e tutti o quasi i loro protagonisti, rimasticandoli come star, vestite e accettabili, del piccolo schermo, soprattutto delle reti di Silvio Berlusconi. E’ lì che Edwige Fenech, Lino Banfi, Gianfranco D’Angelo, Lory Del Santo, troveranno nuova vita, divisi tra show di prima serata, serie tv, sitcom. Mentre i loro film avranno l’onore di una nuova fortuna e di un nuovo culto prima nelle tv private e poi su vhs. A genere ormai finito. I dati parlano chiaro. Non c’è mai stata una rivoluzione simile nel nostro cinema e un interesse uguale a quello dimostrato dagli italiani tutti per il sesso. Sviluppato, inoltre, durante gli anni di piombo, mentre la gente si sparava per le strade. A mostrare la via, stavolta, non sono artigiani e bravi mestieranti del cinema, o giovani assistenti volenterosi dei kolossal americani girati a Roma, come nel caso degli spaghetti western o del peplum, ma la prima linea del cinema più impegnato e artistico, diciamo la nostra nouvelle-vague. Perché la via all’erotismo in Italia è stata anche, e soprattutto, una rivoluzione artistica e politica. Così Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci incassa 5 miliardi 758 milioni di lire. Malizia di Salvatore Samperi 5 miliardi 515 milioni di lire, Decameron di Pier Paolo Pasolini 3 miliardi 900 milioni di lire, Peccato veniale di Salvatore Samperi 3 miliardi 900 milioni di lire. Amarcord di Federico Fellini, che tratta il sesso marginalmente, ma in maniera chiave soprattutto per la costruzione del genere scolastico, 2 miliardi 739 milioni di lire. Da lì a poco ognuno di questi film lancerà se non delle imitazioni, diciamo delle varianti, molto meno artistiche e molto più goderecce e banali, come le insegnati, le soldatesse, le polizotte, l’erotismo alla siciliana, l’erotismo di provincia, i decamerotici, che formeranno il vero e proprio corpus della commedia sexy italiana, portando ai nostri produttori incassi, per il tempo, faraonici con budget davvero limitati. Diciamo solo che al tempo Edwige Fenech, regina della commedia sexy, poteva facilmente ottenere 70 milioni a film, Gloria Guida 50, Femi Benussi tra i 10 e i 15. Sappiamo bene che non tutti questi film sono identificabili come commedie sexy, come il Decameron di Pasolini non è inseribile tra i decameroneidi. Ma è curioso il fatto che i film che daranno in gran parte il via al genere e ai sottogeneri, da Grazie zia di Salvatore Samperi a Divorzio all’italiana di Pietro Germi, i già citati Ultimo tango a Parigi e Amarcord, per non dire del Satyricon di Federico Fellini, siano totalmente estranei al genere. Questo per la natura camaleontica della commedia dentro il cinema italiano, capace di nascondersi ovunque, sia per il desiderio molto anni ’70, di inserire il sesso appena possibile. Cosa che non capitò, certo, solo nel cinema italiano, ma che in Italia trovò forme tutte sue di exploitation e di contaminazione. La commedia sexy italiana non è quasi mai un genere chiaro come il western, dove un cavallo, un pistolero con il cappellone, un messicano baffuto fanno subito genere, e non esistono origini “alte” fuori dal genere, visto che proprio il prototipo, cioè Per un pugno di dollari di Sergio Leone, nasce come piccolo film di genere. Questo confonde un po’ le cose. Al punto che non sempre è facile definire quali titoli siano davvero commedie sexy e quali no. Lo sono, e chiarissime, le commedie erotiche prodotte da Luciano Martino con Edwige Fenech-Gloria Guida-Lino Banfi dirette da Nando Cicero, Sergio Martino, Mariano Laurenti, Michele Massimo Tarantini. E lo sono le tante commedie legate a quel tipo di cast e di sceneggiature. Titoli, però, che arrivano molto tardi nel genere, quasi a chiuderlo. E’ come se tutti i vari sottogeneri precedenti, dagli erotichelli con Gloria Guida ragazzina alle famiglie sporcaccione con voglie di trasgredire, dalle commedie siciliane più o meno buzzanchiane, trovassero in quei film prodotti dalla Dania e distribuiti dalla Medusa una sorta di spirito unificante che  definisse interamente il genere. Forse proprio perché non nasce come un genere chiaro. Copia dalle commedie erotiche europee, tedesche, inglesi, francesi, ma anche, e con molta vergogna, dalla commedia italiana maggiore dei Risi-Steno-Monicelli, che pure non disdegneranno di abbassarsi all’erotico comico, e dal mondo più chiuso di Pietro Germi e Alberto Lattuada. Ma la commedia sexy si nutre pure dei caratteristi e delle attrici svestite dei decameroneidi, che fanno pienamente parte del genere, tocca avventurosi, cappa e spada, peplum, che invece, forse, non ne fanno parte. Perché guardano altrove. Potremmo parlare per giorni su quali film inserire e quali no. Senza trovare, sicuramente, una soluzione. Diciamo che in questo dizionario troverete elencate tutte le commedie sexy che personalmente penso facciano effettivamente parte del genere, o che vennero presentate e percepite come tali. Sì quindi a commedie di coproduzione con la Germania, la Francia, ai rari Buzzanca sudamericani. No invece a drammatici o avventurosi di vario tipo, ahimé, anche se in questa introduzione e nel testo non pochi saranno i riferimenti a erotici d’autore di area samperiana o bertolucciana. Importanti nella costruzione non solo della commedia sexy, ma del cinema italiano del momento. Come importanti saranno tutte le battaglie con la censura che ho cercato di ricostruire nelle pagine che seguiranno. Attraverso la commedia sexy e il suo autodefinirsi come genere, malgrado nasca come un ibrido di generi diversi, penso si possa leggere il percorso del nostro cinema e di tutta la nostra società tra la fine degli anni ’60 e i primissimi anni ’80, diciamo dalle utopie sessantottine e dalle guerre contro la censura fino alla nascita delle tv commerciali non solo berlusconiane. Dalla commedia sexy nasce il nostro spettacolo televisivo degli anni ’80, non scordiamocelo. E, a differenza di altri generi più chiari, non rimane qualcosa di storicizzato, quindi di morto per il pubblico, ma seguita a avere una vita attraverso la tv, i vhs e i dvd, che lo porterà a una sorta di vita ulteriore per tutti gli anni successivi. Al punto che i suoi protagonisti, da Edwige Fenech a Lino Banfi, da Barbara Bouchet a Alvaro Vitali sono ancora oggi nomi di grande popolarità nazionale. 

Il sesso è solo vintage. Dall'"Estasi" restaurata agli erotici anni '60. Luigi Mascheroni, Venerdì 30/08/2019 su Il Giornale. Niente sesso, siamo italiani. Al festival, quest'anno, castissima edizione numero 76, i nostri film parlano molto di camorra e mafia, di famiglie e figli, e poi di Storia e di storie, di amore e politica, insomma di tutte le cose che fanno girare il mondo, ma poco o nulla si vede dell'unica cosa che lo tiene popolato. Il sesso. Notoriamente argomento molto più interessante delle quote rosa. Comunque, guardando le nostre opere in concorso (Il sindaco del Rione Sanità di Mario Martone e Martin Eden di Pietro Marcello, mentre La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco i critici non hanno potuto vederlo in anticipo), e quelle nelle sezioni parallele - i film di Salvatores, di Igort, della Archibugi, Sole di Carlo Sironi, Nevia di Nunzia De Stefano...) non ci viene in mente una che sia una scena di sesso: etero, omo, lesbo, trans, voyeuristico, mercenario o orgiastico. E, parlando con chi ha già visto qualche titolo, sembra che neppure dagli altri Paesi siano in arrivo al Lido chissà quali scandalose pellicole. Forse i registi erano in altro affaccendati, forse è l'(auto)censura del #MeToo e del politicamente corretto, o forse è solo un caso (ma una Mostra del cinema non è un caso, comunque fornisce degli «orientamenti»), rimane il fatto che nudi, amplessi ed erotismi vari a Venezia non sono previsti. E anche sulle spiagge del Lido i topless sono spariti da tempo. Bei tempi quando la Mostra sprizzava erotismo, scandali e provocazioni da ogni schermo. Altro cinema, altri pubblici, altri registi... E infatti quest'anno al festival il sesso si vede solo vintage, retrò, tutto girato al passato. Se i film di oggi deludono, quelli di ieri compensano abbondantemente. In materia di sesso cinematografico siamo arrivati così avanti da cominciare a tornare indietro. E così la Mostra (la cui serata di pre-apertura ha riportato in sala, in una nuova copia digitale restaurata in 4k, il film scandalo dell'edizione del 1934, Estasi di Gustav Machaty, con il primo nudo integrale della storia del cinema «maggiore», quello della fin troppo giovane Hedy Kiesler) recupera tutto il recuperabile erotico del nostro recente, libertino e libertario passato. Nei prossimi giorni sono previsti: il documentario Cercando Valentina sull'eroina spregiudicata del celebre fumetto di Crepax, il docu-film Mondo Sexy di Mario Sesti sul mondo dello strip-tease e la vita notturna negli anni '60, un imperdibile documentario di Steve Della Casa sull'horror all'italiana - profondo nero e prime timidissime luci rosse - degli anni '60, uno strepitoso omaggio a Piero Vivarelli (Life As a B-Movie), regista stracult che ci regalò alcuni dei momenti più belli dei leggendari erotici-esotici anni '70; e persino la versione integrale - proiezione speciale della serata di apertura della Mostra - di Irréversible di Gaspar Noè, film che scandalizzò Cannes nel 2002 per lo stupro subito da Monica Bellucci: una scena di dieci minuti senza stacchi di montaggio in cui l'attrice italiana subisce una violenza in un sottopassaggio. Una nota sul programma ufficiale del festival avvertiva: «Il film contiene scene che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni spettatori». Oggi, il #MeToo non lo farebbe neanche produrre, probabilmente.

Marco Bracconi per Il Venerdì - la Repubblica il 29 Agosto 2019. Rewind. Riavvolgete la pellicola dal cybersex all' alba degli anni Sessanta, in un' Italia ancora in bilico tra la legge di dio e quella del desiderio. E adesso spingete play e accomodatevi davanti al ground zero della rappresentazione del corpo erotico femminile. Mondo Sexy, scritto e diretto da Mario Sesti, il 3 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia (evento speciale delle Giornate degli autori) è un film sulla breve ma straordinaria fortuna che ebbero in Italia i documentari erotici, a partire da quell' Europa di notte di Alessandro Blasetti (1958) che può considerarsi il nobile capostipite del genere. A suo modo, una rivoluzione, perché da quel momento il nudo di massa irrompe sul grande schermo, condotto - e riprodotto - da sua maestà lo spogliarello: i film sui mondi di notte, sempre "caldi" e sempre "proibiti", diventano una serie, uno stile, un affare. Costano poco, sbancano il botteghino e oggi offrono l' occasione di leggere i candori e la brutalità di un'epoca destinata a essere travolta dalla secolarizzazione del senso del pudore. Grazie a un meticoloso lavoro su materiali quasi introvabili, Sesti ci fa così ri-vedere decine di spogliarelli montati in un flusso quasi ipnotico, mentre la voce fuori campo e le interviste annodano i fili di quella storia. «Il nudo non è mai integrale, i genitali erano tabù e anche i capezzoli dovevano essere coperti. Era una direttiva di Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro dello Spettacolo». È lo stesso principio dell' algoritmo di censura di Facebook, fa notare l' autore. Sessant' anni dopo, perbacco. «Quei film sono l' Alfa e l' Omega dello sguardo maschile» spiega Sesti. «Da una parte c' è la rassegna dei corpi, il dominio classificatorio di uno sguardo che codifica i corpi secondo il suo punto di vista; dall' altra l' infantile meraviglia del bambino che spia la nudità della madre dal buco della serratura». Attenti però a non perdere di vista la complessità perché nei sexydocu anni 60 c' è un po' di tutto, dalla gioia liberatoria e insieme ambigua del "denudarsi" agli stilemi classisti che diventeranno architrave dell' hardcore, fino ai vettori che rimandano all' odierna fortuna del burlesque, tra retrotopia ed evoluzione del genere. Nostalgia? Ci mancherebbe altro. Eppure, come dicono le voci femminili raccolte nel finale di Mondo sexy, resta un senso di perdita. Perché davanti a quei corpi attraenti ma dolcemente imperfetti, esibiti prima del lifting e ignoti ai tatuaggi, corpi ancora unici e reali, si vede come la visione della sensualità femminile abbia poi scelto la strada dell' astrazione e della sua riproducibilità tecnica. Non a caso la sequenza finale del film è un drappo rosso che scopre un seno sulla Tour Eiffel e poi cade, anzi precipita nell' abisso del desiderio. E di un eros che abbiamo, forse inesorabilmente, dimenticato.

·         Tanto porno, niente educazione sessuale.

Tanto porno, niente educazione sessuale. Lettere e risposte. Noi e voi - Risponde Stefania Rossini il 25 novembre 2019 su L'Espresso. Cara Rossini, le scrivo su un problema che è personale ma che credo coinvolga molte famiglie e quindi si può considerare una questione pubblica. Si tratta dell'educazione sessuale per i giovanissimi che si avvicinano alle questioni del sesso in questo mondo pieno di immagini volgari. Le spiego: sono un padre separato con un bambino di dodici anni che passa i week end con me. Ultimamente, controllando la memoria del mio computer, mi sono accorto che il piccolo è andato più volte su siti porno tra i peggiori, quelli con video espliciti di performance multiple e perverse che non sto qui a descrivere. Lo fa nelle poche ore in cui lo lascio libero di usare il mio computer per fare giochi di ninja o simili. Del resto ogni volta che mi avvicino fa sempre in tempo a rimettere sullo schermo quei giochi. E pensare che non gli ho ancora permesso il cellulare proprio per evitare che si connettesse a siti del genere! Sono sconvolto: il mio bambino si è sottoposto a un bombardamento mentale di filmati estremi senza avere ancora nessuna base sul sesso normale, quello che unisce due persone che sono attratte l'una dall'altra anche se non sempre c'è l'amore. Come vede non sono un bacchettone, ma per pigrizia o forse per uno stupido pudore non ho mai cercato di dare a mio figlio i più semplici rudimenti sulla sessualità, e altrettanto mia moglie che sostiene essere un compito mio perché tra maschi ci si capisce meglio. Sarò colpevole ma mi chiedo: non doveva essere la scuola a fare una equilibrata educazione sessuale? Se ne parla da anni, ma sia alle elementari, sia adesso che mio figlio fa la seconda media non ne ho mai visto traccia. Ma è possibile che siamo rimasti i soli in Europa con questa scuola medievale? C'entra forse il Vaticano? Michele Orzolesi

Non siamo i soli in Europa, ma certo non in compagnia dei Paesi di cultura e tradizioni occidentali. In questo ritardo ci troviamo insieme a nazioni come Bulgaria, Cipro, Lituania, Romania e Polonia, quest'ultima ammonita proprio nei giorni scorsi dal Parlamento europeo perché si appresta ad approvare una legge che punisce con il carcere chi insegna educazione sessuale. Noi invece non siamo né pro né contro, abbiamo alle spalle decenni di proposte per introdurne l'insegnamento tra i banchi, ma nuotiamo nell'indifferenza assoluta, continuando a lasciare alla buona volontà dei docenti il compito di trovare il tempo e il modo di dare ai ragazzi qualche informazione su sesso e affettività. Perché, là dove funziona al meglio, l'educazione sessuale riguarda, appunto, la persona nella sua totalità e tiene insieme gli aspetti fisici, emozionali e sociali compresi il rispetto reciproco e l'uguaglianza di genere. La noncuranza delle nostre istituzioni su questo tema non assolve però le famiglie dal silenzio o almeno dalla vigilanza rispetto alle immagini spudorate che possono invadere menti innocenti. In quanto al Vaticano, è vero che nel 2011 Benedetto XVI definiva l'educazione sessuale "una minaccia alla libertà religiosa delle famiglie". Ma ora per fortuna c'è Francesco che dice senza mezzi termini: "Nelle scuole bisogna dare un'educazione sessuale, il sesso è un dono di Dio".

Educazione sessuale a scuola, la chiede uno studente su due. Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 da Corriere.it. Quinto appuntamento con l’indagine «La scuola vista dagli adolescenti» – realizzata da Laboratorio Adolescenza e Canale Scuola di Corriere.it su un campione di 780 alunni delle scuole superiori di Milano – dedicato a rileggere i programmi sulla base delle indicazioni degli studenti. Quale argomento/materia ti piacerebbe che fosse trattato, a scuola, non una tantum, ma in modo sistematico, come se fosse una normale materia? Nettamente al primo posto, indicato dal 60% degli studenti (ma le ragazze arrivano al 71,8%) il tema del rispetto di genere e delle minoranze (hanno indicato minoranze etniche, religiose, LGBT…), mentre al secondo posto troviamo l’educazione sessuale, indicata dal 45% dei maschi e dal 51% delle femmine. Un argomento sempre di grande interesse per gli adolescenti rispetto al quale non hanno remore a riconoscere le loro carenze informative e una cultura» che si è formata prevalentemente attraverso le informazioni che circolano all’interno del gruppo dei pari. D’altra parte i risultati dell’indagine nazionale sugli stili di vita degli adolescenti – che Laboratorio Adolescenza e Istituto di Ricerca IARD realizzano annualmente – confermano questa esigenza: oltre l’80% dei giovani intervistati ha affermato che è la scuola il luogo ideale per affrontare e dare una formazione adeguata su questo argomento.

«Premettendo che non possiamo immaginare che tutto ricada solo su una scuola sempre più a corto di risorse e di tempo a disposizione – commenta Alessandra Condito, dirigente del liceo scientifico Einstein di Milano – comprendo e condivido che gli studenti la vedano come un punto di riferimento per affrontare un argomento così delicato. Alla nostra scuola – avvalendoci ovviamente di competenze qualificate – lo abbiamo anche fatto, ma dobbiamo anche dire che, per paradossale che sia, quando si tratta di affrontare argomenti che attengono alla sessualità, sono spesso proprio le famiglie a porre ostacoli».

Al terzo posto tra i desideri di approfondimento indicati dagli studenti (e su questo probabilmente saranno accontentati dal prossimo anno) c’è «Costituzione e diritti civili», a pari merito (40%) con «l’attualità». Una esigenza più che legittima, anche se appare quasi utopica in una scuola dove è già difficile arrivare a completare il programma di storia che, spesso solo sulla carta, arriva ai nostri giorni. Ma il problema non è solo questo: «Se parlare di educazione sessuale nella scuola è complicato, parlare di attualità è impossibile – afferma Rocco Cafarelli, Dirigente scolastico –. Come farlo evitando ogni riferimento politico? E mai come in questo periodo, in cui vengono contestati dalle famiglie anche i testi di storia, per quanto si possa essere oggettivi non sarebbe mai sufficiente per evitare polemiche di ogni tipo».

Per venire incontro alle esigenze di rinnovamento espresse dai ragazzi si potrebbero almeno affrontare gli argomenti di rincalzo: al 28% interesserebbe parlare di prevenzione dei comportamenti a rischio (alcol, fumo, droghe). «Ma in modo serio e approfondito, non con la solita menata la droga fa male, l’alcol fa male che, grazie, lo so da solo». Protesta Lorenzo, quarta superiore. Il 14% vorrebbe che ci fosse la materia «uso corretto dei social network» ma – e qui i ragazzi si contraddicono tra di loro – meno del 3% considera i prof adeguati a trattare l’argomento, e in grande maggioranza vorrebbero palarne con esperti esterni. Tra le altre indicazioni dei ragazzi di materie à la carte, la prevenzione del cyberbullismo (16%). Il 70% sostiene, infatti, che il fenomeno non interessi prevalentemente i ragazzi delle scuole medie inferiori (come spesso viene detto), ma sia ampiamente presente anche alle superiori. C’è anche molta richiesta (ma in questo caso il tipo di scuola fa la differenza) di approfondimenti più culturali e non solo legati ad esigenze pratiche: cinema, arte, teatro, fotografia…

Naturalmente è molto gettonato anche il tema ambientale, certamente trainato dall’«effetto Greta» in auge proprio nel periodo del rilevamento. Ma, al di là dell’opportunità o della difficolta ad affrontare questo o quell’argomento, è tecnicamente possibile, per una singola scuola, introdurre una nuova materia, al di fuori dei programmi ministeriali? Sì, ma con molti paletti, come ci spiega Andrea Marchetti, Dirigente scolastico e membro della Associazione nazionali Presidi: «La scuola può introdurre nell’orario curriculare una nuova materia (definendone numero di ore e periodicità), ma mai in sostituzione di altre materie o di altre ore. Le ore devono quindi aggiungersi al calendario normale. Inoltre devono essere rigorosamente indicati i requisiti professionali del docente chiamato a insegnare la specifica materia e per la selezione si deve procedere prima con un bando interno (ovvero vedere se ci sono docenti nella scuola o nelle scuole vicine che hanno interesse e titoli per proporsi) e, nel caso non si arrivi all’identificazione della figura, attraverso un bando pubblico esterno». Morale: gli studenti si tengano Cicerone, il solido che si muove nello spazio e il folle volo di Ulisse, perché per parlare si sesso o di Internet, con tanto di interrogazioni e verifiche, c’è tempo.

·         Televendita dell’arte.

Nino Materi per “il Giornale” il 16 settembre 2019. Nacquero carneadi, moriranno celebri nel cimitero catodico dei vernissage. Parliamo della pittoresca categoria dei televenditori che dal piccolo schermo propone «grandi quadri»: una tavolozza umana degna di essere ritratta, un affresco antropologico-commerciale dal richiamo ipnotico che inchioda davanti al video un esercito di adepti che ormai non può più fare a meno dei propri beniamini tv. La novità dell' arte «videomostrata» prende il via nei primi anni '80 su Tele Elefante, intraprendente emittente dal logo in stile dada-animalista con proboscide verde. Il digitale, l' euro e una sufficiente consapevolezza da parte del pubblico erano ancora lontanissimi da venire. Erano tempi dove si potevano propinare croste spacciandole per capolavori, e la gente ci cascava non avendo strumenti per difendersi; chiunque poteva spararla grossa, senza il rischio di essere smascherato. Oggi invece per i vecchi «piazzisti» sarebbe arduo rifilare fandonie: la loro «abilità» nel raccontare bugie si schianterebbe infatti contro una verità facilmente accertabile su Internet, con un semplice clic. E così, nel corso di quasi 40 di evoluzione tecnologica e culturale, il personaggio del presentatore è passato dalle originarie forme di folcloristico dilettantismo a uno status di dignitosa professionalità. La metamorfosi dinastica è stata lenta e faticosa, ma alla fine i teleacquirenti ce l' hanno fatta a liberarsi di quei «simpaticoni» che offrivano a pochi spiccioli opere di «inestimabile valore». Oggi marginali residui di quelle scorie imbonitorie sono ancora rintracciabili in qualche televendita in onda su emittenti minori, ma il grosso dell'offerta dei maggiori network specializzati mette il potenziale compratore al sicuro da spiacevole sorprese. Con l'arte non si può più scherzare. I trucchetti del passato oggi sono improponibili. Chi segue le televendite non è più uno sprovveduto, sa cos'è il diritto di recesso e soprattutto ha compreso che se ti offrono un taglio di Fontana a pochi euro, in realtà, stanno tentando di rifilarti - più che un taglio - un pacco. Ma oggi in tv nessuno azzarda più simili giochetti. Il settore-quadri, negli ultimi cinque anni, ha raddoppiato le vendite, raggiungendo un giro di affari tale da insidiare il mercato delle gallerie tradizionali. Una realtà rappresentata da OrlerTv che trasmette 24 ore su 24. La storia della dinastia Orler assomiglia a un romanzo. A metà degli anni '50, poco più che ragazzo, Ermanno Orler decide di lasciare il suo paese natale (Mezzano di Primiero) per andare in Francia a fare il boscaiolo. Poi si sposta a Venezia, dove lavora come artista già suo fratello Davide, e dove avrà inizio la loro e la sua carriera. Corre l'anno 1958. Ermanno con il legno ci sa fare, e decide di aprire un piccolo laboratorio di cornici, che diviene da subito utile al fratello e ad altri artisti come Emilio Vedova, Virgilio Guidi, Tancredi. «Comincia lì - si legge nel sito aziendale -, nel piccolo laboratorio di Venezia, un' attività che si rivela subito un successo. L' esigenza di rendere più agevoli i contatti con il resto dell' Italia, verso la metà degli anni Sessanta, lo spinge a spostare la galleria da Venezia a Favaro Veneto, in quello che è poi diventato il centro nevralgico dell' azienda. Nel frattempo il giro dei loro artisti va ampliandosi sia sul fronte nazionale sia internazionale. Si inaugurano poi le gallerie di Madonna di Campiglio, Abano Terme e Mestre (sede di OrlerTv). All'inizio degli anni '70 il mercato funziona e gli Orler sono pronti a seguirlo, così dal 1978 ad oggi, l' azienda si dedica alle vendite televisive. A livello generale i prezzi dei quadri venduti in tv sono mediamente meno cari di quelli trattati in asta o nelle galleria. Inoltre le televendite assicurano permute e forme di pagamento improponibili altrove: basti pensare che nelle aste, dopo l' aggiudicazione del lotto, si deve saldare tutto e subito, con in più un ricarico di circa il 20 per cento per «diritti d' asta». In tv tutto è meno formale, meno patinato, e privo di quella puzza sotto il naso tipica del gallerista che si trova negli stand delle fiere e nei loro show room, dove se ti vendono un quadro sembra quasi che ti facciano un piacere; e in più tendono a compiacersi nel farti sentire un ignorante. Risultato: gli amanti dei quadri in tv sono diventati una community sempre più ampia. Perfino insospettabili vip (si vocifera di un ex premier assiduo fruitore di televendite d'arte) si sono appassionati a questo particolare canale di vendita. E così anche i presentatori sono diventati volti popolari, ognuno forte del proprio stile di conduzione, all'insegna di tic e tormentoni. Tutti, ad esempio, hanno il vezzo di ripetere fino alla noia la parola «qualità» e la tiritera secondo cui «la telefonata non obbliga all' acquisto, ma solo alla visione dell' opera». Inoltre tutti si vantano di aver consigliato in passato «quando costavano pochissimo», artisti che oggi «valgono milioni». I nomi portati dai telepredicatori per avvalorare le loro predizioni sono quasi sempre «Boetti, Fontana, Bonalumi e Castellani». Peccato che nessuno abbia il coraggio di dire che il mercato dell' arte segue dinamiche indipendenti dai presunti poteri divinatori di chicchessia. La maggior parte dei venditori più famosi si sono fatti le ossa su Telemarket con no-stop notturne che si prolungavano fino all' alba. Allora l'emittente fondata nel 1982 a Roncadelle (Brescia) dall' imprenditore Giorgio Corbelli aveva il monopolio del settore; oggi, al contrario, la concorrenza è varia, benché le facce che circolano in video sono spesso vecchie conoscenze. A cominciare da Franco Boni, indiscusso caposcuola, ora in forza all'azienda ArteInvestimenti. Non c'è giovane collega che Boni non riconosca come «figlio suo». Dagli anni 80 ha imperversato in video «proponendo a poche lire artisti che oggi costano milioni di euro». Almeno così dice lui. Noto per l'eleganza della sua «r» arrotata, ha vissuto con lodevole autoironia la parodia che un irresistibile Corrado Guzzanti gli dedicò in tv. Decisamente più sobrio lo stile di Willy Montini, tra i pochi che riesce farsi seguire per due ore di fila senza annoiare. Attento conoscitore dell' arte contemporanea, mette a suo agio lo spettatore con un dinamico approccio divulgativo. Gesticola in modo magnetico, invitando il cameraman «a seguirlo» e a «non tagliarlo a metà». In passato frontman dell' azienda ArteTv è ora tra i presentatori di punta della squadra ArteNetwork. Da un anno anima una trasmissione, Art Duel, col critico Luca Beatrice. Fiore all' occhiello di OrlerTv è Carlo Vanoni (punte di diamante sono anche i suoi colleghi di rete Dario Olivi e Giovanni Faccenda). Personalità versatile (è anche attore teatrale e musicista) Vanoni ha visitato tutti i maggiori musei del mondo e, per questo, tende ad adirarsi quando sente pronunciare, a sproposito, la fatidica frase: «Questo è un quadro museale». In casa ha migliaia di libri (non solo d' arte) e un elegante pianoforte a coda. Curatore di mostre e divulgatore, è particolarmente in sintonia con le nuove tendenze giovanili, aggiornatissimo su tutti i record d' asta. Ha scritto tre libri: l'ultimo, A piedi nudi nell' arte (Solferino) è stato un successone. Con Alessandro Orlando si entra invece nella categoria degli istrioni. Quando lavorava per Telemarket, era solito ripetere durante le televendite: «Sono ancora giovane, io andrò via di qui. Non mi brucio a 40 anni. E avrò una tv tutta mia». Ora c'è l' ha fatta, la sua azienda si chiama OrlandoArte e gli affari vanno bene. Dei suoi happening giovanili è ricco il web. Col tempo si è calmato, ora è più pacato e meno irruente. Toscano doc, ostenta l' accento regionale, ritenendolo probabilmente un valore aggiunto. Nella vita, come nell' arte, ognuno ha le proprie convinzioni. Guai a contraddirle.

·         Maurizio Cattelan.

Malcom Pagani per Vanity Fair il 30 settembre 2019. Maurizio Cattelan è nato tutte le volte che ha ucciso una parte di sé. Iniziò da bambino, a Padova: «Che non era solo una città, ma tra patronati e catechismi, un vero e proprio network ecclesiastico all’ombra della chiesa. Avevo fatto a lungo il chierichetto e poi un giorno, di punto in bianco, avrò avuto 10 o 11 anni, dissi a mia madre “oggi a messa non vengo”. Mi domandò il perché, risposi che non me la sentivo e lei concluse che mi sarebbe tornata la voglia la domenica successiva». Spazzato via dagli entusiasmi stagionali che decennio dopo decennio hanno contribuito alla sua curiosità, il desiderio non tornò. Per potersi spendere, l’artista italiano più quotato del mondo ha dovuto scoprire che certe libertà non hanno prezzo e in omaggio al titolo di una sua antica trovata “lavorare è un brutto mestiere” – «prima di capire che non avere il posto fisso significa lavorare sempre» – ha deciso di trovarsi un’occupazione senza orari, cartellini o svalutazioni. «Pensi che lusso: siamo in un parco e possiamo sprecare un paio d’ore a parlare. Esiste qualcosa di più prezioso?». Questa intervista è un romanzo di formazione. Cattelan di solito le concede via mail e in tv o dai giornalisti manda un alter ego. Ha accettato di mostrarsi, di raccontarsi, di mettere sotto la lente un’ascesa del tutto inattesa che in America sarebbe già diventata un film. Forse lo girerebbe lui. Che appenda tre manichini impiccati a Porta Ticinese, raffiguri Hitler in preghiera in Him, spingendo Christie’s a sfiorare la quotazione di 18 milioni di euro, faccia precipitare un meteorite su Giovanni Paolo II nella Nona ora, incolli al muro il gallerista Massimo De Carlo fino a farlo ricoverare al termine dell’installazione, mandi I Soliti Idioti al premio Alinovi-Daolio in sua vece, crei dal nulla la fantomatica VI Biennale dei Caraibi facendosi burla dei soloni o veda sparire un water d’oro da 103 kg – come accaduto recentemente in Inghilterra, alla Blenheim Art Foundation, per Victory Is Not an Option, la straordinaria personale in scena a Londra fino al 27 ottobre: «So che tutti pensano sia una mia trovata, ma purtroppo quei 103 chili d’oro sono stati rubati davvero» – la narrazione è sempre saldamente nelle sue mani. Credergli o meno, somiglia a un atto di fede. A spogliarsi delle certezze e a entrare nel suo mondo in bilico tra fumetto e paradosso, si rischia con la fantasia. Cattelan inventa. Immagina, provoca, turba e disturba. «Con le idee cambi il mondo, sono quelle a fare la differenza». Se lo chiamano maestro gioca di ironia: «Maestro è un termine ridicolo, ognuno è il maestro di se stesso. A malapena riesco a mettere in piedi le mie mostre. Magari c’è un lavoro del quale non sono convinto fino in fondo, ma so che devo andare avanti perché non c’è tempo e devo mostrare le mie vergogne in pubblico». Se gli danno del genio, fugge a gambe levate, se i detrattori adombrano il sospetto del bluff, non si scompone: «Non mi sento un bluff, perché il mio lavoro è lì, a disposizione di chi lo voglia analizzare, ma non mi considero certo un genio. Il termine è ridicolo e la parola andrebbe usata con il contagocce. In epoche recenti ne abbiamo visti incoronare tanti e altrettanti scendere dal trono poco dopo, ma se escludi gli indiscutibili, quelli di categoria superiore, l’unico passaporto che si possa concedere a quelli come me è di sapersi sintonizzare con l’oggi». Da ragazzo, sulle onde da captare, Maurizio Cattelan aveva impegnato molti pomeriggi. «Recuperavo nella spazzatura radio e televisori per smontarli e rimontarli. Il padre di un mio compagno di scuola, radioamatore, mi aveva fornito i rudimenti minimi. Il resto lo facevo io, a casa, sul tavolino che avevo montato sulla sponda del letto, nell’unico spazio tra il mio giaciglio e quello di mia sorella. Tagliavo, saldavo, assemblavo. Termostati, amplificatori, timer. Era il 1976, stavano venendo fuori i primi circuiti integrati, si potevano già costruire computer molto primitivi. Mi iscrissi all’industriale, ma era tutto tranne ciò che mi aspettavo. La scuola ha distrutto una passione: credo di avere un problema fin da allora con l’istituzione e con l’insegnamento».

Quali erano i precetti di casa Cattelan?

«A casa mia non si è mai visto un giornale che non fosse Famiglia Cristiana né un libro. Una volta me ne regalarono uno per Natale. Un dono che odiai perché mi aspettavo qualcos’altro. Poi un giorno l’ho preso in mano e la mia vita è cambiata».

Com’era la sua vita nei primi anni?

«Siamo cresciuti con poco. C’era la tv, perché Carosello e Neil Armstrong che appoggia il piede sul suolo lunare non li ho dimenticati, ma in casa la doccia l’ho vista soltanto a dieci anni. Prima, fatta la lavatrice, mia madre riempiva una tinozza con l’acqua di scarico e ci si infilava tutti dentro. Non c’era l’acqua e non c’era neanche il gas. Facevamo delle gran gite in cantina per prendere il carbone. A dire il vero non c’era neanche il telefono, ma francamente non so a cosa ci sarebbe servito».

Chi ha avuto poco può fare a meno di tutto?

«Direi il contrario. Chi non ha avuto nulla ha bisogno di molto, se non altro per compensare. Non credo cambi poi molto tra un padre Ceo di una multinazionale o un camionista: è importante il rapporto che riesci a instaurare con lui, con la tua famiglia, con i tuoi genitori. Se hanno qualcosa da insegnarti, se cercano di capire chi sei, se trascorrono del tempo con te».

I suoi lo facevano?

«I miei sono stati sfortunati. Alla mia nascita, mia madre ebbe un tumore. Poi un’altra malattia e poi ancora un’altra. Mia madre era spesso in ospedale e quando non c’era andava a lavorare per rimpinguare le entrate di mio padre. In una situazione simile, diventare il babysitter delle mie due sorelle era nell’ordine delle cose».

Che rapporto ha con la memoria?

«Ho dei bei ricordi e ho memorie meno allegre. Sicuramente ho vissuto un’infanzia che non vorrei ripetere, ma so che più vado avanti con l’età e più devo dedicarmi al domani. L’abilità della nostra mente è selezionare il positivo e cancellare il negativo per cui più il tempo passa, più il passato è bello perché descrivendolo possiamo imbellettarlo, modificarlo, inventarlo persino».

Lei si trovò nella necessità di dover inventare il futuro.

«Avevo un’urgenza: rendermi economicamente indipendente. Tra seconda e terza superiore mi beccai tre materie e mi dissi: “A settembre tra i banchi non torno, vado alla scuola serale, mi trovo un lavoretto ed esco di casa”».

E andò fino in fondo al piano?

«Fino in fondo. Otto ore di lavoro, cinque di scuola serale in cui imparai il senso della disciplina. I miei amici avevano tanto tempo libero, io pochissimo. Loro hanno imparato delle cose, io ne ho imparate delle altre, qual è la migliore? Non lo sapremo mai».

A Padova non c’era solo afrore di cattolicesimo, ma anche di barricate e contestazione: la città di Sant’Antonio era la stessa di Autonomia Operaia e di Toni Negri.

«Di politica tra ragazzi si discuteva di continuo. Non era raro passare per una piazza e vedere barricate o cassonetti incendiati e io stesso prendevo appunti sul retro dei volantini. La scuola serale cambiò la prospettiva. Tra i banchi per lo più c’erano i quarantenni. Studiavano per la paga, per recuperare il rispetto dei figli, per ottenere un diploma che suonasse come una sorta di riscatto sociale. Non c’era tempo né voglia di scioperare tra quei banchi».

Lei era più giovane di loro.

«Ma non ero particolarmente interessato alla teoria. Certo ero antimilitarista e pur di non fare il militare sarei stato pronto ad andare anche in galera. Feci regolare domanda di servizio civile, ma ebbi un colpo di culo anche io. Non mi risposero mai e dopo due o tre anni inviai una lettera garbata in cui chiedevo di regolarizzare i termini del mio debito con lo Stato».

Come contestatore sarebbe stato perfetto.

«Per gli estremisti avrei potuto essere un ottimo materiale umano, non lo nego. Qualcuno mi avvicinò anche, ma non funzionò. Da un lato ero troppo indipendente, dall’altro c’era la voglia di rassicurare i miei genitori: mia madre continuava a dirmi “sei una puttana e un brigatista”. Erano entrambe due definizioni sbagliate, ma l’epoca era permeata dalla paranoia, dall’ombra, dal dubbio. Mia madre si era fatta un’idea, mio padre gli era andato dietro e a 16 anni, al campanello di casa, suonarono anche i Carabinieri. Facevo tiro a segno e i militari, sospettosi, vennero a chiedermi i perché di quello strano hobby».

Che rapporto ha avuto con i suoi genitori?

«Dolcemente dialettico. Gli ho voluto bene. Nelle difficoltà hanno saputo essere a loro modo tolleranti e nel tempo hanno imparato a rispettarmi».

La biografia da nomade a un certo punto la vede a Venezia.

«In attesa di un lavoro a tempo pieno andai a fare l’antennista d’estate. Venezia rappresentò il mio mini servizio militare. Dormivo in un’ala abbandonata di un convento che affacciava su una caserma di cadetti della Marina. Si svegliavano alle 5 di mattina per esercitarsi e io seguivo il loro ritmo. Fu bello e divertente tornare a riparare televisori ed elettrodomestici. La borsa, l’antenna sotto il braccio, il vaporetto. Se c’era da andare a prendere la tv ci andavo col carretto. I tecnici erano venerati, era tutto un “prego, si accomodi”».

Prima di trovare la sua strada ha fatto tantissimi mestieri.

«Quando da piccolo mi chiedevano cosa volessi fare da grande rispondevo: “Il cameriere”. Uno dei pochi lavori che non ho fatto perché per il resto, dal giardiniere al cuoco, alla donna delle pulizie, passando per la divisa da postino e il ruolo di apprendista contabile che andava a pagare le bollette, non mi sono fatto mancare niente. Per lo più erano occupazioni trimestrali. La prima strutturata, sicura, potenzialmente definitiva, fu in ospedale. Prima il corso di infermiere, poi la corsia. Facevo il tappabuchi tra i reparti: 42 ore alla settimana più 4 ore di corso da infermiere».

Occupazione precisa?

«Anche lì, un po’ di tutto. Persino lo spazzino. Con un camice bianco, sempre sporco, svuotavo i bidoni della spazzatura, prendevo un po’ di pioggia sulla testa quando il tempo era inclemente, ogni tanto imprecavo e mi occupavo di tenere pulita una cittadella di tremila persone. A un certo punto mi chiesero se avessi voglia di lavorare in obitorio. Non dissi di no e feci altri sei mesi, quasi da becchino, rendendomi conto soltanto dopo che tutta questa irrequietezza era figlia di un solo obiettivo: ridurre il lavoro a zero ore alla settimana e ottenere contemporaneamente un salario. In ospedale, nonostante i continui cambi d’abito non ce l’avrei mai fatta e a un certo punto dissi basta. Psicologicamente ero arrivato. Trovai un medico pietoso che capì il mio stato d’animo, mi trovò un po’ esaurito e mi diede un paio di mesi d’aria».

Come impiegò il tempo libero?

«Avevo ancora lo stipendio, ma per la prima volta anche la possibilità di guardarmi finalmente intorno. I miei coetanei si alzavano la mattina, se si alzavano, facevano quel che dovevano fare, se volevano farlo, e dovevano riempire la giornata con niente. “Ma è fantastico” mi dissi: voglio farlo anche io».

L’amore a quel tempo che spazio occupava?

«Finché non avevo tempo per me, non esisteva. Poi in ospedale qualcosa iniziò a muoversi. Sono entrato in un gruppo molto creativo che incarnava il tipico riflusso di quegli anni rivoluzionari. Però non si parlava più di politica, ma si viveva di eccessi fra creatività e feste in un momento culturalmente entusiasmante. Per me, che in un certo senso arrivavo dalla giungla e dal lavoro matto e disperatissimo, era tutto nuovo».

Sono anche gli anni del dominio delle droghe pesanti. Gli anni dell’eroina che piegò una generazione.

«In quegli anni ho perso degli amici, ma sono così naïf da essere andato in vacanza con persone totalmente “scimmiate” accorgendomi della situazione in fatale ritardo. “Ma non ti eri reso conto di niente?”, mi dissero anni dopo. “Noi pensavamo sapessi”. Non sapevo, ma cominciai a capire qualcosa quando dal nulla iniziarono a sparirmi soldi e documenti.

“Sei un deficiente”, mi dissi. Ma avevo delle attenuanti. Il mondo che frequentavo non era poi così lisergico. C’era chi si drogava pesantemente per assentarsi e chi fumava una canna per concedersi un momento ricreativo. Non aderivo a nessuna delle due filosofie perché non sono mai stato un vero consumatore, né tantomeno una vittima. Adesso, al limite, sono più ricreativo di un tempo. Ma è un vizio che è arrivato molto tardi. Forse allora semplicemente non c’era la mia sostanza». (Sorride)

Quando si è reso conto di essere un artista che stupiva?

«Mai, neanche oggi. Al principio il motore fu il solito: pagare un affitto, mettere insieme uno stipendio, sostenersi. Andai a fare un corso a Bologna e mi stabilii a Forlì, in periferia. Svuotai la casa dalle cianfrusaglie e ne feci il mio laboratorio. Mi piaceva usare le mani e, grazie a un mio amico che aveva un laboratorio, ripresi confidenza con la fiamma ossidrica, con la saldatura, con i materiali. Tutto girava intorno alle mie necessità domestiche: una volta costruivo un tavolo, un’altra una lampada, un’altra ancora una sedia. Prendevo una lastra, la tagliavo, impastavo altri elementi e sperimentavo. Fu come frequentare un istituto d’arte o affrontare un esame di fine corso. Decisi di far sapere cosa stavo facendo e, aiutato dalla mia fidanzata di allora, feci quattro foto, diedi un nome alle opere, scrissi una terribile lettera d’accompagnamento in un inglese che faceva ridere e spedii un migliaio di missive a tutte le gallerie di New York. Era il posto in cui volevo andare, il mio sogno».

Realizzato?

«Risposero in tre. Tutti dall’Italia. Un paio ringraziando e declinando l’offerta e uno solo, da Bologna, proponendomi di partecipare a una mostra collettiva in una galleria, la Neo, che stava riaprendo. Quello fu il primo piede che misi nel mondo dell’arte. Non sapevo neanche cosa fosse. Era una fantasia. Un sogno. Non conoscevo una galleria, un artista, niente. Ci ho messo almeno dieci anni a capire che cos’era».

E come si orientò?

«Mi diedi un orizzonte pragmatico e feci un patto con me stesso: “Se tra due anni riesco a sostenermi vado avanti, altrimenti cambio ancora”. Per darmi una possibilità mi spostai a Milano. Bussai a tutte le redazioni che si occupavano di design, mobili o quel cazzo che fosse. Era il 1989. Dicevo: “faccio queste cose” e aspettavo una risposta. Qualcuno pubblicò le foto della lampada che avevo costruito, un altro iniziò a venderle e mi entrò in tasca qualche lira. Per un anno dormii nello stesso negozio che la commercializzava, Dilmos, in Brera. Si spegnevano le luci, si tirava giù la serranda e quella per la notte diventava casa mia. Era così grande che ogni notte potevo scegliere di addormentarmi su un letto diverso. Prima di poter acquistare una casa di proprietà in viale Bligny, 16 metri quadrati in tutto, passò del tempo».

Iniziava a farsi conoscere, ma ancora si manteneva a fatica.

«I primi veri soldi li ho guadagnati a metà del 2000. Prima, pur avendo già una mia quotazione, guadagnavano le case d’asta. Chi aveva comprato con lungimiranza a poco prezzo le mie opere aveva iniziato a venderle e a speculare, ma la cosa non mi riguardava. Pensavo all’arte. Mettere in piedi i progetti costava e ogni volta in tasca non mi rimaneva un centesimo. Ma le dico la verità, non era poi così importante. Nel periodo newyorchese, per esempio, riuscivo a vivere serenamente con 5 dollari al giorno. E quando economicamente ho iniziato a vedere la luce, l’unica cosa veramente cambiata era potersi sedere al ristorante senza preoccuparsi dei prezzi. Prima al ristorante non potevo proprio entrare».

Ne soffriva?

«New York ha rappresentato un’esperienza dura, ma non per i soldi. In fondo che attraversassi quel mondo mai visto prima, del tutto nuovo ed emotivamente destabilizzante con la limousine o in bicicletta era identico. Sempre con il naso all’insù a guardare la magnificenza degli edifici sarei stato. Non sapevo una parola di inglese e le dimensioni e i rumori erano molto più grandi del luogo e della realtà da cui provenivo. Ma facevo cose che mi interessavano, ero in un posto che mi piaceva e New York, per avere un vero mercato in Europa e in Italia, fu fondamentale. Le due persone chiave di quegli anni furono Francesco Bonami che mi invitò nel 1994 alla mia prima Biennale e Rudolf Stingel che mi presentò alla prima galleria americana».

Bonami ha criticato duramente la sua mostra a Blenheim.

«Più che una critica, prendo le sue parole come un consiglio. Non è il primo che mi dà e c’è sempre da imparare».

Oggi lei vive principalmente a Milano.

«Sono qui perché devo lavorare. Un tempo Milano mi faceva stare male, ora è molto migliorata, è diventata meno provinciale e più europea, ma se dovessi scegliere vivrei a Napoli o a Palermo, due città che mi somigliano».

Ha detto: «L’arte è fatta dagli spettatori».

«Sono sempre gli spettatori a fare l’arte. Sono giudici assoluti e sono loro a decretare il successo di qualcosa. Se mi interroga, mi chiede di spiegare un’opera e io lo faccio significa che è un’opera debole perché si può spiegare. Potrei invece raccontarle la genesi o il lampo che l’ha fatta scaturire, ma non cosa significhi: ognuno ci trova quello che vuole».

Se si guarda indietro cosa vede?

«Una persona fortunata che ha avuto molto e spera, in qualche misura, di poter restituire. Se penso a cos’ero e dove sono i miei amici di un tempo lontano mi dico che sono riuscito a fare ciò che mi piaceva. Non voglio dire che quel che faccio sia migliore di quel che hanno fatto loro nella vita perché non è vero. Abbiamo percorso strade diverse: ognuno sceglie il proprio destino e la propria felicità. Ogni tanto ripenso al giorno in cui mi licenziai dall’ospedale. All’ufficio del personale si fermarono tutti quanti: sul volto avevano stupore e sgomento. Mi dicevano: “Ma sei matto? È un posto sicuro, pensa ai tuoi genitori. Cosa farai domani?”. Non lo so, lo scopriremo”. A casa fu uno choc. Mio padre, nel 2000, ancora mi consigliava di ripensarci: “Se torni a Padova magari in ospedale ti riprendono”. Era preoccupato. Sinceramente preoccupato. Mi voleva bene. Era in ansia per me».

Oggi Maurizio Cattelan, a 59 anni appena compiuti, è felice?

«Fatico a misurare la felicità. Sto per arrivare ai 60, una barriera che ho sempre osservato con timore perché mia madre a quest’età non arrivò. I termini della questione adesso non riguardano più il successo o l’insuccesso. La carriera ha senso se diventa la tua eredità o la tua famiglia, ma sarebbe un po’ triste se la felicità fosse legata all’esito del tuo lavoro. La vita è altrove. Nella mia routine. Ho una bici, ho un letto, ho degli amici, ho una piscina – non di proprietà, non mi interesserebbe – ma un luogo in cui andare a nuotare. Non passa giorno che non scenda in vasca».

La descrivono ossessionato dalla cura del suo corpo.

«È una balla. Nuoto tutti i giorni come potrei tirar di scherma o giocare a calcio. Fare sport mi aiuta a eliminare la negatività, l’aggressività, il dubbio. Entro in vasca con un problema da risolvere e ne esco avendo fatto chiarezza. È una sorta di trance meditativa. Come le ho detto non mi sento maestro di nulla, ma se dovessi insegnare qualcosa a qualcuno direi “Fai attività fisica e fallo regolarmente”. Ecco, l’ho detto, adesso morirò sicuramente steso da una macchina o di cancro fulminante». (Altro sorriso)

È vero che è tirchissimo e molto attento al denaro?

«Osservazione interessante. Dipende in che accezione: il lavoro deve essere pagato, su questo non transigo, non ci son cazzi. Poi, come si sa, sui nostri vizi siamo ciechi».

Ma si definirebbe avaro o no?

«Una settimana fa ho donato 30 mie opere per una charity, ma probabilmente avrei potuto donare di più. Le racconto una storia. Quando ero bambino e tornavo da uno dei consueti periodi in colonia, il mare dei ragazzi che non potevano permettersi un’altra villeggiatura, arrivammo con il pullman al capolinea. Le famiglie degli altri bambini erano lì, di vedetta, ad aspettare i figli. Tutte tranne la mia. L’autista mi vide malinconico, mi domandò se mi ricordassi l’indirizzo di casa e mi riportò all’ovile. Fu un giorno tristissimo e quella solitudine mi è rimasta dentro per tanto tempo. Vicino a casa c’era un orfanotrofio. Passandoci davanti ogni giorno salutavo due coetanei. Un giorno ebbi l’impulso di regalargli la mia collezione di figurine, una montagna di figurine. Ma arrivò la maestra che le sequestrò, riunì tutti i bambini e le divise equamente tra loro. Fu un grande insegnamento. Dopo una vita passata a fare progetti per gli altri, sto pensando di farne finalmente uno mio. Sto pensando di aprire un orfanotrofio».

Altra leggenda: lei frequenta solo persone più giovani di lei.

«Non è una leggenda, è un fatto. Frequento pochi coetanei: è una questione di energia, di scambio, di cose nuove che entrano nei rapporti umani e danno loro linfa».

Vale anche per le sue fidanzate?

«Non so. Ma perché usa il plurale? Sono sempre stato monogamo. Una è sempre bastata. La poligamia e la menzogna gravano l’esistenza. E con le fidanzate non divido mai la casa. È sorgente di equivoci, di liti, di tensioni. Ognuno vive sotto il suo tetto e quando lo desidera davvero si incontra».

Perché non ha avuto figli?

«Sto ancora crescendo. Sa cosa? Mi ha chiesto tante cose, tranne una».

Quale?

«Se da questa parte del tavolo esiste un cuore, esiste un’anima».

Esistono?

«Probabilmente sì, ma non li ho ancora trovati».

·         Papà Renzo Piano.

«Papà Renzo Piano e il test della barca ai miei fidanzati». Pubblicato domenica, 04 agosto 2019 da Elvira Serra, inviata a Genova, su Corriere.it. In che cosa vi assomigliate di più? «Chiedilo a lei». «E perché a me?». Nel piccolo battibecco che chiude questo pranzo consumato guardando il mare a Punta Nave, nella sede genovese dello studio di architettura RPBW, c’è tutto l’amore sottinteso e potentissimo tra padre e figlia, Renzo e Lia Piano, tenerezza e curiosità che rimbalzano da una parte all’altra del tavolo tondo, schivando il melone con il prosciutto crudo, i gamberi in salsa rosa e il branzino gratinato, la bottiglia di Pigato fresco per il capofamiglia, che durante i pasti non beve mai acqua. Sarà lui a proporre la sintesi finale, dopo il caffè e un pezzetto di cioccolato fondente: «La cosa più importante tra noi due è capirsi al volo, diversamente dagli altri miei figli: Carlo, hai voglia...; Matteo, figuriamoci...; Giorgio, lasciamo perdere!». 

Comincia il padre, divertito dal compito. «Lia da piccola? Uno spettacolo... Aveva capelli talmente fini che bastava un soffio d’aria perché si muovessero: dovevi vederla quando correva in spiaggia a tre chilometri all’ora (ha calcolato la velocità, ndr) e volavano all’indietro. È nata con lei l’abitudine di misurare un figlio...». Abitudine mai persa, che mette in pratica sul momento estraendo dalla tasca il metro e andando a controllare il neo della figlia nella gamba destra: «Diciannove millimetri; da bambina erano solo quattro». 

La vita in barca è tra i primi ricordi. «Lia era nata a ottobre, la portai a bordo a luglio. Si è vaccinata presto, non soffre il mal di mare». Lei conferma, e racconta delle foto più improbabili scattate mentre beveva una tazza di latte durante una tempesta o leggeva il libro a testa in giù quando tutti avevano la nausea. Chiediamo se la barca non fosse pericolosa per una bambina così piccola. «Al contrario, è il posto più sicuro», replica pronto l’armatore. «Mettevo le reti, ho cominciato a farlo più di cinquant’anni fa... E poi Lia la legavo». Prego? «Va be’, legare... Diciamo assicurare... Bastava un nodo al braccio, non scorsoio... Una gassa d’amante, che già il nome denota le buone intenzioni... Lasci il nodo un po’ lasco e il bimbo non si perde. Può solo cadere dentro un osteriggio, cosa che le è successa solo una volta». «Su un tavolo, e sono rimbalzata fuori», precisa Lia. «Ma a te andò bene: Marina Berio finì su una pentola di cozze!», chiude il padre. 

Della sua «picciotta» («Che vuol dire piccina, ma anche un po’ canaglia») ha incisa nella memoria l’immagine «riflessa» di lei sulle sue spalle, il 31 gennaio 1977. Ricorda: «Era il giorno di apertura del Centre Pompidou, aveva quattro anni e mezzo, me la tenni così tutto il tempo a guardare lo stupore sulle bocche degli altri. Era stato Roberto Rossellini a suggerirmi, all’inaugurazione, di osservare l’edificio con gli occhi degli altri. Avevo barba e capelli lunghi, perché a quei tempi li tagliavo una volta l’anno». Qui Lia aggiunge un altro aneddoto degli anni parigini: «Le prime parole che pronunciai furono Haby foutu! Era lo slogan contro il ministro dell’Istruzione René Haby, lo sentivo dagli studenti in corteo sotto casa nostra». 

Crescendo, sono rimasti memorabili i «test della barca» agli aspiranti fidanzati. «Il mio capolavoro è stato uno», comincia il padre, mentre la figlia annuisce già divertita. «Venne questo qua, di cui non ricordo il nome, mentre eravamo in porto e io stavo lavando la barca. Si levò le scarpe e rimase con i calzini. Colgo l’occasione al volo e con la pompa allago ben bene davanti a me. E mentre lui si avvicina i suoi piedi fanno “ciac, ciac”, sempre di più». Ridono insieme. 

È stato, ed è ancora, un padre «impiccione», ammette Lia. «Adesso quando mi chiama mi chiede le coordinate di dove mi trovo: ho dovuto imparare qualcosa di longitudine e latitudine per accontentarlo». Ma lui: «Me le dà a casaccio, propone luoghi impossibili!». E si è impicciato anche del romanzo che Lia pubblicherà a fine agosto con Bompiani, Planimetria di una famiglia felice: «Ha voluto cambiare tutte le misure. A un certo punto avevo scritto che una pila di panni da stirare era alta due metri e lui ha obiettato che così cede strutturalmente. La cosa incredibile non è che lo abbia detto, ma che io lo abbia cambiato!». Quando però lui si alza, ammette di ammirare senza condizioni la sua modernità: «Ha una libertà di pensiero che me lo rende indispensabile. Vorrei avere il suo sguardo capace di vedere subito lontano». Hanno gli stessi occhi, azzurri come il mare che amano entrambi. Chiediamo all’architetto perché ha accettato di fare questo incontro. «Per obbedienza assoluta. Specie con la picciotta». Si era capito.

·         La signora delle Barbie.

La signora delle Barbie: "I miei 8mila vestitini per vivere da bambole". Grazia cucì un abito per far giocare la figlia. Non si è più fermata. Inaugura una mostra. Serenella Bettin, Mercoledì 23/10/2019, su Il Giornale. In comune con Meryl Streep ha di sicuro i capelli. Corti, alti, cotonati, ben piegati. Il buon gusto. L'eleganza. Lo smalto rosso. La fissa per l'abbigliamento e i colori. E l'irruenza. Solo che Meryl Streep, nel Diavolo veste Prada, fa la parte della cattiva e sfonda i centri di alta moda; Grazia Collura Frassoni fa la parte dell'angelo e veste le Barbie. Di vestiti ne ha fatti oltre 8mila e ancora, a 85 anni, il prossimo nove gennaio, continua. Genovese, trevigiana d'adozione, appassionata di Pink Floyd e Freddie Mercury, faceva la parrucchiera a bordo delle navi transatlantiche: New York, Stati Uniti, Canada. Poi, di spirito imprenditoriale e creativo, se vedeva che qualche negozio nella sua città stava per chiudere, lei lo riprendeva e lo risollevava. E così ha fatto fino a che non si è sposata. Grazia Collura la incontriamo una domenica pomeriggio nell'Atelier delle Barbie, una mostra permanente aperta nel 2015, in uno dei borghi più belli d'Italia: Portobuffolè. Il comune più piccolo della provincia di Treviso dove ancora, tra i rintocchi delle campane e il fuoco delle castagne, ci abitano appena 751 abitanti. Qui si interseca la provincia della marca con quella di Pordenone. E lo chiamano «il Borgo dell'Amore» perché dedicato ai futuri sposi. Sta per scendere la nebbia, è quasi sera ma Grazia ci accoglie nel suo atelier carica di tempra. Scarpe da ginnastica, smalto, indossa un foulard della stessa fantasia di un vestito delle Barbie. Le Barbie custodite in delle teche, indossano vestitini uno più bello dell'altro. Vestiti interamente fatti a mano. Lei realizza tutto. Cappellini, borsette, gioielli. Le borsette le cuce con il mezzo punto. I gioielli prende quelli rotti e ne ricava perline, pagliuzze, catenine minuscole da appendere al collo delle bamboline. Tutte le Barbie rispecchiano il modello 1966. La prima Barbie invece, divenuta un'icona magica e di stile, e nata dall'idea dei coniugi Handler, è del marzo 1959. Barbie di ogni colore. Vestiti di stoffa. Pezzi unici. Qualche azienda che fabbrica vestitini aveva chiesto a Grazia una produzione in serie, ma «per fare un vestito dice al Giornale impiego dai due ai tre giorni, posso farne due simili, il resto sono pezzi unici. E poi quanto valgono?». Già. Valgono un lavoro silenzioso, maturato nel tempo, silente, taciturno, fino a che un giorno non ha deciso di uscire allo scoperto. In un baule in soffitta, durante l'ultimo trasloco, Grazia trova questa valanga di vestitini e decide di metterli in mostra. La storia era nata per caso, da quando la figlia che ora ha 50 anni, ebbe la sua prima Barbie alla Prima Comunione. Grazia fece il vestito per la figlia e lo fece uguale per la bambola. Da lì partì tutto e un giorno d'estate in ferie a Capo Mimosa, ne realizzò oltre 200. La mostra ne ha esposti 450. C'è il vestito fatto con la cintura di un pigiama, con le mutandine della sposa, con le carte di raso delle uova pasquali, con la tappezzeria, con pellicce vere. Perfino una Barbie vestita di visone. E poi ancora jeans, raso, seta, cotone, lana. Abiti per ogni occasione. Dal tubino nero che le ricorda il giorno del suo matrimonio. All'abito per andare a fare la spesa. Per andare a passeggio. Per andare a cena con le amiche. Per sentirsi stravagante. Per le donne in carriera. Ha riprodotto anche i vestiti dei matrimoni dei vip. Come quello di Ramazzotti e Pellegrinelli che ha incollato sul raso lo spartito di un canto di Chiesa. O ha riprodotto i personaggi televisivi: Mary Poppins con il borsone magico fatto a mano. Una precisione massima. Perline. Fascette. Sandali. Borsette. Tutto deve perfettamente combaciare. Quando la lasciamo e guardiamo ancora questi abiti stravaganti, semplici, eleganti, quasi sentiamo il tocco delle mani che infilano perline e imbastiscono stoffe. Perché qui dentro i vestiti sembrano parlare e vivere da soli.

·         Anna Wintour, Prada, Renzo Rosso, Valentino, Donatella Versace, Dolce e Gabbana, Capucci, Lagerfeld, Giorgio Armani. La moda è loro.

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 03 dicembre 2019. E se il diavolo vestisse vintage? Si sa, Anna Wintour, la regina della moda che da decenni impone tutto ciò che fa tendenza, non la manda mai a dire. L' ultima tirata d' orecchie a chi pretende di saperla lunga in fatto di stile, arriva attraverso una lunga intervista concessa all' agenzia di stampa Reuters a margine di un evento organizzato da Vogue Grecia ad Atene. Una vera bacchettata a quelle "fashioniste" sempre più innamorate degli abiti usa e getta. Prodotti modaioli e a basso costo distribuiti da certi marchi commerciali, che secondo uno studio di McKinsey & Company hanno ormai inondato il mercato: con la produzione globale di abbigliamento raddoppiata negli ultimi 15 anni, proprio come il numero di capi acquistati ogni anno da ciascuno di noi, salito del 60 per cento. «Quei vestiti sono anti-ecologici e anti-etici, realizzati con materiali scadenti e sfruttando il lavoro delle persone» tuona l' ormai settantenne "direttrice a vita di Vogue ", come il Ceo di Condé Nast, Bob Sauerberg, la definì un anno fa, per zittire le voci che la volevano pronta alla pensione dopo trent' anni alla guida della Bibbia della moda. Macché. Forte dell' iconico taglio a caschetto che da quando ha 14 anni le permette di attraversare a testa alta ogni moda e stagione e degli inseparabili occhiali da sole indossati costantemente pure in ufficio, l' ispiratrice di quella Miranda Priestly interpretata da Meryl Streep ne "Il Diavolo veste Prada", nell' intervista si spertica in un vero elogio del riciclo. Richiamando all' ordine non solo le aziende ma anche i giornali: «Siano noi a dover insegnare l' importanza di indossare più volte gli abiti, conservarli con cura e passarli ai figli, magnificandone la fattura, la creatività, l' unicità immutata dell' eleganza ». Un messaggio cui il mondo dell' alta moda, sempre più impegnato a rafforzare le proprie credenziali ecologiche ed etiche, è particolarmente sensibile. E che Anna, d' altronde, da tempo sostiene dando l' esempio: mostrandosi spesso con gli stessi tailleur, magari abbinati a diversi accessori. Lo fanno, d' altronde, anche i volti più giovani della casa reale britannica: Meghan Markle, la sposa americana del principe Harry e la duchessa di Cambridge Kate Middleton, moglie dell' erede al trono William, addirittura ribattezzata dai giornali inglesi "regina del riciclo". L'usato sicuro piace perfino sui red carpet di Hollywood. Dall' indimenticabile Armani di pizzo nero sfoggiato nel 2014 dall' attrice Cate Blanchett prima a Cannes e poi ai Golden Globes, fino al Jean Paul Gaultier mozzafiato - e vecchio di 25 anni - indossato da Cardi B quest' estate alla prima di "Hustlers". «Il segreto della vera eleganza è la qualità di ciò che s' indossa. Quel che manca, cioè, all' usa e getta». Parola di diavolo vintage.

Anna Lombardi per la Repubblica il 3 novembre 2019. Il diavolo compie settant' anni anni. Ma non li dimostra, naturalmente: grazie all' iconico caschetto che da quando aveva 14 anni le permette di attraversare a testa alta mode e stagioni. Agli inseparabili occhiali da sole, indossati anche in ufficio. Sì, anagraficamente, perfino Anna Wintour, la regina della moda che da decenni impone ciò che fa tendenza, illudendoci di essere noi a scegliere, è invecchiata. Con buona pace di Miranda Priestly, l' immortale personaggio interpretato da Meryl Streep e a lei ispirato, protagonista di quel Il Diavolo veste Prada che nel 2006 la rese simpatica al mondo. Certo più di quanto - almeno a sentire l' ex assistente Lauren Weisberger, autrice del romanzo da cui fu tratto il film - lo è mai stata nella realtà. Durissima Anna. La direttrice "a vita" di Vogue , come annunciato a sorpresa l' anno scorso dal Ceo di Condé Nast, Bob Sauerberg per zittire le voci che la volevano pronta alla pensione, sempre così distaccata: e talmente esigente da essere soprannominata Nuclear Wintour, perché è meglio non farla arrabbiare. O, perlomeno, durissimo il suo mestiere di giornalista, diventata nel tempo la direttrice più potente del mondo. Capace di restare al suo posto, nonostante le turbolenze del suo settore editoriale, sempre più in crisi. «Non lavoro per Anna Wintour, lavoro per Condé Nast» ha confidato al Guardian a febbraio, in una delle rare interviste: «Non ho nessun tipo di account sui social media né cerco riconoscimenti personali». Londinese di Hampstead, cresciuta nella Swinging London tutta colori e capelli gonfi, è una ribelle dello stile fin dai tempi della scuola. Quando ingaggiò un braccio di ferro con le insegnanti accorciando sempre più le sue gonne, in barba ai rigidi canoni del suo collegio femminile. «Fu mio padre a spingermi nel campo nella moda», ricorda nel documentario di R. J. Cutler The September Issue - il film del 2007 di cui fu protagonista - dedicato all' iconico numero annuale di Vogue , strapieno di pagine e pubblicità. Aveva 15 anni quando papà Charles, direttore del The Evening Standard , cercando di domarla e spingerla verso un lavoro adeguato, le trovò un posto nella celebre boutique Biba. Fu invece Richard Neville, un fidanzato più grande di lei, a procurarle - era il 1967 - il primo lavoro in un giornale: quell' Oz , bibbia della controcultura, scandaloso per i nudi e che proprio Neville editava. L' esperienza le aprì le porte di Harper' s Bazaar : e presto dell' America. E pazienza se, approdata a New York quasi mezzo secolo fa, in quella rivista durò poco: cacciata dopo nove mesi per le scelte fotografiche giudicate troppo eccentriche. Finisce a lavorare da Viva , rivista erotica per "donne adulte", appena creata dall' editore di Penthouse Bob Guccione, esperienza di cui non ha mai parlato volentieri. E quando questa finisce, lavora in varie riviste di moda. A Vogue approda nel 1983 e nel 1988 ne prende le redini, definendone il carattere con le sue scelte innovative soprattutto nel campo della fotografia e con l' abilità di assicurarsi investimenti pubblicitari: puntando sulle star messe in copertina molto prima degli altri. E rilanciando il brand del suo giornale grazie a quel Met Gala, serata dedicata alla moda che la sua predecessora Diana Vreeland aveva già trasformato nella serata più mondana d' America, il party a cui nessuno vuole mancare. Una carriera lunga, pochi rimpianti: come quello di non aver capito la rivoluzione digitale, una delle poche tendenze che non ha saputo anticipare. Sì, il diavolo compie 70 anni. Ma influenza ancora il gusto. E chissà per quanto ancora.

Moda, la carica dei rampolli: i giovani da Prada a Diesel, Moncler, Max Mara. Pubblicato martedì, 08 ottobre 2019 da Corriere.it. Nelle famiglie imprenditoriali l’esposizione pubblica di un proprio componente ha un significato. Per questo non va sottovalutata. Da tempo Bertelli, così come Maramotti e Zegna jr sono al lavoro nelle aziende di famiglia. E vanno ad aggiungersi ai figli primogeniti di Renzo Rosso, Andrea (41 anni) e Stefano (40), che fin da giovanissimi sono stati coinvolti nelle aziende (nel caso specifico, fin da subito anche nell’azionariato) dal padre. Oggi Stefano è Ceo di Diesel North America e consigliere della capogruppo Otb, oltre a essere presidente della squadra di calcio Lanerossi Vicenza; mentre Andrea è direttore creativo delle licenze Diesel e fondatore del marchio Myar. Un percorso diverso, ma che fa parte dell’identico processo di rinnovamento, è quello seguito da Pietro Ruffini, 30 anni, figlio di Remo, l’imprenditore di Moncler. Ruffini jr ha scelto di fondare Archive, con il supporto della Ruffini partecipazioni holding, società che punta su aziende innovative come The Attico, brand di moda fondato dalle influencer Gilda Ambrosio e Giorgia Tordini e in grande ascesa. Anche Edoardo Zegna, prima di entrare nel gruppo guidato dal padre Gildo, negli Stati Uniti ha co-fondato un’azienda di moda online, Everlan, basata su un modello innovativo che mescola trasparenza, tracciabilità, economia circolare e nuove tecnologie. Quale che sia la forma di impegno, la nuova generazione porta, infatti, con sé innovazione, una visione autenticamente internazionale, velocità, i valori di Millennials e Zeta come la condivisione e la sostenibilità. «La mia generazione è cresciuta con codici valoriali completamente diversi dalla precedente», sottolineava, non a caso, un anno fa Pietro Ruffini.Sono giovani. E questa è già una differenza con passaggi del testimone avvenuti in passato. Zegna è entrato nel gruppo di famiglia nel 2014, a 29 anni. E 29 anni aveva Lorenzo Bertelli al momento del suo inserimento in Prada nel 2017 dove è responsabile marketing e comunicazione e dove segue lo sviluppo digitale del gruppo. Bertelli jr — di cui il padre Patrizio ha detto che «prenderà le redini del gruppo se lo vorrà» — è tra le new entry dei 500 personaggi più influenti della moda stilata da Business of Fashion. È consigliere di amministrazione di Prada holding (che controlla la quotata Prada spa), di Marchesi 1824 e di Cor36. Il cambiamento non li spaventa. «Il cambiamento è inevitabile», è lo sprone di Edoardo Zegna, che di Zegna è Head of content and innovation. E in questo momento di mutamento epocale il prodotto non basta più se non sai raccontarlo: «Tutto deve partire dalla storia — ha detto agli imprenditori di Milano Unica —. Devi raccontare la storia al consumatore. Non è più sufficiente che il tessuto abbia certe caratteristiche, se non sai comunicarle. Stiamo passando da un mondo product lead ad uno marketing lead». La moda e il lusso sono tra i settori a maggior tasso di esportazione e dunque abituati a essere sempre in viaggio. Ma le nuove generazioni sono vere cittadine del mondo. Diceva Ruffini jr raccontando il passaggio da Como, dove è nato, a Londra, dove era andato a studiare: «Quando a 16 anni lasci la tranquillità di casa e devi ricostruirti la vita, e la tua famiglia diventano di fatto i tuoi compagni, beh... è un’esperienza molto formativa e che apre la mente. Oggi in qualunque luogo del mondo io vada conosco qualcuno, eredità degli anni di studio inglesi e del network internazionale che si è creato».

Alessandra Roncato per “Weekend - la Repubblica” il 27 settembre 2019. Cos' hanno in comune Elton John e Giovanni Paolo II? Hanno condiviso lo stesso stilista: Jean-Charles de Castelbajac. I Kiss e Sylvester Stallone? Lo stesso calzolaio: Pasquale Di Fabrizio, italiano trasferitosi negli Usa nel 1961 e soprannominato " Shoemaker to the Stars". Freddie Mercury e Lady Diana? Hanno indossato abiti firmati dalla stessa coppia di designer ( nel caso della principessa, si trattava addirittura dell' abito di nozze): David ed Elizabeth Emanuel. E, fatta eccezione (forse) per il Papa diventato santo, non sono solo coincidenze. "I musicisti, oltre a suonare, dettano l' agenda stilistica ai brand della moda o diventano i loro migliori testimonial", sostiene Matteo Guarnaccia nell' introduzione al suo libro Dagli Abba a Zappa. I vestiti della musica ( Centauria, 128 pagine, 24,90 euro). Nel volume ( che sarà presentato a Milano il 10 ottobre alle 18 presso la Vivienne Westwood boutique di Corso Venezia) l' autore, artista, saggista e storico del costume ( nel design ha lavorato, tra gli altri, con Bruno Munari e ha collaborato anche con Corso Como 10 e Vivienne Westwood), disegna una mappa dei guardaroba musicali più fortunati e iconici della storia. E se è vero che la dichiarazione dei diritti dell' uomo firmata a Parigi nel 1793 ammoniva che "Nessuno può imporre a uomo o donna che sia, un modo particolare di abbigliarsi", è anche vero che è stato il rock' n'roll poco più di mezzo secolo fa a liberarci definitivamente dalle imposizioni sociali in fatto di stile. «Mi vesto come voglio, non sono né un pavone né un modello, sono un artista » , diceva John Lennon. Ma intanto milioni di persone imitavano il suo look, dagli occhialetti rotondi ( volutamente uguali a quelli forniti dalla mutua inglese agli indigenti) alla camicia dell' esercito ( che a lui, antimilitarista convinto, aveva regalato un reduce della guerra di Corea). E sono proprio i " non look" delle rockstar, racconta Guarnaccia, quelli che più hanno ispirato i grandi marchi di moda. Basta pensare al casual sciatto dei Grateful Dead ( « Ci vestivamo con vecchi abiti presi all' Esercito della Salvezza», disse a proposito il frontman Jarry Garcia) e dei loro fedelissimi fan, i deadhead, studiato e riproposto da Prada. O allo "smile dopato" disegnato all' inizio degli anni Novanta da Kurt Cobain dei Nirvana rilanciato quest' anno da Marc Jacobs. Alla band di Seattle si devono anche le grunge layers, le camicione plaid rilanciate da Saint Laurent nel 2014. Merito della musica quindi, dalle paillettes degli Abba agli abiti a fiorellini di Zappa, passando per la bicromia rosa/nero di Elvis Presley, se oggi possiamo giocare senza paura con il nostro guardaroba. Con buona pace del ribelle per eccellenza, Mick Jagger dei Rolling Stones, che oggi dice: « La gente non si veste più come una volta. Dire che mi manca quel modo di abbigliarsi normale potrebbe sembrare stupido, proprio perché sono stato io uno dei primi a rompere le regole. Eppure è così! ».

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 18 ottobre 2019. «La bruttezza è attraente, la bruttezza è eccitante. Forse perché è più nuova. La ricerca della bruttezza per me è molto più interessante dell'idea borghese della bellezza. Perché? Perché la bruttezza è umana, riguarda il lato peggiore e sporco della gente». È in una rivendicazione di stampo filosofico, ribadita più volte negli anni, il primo fondamento della moda di Miuccia Prada, stilista del brutto dunque ma come espressione alta di eleganza e, più ancora di fascino. Ideatrice del mood poi ribattezzato dai media ugly chic, Prada ha rivoluzionato i canoni estetici della modernità, imponendo, di passerella in passerella, una riflessione sull'immagine della donna e sull'iconografia della desiderabilità. A ripercorrere trent'anni di collezioni, dal 1988 a oggi, è il volume Prada. Sfilate, prima antologia delle collezioni pret-à-porter della griffe, L'Ippocampo edizioni, in libreria dal 23 ottobre. Dotato di un ricco corredo iconografico - oltre 1300 foto - il libro, con testi a cura di Susannah Frankel, permette di indagare l'evoluzione dello stile del brand e, da qui, i cambiamenti portati nel settore. La moda Prada vede il trionfo del marrone, («il colore meno commerciale che ci sia», dirà Miuccia), gli inusitati accostamenti di tinte come senape e viola, i rimandi alle uniformi militari, scolastiche e mediche, i richiami alla moda maschile. E ancora, le gonne al ginocchio, le linee che spesso nascondono le forme invece di esaltarle, le scarpe pesanti, i sandali portati con calze al ginocchio e così via. «Miuccia Prada - spiega Frankel - ha cambiato il modo in cui il mondo considera la moda e l'ha fatto senza cristallizzarsi sul singolo look, ma reinventandosi di continuo, tanto da costringere le altre maison a correre per stare al passo con la sua». La stilista introduce il brutto in un contesto, la moda, in cui non esisteva per definizione, imposizione e vocazione. Il bello, motore del mercato, era gabbia di una domanda di fatto imposta, costruita su canoni precisi. L'ingresso della bruttezza nel settore segna una rivoluzione. Si può essere brutte, sembrano dire i look, anzi forse si deve. Perché bruttezza significa libertà dai modelli definiti, ribellione agli stereotipi, espressione di personalità. Il bello si contempla, il brutto scuote l'animo. Alla femminilità costruita a tavolino, spesso da uomini, Prada contrappone così l'autonomia della donna. Miuccia raggiunge il vertice dell'azienda di famiglia nel 1979: «La società italiana era ossessionata dal consumismo, mentre io sognavo giustizia, uguaglianza e una rinascita morale». Dopo l'esordio negli accessori, le sue prime sfilate nel 1988 presentano creazioni di taglio maschile, sobrie. Una risposta all'edonismo anni 80. Unica concessione è l'ombelico scoperto, che poi ricorrerà negli anni. «Il suo famoso zainetto in nylon, privo di logo nella prima versione - commenta Frankel - si impone al pubblico come la It Bag meno appariscente della storia, aprendo così la strada al minimalismo degli anni a venire e al dibattito sul concetto di status nella moda». Negli anni 90, l'austerità domina. Il lusso rimane ma si nasconde in materiali pregiati per abiti in apparenza dimessi. Sulla collezione primavera/estate 1991, Women's Wear Daily scrive: «I Flintstones incontrano i Jetson». Prada ne è felice. L'anno dopo è quello delle culotte a vista sotto i baby doll: non un vezzo civettuolo, ma un modo per deridere il sistema e le sue fantasie. Nell'autunno/inverno 94-95 presenta capi ispirati alla Germania in tempo di guerra. Dopo, anima il dibattito con lo chic clinico. Del '96, la definizione ugly chic, che non le piace. «Tendo ad avere buon gusto e quando faccio cose brutte è per scelta», dichiarerà nel 2003. «Voleva elevare la banalità», afferma Frankel». Nel '98 esplora l'imperfezione. Il nuovo millennio vede reggiseno sugli abiti e linee ampie che paiono voler nascondere il corpo. Dare alla donna la libertà del brutto non significa costringerla in nuovi canoni. Se deve poter essere tutto, di tutto deve poter indossare.

Maria Silvia Sacchi per corriere.it il 30 ottobre 2019. Sono sempre stati separati. Da una parte Prada, il gruppo della moda guidato da Miuccia Prada e Patrizio Bertelli. Dall’altra la Fratelli Prada, proprietaria di quattro negozi a Milano, compreso quello in Galleria che ha dato vita alla storia della maison. Il negozio fondato da Mario nel 1913. Da ieri Prada e Fratelli Prada sono diventati una cosa sola. Per questo l’operazione annunciata nella notte, dopo la chiusura della Borsa di Hong Kong dove la società italiana è quotata, ha un forte valore simbolico prima ancora che strategico. Ed evidenzia il peso di Miuccia all’interno del gruppo. Prada spa ha, dunque, annunciato di aver rilevato la Fratelli Prada, razionalizzando la distribuzione diretta visto che in questo modo ingloba quattro negozi Prada a Milano: due in Via Monte Napoleone, uno in Galleria Vittorio Emanuele II e uno in via della Spiga finora posseduti dalla Fratelli Prada. Nel capitale della Fratelli Prada ci sono sempre stati solo gli eredi di Mario: Miuccia e i fratelli Alberto e Marina Prada Bianchi. Al contrario, nel capitale di Prada spa è presente anche Patrizio Bertelli, artefice del successo del gruppo insieme a Miuccia. Guardando gli azionariati la stilista conferma il suo ruolo di riferimento. Lo è (era) nella Fratelli Prada, il cui capitale fa capo per l’89,01% a Bellatrix, da sempre il punto di incontro dei tre fratelli ma nella quale la quota di maggioranza è detenuta, appunto, da Miuccia attraverso la holding Ludo: ha il 43,85% delle azioni ordinarie e il 10% delle privilegiate. Alberto e Marina (rispettivamente tramite Rigel e Mirar) hanno il 22,08% delle ordinarie e l’1% delle privilegiate. Esiste poi una quota di azioni proprie pari al 9,32%. Prada spa è a sua volta controllata da Prada holding, dove la quota di maggioranza è anche in questo di Bellatrix (55%), mentre Bertelli tramite Pabe ha il 25%. Entrambi - Bellatrix e Pabe - hanno poi il 10% ciascuno di privilegiate. Per Prada è un periodo di cambiamenti. Nell’ultimo anno sono usciti alcuni manager storici e altri si appresterebbero a rientrare. Sul mercato si parla infatti di un ritorno di Jacopo Venturini, che ha appena lasciato Gucci, dove ricopriva un ruolo centrale. E sempre da Gucci è dato in arrivo Alessio Vannetti, dimessosi a fine settembre da direttore della comunicazione mondiale del marchio della doppia G.

Andrea e Renzo Rosso: «Mi buttò in acqua  senza braccioli. Ci ha insegnato tutto così». Pubblicato lunedì, 19 agosto 2019 da Elvira Serra, inviata a Vicenza, su Corriere.it. Hanno gli stessi occhi azzurri, ma uno ha i capelli e l’altro no. «Io questa cosa della genetica non l’ho mai capita...», dice con finto sconforto il figlio, berretto militare in testa (non del suo marchio MYAR), mentre guarda i ricci disordinati del padre. Siedono uno accanto all’altro, nel quartier generale dell’impresa di famiglia a Breganze, nel Vicentino, davanti a una bottiglia di Rosso di Rosso del 2012, Cabernet e Merlot premiato con 94 punti da Robert Parker, l’Avvocato del vino. Pranzo semplice e saporito: insalata all’inizio, pollo ai ferri per il più giovane, branzino alla piastra per il più anziano, anguria alla fine. Non sembrano il direttore creativo di tutte le licenze Diesel e il patron dell’azienda con 6.500 dipendenti nel mondo e un fatturato da un miliardo e mezzo di euro, ma esattamente quello che sono: il primogenito e il suo papà. Comincia Renzo Rosso, 63 anni e sette figli (Andrea, Stefano, Alessia, Luna, Asia, India e Sydne): «Ricordo quando è nato, all’ospedale di Dolo. Lo aspettavamo da tre giorni. Ero seduto fuori dalla sala parto che leggevo la Gazzetta dello Sport, quando mi accorgo della data: 22/11/77. Ho pensato: che bello se nascesse oggi. Dieci minuti dopo, alle 21.20, è arrivato lui. Era pazzescamente bello, dopo ha peggiorato...», racconta scherzando, visibilmente orgoglioso. Andrea Rosso prosegue con il suo primo ricordo di bambino. «Non ci ha mai permesso di imparare a nuotare con i braccioli, ci buttava direttamente in piscina. Mi è rimasto dentro l’odore del cloro. Lo stesso vale per il tennis o per tutto il resto: si imparava facendo». E Renzo: «Si sono vendicati per il mio cinquantesimo compleanno, quando lui, il fratello Stefano e la sorella Alessia mi hanno bendato fino a una pista, dove ci aspettavano quattro paracaduti: sono dovuto saltare per primo, perché mi sento un leader, e poi non potevo tirarmi indietro...». Andrea ricorda anche quella volta che i figli proposero al padre di insegnargli a fare snowboard: «Noi non avevamo la patente, avevamo bisogno di lui per arrivare in montagna. Una volta su, lo lasciammo in cima, e ci raggiunse dopo bestemmiando!». I momenti belli, in effetti, non si contano. Ancora il figlio: «I viaggi, tutti. Ma anche le partite di calcio, segnare un goal di testa dopo che tuo padre ti ha fatto cross». E le finali del Milan: «Ad Atene quando abbiamo vinto la Champions, a Vienna contro il Benfica e tutto lo stadio che cantava Volare, ho ancora i brividi... Avevamo fatto il viaggio ascoltando gli U2». E il padre: «La più brutta fu a Istanbul, quando perdemmo ai rigori». Sul lavoro, Andrea ammette di non aver avuto sempre fiducia nelle intuizioni del patron. «Sui passeggini Bugaboo, per esempio, ci credevo zero. Non riuscivo ad associare l’idea della protezione di un bambino agli elementi rock, militare e jeans del nostro marchio. Dovemmo smontare ogni pezzo da zero e invece è stato un successo: in tre anni ne sono stati venduti sedicimila». La verità è che ammira in modo totale il padre imprenditore: «Vorrei avere il suo coraggio. Io devo sempre pensare moltissimo alle cose, non riesco a decidere in fretta». E, se possibile, lo ammira ancora di più come uomo: «Mi è stato sempre vicino, in tutti i momenti difficili, soprattutto dopo l’incidente». L’incidente è un capitolo delicato e doloroso. «Era il 14 marzo 2009». Di sera Renzo riceve la telefonata che ogni padre teme: Andrea in Austria aveva fatto un volo di venti metri con lo snowboard, era in rianimazione. «È stato il momento più difficile della mia vita, in due secondi ho preso l’elicottero, l’aereo ed ero già all’ospedale. Ho usato tutti i mezzi a mia disposizione per aiutarlo, anche un po’ di cattiveria e non mi pento». Quando si è svegliato dal coma, è stato il padre a raccontare al figlio cosa era successo. Gli è stato accanto nella lunga riabilitazione, al lavoro aveva dato istruzioni precise: chiamatemi solo se prende fuoco l’azienda. Andrea la racconta così: «Quando riapri gli occhi e vedi i tuoi genitori al tuo capezzale, quella immagine ti resta impressa nel corpo». Oggi Renzo è orgoglioso soprattutto di una cosa: «Andrea è un ragazzo educato. Quando mi dicono che è umile, che è una bella persona, io sono confortato, perché educare è difficile e forse ci sono riuscito». I regali a cui tiene di più non si possono comprare: «Sono le lettere che mi scrivono i miei figli a Natale. Le aspetto sempre, più di ogni altro dono».

INSEPARABILI! VALENTINO E GIANCARLO GIAMMETTI MEMORIES. Serena Tibaldi per “la Repubblica” il 24 agosto 2019. Chiunque in passato abbia avuto a che fare con Valentino lo ha imparato: non era lo stilista quello da temere, ma Giancarlo Giammetti. Era con lui, implacabile "protettore" del sarto e della maison, che non si scherzava mai. «Avevano ragione! Giancarlo riesce a cogliere il minimo sbaglio nel lavoro di tutti, e pretende sempre la massima professionalità. Anche con la stampa è sempre stato molto duro, ma chi non lo sarebbe quando a volte le opinioni espresse sono superficiali e affrettate? Però i nostri dipendenti lo hanno sempre adorato, perché capivano che lo faceva per coinvolgerli in un progetto in cui serviva dare il massimo». È lo stesso Valentino Garavani, dallo yacht nel Mediterraneo su cui si trova, a confermare la leggendaria inflessibilità del socio e compagno. Inutile dirlo, i due stanno passando le vacanze assieme. Nessun dubbio nemmeno sull' affetto che li lega ai loro dipendenti. La prova la si è avuta lo scorso luglio, quando sui social sono comparsi i video della sfilata di haute couture del marchio a Parigi. Lo stilista Pier Paolo Piccioli è uscito in passerella assieme a tutte le sarte, e non appena le veterane dell' atelier hanno scorto Valentino e Giammetti in prima fila, gli sono letteralmente saltate al collo con un entusiasmo che ha commosso tutta la sala. Loro per primi. «Non riuscivo a controllare le emozioni », ammette lo stilista. «Piangevano tutti, da Gwyneth (Paltrow) a Céline (Dion) a Naomi (Campbell). È stato un gesto spontaneo che per me ha un grande significato: senza i miei collaboratori il lavoro non sarebbe stato lo stesso». Valentino e Giammetti sono inseparabili da sempre; sin dal loro primo incontro a Roma, in via Veneto, nel 1960. Il primo, nato nel 1932, è un giovane designer nemmeno trentenne dal talento sconfinato, l' altro, dieci anni di meno, non ha ancora idea di cosa fare della sua vita. «Ho studiato in un collegio di preti, poi ho iniziato architettura, poi ho conosciuto Valentino, e la mia vita ha preso una direzione che mai mi sarei immaginato. Ero talmente giovane...» ricorda Giammetti. I due capiscono di essere esattamente ciò di cui l' altro ha bisogno: la loro storia d' amore dura 12 anni, ma il legame tra loro diventa sempre più saldo. «Ammiro la sicurezza con cui può dirigere un impero », spiega il couturier. «Conosce davvero ogni dettaglio perché nella vita ha fatto tutto, salvo cucire gli abiti. Quello che amo meno di lui? Il suo cambiare idea continuamente». Risposta simile per Giammetti: «Ammiro all' infinito il suo coraggio e la sua determinazione. Vorrei magari che fosse più paziente». Il loro ménage è subito chiaro: Valentino si dedica al lato creativo, Giammetti pensa a tutto il resto. Funziona. «Eravamo giovani e senza grandi obiettivi, il successo è arrivato quasi da solo: prima in America e solo poi in Italia», ricorda oggi lui. «Un giorno, verso la fine del 1962, Vogue USA ci dedicò la copertina», prosegue Valentino. «Capii che forse era arrivato il mio momento. Diana Vreeland, che dirigeva il giornale, ci aveva preso in gran simpatia, ci chiamava "the boys". Lei ci insegnò l' eleganza, il saper ricevere. Dopodiché arrivarono le donne più influenti di New York, poi fu la volta di Jackie Kennedy, e il resto venne da sé». Una cosa però è arrivare al successo, un' altra mantenerlo. Ed è qui che la loro gestione si rivela vincente: stanno un passo avanti agli altri, anche a costo di andare contro la tendenza dominante; come quando nel 1968, in piena epoca psichedelica, Valentino presenta una collezione completamente bianca. «Non è tanto l' andare controcorrente, quanto il conoscere la corrente da seguire», riflette Giammetti. «L' abilità nel creare abiti è inutile se non riflette il momento in cui si vive: noi italiani abbiamo riscritto il sistema moda, e nel farlo abbiamo tutti rischiato. Oggi non saremmo dove siamo se non avessimo inventato nuovi linguaggi nella pubblicità, nel marketing, nel retail, nel prêt-à-porter». Viene allora naturale chiedere loro un pensiero su ciò che sta accadendo oggi nel "loro" mondo. «Rispondo io perché forse sono quello che segue di più i giganteschi cambiamenti che avvengono quotidianamente », prosegue Giammetti. «Valentino ha lasciato la moda quando entrambi abbiamo capito che certe evoluzioni non facevano per noi. Non discuto ciò che viene presentato, ma il sistema, così crudele e spietato nel creare talenti e nell' abbandonarli con la stessa facilità. Siamo arrivati alla saturazione di un mercato basato sull' immediato, su prodotti da avere subito, sul principio del comprare anche ciò che non si ama ma che "bisogna" avere. E le case di moda devono correre dietro a ogni nuovo input dato da ragazzini di 20 anni che non hanno nessuna cultura. E così si disegnano incredibili collezioni di alta moda per poi vendere scarpe da ginnastica ». Ha ragione Giammetti: i tempi sono cambiati, ma la loro uscita "tecnica" di scena è coincisa con l' ascesa al ruolo di icone universali, e non più solo di moda. Merito del documentario del 2009 di Matt Tyrnauer, Valentino - The Last Emperor , girato nel 2007 durante le celebrazioni per i quarantacinque anni della maison (e per il ritiro del sarto) e che ha mostrato al grande pubblico anche la profondità del loro rapporto. «Quello che mi ha toccato di più nell' immensa dimostrazione d' affetto provocata dal film è che, grazie a esso, un certo mondo nascosto ha trovato il coraggio di dire "ti amo" a una persona dello stesso sesso. E la gente per questo ci ringrazia ancora oggi».

IL SESSO DELLA MODA È DA SEMPRE GAY. Quirino Conti per DAGOSPIA l'8 agosto 2019. Girarci attorno con aria pudibonda e suffragista è persino ridicolo: il sesso della Moda non è da sempre che verde; come quel garofano esibito allusivamente all’occhiello da Oscar Wilde. E in quota verde sopravvivono ormai i residui esemplari di stilisti non ancora fatti fuori dall’agguerrita invadenza di ex assistenti professioniste per decenni in lamentose quote rosa. Nonostante la stessa idea platonica del mestiere sia sempre e ancora configurata sul prototipo Valentino, e i coming out di Versace, Dolce & Gabbana e Armani – solo per citarne alcuni – abbiano reso pressoché insostituibile nello Stile quel certo genere di plastica identità. Del resto, nei due cicli che vanno dal 1919 al ’39 e dal 1940 ai ’90, solo un pugno di nomi rilevanti era retto a Parigi da “creatrici”. Che tuttavia, al nascere, nonostante il fasto e l’internazionalità, assai poco differivano per sostanza dal modello Sorelle Materassi descritto da Palazzeschi: come le più diverse “Sorelle” artigiane del gran lusso sostenute da schiere di giovanottini ipersensibili nell’ombra, prima che la professione richiedesse una struttura più intellettuale e autori provati. Ora la svolta, soprattutto dopo l’avvento degli elefantiaci grandi gruppi: che non avendo alcuna disposizione culturale per lanciare nulla e nessuno, per stretta ottusità burocratica arraffano dal cassetto di casa quel che vi trovano – persino del pane raffermo – non volendo lasciare vuota una poltrona neppure per un semestre. Altre erano le storie di chi arrivava a Roma, Firenze e Milano (come pure a Parigi) con il cosiddetto sogno nel cuore e nelle carni; riuscendo a spuntare dal nulla dopo protratte e anonime esperienze fino a divenire tutto quel che ci racconta la storia del made in Italy. E non c’era giornale di moda che non coltivasse con stupore e ammirazione questi centauri dello Stile: eccezionalmente capricciosi ma pure gentili, generosi, intelligenti, e talora persino bellissimi e ricchi. Comunque anomali e diversi, in uno specifico già presente nel cinema, in letteratura, così come nelle arti in genere. Fino a vere genialità: come Armani, ad esempio, soffocato a ogni passo da adepte e vestali. Intanto che Mariuccia Mandelli (in arte Krizia) lagnava una solitudine impietosa; guardata dall’ufficialità dell’ambiente con simpatia ma pur sempre come un’intrusa. E tale appariva stando agli standard del tempo. Quando agli applausi non si voleva altro che la fragilità intenerente di un poeta à la Yves Saint Laurent; anche allo stremo (oh, le mamme!). Giacché persino quelle sussurrate abitudini notturne divenivano amabili agli occhi di coltivate signore in genere con noiosissime figure maschili accanto. Ora, invece – salvo rare e preziose eccezioni: dal codice Prada alla scuola romana di Fendi, al virtuosismo di Sarah Burton, Simone Rocha e di poche altre –, perlopiù loquaci badesse, volenterose veterane della fotocopia. Mentre tutto si spegne in un regime segnato ormai da sparuti esemplari in quota verde. E persino in Vaticano, allarmati, si cerca un qualsiasi alibi pur di arginare lo scalpitio di impetuose Superiore desiderose solo di divenire diaconesse. Ma per i fallocratici Signori della Moda tutto questo ha poca importanza: basta far girare un fatturato da un marchio in perdita all’altro.

Donatella Versace: «Il nero è democrazia, protesta, sensualità. Quando lo indosso lancio un messaggio». Pubblicato sabato, 10 agosto 2019 da Maria Teresa Veneziani su Corriere.it. E se il fluo fosse un abbaglio? L’attrazione per il nero è inesorabile e crescente. Il nero di Amleto è malinconia, ma per la moda è tutto. Donatella Versace, regina del genere, lo spiega a «7», il magazine del Corriere della Sera del venerdì numero #32: «Il nero è come un’armatura: è democratico, è protesta, è sensualità. Potrei andare avanti per ore. Va oltre mode e stili. Paradossalmente, essendo Versace noto soprattutto per le sue stampe, il nero per me resta il colore. Nel tempo, ha assunto significati diversi, a volte contraddittori: sinonimo di mistero, dell’assenza ma anche della presenza. Nella lingua hindi, infatti, il nero è kala che significa, tempo, eterno. Rappresenta ciò che sfugge, come le ombre, è l’ultimo colore della scala cromatica classica, ma volendo ribaltare il concetto, come piace a me, ne diventa il primo». 

Donatella lo sceglie in base a...?

DV: «All’umore, a ciò che devo fare quel giorno. All’interno dell’azienda ricopro ruoli diversi e desidero essere adeguata alla situazione, a proposito del significato sociale del vestito... Quando scelgo un abito dal taglio sartoriale voglio evidenziare il lato più legato al business, quando metto una gonna di pelle o un abito con i Safety Pin, le spille, è perché ho voglia di mettere in risalto il mio lato femminile. Ma trovo che una giacca nera dal taglio maschile e sartoriale su un abitino nero sia molto sensuale, il simbolo della donna d’oggi». 

Lei veste di nero molti personaggi, sono loro a richiederlo?

DV: «A volte sì, ma una collezione – a meno che si tratti di un su misura – non nasce per compiacere i famosi, ma per la gente “vera”, quella che entra nei negozi. Oggi a dettare le regole non sono più gli stilisti, ma il mercato. Quindi il nero, come un altro colore, diventa una scelta che dice qualcosa di sé stessi. Indosso il nero perché rispecchia il mio stile, il mio stato d’animo o perché attraverso questo colore voglio lanciare un messaggio. È accaduto con i red carpet dei Golden Globes del 2018 che segnarono la nascita del movimento #metoo. Il nero divenne il simbolo di una protesta sociale, un modo per comunicare al mondo la volontà di prendere le distanze da certe situazioni che non andavano più accettate». 

Il nero funziona sul red carpet?

DV: «Si diceva che il nero non fosse un colore adatto al red carpet. Poi mi vengono in mente così tanti momenti iconici legati a un abito nero e rafforzo sempre di più la mia idea che le regole, in certi casi, lascino il tempo che trovano: parlo, ad esempio, di Liz Hurley quando ha indossato l’abito Safety Pin, che credo sia l’unico vestito ad avere una sua pagina Wikipedia, ma anche ad Angelina Jolie che ha fatto degli abiti non solo delle affermazioni di stile, ma soprattutto della sua personalità forte; da quello di pelle nera fino a quello del 2012 che ha spopolato sul Internet dal cui spacco si intravedeva una delle sue gambe meravigliose, ma anche a quello che Jennifer Lawrence ha indossato a Mosca e che le ha attirato molte critiche in quanto, secondo alcuni, troppo scollato per il clima russo. Lei avrebbe risposto che pur di indossare quell’abito sarebbe stata a piedi nudi nella neve! A proposito di donne di carattere e personalità... ».

Il nero assorbe la luce? È tornato anche per il giorno o si rischia di essere funerei?

DV: «Il nero assorbe la luce...dipende... Durante la mia ultima sfilata, in passerella ho mandato Irina (Shayk, ndr) in un abito di seta nero che tutto faceva fuorché assorbire la luce, così come quello che indossavano Vittoria (Ceretti) e Stephanie Seymour. Ciò che sto cercando di dire è che ogni colore presenta le sue sfide. Ha i suoi punti di forza che dobbiamo sapere giocare a nostro favore. Paradossalmente, proprio per il fatto che il tubino nero — quello da giorno — sia così popolare, è uno di quei capi con cui ogni stilista deve prima o poi confrontarsi». 

Come si fa a rendere attuale qualcosa che fu creato all’inizio del secolo scorso ed era già perfetto così com’era come il petit robe noir?

DV: «Io amo queste sfide e credo di dare il meglio di me proprio quando mi mettono davanti a una domanda che apparentemente non ha risposta. Ecco che allora all’interno dello spacco aggiungo un dettaglio plissettato, magari di un tessuto diverso, che si vede solo quando cammini, o faccio un taglio strategico che lasci intravedere un po’ di pelle, ma lo chiudo con dei Safety Pin oro; oppure metto una greca sui colletti o sull’orlo. È questa la risposta giusta? Non lo so, me lo dirà la gente quando entra in negozio. Senza dubbio, il nero non fa sembrare funerei...anzi!».

Resta il fatto che il nero è poco Instagrammabile... 

DV: «Ciò che di fondamentale hanno fatto i social media è stato dare voce a tutti. Ci hanno offerto la possibililtà di confrontarci con infinite culture. Il fatto che Instagram prediliga i colori non credo abbia alcuna influenza sul nero. Alcune delle immagini più belle mai scattate sono in bianco e nero». 

Il nero è stato simbolo della fine del Millennio. Che epoca è questa dal punto di vista del colore? 

DV: «Credo che il colore di questa epoca sia in realtà l’arcobaleno, tutta la gamma cromatica dei colori. Con il fascino del nero che trascende le epoche da quando Coco Chanel creò la Petite robe noire agli inizi del 1900. La moda non vive nel vuoto. È lo specchio della società che la crea. E oggi è in piena rivoluzione, è in un divenire continuo che non si è ancora assestato, ed è per questo che concetti come trend hanno perso di significato. La nostra è una società che ha fatto della diversità e dell’individualità i suoi baluardi. Ci ha fatto capire che essere diversi, non volersi omologare, non è una debolezza, ma ciò che ci rende unici. È una società che ha bisogno di far sentire la propria voce, quella dei giovani che protestano perché i governi non li ascoltano, perché stiamo tornando indietro invece che andare avanti, ci stanno togliendo diritti per cui abbiamo lottato a lungo». 

C’è chi dice che il nero invecchi... Mentre il bianco toglie qualche anno...

DV: «Ognuno è libero di pensarla come crede, ma ho visto Madonna a New York (Donatella l’ha vestita per il tour, ndr) e sono rimasta colpita dal contrasto tra la splendida pelle diafana e l’abito nero. Non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Non ci sono tante donne che mi fanno questo effetto». 

Per Rey Kawakubo il rosso era il nero, ma questa volta ha fatto una sfilata gotica tutta in nero. È la prova del ritorno del nero?

DV: «Io credo che il nero non sia mai andato da nessuna parte! Parlando di Rei Kawakubo poi non dimentichiamoci mai che la sua prima sfilata di prêt-à-porter a Parigi lasciò tutti a bocca aperta perché mandò in passerella una carrellata di abiti neri, asimmetrici e strappati, realizzati con tessuti maschili che contrastavano nettamente con lo stile edonista degli anni ‘80. È una stilista che ammiro da sempre, perché la sua moda, come quella di mio fratello e, credo, in parte la mia, è fatta per esporci all’immediata reazione del pubblico, per sovvertire le regole con ogni capo, per lo studio dei volumi e il gioco di contrasti. Ovviamente, l’estetica di Versace non ha nulla in comune con quella di Comme des Garçons, se non, appunto, lo spirito sovversivo e di noncuranza delle regole...»

Perché sia per lei sia per suo fratello Gianni è sempre stato così importante rompere le regole?

DV: «Perché le regole ti legano a un concetto e non ti permettono di evolvere. Ovviamente parlo di moda in questo caso. Andare contro corrente, contro il pensiero condiviso non è mai stato facile e ti espone a critiche feroci. Ma allo stesso tempo non si può andare contro la propria natura? Io non sono fatta per dire che mi va bene tutto così com’è se penso che si possa fare un passo avanti o guardare la stessa cosa da una prospettiva diversa. Solo rompendo le regole e andando oltre i tabù siamo arrivati dove siamo oggi, non dimentichiamocelo. Se tutti avessimo accettato lo status quo saremmo ancora nel Medioevo... ».

Com’è l’armadio di Donatella? 

«La mia cabina è tutta bianca e molto minimal. Sembra strano, lo so, ma sono una contraddizione vivente. Sono molto ordinata, ai limiti della follia. Tutto deve essere perfetto. Gli abiti separati dalle scarpe e dalle borse. E suddivisi per tipologie: corti, da sera, maschili, da giorno e da cocktail, camicie. E poi ordinati per colore. Quando la gente leggerà questa intervista forse qualcuno mi farà rinchiudere: portatemi le arance, e i miei tacchi! Scherzi a parte, entrare nel mio armadio è come entrare nella mia mente. Sono molto organizzata al limite dell’ossessione, non mi piace perdere tempo. Devo avere tutto sotto controllo, incluso l’abito nero che voglio mettere ora».

Jacob Bernstein per The New York Times pubblicato da La Repubblica l'1 luglio 2019. Donatella Versace dice che dopo A Star Is Born , l'anno scorso, non ha più visto altri film. È appassionata della serie Hbo Big Little Lies - Piccole grandi bugie, si è divorata The Society della Netflix e ha un nuovo libro preferito, il rapporto Mueller. Fa fatica a capire alcune delle conclusioni e delle scoperte dell' inchiesta sull' interferenza russa nelle presidenziali del 2016. Continua a sottolineare cose, chiedendosi (come le capita spesso) se il problema non sia la sua padronanza dell' inglese. Ma di Robert Mueller, il procuratore speciale, dice: «C' è qualcosa, negli uomini di legge, che trovo affascinante. Lo guardi e sai che sta dicendo la verità». E poi, ammette, «è un bell' uomo». «Ma questo non lo scriva, o mi gioco il visto». È giovedì pomeriggio e Donatella Versace è appollaiata su un divano nella dorata e versacesca suite dell' albergo Midtown Manhattan dove soggiorna mentre è a New York come Stonewall Ambassador. Indossa dei pantaloni a quadri blu e arancioni presi dalla collezione Versace primavera 2019. La sua maglietta bianca è adornata con una bandiera arcobaleno fatta con cristalli di Swarovski, con al centro il logo della sua società. I gioielli che indossa sono essenzialmente tutti d' oro. Lo scorso anno ha venduto la sua azienda a Michael Kors per 2,1 miliardi di dollari, secondo quanto riferito, ma nonostante questo è arrivata a New York con un volo di linea Emirates. «Un volo commerciale», dice Versace, che rimane la direttrice creativa della sua etichetta. «Volo sempre con voli commerciali». Venerdì aveva in programma un' apparizione allo Stonewall Inn per un evento in commemorazione del cinquantesimo anniversario della famosa rivolta omosessuale. Ieri si era impegnata a sfilare al gay pride a bordo di un carro. E poi, «ovviamente », aveva programmato di andare a vedere lo spettacolo di Madonna al Pier Dance. Madonna ha una lunga storia con l'etichetta Versace: comparve per la prima volta in una campagna Versace nel 1995, quando Steven Meisel la fotografò come se fosse Donatella. All' epoca il fratello di Donatella, Gianni, era lo stilista capo dell' azienda. La sorella più giovane era la party gir l, la presenza fissa in prima fila, quella che faceva gli onori di casa e accompagnava le celebrità alle sfilate. Aveva i capelli che le arrivavano alla vita, indossava vestiti attillati pieni di borchie e mostrava il décolleté. E così il fotografo aveva fatto vestire Madonna. Nel 2015, 18 anni dopo la morte di Gianni, Madonna tornò per un' altra campagna: questa volta rese omaggio alla Donatella manager, leccando buste e mettendo i piedi sul tavolo mentre digitava su un computer Apple. Che cos' è il potere vero nel mondo della moda se non la capacità di assumere una delle maggiori celebrità mondiali per impersonarti? Ma c'è anche chi lo fa gratis. Versace non può quasi mettere piede fuori di casa senza che una drag queen la avvicini per ringraziarla dell' ispirazione che le offre. Lo attribuisce, fra le altre cose, alla sua «accettazione» degli altri, che sanno istintivamente che possono avvicinarla senza essere trattati male. «Gli dico. "Ciao, sono Donatella", e loro "Aaah!"». Ma è anche il suo aspetto. «La pettinatura, il trucco, i vestiti», dice. «Sono una che non passa inosservata». È stato Gianni ad avviarla su questa strada. Quando aveva 11 anni, le disse due cose importanti: che lui era gay e che lei doveva diventare bionda. Lei acconsentì e quello fu il suggello al loro cammino insieme. Quando divenne evidente che essere gay rappresentava un impedimento per vivere in Calabria, Gianni si trasferì a Milano, e lei lo seguì. Negli anni '80 la moda era un settore dove gli uomini omosessuali erano più o meno accettati. Ma vivere la vita apertamente per il fondatore della griffe non era comunque facile. «Nostro padre era un uomo molto distante», dice Donatella. E infatti con lui Gianni non uscì mai allo scoperto. Quando Gianni era vivo, lui e Donatella a New York andavano alle serate gay. Dopo la sua morte, nel 1997, Donatella prese in mano le redini dell' azienda e divenne l' orgogliosa campionessa dell' opulenza italiana. Anche in clinica di disintossicazione, dove andò nel 2004 per risolvere la dipendenza dalla cocaina, la sua principale lamentela riguardava il guardaroba. «L' unica cosa che mi mancava erano i tacchi alti», racconta Versace, che da allora non ha più avuto ricadute. Non ha gradito la scelta di Ryan Murphy di rivisitare il passato, l' anno scorso, con L' assassinio di Gianni Versace , seconda stagione della serie American Crime Story, quindi non ha visto Penélope Cruz nei suoi panni. Donatella dice che ci sono alcuni «errori» nella serie, ma non entra nello specifico. Vista di persona Donatella Versace è decisamente più sobria. L' abbronzatura è meno pronunciata e i capelli scendono non più giù delle spalle. Anche le sigarette sono sparite. «Due pacchetti di Marlboro al giorno», dice. Ha smesso cinque anni fa, quando un medico le ha detto che non solo sarebbe morta per il fumo, ma che non voleva più averla come paziente, se non avesse smesso. Ha trovato seducente che qualcuno avesse il coraggio di dirle di no. «Nessun altro lo ha mai fatto», dice.

IL TESTAMENTO DI DOLCE E GABBANA. Daniela Polizzi e Isidoro Trovato per corriere.it il 7 ottobre 2019. In un trionfo di jungle, soggetti animalier e pizzo nero si sono lasciati alle spalle la settimana milanese della moda con l’ultima delle oltre 300 sfilate, tra Alta Moda e altre collezioni, che hanno marcato i 35 anni del loro sodalizio stilistico. È stata una nuova occasione non solo per dimostrare la loro creatività che sfida mode e tendenze, ma anche per fare emergere gli antichi saperi degli artigiani e delle 200 aziende terziste che lavorano per il gruppo. Una realtà che dà lavoro a circa 25 mila persone, tra terzisti e fornitori. Per Domenico Dolce, 61 anni, e Stefano Gabbana, 57, è però anche il momento per prendere il polso del mercato. «Siamo stati sorpresi da Paesi come Brasile e Messico che corrono molto più del previsto — dicono —. Ma anche la Cina si sta riprendendo. Dopo gli errori le cose si fermano ma poi tutto ricomincia. I nostri abiti restano un sogno tutto italiano per i nostri clienti nel mondo». Quando i sogni si traducono in business, i numeri dicono che Dolce&Gabbana è arrivata a 1,349 miliardi di ricavi, l’80% all’estero, e una rete di 220 negozi monomarca gestiti direttamente e 80 in franchising, più 300 clienti multimarca. L’ecommerce ora è uno dei traini: vale il 6% e l’obiettivo è arrivare al 15% . La leggenda dice che non avete litigato mai nel lavoro in tutti questi anni. Mai pensato di andare ciascuno per la sua strada?

DOLCE: «C’è affetto, grande rispetto e stima. Abbiamo gli stessi occhi, vediamo le stesse cose, vediamo il ruolo dell’imprenditore nello stesso modo. E poi, noi siamo un po’ come la Coca Cola, non possiamo scindere i due nomi, da separati il nostro lavoro perderebbe senso».

Come avete iniziato?

DOLCE: «Ci conosciamo dal 1980, due anni dopo abbiamo iniziato assieme come consulenti per clienti come Marzotto, Max Mara, Lebole, facevamo 13 consulenze a stagione. Forse non sempre le persone sono state oneste con noi. Ma noi avevamo un sogno. Lavoravamo assieme nello studio dello stilista Giorgio Correggiari, ci siamo staccati e nel 1984 abbiamo fondato la Dolce&Gabbana. Io ero figlio d’arte, mio padre faceva il sarto a Polizzi Generosa dove sono nato, mia madre dava una mano nell’emporio di abbigliamento e tessuti».

GABBANA: «Siamo partiti con 2 milioni di vecchie lire, mettevamo via i soldi per rinvestirli nell’attività, nel nostro progetto di bellezza. All’inizio ci consigliavano tutti di farci prestare i soldi dalle banche ma l’idea ci faceva paura. Così, tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo finanziato da soli e siamo molto felici. Arrivo da una famiglia semplice. Mia madre faceva la portinaia e mio padre l’operaio a Milano. Loro mi hanno tramandato valori forti che ho trasmesso all’azienda. Non immaginavamo di costruire tutto questo, volevamo solo confezionare dei bei vestiti, facendolo bene, con amore. Tutto quello che ci circonda lo abbiamo realizzato noi, dalle tazzine, ai quadri fino ai mobili e ai vestiti».

Come funziona il sistema Dolce&Gabbana?

DOLCE: «Il punto di partenza è un modello di artigianato e industria, tradizione che cuce assieme innovazione, digitale e tecnologia. Diamo direttamente lavoro a circa 5.500 persone, che diventano circa 25mila con l’indotto. Abbiamo quattro poli produttivi nel gruppo, tutti in Italia, a Legnano 745 persone, a Incisa Val d’Arno 380, a Lonate Pozzolo 300 e a Sarmeola di Rubano 178. È il cuore dell’attività, la parte creativa, artigianale e umana sulla quale abbiamo investito fin dal 1984, quando è nata la Dolce&Gabbana. Ai nostri manager diciamo sempre che possono tagliare dovunque ma non lì perché quello rappresenta lo spirito dell’azienda, la cultura, la storia e il sogno che vogliamo trasmettere, come impresa e come famiglia. I manager hanno una visione di breve termine, non gestiscono un’impresa di loro proprietà, puntano ai risultati e anche ai loro guadagni. Ma non sono imprenditori. La guida operativa del nostro gruppo è affidata ad Alfonso Dolce, mio fratello, un manager di famiglia».

GABBANA: «A noi interessa l’anima dell’azienda. Siamo unici perché abbiamo costruito un‘impresa indipendente che non appartiene ad alcun gruppo, ormai ce ne sono pochissime nel mondo».

Producete davvero tutto in Italia?

GABBANA: «Assolutamente sì. Per noi sono cruciali le 200 aziende terziste che lavorano per il gruppo. Ci è anche capitato di acquisire alcune realtà perché c’era il rischio che fallissero e che noi perdessimo le loro competenze. Di recente è successo in Veneto, a Sarmeola di Rubano, con una realtà che produce i nostri abiti sartoriali e su misura».

DOLCE: «Ma c’è un trend nuovo, un ritorno dell’attenzione per l’artigianalità, lo si vede dall’interesse dei giovani per questo mestiere, molti di loro sono italiani. Fino a 5-6 anni fa era difficile trovarli. Allora all’interno del gruppo abbiamo creato le Botteghe di Mestiere, insegniamo a cucire, ricamare, stirare e la modelleria. Circa il 70-75% di quei giovani che hanno tra i 20 e i 25 anni vengono poi assorbiti in azienda. Abbiamo i nostri maestri interni e così teniamo in vita il mestiere e la tradizione». C’è chi pensa però che per essere forti sui mercati globali sia indispensabile arrivare a una certa dimensione di fatturato, anche nel settore della moda dove ci sono grandi gruppi come Lvmh.

DOLCE: «Non tutti i Paesi sono uguali, l’errore più grande è accumunare il nostro agli Stati Uniti o alla Francia. L’Italia è fatta di eccellenze irripetibili, di piccole e medie imprese, di città come Venezia e Firenze, ora anche Milano, di prodotti unici come il Parmigiano e realtà come la Ferrari e la Ferrero. L’Italia è una multinazionale che comprende migliaia di marchi».

GABBANA: «L’Italia è fatta di Caravaggio, Leonardo, Galilei. Ha un Dna artistico che non esiste altrove. Non dobbiamo avere il complesso di essere italiani, perché chiunque nel mondo cerchi bellezza viene nel nostro Paese. Il nostro compito è rilanciare la creatività, che è la nostra vera ricchezza, come ai tempi del Rinascimento. Dovremmo smetterla di volere essere un Paese-azienda, come alcune economie basate sul mass-market. La nostra fortuna sono gli artigiani, dobbiamo sostenerli. L’Italia li ha troppo spesso messi da parte per inseguire un modello che non è il suo».

La Brexit, il rallentamento in Germania, i dazi tra Stati Uniti e Cina quanto influiscono sulla vostra attività?

GABBANA: «Andiamo benissimo in Brasile e Messico. Se c’è rallentamento in certi mercati noi compensiamo con la crescita in altri. Un reset dei consumi è sempre da mettere in conto a livello globale».

Come vi immaginate il futuro del gruppo? Ipotizzate un passaggio generazionale per preservare il vostro lavoro e le persone che ci lavorano?

GABBANA: «La nostra idea è proprio di lasciare spazio agli altri che lavorano con noi, dipendenti e famiglia. Il mio modello è Hermès, dove la dinastia è tornata in forza al timone e non si è affidata ad altri stilisti. Oppure, in altro settore, come la Ferrero. Passano le generazioni e la famiglia resta. Noi lasceremo un Dna al nostro gruppo di lavoro, cioè ai nostri stilisti interni che sono il cuore dell’azienda e lavorano con la nostra piena fiducia. Poi c’è la famiglia, i fratelli di Domenico: Alfonso e la sorella Dorotea».

DOLCE: «Ho già due nipoti nel gruppo. Christian e Giuseppina, i figli di Dorotea, che hanno circa 40 anni. Il primo è a capo degli accessori mentre la seconda guida l’Alta Moda. Dopo di noi preferiremmo che non arrivasse lo stilista straniero che cambia tutto, il nostro desiderio è che ci sia continuità. Vogliamo lasciare dei codici alla famiglia che potrà reinterpretarli. Ma nello stesso tempo vorremmo lasciare spazio ai giovani che già lavorano qui affinché Dolce&Gabbana non diventi un marchio morto. Dopo di noi toccherà a loro raccontare nuove storie ai clienti, narrare se stessi con la loro personalità ma i nostri codici. Con disciplina e rigore».

Che cosa chiedete come supporto al Paese?

GABBANA: «Di essere un po’ più patriottico, ma senza colore politico. Non chiediamo aiuti ma la semplificazione del lavoro, l’eccesso di burocrazia. Vorrei che si desse supporto agli artigiani che non riescono a campare. Sono loro che realizzano per i nostri abiti gli uncinetti, fatti a mano soprattutto nel sud dell’Italia. Ma sono talmente tassati che a volte ci dicono di non poter più lavorare per noi. Questo vuol dire rinunciare all’eccellenza, fare un regalo ai Paesi che ci copiano e perdere il vantaggio competitivo».

Ci sono stati momenti di discontinuità nella strategia?

DOLCE: «Sì, ma non tra noi due. Nel 2010 quando abbiamo deciso di tagliare la linea D&G. Avevamo in testa da tempo di fare un po’ di pulizia tra i nostri marchi. Eravamo convinti che, per fare un salto nell’alta moda non potevamo mantenere una linea di grossa diffusione appunto come D&G. Era il 2010, abbiamo ingaggiato esperti di marketing, consulenti, speso un sacco di soldi. Erano tutti contrari a sacrificare una linea che aveva un enorme successo. Ci dicevano che l’alta moda era solo in Francia ed elencavano una serie di stereotipi banali».

GABBANA «Non avevano la visione. Noi sapevamo invece che l’intuizione era giusta. Abbiamo avuto il coraggio di rinunciare a 3 milioni di capi a stagione. In pochi anni abbiamo recuperato le vendite e non abbiamo licenziato nessuno. Volevamo alzare la percezione e il livello del marchio e il tempo ci ha dato ragione. In un grande gruppo non ce lo avrebbero lasciato fare perché i manager vorrebbero sempre i capi che hanno venduto di più nella stagione precedente. Anche quando le grandi realtà straniere ci volevano comprare abbiamo deciso noi di non cedere».

Quando è successo?

DOLCE: «Tra il 2002 e il 2005 sembrava di giocare al Fantastilista. Piovevano offerte miliardarie. Ci siamo detti, perché rischiare di essere mandati a casa? Non ci interessava andare in vacanza per sempre, volevamo lavorare. Poi trovo che la globalizzazione nella moda sia stata un fallimento totale. Noi per primi ci credevamo quando abbiamo iniziato con D&G. L’importante è invece mantenere le proprie origini ed esserne orgogliosi. Io sono nato a Polizzi Generosa, in Sicilia, porto con me quelle radici ovunque nel mondo e per quelle sono rispettato.

La globalizzazione ha spazzato via i prontisti, le piccole aziende che producevano e davano lavoro in Italia, interi distretti tra Prato e Como sono andati in crisi, a Biella sono rimasti solo quattro produttori di tessuti. Bisogna salvare le aziende se vogliamo salvare anche le nostre periferie, creare occupazione e dignità. Se consumiamo prodotti realizzati in Paesi a basso costo della manodopera togliamo ai nostri figli la possibilità di avere un lavoro domani».

Chi vi dà la bussola sui mercati?

GABBANA: «I clienti prima di tutto. Parlando con loro è per esempio venuta l’idea di estendere alcune collezioni fino alla taglia 54 nella Donna e fino alla 60 nell’Uomo, perché nel mondo ci sono esigenze diverse e noi lavoriamo sullo scacchiere globale».

DOLCE: «Un’occasione unica sono le sfilate, un vero cantiere che muove circa 3 mila persone».

Stromboli, Dolce e Gabbana vendono la villa a picco sul mare. Sin dagli anni '90 la dimora estiva dei due stilisti aveva ospitato anche le star, da Madonna a Naomi Campbell. Arredata nell'inconfondibile stile D&G. La Repubblica il 23 luglio 2019. Domenico Dolce e Stefano Gabbana vendono la loro villa a Stromboli, una delle isole più belle dell’arcipelago siciliano delle Eolie. A darne notizia l'immobiliare Lionard Luxury Real Estate, che i due stilisti hanno incaricato in esclusiva. "La proprietà - si legge sul sito della società di real estate - gode di una posizione unica sul mare, con una vista mozzafiato sia sull’isolotto di Strombolicchio sia sul vulcano chiamato dagli abitanti Iddu ("Lui", ndr) noto in tutto il mondo per la sua “Sciara di fuoco” che illumina le notti stellate".

Prezzo riservato e arredi unici. Lionard Luxury Real Estate, fondata nel 2008 dall’imprenditore Dimitri Corti, ha nel suo portfolio 2.829 proprietà immobiliari, con un valore medio di di 4,93 milioni di euro, per un valore complessivo di 13,93 miliardi. Il prezzo è naturalmente riservato, ma Luxury mette a disposizione dei curiosi una ricca galleria fotografica e una dettagliata descrizione della "dimora", situata in "posizione di assoluta tranquillità". Nasce, spiegano i venditori, "dalla fusione di tre abitazioni tipiche delle Eolie e segue l’andamento della costa frastagliata di rocce vulcaniche"; circondata da terrazze e giardini lussureggianti, con piante tipiche della macchia mediterranea, permette di vivere a diretto contatto con la natura dell’isola". Raggiungibile, viene precisato, "con l'elicottero, oltre che in barca". La metratura non è esagerata: poco più di 500 metri quadrati, di cui "235 di interni con sette suite, ognuna di un colore diverso, e 300 di verde". Dolcce e Gabbana l'hanno ristrutturata ovviamente nel loro stile, "con la stessa passione che mettono nel disegnare i loro abiti: nei magnifici arredi pezzi unici e tessuti della maison si combinano con l’artigianato locale (dalle maioliche dipinte a mano alle tende in pizzo), creando il lifestyle unico Dolce&Gabbana". Proprio qui Dolce e Gabbana, innamorati della Sicilia da cui traggono spesso ispirazione per le loro collezioni, hanno trascorso molte estati sin dagli anni Novanta, organizzando feste memorabili e ospitando star come Madonna e Naomi Campbell. E sempre a Stromboli, nel 2014, due grandi firme del cinema, il premio Oscar Paolo Sorrentino e Paolo Virzì, hanno girato uno spot con l’attore Colin Farrell per un profumo della celebre casa di moda. A fare conoscere al mondo la bellezza di Stromboli fu l’amore tra la star hollywoodiana Ingrid Bergman e Roberto Rossellini, che nell’estate del 1949 girarono sull’isola il capolavoro "Stromboli: Terra di Dio". Tutto ebbe inizio un anno prima quando la famosa attrice scrisse una breve lettera al regista, di cui conosceva i film ma che non aveva mai incontrato. La lettera, arrivata il giorno del compleanno di Rossellini, il 7 maggio 1948, gli incendiò la mente, segnando la fine della sua relazione con Anna Magnani.

Dolce e Gabbana, in vendita la villa di lusso sull’isola di Stromboli. Pubblicato martedì, 23 luglio 2019 da Corriere.it. Sotto il Vulcano, abbarbicata su un costone di roccia, la super villa domina il mare di Stromboli e delle Eolie. Qui Domenico Dolce e Stefano Gabbana hanno vissuto le loro estati formidabili. «Arrivavano in elicottero e a volte con lo yacht – racconta la gente del posto – e la villa si accendeva come una lampada meravigliosa». C’erano feste, ritrovi e dalle terrazze panoramiche si poteva assistere ai capricci di “Iddu”, Lui, il Vulcano che di notte regalava magie straordinarie. Adesso i due stilisti hanno deciso di vendere questo gioiello e si sono rivolti a Lionard Luxury Real Estate, una delle agenzie immobiliari più prestigiose. Alla Lionard spiegano che la dimora nasce dalla fusione di tre abitazioni tipiche delle Eolie e segue l’andamento della costa frastagliata di rocce vulcaniche ed è circondata da terrazze e giardini lussureggianti, con piante tipiche della macchia mediterranea. La villa, 500 metri quadrati con sette suite ognuna di un colore diverso, è stata ristrutturata seguendo in progetto firmato degli stessi Dolce e Gabbana. Gli arredi sono pezzi unici e sono stati abbinati a maioliche dipinte a mano alle tende in pizzo dell’artigianato locale. «Il risultato è il lifestyle unico Dolce&Gabbana», spiegano all’agenzia. Proprio a Stromboli, nel 2014, il premio Oscar Paolo Sorrentino e Paolo Virzì, hanno girato uno spot con l’attore Colin Farrell per un profumo della celebre casa di moda. Il prezzo della villa è top secret con trattativa rigidamente riservata, ma secondo indiscrezioni di stampa il valore si aggira attorno ai 6,5 milioni di euro, come riporta l’agenzia Radiocor. Il prezzo vale l’acquisto. Almeno per il nababbo che deciderà di scrivere altri capitoli di storia mondana.

Dolce e Gabbana: «La nostra villa in vendita. Qui Naomi imparò a nuotare». Super-casa. Pubblicato martedì, 23 luglio 2019 da Paola Pollo su Corriere.it. Lì Naomi imparò a nuotare. Madonna invece parlava — come tutti — con Iddu, il vulcano. Come Kylie (Minogue), spirituale tanto quanto. Tom (Cruise) chiedeva ogni giorno di fare un’escursione. E tutti impazzivano, naturalmente, per la gita serale prima della consueta partita a carte (feste — leggendarie — a parte) quando con la barchetta si arrivava, dall’altra parte dell’isola, a contemplare la «sciara», il letto di fuoco. «Stromboli è stato il nostro primo grande amore. La casa che comprammo insieme quando eravamo dei ragazzacci e ora che non lo siamo più e siamo diventati grandi, abbiamo deciso di venderla: ci vuole troppa energia per viverla. Non fuggiamo, ma ci trasferiamo soltanto nella più tranquilla e contemplativa Salina. È quasi fatta mancano pochi dettagli». Domenico Dolce e Stefano Gabbana ridono all’idea che qualcuno possa pensare che la loro decisione di mettere in vendita la splendida villa di Stromboli abbia a che fare con le ultime eruzioni. «Ma Iddu parla sempre. Nessun turbamento se lo fa più o meno a voce alta, fa scena. È il suo bello. Una natura così forte, energetica. Che non può non attrarre chiunque, altro che fuggire». E i ricordi si rincorrono. «Arrivammo alla fine degli anni Novanta, ben prima del 2000, quando ancora stavamo insieme — raccontano —. Un amico fotografo catanese Paolo Leone, ci portò in giro per le isole in gommone: Vulcano, Lipari, Salina, Panarea e, ultima Stromboli. Ce ne innamorammo subito, senza discussioni alcune. La trovammo pazzesca. Chiedemmo subito di visitarla e di cercare per noi una casa». Tempo sei mesi e l’acquisto del primo corpo della villa, da un artista svizzero. Poi il secondo e infine il terzo: per un totale di 500 metri quadrati e sette suite, una diversa dall’altra e due giardini moreschi e due cucine e la spiaggia privata. «Siamo arrivati ad ospitare quattordici persone. Abbiamo fatto centinaia di vacanze, l’ultima la scorsa estate. L’abbiamo sempre definita la casa dei selvaggi, quella dove potevamo girare a piedi nudi e fare un certo tipo di vita. Quella dove ognuno poteva fare ciò che gli pareva, che fosse fare colazione con brioche e granita o uova e bacon. Sempre un viavai di amici. Naomi sarà venuta decine e decine di volte. Un’estate le dicemmo “basta ora ti insegniamo a nuotare”. Così le comprammo le pinne nel negozietto in paese. Lei stava a galla e basta. Ma non aveva paura e fu facile. Tempo tre giorni e muoveva le braccia, prima impacciata poi si è lasciata andare». E Madonna? «Lei impazziva per Iddu. Come Tom Cruise. Altro che paura. Ma lì è così. Lo senti parlare e non appena smetti non vedi l’ora che riprenda. Ti trasmette energia, potere. La casa poi è completamente dall’altra parte della sciara, il letto di lava, mai e poi mai sfiorati dall’angoscia». E perché proprio ora la vendita? «È una casa che ci ha portato tanta fortuna ma adatta ai ragazzacci che eravamo, ora sprigiona troppa forza e troppa energia. Abbiamo bisogno di qualcosa di più calmo come la riflessiva Salina dove siamo già in trattativa». A settimane allora il trasloco? Collezione di Madonne sottovetro compresa? «No no, ci vorrà un po’ di tempo. Fra l’altro molti degli arredi li comprammo a Salina, ma resteranno a Stromboli. Le ceramiche furono fatte apposta a Caltagirone e i pavimenti recuperati originali da case anni Quaranta. Molto e molto Dolce & Gabbana. È veramente un luogo magico. Le porte d’ingresso hanno i nomi dei nostri primi tre cani: Lola, Dalì e Rosa. Insomma una parte di noi resterà lì». Promesse a seguire: «Non lasceremo mai e poi mai le Eolie. Solo per quest’anno però resteremo in barca sulla Regina D’Italia, ma il prossimo di nuovo a terra».

Maria Corbi per “la Stampa” il 14 luglio 2019. Le vetrate del salotto amplificano il caldo in questo attico nel cuore di Roma. «Mi scusi ma io odio l' aria condizionata», dice il padrone di casa, Roberto Capucci, l' artista della moda. «Il termine stilista non mi è mai piaciuto, preferisco artigiano creativo». Sul tavolo il dvd del docufilm che il regista Ottavio Rosati ha girato su di lui. Alle spalle del divano bianco la foto della sorella Marcella morta dieci anni fa per uno scippo. «La donna più importante della mia vita», dice.

La sua è stata ed è ancora una vita dedicata alle donne. Furono le giornaliste americane a convincerla ad andare a Parigi.

«Si, me ne andai dalla Camera della moda dopo 10 anni di lavoro a Roma e aprii a rue Cambon».

Un tradimento?

«Oriana Fallaci scrisse che ero un "traditore con le forbici". Ma non era vero. C' era la sartoria in via Gregoriana a Roma che funzionava benissimo mentre a Parigi avevo l' alta sartoria».

La Fallaci divenne una sua cliente giusto?

«Fu lei nel 1952 a scrivere il primo articolo su di me, sulla mia sfilata nella sala Bianca di palazzo Pitti. Era una donna molto simpatica Andavamo molto d' accordo, mi veniva sempre a trovare quando veniva a Roma. Ci siano dati sempre del lei. Si comprava i vestiti e in un libro scrisse "il mio bel tailleur di Capucci insanguinato" raccontando di quando venne ferita a città del Messico».

Difficile immaginare la Fallaci nelle sue creazioni visionarie.

«Le facevo tailleur semplici dal taglio maschile».

Un'altra sua cliente è stata la Mangano.

«Una donna di un fascino incredibile. Dopo il film Riso amaro mi disse che si era vista volgare, voleva cambiare. La chiamavano la bomba atomica italiana e lei lo detestava. Così si impegnò per dimagrire e si mise a studiare, a leggere. Voleva essere non solo bella ma colta e sofisticata. E ci riuscì. Grande carattere. Vestire una donna che sa quello che vuole e con una grande personalità è più facile. Quando oggi vengono solo per avere la mia "firma" è un problema».

Rajna Kabaivanska, il grande soprano, altra sua cliente, ha detto che i suoi abiti possono annullarti.

«Diceva che prima li devi combattere, poi indossarli e se te li fai amici ti rendono straordinaria, altrimenti soccombi. Lei aveva questa forza. Le piaceva azzardare e quando entrava in scena nei suoi recital studiavamo insieme la sua entrata».

La Callas?

«Mai vestita: lei aveva la Biki a Milano e rubare clienti a una collega non è il genere mio».

A Parigi conobbe Cocò Chanel?

«Una donna molto dura e scostante ma era il suo carattere, non aveva colpa».

Il suo incontro con Anna Magnani?

«Mi piacevano i suoi film, il suo carattere forte. Poi venne in sartoria portata da Valentina Cortese dove io avevo molte vendeuse, tutte figlie di ambasciatori, belle ed eleganti. Quando lei entrò aveva in braccio la sua bassotta Lillina, che si doveva incrociare con il bassotto di mia sorella. Si guardò intorno e disse "a me questo ambiente non piace". Non salutò nessuno, scelse cinque vestiti e quando andò via io chiamai la premiere e le dissi di non mettere in lavorazione i vestiti. Perché è stato un incontro sbagliato».

E i bassotti?

«Non se ne fece niente».

Anche con Sophia Loren non c' è stata empatia, vero?

«Le ho fatto 4 o 5 vestiti. Un rapporto sbagliatissimo. Venne all' improvviso in sartoria quando normalmente ci si faceva annunciare. Per ogni vestito doveva chiedere il permesso a suo marito, Carlo Ponti. E soprattutto pretendeva di non pagarli perché indossandoli mi faceva pubblicità. Avrei voluto saperlo prima, almeno. Lasciamo perdere. È stata un' esperienza sbagliata. Quando provava parlava sempre delle altre attrici».

Male?

«Questo lo dice lei. Una bella donna ma non il mio genere».

Oltre al lavoro cosa fa oggi?

«Viaggio molto in oriente, dalla Cina al Bhutan, Laos, Birmania, Cambogia. In India sono stato 37 volte».

Quest' anno?

«Dovrei andare in Pakistan».

Con chi viaggia?

«Siamo in 8 persone, quasi tutte donne molto ricche.Clienti e amiche».

Lei ha fatto l' Accademia di Belle Arti, come è finito a fare abiti?

«Grazie a una giornalista che vide i miei disegni. Avevo 19 anni. Mi portò lei le prime clienti. Isa Miranda, bella dolce, serena; Doris Duranti, tutta fuoco, l' amica dei gerarchi fascisti, ed Elisa Cegani, l'amica segreta di Blasetti di cui nessuno doveva sapere ma che tutti sapevano. Poi venne Franca Rame che ancora non era sposata con Dario Fo. E poi arrivò l' aristocrazia sulla scia della principessa Pallavicini, che quando è morta mi ha lasciato in eredità tutti i vestiti che le avevo fatto, anche quando era paralizzata e voleva che si coprissero i braccioli della carrozzella. Ho avuto clienti in tutto il mondo. In Italia le più eleganti sono state le signore di Genova e Torino».

Oggi le clienti chi sono?

«Tutto un altro mondo. Sono meno affascinanti. Vogliono tutto stretto, scollato. Se non sono fasciate non sono contente. Hanno bisogno di essere sexy e pensano di diventarlo con il vestito. Ma non c' entra niente. È la testa che ti rende sexy» .

Quirino Conti per Dagospia il 14 luglio 2019. La Moda che tanto ha saputo immaginare per ricche vedovanze sconsiderate, in verità non ha mai avuto eccessiva dimestichezza con il lutto e i suoi rituali. Tanto che gli addii è solita elaborarli (come si dice) paganamente, come nell’antichità: con cerimoniali simili ai giochi e alle corse di bighe, quali si proclamavano in memoria di un illustre trapassato. Lo Stile, dopo qualche lacrima di circostanza, per tali momenti si è adeguato, inventando il liquidatorio e mondanissimo “Tribute”. Qualche chiacchiera, sfoggio di mezzi e poco più. E in quello celebrativo del magnifico Lagerfeld, nomi eccelsi lì selezionati ne escogitavano uno ulteriore, sul tema “A Tribute to Karl: The White Shirt Project”. Con camicie – la grande fisima del Sassone – riprodotte in poche decine di esemplari, progettate dai nomi più eccellenti (da Diane Kruger a Kate Moss, Cara Delevingne, Amber Valletta, Lewis Hamilton, Alessandro Michele) e poi naturalmente vendute a fin di bene. Tutto perfetto e come da copione: per l’ennesima gara in onore di chi non c’è più. Purtroppo, durerà quanto il profumo di una viola. E sul flebile tuono di un ennesimo evento, in men che non si dica il rimpianto per la genialità del Kaiser finirà in un tecnologico cestino: anche se dorato e magari in stile Post-Biedermeier. Il fatto è che la Moda nasce come una lunga e lenta evoluzione commerciale: quindi con un’origine artigianale, popolare, mai borghese né colta, occasionalmente aristocratica. Dunque, con un innato Dna mercantile, materialista e razionale, di certo sostanzialmente anti-intellettuale. Fino a quando, intorno agli anni ottanta del secolo scorso, la sua astuzia contabile non le suggerì un impensato legame con l’arte. Naturalmente, a Parigi tutto ciò era già stato sancito da numerose e felici complicità: ma Oltralpe il modo di far danaro è sempre stato diversissimo dal nostro, molto più sofisticato e sprezzante. Da qui, con numerosi episodi esemplari a disposizione, la tragedia di un mestiere sempre in bilico – a seconda delle convenienze – tra il più stretto pragmatismo e una mai riposta velleità culturale. Gli stilisti ne furono la più classica ed evidenziata semplificazione: eternamente sospesi, come su un filo teso, tra riduzioni affaristiche e velleità semipoetiche (per la felicità di Andy Warhol). Insomma, assatanati maneggioni con le mani in pasta nella più superficiale faciloneria e insieme squisiti autori da tutelare in torri impenetrabili. Quindi, nel dubbio, con il classico piede in due scarpe; quella del volgare e dell’ordinario usuale e l’altra, quella del museo e dell’arte contemporanea (e comunque anche lì in ottima compagnia: nel trittico artista-gallerista-critico). Da noi, con la velleità di essere tutelati da un ministro che è lo stesso per i musei e le bellezze del Paese, ma anche da prezzolati “giornaloni” pronti a snocciolare (senza averne alcuna verificata documentazione) cifre e fatturati ottenuti spremendo il marchio con un logo, magari in un mercato parallelo. Insomma, per tornare al nostro personaggio pluricelebrato, Karl Lagerfeld era un genio o un abile manipolatore? (Benché nello stile si tenda a considerare i due termini del tutto intercambiabili.) Quel che ha fatto, pertanto, è incomparabile come l’arte – stando a prezzi e grancassa – o è semplice abbigliamento impastato di eccezionale promozione? (E in questo secondo caso, non necessariamente meritevole di spazi culturali o di apprezzamento cronachistico.) E se un genio insuperabile come si è celebrato in vita e in morte, come pensare di sostituirlo? Si potrebbe forse sostituire Ronconi? Strehler? Fellini? O Chaplin? Savinio e Kounellis? O la Callas? Dunque, sono il danaro e il padrone a stabilire l’immortalità di un creatore e la sua sopravvivenza in corpi estranei, come per la più classica delle reincarnazioni? Basta un nome per farne quel che si vuole? Persino sostituendo quello di un nuotatore olimpionico con quello di un alpinista? Questo è lo scempio: una violenta e accondiscesa sostituzione delle carte in tavola. Ed è probabile che lo scorrettissimo Karl Lagerfeld, dai suoi Campi Elisi, ne sia ben contento: godeva come un pazzo a prendere per i fondelli chi lo pagava, adulandolo. “L’arte stessa deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più di ornamento, di imitazione, ma di messa a nudo, di smascheramento, di ripulitura, di scavo, di riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza. È soprattutto nell’arte che si concentrano nel mondo moderno, nel nostro mondo, le forme più intense di un dire il vero che accetta il coraggio e il rischio di ferire” (Michel Foucault, nell’ultimo corso tenuto al Collège de France). Aggiungete all’arte la Moda e sembrerà scritto pensando al coraggio e alla bellezza di Prada, così come di Galliano.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 14 luglio 2019. Anche Giorgio Armani, come tutte le persone famose, deve di anno in anno rispondere della sua età anagrafica, sin dal momento in cui si superano i quattro decenni: una barba, purtroppo inevitabile. Ma questa volta gli 85 anni di Giorgio Armani sono una medaglia al valore, una laurea al talento, una certezza di inesauribile bravura: una speranza per sempre. Perché è proprio l'età ad assicurare che lui, e tanti altri anziani, sono gli ultimi eroi di un mondo di eccellenza, di impegno, di creatività, che onora l' Italia: soprattutto adesso che questo Paese appare disabitato da italiani che tutto il mondo dovrebbe ammirare; e troppo abitato da persone che invece il mondo deplora, cominciando dai nostri uomini di potere che se son messi sulla copertina di un giornale straniero, mettiamo il francese Nouvel observateur , sono presentati con un titolo orrificato: mentre non ancora cinquantenne, Giorgio Armani, con la sua bellissima faccia, arrivò sull'americano Time nel 1982, il primo stilista dopo Dior e il primo italiano dopo Pirandello. E adesso, nel breve filmato con cui Milano e Cortina hanno partecipato alla gara, vinta, per ottenere le Olimpiadi, tra le meraviglie dei due luoghi, montagne e grattacieli e ogni simbolo possibile, appare lui, Giorgio Armani in passerella tra le modelle ingentilite dalle sue creazioni. Armani veste una idea del mondo femminile e maschile dal 1975, cioè da 44 anni: lavora ininterrottamente, anche in vacanza, nelle sue tante case, nelle sue immense barche: è ricco, molto ricco, partendo da una famiglia modesta, e lo è diventato per la genialità, la passione, il rischio. La bravura, la visione, l' apprendistato. Più che la fortuna, lo ha aiutato il suo tempo. Forse oggi la ricchezza la si pretende senza faticare, per aver postato le proprie scarpe o il proprio sedere. La fortuna di Armani e per lui anche nostra è di essere stato giovane quando tutto pareva giovane e possibile: dai tre locali di Corso Venezia, due spiantati, lui e il socio Sergio Galeotti più una segretaria, a un impero tutt' oggi saldo: ancora tutto suo, senza banche o multinazionali, e lui a non cedere nulla, a sovraintendere a tutto, ogni settore creativo e commerciale, mai stanco, un po' di palestra giornaliera e cibo scarso. La sua celebrità era nata per aver intuito che le donne degli anni '80 erano impazienti di far carriera senza diventare ometti o omoni. Lui ha inventato un nuovo modo di vestire per loro, elegante e lussuoso, femminile e difensivo. Oggi quella donna non c' è più, o per lo meno se c' è si nasconde: a meno che sia in età e sappia difendere il suo potere e la sua estetica accattivante. Le donne che imperano oggi, o per lo meno quelle che vediamo per esempio ridere senza tregua in televisione, sono poppute, malvestite e troppo rifatte. Non a loro si rivolge l' arte inarrestabile di Armani e per esempio con le sue collezioni d' alta moda lucenti, ispirate ai grandi lussi anni '40 che rendevano più belle e intoccabili le signore, veste grandi dive di fascino sommesso e intelligente, e irraggiungibili dame invisibili in ricevimenti da cui si esclude ogni promiscuità con il mezzacalzeggio di chi pretende notorietà. Anche Armani appartiene all' invisibile: è tra le dieci persone più famose al mondo, come è famosa la sua immagine, gli occhi azzurri nel viso abbronzato e sorridente, i corti capelli bianchi, ad ogni foto il lieve passare degli anni: i suoi marchi, il suo museo, le sue tante biografie, i suoi negozi, e ancora le cosiddette celebrity di un piccolo mondo altero a lottare per un posto in prima fila alle sue sfilate: per gli inviti alle crociere sui suoi yacht o in una delle sue case di severa magnificenza. Eppure lui è sconosciuto, come è giusto che siano le persone che davvero contano. Ha attraversato in silenzio gli anni del terrorismo, non ha parlato quando l' Aids ha ucciso il prezioso Sergio e suoi manager. Non ha reagito quando nella moda sono nate altre stelle, altre immagini, per altri desideri e altre vite. Ha sempre taciuto le sue inclinazioni politiche. Le sue storie d' amore non le conosce nessuno.

«Il mio vino e i ricordi: coraggioso fin da bimbo lo capisco solo adesso». Pubblicato sabato, 03 agosto 2019 da Luciano Ferraro su Corriere.it. Un calice di vino dorato apre la porta dei ricordi di Giorgio Armani. È il suo vino. Si chiama Oasi, viene da Pantelleria, dove re Giorgio è in vacanza, nella villa con 7 dammusi e 180 palme. Armani ricorda e scrive, e il bicchiere resta pieno. A 85 anni appena compiuti, non beve più. Ogni giorno si esercita in palestra e lavora molto. Mangia poco, ma controlla ogni dettaglio del suo impero del cibo: 20 tra caffè e ristoranti. Compresi i milanesi Nobu (dove resta sempre libero per lui il tavolo 99), l’Armani all’ultimo piano dell’hotel, e l’Emporio da poco rivoluzionato. Il piatto del cuore, i tortelli della mamma, lo trasporta nel suo mondo da bambino. Quando a Piacenza venne colpito da una bomba della Grande guerra, trovata in un campo. Quando morì il suo primo amore, una ragazzina «dagli occhi esotici», travolta da un camion. Ora ha capito: «Ero un combattente, ho avuto coraggio, me ne accorgo soltanto adesso». 

Quando ha deciso di produrre vino a Pantelleria?

«È stata un’idea inaspettata, cresciuta senza quasi me ne accorgessi, come una radice che affonda nel terreno e un giorno fiorisce. Una ventina d’anni fa, ho comprato dei terreni da aggiungere alla casa. E mi sono detto: voglio provare a coltivare delle viti. Le ho fatte arrivare, piantare e oggi vedo i risultati».

Perché un passito? 

«Perché le viti producono uva di Zibibbo. E poi perché è un prodotto tipico di Pantelleria, che racchiude tutto il suo sole ed è conosciuto nel mondo».

Cosa vuole evocare con il nome Oasi?

«La suggestione del riposo, della solitudine, dell’incontro con gli amici. Oasi si chiama uno spazio dove amo cenare nella mia casa. È uno spiazzo che ho ricreato ombreggiandolo con le palme più alte dell’isola, che provengono da Villa Tasca, Palermo, e che si affaccia sulla vista aperta del mare».

A casa, quando viveva con i genitori, si beveva vino? Quale?

«Si beveva pochissimo, soprattutto vini piacentini. A mia madre ne piaceva uno che gode oggi di buona fama, il Gutturnio».

Cosa ricorda dei pranzi di famiglia?

«I primi ricordi sono legati alla figura di mia madre, che cucinava per tutti noi. Erano i suoi cibi del cuore, pietanze semplici, con qualche concessione appetitosa nei giorni di festa. Mi viene ancora in mente il profumo della frittata che aveva preparato per noi ragazzi una volta che andammo in gita al lago. È stata questa sua capacità di rendere tutto naturale e allo stesso tempo speciale a guidarmi sempre, anche quando le scelte di lavoro sono diventate più difficili. Come aprire i miei locali e ristoranti, e dare un’impronta di gusto italiano anche alla cucina».

Quali sono i piatti del cuore? 

«C’è un piatto che riunisce la mia preferenza assoluta, il ricordo della mia infanzia e le mie radici: i tortelli alla piacentina, che qualcuno impropriamente confonde con i ravioli di magro. Sono delicatissimi, da condire solo con burro appena fuso e parmigiano. I migliori in assoluto erano quelli che preparava mia madre: ho ancora davanti agli occhi la sua espressione soddisfatta mentre li portava in tavola. I pranzi domenicali preludevano al tanto desiderato momento in cui mio padre si lasciava convincere da me e da mio fratello e ci annunciava: andiamo al cinema». 

Chi era l’Armani ragazzo?

«Un combattente, che non sapeva di esserlo ma ha sempre lottato in un periodo dove ogni giorno era un rischio. Un’esplosione improvvisa mi spedì all’ospedale per 40 giorni, dove mi fecero una terapia mostruosa immergendomi nell’alcol per togliermi la pelle bruciata. Investita da un rimorchio di un camion durante un sorpasso mal calcolato, morì il mio primo amore. Aveva 9 anni e io 12, ricordo ancora la sua carnagione ambrata e i grandi occhi esotici. Quasi tutti i ricordi di quegli anni sono permeati da un senso di emergenza, di fuga e di lotta per la sopravvivenza. Qualche volta ho ancora in mente il disagio e l’imbarazzo, la grande tristezza di quelle ultime giornate a Piacenza, con lampi improvvisi di felicità per le mille scoperte che un bambino può fare anche tra le rovine della guerra. Poi ci siamo trasferiti tutti a Milano dove mio padre ci aveva preceduti. E la vita è cambiata. Ho avuto coraggio, ma me ne accorgo soltanto adesso».

Cosa non rifarebbe?

«Inutile provare rimpianti. Piuttosto, riflettere sui comportamenti passati aiuta a cambiare il presente, a migliorarlo. Comunque, posso dire che rifarei tutto ciò che ho fatto».

Qual è stato il suo giorno più felice?

«Vivo nel presente e il momento presente è sempre il più felice».

Il momento più duro?

«Qualche anno fa ho affrontato uno dei momenti più duri e complicati della mia vita. L’ho superato anche per il desiderio fortissimo di ritornare ad Antigua, alla piccola spiaggia bianca che mi aveva incantato e che ero sicuro mi stesse aspettando. Tanto che lì poi ho acquistato una casa».

Con cosa brinda?

«Se bevessi ancora, con un rosso».

Come sceglie i suoi chef?

«Premetto che incarnano tutti il mio stile. Ognuno in modo diverso. Scelgo professionisti che dimostrino di avere una grande passione per il loro lavoro: senza protagonismi eccessivi, ma accomunati dal desiderio di raggiungere l’eccellenza». 

Con quante persone trascorrerà le vacanze? 

«Con gli amici di sempre, i familiari, qualche collaboratore. Arriviamo fino a 20 persone, ma i gruppi si alternano e c’è sempre una nuova energia». 

Qual è la giornata tipo?

«Posso sembrare molto metodico, ma è un comportamento che mi permette di vivere a fondo le mie giornate e i miei impegni. In genere non vado a letto tardi e mi alzo presto per fare un po’ di attività fisica, che mi dà la carica. Con il cibo ho un rapporto equilibrato. Seguo una dieta bilanciata, e sento che il mio fisico trae beneficio da un’alimentazione leggera e sana. Non salto mai un pasto e mi ritaglio sempre almeno mezz’ora per sedermi e mangiare correttamente». 

È vero che non parla mai di lavoro quando è a Pantelleria?

«Mi piacerebbe, non è possibile. Perché l’azienda non si ferma mai. Ma la mia piccola, meravigliosa Pantelleria è sicuramente il luogo dove riesco a staccare di più».

I piatti e i vini a casa?

«Piatti locali come la pasta al pesto pantesco, o insalate con capperi. O piatti piacentini come i tortelli, o il risotto alla milanese. Anche la pizza, visto che c’è un forno dedicato che amiamo usare la sera... I vini: Donnafugata, il Nozze d’oro di Tasca d’Almerita, il Primitivo... Champagne ogni tanto per l’aperitivo. Oppure Franciacorta».

Cos’è il lusso? E l’eleganza?

«L’eleganza è un pensiero e un atteggiamento, che mettono in scena la vita, senza strappi né esaltazioni, dove ogni dettaglio suggerisce padronanza e sicurezza. Il lusso può esprimere al massimo livello questa tensione emotiva, ma può anche trasformarsi nel suo contrario».

Perché ha scelto di cambiare l’Emporio Armani Caffè di Milano?

«Sentivo il bisogno di ripensare l’ambiente e la varietà delle offerte, di riprogettare completamente non soltanto lo spazio con giochi di prospettive e di volumi, ma anche l’atmosfera. Così oggi è diventato Emporio Armani Caffè e Ristorante, un luogo speciale, aperto e accogliente, che per design e cura del food è lo spirito stesso della contemporaneità». 

Qual è il suo bagaglio in viaggio?

«Amo viaggiare con un bagaglio leggero ma ben organizzato, dove non mancano mai il mio profumo preferito, le magliette blu in cotone d’estate, in cashmere d’inverno, le sneakers bianche».

Quali sono i politici di oggi e di ieri più o meno eleganti? 

«Se le premetto che non c’è eleganza nell’abbigliamento senza eleganza di pensiero, mi salva dal rispondere? Per il passato, non ho dubbi: Churchill, Pertini, Mitterrand. E il presidente Napolitano. Per il presente, trovo che il sindaco di Milano, Beppe Sala, abbia un’immagine molto discreta ed elegante. Ho poco da suggerirgli, il suo stile è quello che si addice a un personaggio politico del suo calibro».

Come vede l’impero Armani nel futuro?

«Forte e al passo con i tempi, sostenuto da un obiettivo sempre chiaro: accompagnare donne e uomini in una quotidianità nella quale etica ed estetica migliorano la vita».

·         L’alloro di Dante.

E' Dante che ha fondato l'Italia. 700 anni fa moriva il sommo poeta; serve recuperare la sua visione di identità nazionale forte a fronte della realtà di uno Stato debole. Marcello Veneziani su Panorama il 17 ottobre 2019. L’Idantità italiana. Non è un refuso, è una tesi precisa. La fonte principale, più alta e più vera della nostra identità è Dante Alighieri. A lui dobbiamo la lingua, il racconto, la matrice, la visione. L’Italia intesa più che Nazione, come Civiltà. L’identità italiana secondo Dante, è nazionale e universale, ben delineata nei suoi confini geografici, marini e alpini, ma espansiva nelle sue linee spirituali. L’Italia si prepara a commemorare i sette secoli della morte di Dante nel 1321 e già si riaprono polemiche sulla sua tomba, se traslarla da Ravenna a Firenze. Il Corriere della sera, con Paolo Di Stefano, ha lanciato l’idea di istituire una giornata speciale nel mondo, tramite gli istituti italiani di cultura e non solo, per ricordare ovunque Dante. L’ha chiamato vezzosamente «Dantedì», il dì di Dante; un dì di festa, per citare un suo altissimo collega. Superando ogni piccineria di bottega, è un’iniziativa da sostenere, che personalmente ho portato nel comitato di Palazzo Chigi dedicato agli anniversari di valore nazionale, per farla adottare. Ma è vano chiedere queste cose a un governo di ignoranti, voltagabbana e scappati di casa, non in senso dantesco. Unico Paese al mondo, l’Italia non fu fondata da un condottiero ma da un poeta. Non Garibaldi, non Cavour, non Vittorio Emanuele e tantomeno la Costituzione repubblicana, ma Dante. Fu lui a dare dignità al terreno primario e comune di una nazione, la lingua. Fu lui a fondare la civiltà italiana sull’arte, sul pensiero, sull’eccellenza e il genio, oltre che sulla storia e la geografia. Fu lui a riannodare l’Impero e il Papato, cioè la civiltà cristiana e la civiltà romana, riconoscendoli come i genitori dell’Italia, con ruoli ben distinti. La romanità e la cristianità ebbero altri figli; ma la figlia che ereditò la casa paterna e materna fu l’Italia. Dante vagheggiava la monarchia universale ma fu il primo a considerare il fulcro di una rinascenza in Roma, nella Roma cattolica ma non clericale dove l’Impero ha dignità pari a quella del Papato. E fu ancora Dante a dare un mito di fondazione e una narrazione su cui costruire l’Italia, riannodandosi a Virgilio il cantore di Enea. Fu Dante a cercare un Veltro, un Condottiero, che la unisse da «feltro a feltro», come egli scrisse: «di quell’umile Italia fia salute». Dante generò un’aspettativa d’Italia che altri scrittori - da Petrarca a Machiavelli, da Ariosto ad Alfieri, da Foscolo e Leopardi - poi coltivarono nei secoli. L’Italia è una nazione culturale, nata non con la forza delle armi ma dell’arte e della poesia. Nacque prima la lingua, la letteratura e solo alcuni secoli dopo lo Stato; anche per questo l’Italia ha uno Stato fragile e un’identità profonda. Un senso civico debole e conflittuale e un carattere nazionale spiccato e radicato. Tuttora la dignità universale dell’Italia non è di natura commerciale o industriale, militare o tecnologica, ma culturale: si studia la lingua italiana per ragioni culturali, si viene in Italia per ragioni culturali e per turismo d’arte o religioso, si considera l’Italia tra i grandi del mondo per ragioni culturali e artistiche. L’universalità non va tradotta (e ridotta) nel gergo contemporaneo con accoglienza: l’universalità dantesca trascende i particolari e abbraccia il mondo, nella sua missione universale. È l’universalità in senso imperiale e cattolico. I porti aperti, nella visione dell’Alighieri, servono per salpare prima che per approdare; per uscire e prendere il largo, più che per entrare e chiedere asilo. Il ruolo di Dante come profeta dell’Italia nasce da una lunga tradizione culturale, da George Gordon Byron che in Profezia di Dante lo riconosce come il precursore e fondatore dell’Italia ventura, e prima di lui Vincenzo Monti e suo genero Giulio Perticari che scrisse Dell’amor patrio di Dante. E poi Mazzini che scrive anch’egli sull’Amor patrio di Dante e Goffredo Mameli che compone l’inno mazziniano Dante e l’Italia: «Del cener dell’Italia / La nuova prole è uscita. /Salve, sublime apostolo / Del verbo della vita, / Che il nuovo sogno errante / Stringi al pensier di Dante». Il dantismo nazionale prosegue con Cesare Balbo e Francesco De Sanctis, fino a Ruggero Bonghi, primo presidente della Società Dante Alighieri e culmina in Giovanni Gentile, per il quale il Risorgimento trae presentimento proprio dalla profezia di Dante «nella cui storia di celano molti secoli della storia futura d’Italia» (I profeti del Risorgimento italiano). Giovanni Papini definì il suo Dante vivo «un profeta ebreo, un sacerdote etrusco e un imperialista romano». Profeta per via dei suoi annunzi messianici, etrusco per i suoi viaggi nell’oltretomba e imperialista romano perché Dante considera Roma la sua vera patria, il cui nome segreto è Florentia. Per Papini Dante lotta contro il presente corrotto e si rifugia nel passato e nel futuro, «come tutti i poeti è un nostalgico e come tutti i profeti un messianico». Auspicando un nuovo Risorgimento d’Italia, il filosofo cattolico Augusto Del Noce si riportò a Dante, richiamandosi sia a Gentile che al poeta e letterato veneto Giacomo Noventa, che vide in Dante colui che imperniò l’idea d’Italia sulla tradizione romana e cattolica, mediterranea e poetica.

Non è questo il Dante che conoscemmo e detestammo a scuola, quella piaga da studiare, quei versi alieni a cui eravamo costretti. Imporre a tutti Dante e affidarlo a menti inadeguate fu una necessità per la scuola ma condannò all’inferno la sua grandezza. Anche per risarcirlo dal cattivo uso e abuso nelle scuole, si dovrebbe istituire davvero una giornata mondiale dantesca. Risalire a Dante per non finire come il paese di Pulcinella. 

Omofobo, "hater", misogino Dante si merita il Purgatorio. Nella seconda cantica il poeta riserva a sodomiti, curia e donne «fiorentine» parole che oggi sarebbero censurate. Camillo Langone, Giovedì 14/11/2019, su Il Giornale. Non si potrebbe più scriverlo, il Purgatorio. Nemmeno nel caso improbabile di esserne capaci. È la prima cosa che ho pensato durante la difficile arrampicata della seconda cantica, del Purgatorio commentato da Saverio Bellomo e Stefano Carrai (subentrato dopo la morte improvvisa del collega) e ora pubblicato nella raccolta einaudiana di classici italiani annotati (Einaudi, pagg. XLVIII - 650, euro 60). Un libro impegnativo sotto ogni profilo, anche fisico: per incredibile vezzo antichista il volume si presenta intonso e chi non ha conservato il tagliacarte del nonno dovrà arrangiarsi come ho fatto io con un taglierino, sudando, imprecando e sfregiando senza rimedio le pagine. Il concetto di peccato risulta all'uomo moderno difficilmente comprensibile. Per quanto riguarda il peccato di lussuria potrei togliere l'avverbio. Chi poi oggi dichiarasse meritevole di punizione ultraterrena la lussuria omosessuale dovrebbe prepararsi a subire la punizione terrena prevista per i cosiddetti omofobi. Dubito che la stessa encomiabile Einaudi pubblicherebbe un testo contemporaneo con simili affermazioni. Mi sovviene un dubbio: che le pagine attaccate siano una sorta di filtro, di freno, di preavviso alla stregua della scritta «Explicit Lyrics» su certi dischi dai testi spinti? Se nelle biblioteche esistesse ancora l'«Enfer», la sezione riservata ai libri proibiti, con le fisime attuali rischierebbe di finirci la Divina Commedia intera. Purgatorio da purgare? Già sono spuntate associazioni, i demoni del Bene come li chiama Richard Millet, che chiedono la rimozione del capolavoro dantesco dai programmi scolastici a causa di antisemitismo, islamofobia, omofobia, razzismo. Finora le censorie pretese sono state respinte ma io, sapendo che nelle università americane stanno cominciando a espellere William Shakespeare perché maschio e bianco, non sono tanto tranquillo. Però almeno per ora, almeno in Italia, protetto dal suo status di monumento nazionale oltre che di defunto da sette secoli, Dante può ancora mettere i sodomiti nel canto XXVI, facendogli gridare «Soddoma e Gomorra» affinché il lettore riconosca la loro macchia. C'è da dire che col sommo poeta non la sfanga nessuno, finiscono puniti un po' tutti, non solo gli omo, anche i troppo etero, non solo gli avari, anche i prodighi, e perfino delicati personaggi come l'amico stilnovista Guido Guinizelli, colpevole (come spiega Bellomo) di una poesiola in cui immagina di baciare la bocca di una certa Lucia. «Dio vuol che l debito si paghi»: il ben poco misericordioso cristianesimo dantesco è talmente lontano dal cristianesimo bergogliano da sembrare, e forse da essere, un'altra religione. Un Alighieri che si fosse detto «Chi sono io per giudicare?» oggi sarebbe ricordato solo per il sonetto dedicato a Beatrice, «Tanto gentile e tanto onesta pare». A proposito: nel canto XXXII c'è un violento attacco verbale alla curia romana (l'odierno Vaticano), definita «puttana sciolta» come adesso non potrebbe permettersi di dire nemmeno Oliviero Toscani alla Zanzara. Agli occhi di Dante per essere colpevoli non c'è nemmeno bisogno di praticare qualche vizio, è sufficiente essere nati nella città sbagliata. E per lui le città sbagliate sono moltissime. Nel Purgatorio si prende la libertà di insultare mezza Italia, ce l'ha con i casentinesi, con gli aretini, ovviamente coi fiorentini, con i pisani e poi con i romagnoli tutti. Facendo quello che a noi giornalisti e scrittori del 2019 è vietatissimo: generalizzare. Gli abitanti del Casentino sono «brutti porci», gli aretini «botoli ringhiosi», la valle dell'Arno è una «maladetta fossa», i romagnoli (bolognesi compresi visto che la Romagna dantesca comincia al fiume Reno) sono «bastardi», mentre Bertinoro, Bagnacavallo e Castrocaro meritano rapida estinzione. Certo, dietro c'è sempre una qualche motivazione politica, ma sarebbe come se io, antipatizzante di Luigi Di Maio, scrivessi che Pomigliano d'Arco deve sprofondare. Ci sarebbe una sollevazione, chiederebbero la mia testa al direttore, minaccerebbero querele, mi farebbero espellere dai social dandomi del deficiente e dell'ignorante: sarei invece un emulo del padre della lingua italiana. E se dicessi, che so, che le fiorentine sono tutte troie? Le querele partirebbero davvero. Dante l'ha detto, nel canto XXIII, definendole «sfacciate» e poi «svergognate», più impudiche delle impudiche femmine della «Barbagia di Sardigna» (oggi protesterebbe Michela Murgia), colpevoli di «andar mostrando con le poppe il petto» e di meritarsi perciò pene tremende.

Salviamo Dante, poeta politicamente scorretto. Dal tortellino al pollo agli allarmi per l'affresco di San Petronio con Maometto all'Inferno, cosa succede e cosa potrebbe succedere. Oriana Allegri il 4 ottobre 2019 su Panorama. Ora che siamo sazi – è proprio il caso di dire – dell’estenuante dibattito sui diversamente tortellini, quelli voluti dalla Curia di Bologna in occasione della festa di San Petronio per “rispetto” dei musulmani che non mangiano carne di maiale, sarebbe il caso di lanciare l’allarme sui pericoli concreti che rischia la chiesa che si affaccia su piazza Maggiore. E la dieta non c’entra nulla, o quasi. Fermo restando che ci terremo tutti il dubbio sul perché, nei secoli dei secoli, i vari porporati bolognesi non si siano minimamente sognati di dover mostrare un segno di “rispetto” nei confronti della comunità ebraica che vive a Bologna e che pure non consuma carne di maiale (mistero della fede!), è bene ricordare che dietro a quello che potrebbe sembrare una querelle inutile, si cela – in realtà – uno scontro culturale che va avanti da anni e anni. In pochi lo ricordano. La buona memoria non è, infatti, una delle principali virtù degli italiani. Ma, nella cappella Bolognini all’interno di San Petronio, c’è un affresco quattrocentesco, dipinto da Giovanni da Modena. Un affresco che sembra una vignetta satirica ante litteram di Charlie Hebdo: il Profeta Maometto viene ritratto all’Inferno, torturato e seviziato da feroci demoni, con tanto di fiamme di contorno. Questo affresco è da anni nel mirino degli estremisti islamici, che lo considerano blasfemo. Sono stati sventati diversi attentati in passato. Più che un tortellino al pollo in segno di amicizia, poterono le forze di polizia e quelle di intelligence! Chissà cosa ne direbbe Dante Alighieri, che Maometto lo mette nella IX bolgia dell’VIII cerchio dell’Inferno, quella dove si trovano i “seminatori di discordie”, che sono orrendamente mutilati da un diavolo armato di spada, che li fa a pezzi così come loro hanno creato lacerazioni in campo politico, religioso e sociale. Quanta lungimiranza nelle parole del Sommo Poeta, che oggi probabilmente verrebbe imbavagliato, perché considerato politicamente scorretto. San Petronio continua ad essere un obiettivo sensibile per i terroristi islamici, ma anche i nostri ragazzi non scherzano. Considerati i campanelli di allarme, che sono suonati all’unisono per richiamarci all’ordine e al rispetto dei musulmani, da una parte i tortellini di pollo della Curia e dall’altra il no al crocifisso nelle classi del ministro dell’Istruzione Fioramonti, ci assale una enorme paura: vuoi vedere che prima o poi nelle scuole verrà bandito l’Inferno dantesco e sarà permesso leggere solo il Paradiso? Non sia mai che gli studenti di religione islamica restino scioccati e feriti da cotanta crudeltà nei confronti di Maometto. Nelle scuole delle Banlieue a Parigi (area ad alta densità musulmana) è stato già bandito lo studio della Shoah, per mettere al riparo i professori di Storia da possibili aggressioni. A quando il divieto di studiare l’Inferno dantesco, così poco rispettoso nei confronti del Profeta? Dopo il pollo nei tortellini, il prossimo passo potrebbe essere la severa punizione dell’Alighieri, al secolo politicamente scorrettissimo.

Dantedì, diamo al poeta l’alloro. Pubblicato mercoledì, 03 luglio 2019 da Paolo Di Stefano su Corriere.it. Nel canto XXV del Paradiso, ormai a conclusione dell’impresa poetica e (senza saperlo) quasi al termine della vita, Dante confessa un suo desiderio maturato da anni. Dice più o meno così: se mai il «poema sacro», la cui fatica mi ha smagrito, riuscirà a vincere la crudeltà di quelli che mi tengono fuori da Firenze («dal bell’ovile»), allora tornerò nella mia città invecchiato ma con ben altro (e altissimo) prestigio (di poeta): potrò dunque prendere la corona d’alloro sul mio fonte battesimale... Quella dell’incoronazione è, per l’Alighieri, un’immagine fissa destinata a rimanere realizzata. Enrico Malato, studioso ed editore della Commedia (sta ultimando il commento), nonché direttore della Necod (Nuova Edizione commentata delle Opere di Dante pubblicata dal Centro Pio Rajna) ha ripercorso la storia di quel «miraggio» in uno scritto apparso nell’ultimo numero della «Rivista di studi danteschi». Con una proposta finale: che l’«amato alloro» venga idealmente consegnato al Sommo Poeta nel settecentesimo della morte, che ricorrerà nel 2021. E aggiunge che quella cerimonia solenne potrebbe andare a coincidere con il primo Dantedì, la giornata dantesca proposta dal «Corriere» e che ha incontrato l’adesione delle associazioni e delle accademie più importanti, compreso il Comitato delle celebrazioni presieduto da Carlo Ossola. Enrico Malato propone che all’Alighieri sia dato l’alloro che desiderò in vita e che Firenze gli negò «Quello dell’incoronazione — dice Malato — è un tema presente già nei primi canti dell’Inferno e nel Purgatorio, ma il ripensamento dei fiorentini e il riconoscimento auspicato non ci furono». Il riconoscimento avrebbe dovuto rendere omaggio al «poema sacro» che per vent’anni aveva comportato un immane dispendio di forze fisiche oltre che intellettuali e morali. Dante morì a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, dopo una missione a Venezia il cui viaggio di ritorno gli aveva procurato una febbre da malaria. «Il suo sogno svanì dunque con lui, e Firenze non si associò al coro del compianto universale per la sua scomparsa. Toccherà a Boccaccio, trent’anni dopo, rimediare al torto recandosi a Ravenna per consegnare dieci fiorini d’oro alla figlia di Dante a riparazione dei danni arrecati dai fiorentini». Decaduta nel Medioevo, l’usanza classica della concessione dell’alloro ai poeti meritevoli viene ripresa nel 1315, quando il pre-umanista padovano Albertino Mussato sarà incoronato nella sua città in qualità di storiografo e drammaturgo. E pochi lustri più tardi, nel 1341, l’alloro sarebbe andato sulla testa di Petrarca, in una cerimonia al Campidoglio patrocinata dal re di Napoli Roberto d’Angiò. Naturalmente l’auspicio di Dante non fu capriccio o semplice vanità: il Sommo Poeta era ben consapevole della sua «sommità» e sapeva di meritarsi quel riconoscimento, avendo goduto dell’assistenza di Dio in persona nel compimento del suo poema. «Magnanimo» è colui che riesce a realizzare le grandi opere che ha pensato ed è fuori discussione la magnanimità di un pellegrino che compie un viaggio oltremondano per tornare tra i vivi a raccontarlo in modo a dir poco geniale. «L’ambizione di Dante alla laurea poetica — dice Malato — non rimase però del tutto negletta: un secolo e mezzo dopo nell’iconografia lo troviamo incoronato». Benozzo Gozzoli, nella chiesa di S. Francesco a Montefalco, raffigura in tre medaglioni Petrarca a sinistra, Giotto a destra e Dante al centro incoronato di lauro: «Da allora in poi lo sarà quasi sempre». Senza dire che già in un famoso codice miniato del 1337, il Trivulziano 1080, un ricco capolettera del Paradiso raffigura il poeta nell’atto di ricevere la sua bella corona. Sono certo omaggi postumi che non possono supplire al desiderio negato dalla «crudeltà» dei concittadini. Una «riparazione in extremis» sarebbe la consegna ideale dell’«amato alloro» proposta da Malato cogliendo l’occasione del settecentesimo. Un gesto simbolico. «Un’idea nobile che mi auguro di vedere realizzata», dice Alfredo Stussi, decano degli storici della lingua italiana. Sembra di cogliere nel riferimento di Malato alla Casa degli Italiani, l’augurio che la cerimonia si svolga al Quirinale, per poi trasferirsi a Ravenna, dove la corona potrebbe essere deposta nella cappelletta della tomba. Il Dantedì si arricchisce dunque di contenuti, anche se poi nel calendario annuale conteranno sempre meno le solennità e saranno soprattutto le scuole, i teatri, le biblioteche, le piazze a festeggiare il nostro Poeta, e non solo nelle regioni dantesche ma nei territori più impensati, dove la Commedia viene letta e amata e dove l’Alighieri è una presenza viva e non un immobile monumento marmoreo. Resta ovviamente la questione della scelta della giornata. Il presidente del Consiglio regionale toscano e della Casa di Dante, Eugenio Giani, che ha dato il suo appoggio, ha due idee: il 26 marzo, giorno del battesimo (nel 1266, cioè l’anno dopo la nascita) oppure il 6 ottobre (Dante era presente come legato dei Malaspina alla firma della pace di Castelnuovo con il vescovo di Luni). Malato insiste con il 13 aprile: «Quel giorno terminò il viaggio nell’oltretomba che cominciò il Venerdì santo». Come ha detto il dantista Marco Santagata, non avendo molti riferimenti storici sulla vita di Dante qualunque data scelta sarà in qualche modo arbitraria. E pazienza. 

·         Buon compleanno, ispettore Marlowe.

Buon compleanno, ispettore Marlowe. Pubblicato mercoledì, 05 giugno 2019 su Corriere.it. C’è Marlowe nell’impermeabile sgualcito di Colombo. Nelle debolezze di Lew Archer; nel caratteraccio di Easy Rawlins; nella passione per le dark ladies di James Bond, infide e perverse; nell’incorruttibile Kojak; nello sguardo compassionevole e rassegnato di Derrick; nella solitudine e nelle contraddizioni di Pepe Carvalho; nella personalità burrascosa e insofferente di Rocco Schiavone e nelle difficoltà personali che Giuseppe Lojacono tiene a stento fuori dalla Questura. Marlowe rivive nei deficit di Adrian Monk, nel vizio del bere del surreale e alterato Nick Belane dell’ultimo Bukowski, nella triste cupezza di Geralt di Rivia. Rivive un po’ perfino nel dissidio tra giustizia e compromesso di Montalbano, nella disputa interiore del commissario tra realtà e codice penale, tra il dovere e la necessità di scendere a patti con le fattispecie del reato. E perché, nel tenebroso Dylan Dog, non c’è Marlowe anche lì? Lo stesso Sclavi l’ammise, intitolando alcuni albi come i romanzi di Raymond Chandler. Era il 1939 quando per la prima volta lo scrittore americano gli diede forma ne “Il grande sonno”, pubblicato per la prima volta in Italia nel 48 da Mondadori. Marlowe è in ogni ufficetto scuro con le persiane tirate, appesa di sbieco alla porta la scritta “detective” e, dietro la scrivania col posacenere colmo di cicche, un uomo in trench col borsalino in testa e le gambe sul tavolo. Dopo di lui, nessun investigatore della letteratura e del cinema è stato più lo stesso. Più un noir che un giallo, più thriller che poliziesco: la formula narrativa non si basava più sul primato dell’azione, ma della scrittura, sul realismo descrittivo dei tratti psicologici. Ne seguiranno altri sette - capolavori come “Addio mia amata”, “La signora nel lago”, “Il lungo addio” -, innumerevoli trasposizioni cinematografiche e un’infinità di altri romanzi e produzioni televisive ispirate a quella figura. Inclusi artisti in carne e ossa, per abbigliamento e atteggiamenti: come non riconoscerlo nel cappello obliquo di Waits o Pinketts, nella cravatta allentata di Buscaglione e Cohen, nella voce sofferta di Conte e Cash. Lo stesso Bogart restò influenzato dal suo “mood”, quasi come Bela Lugosi per Dracula. Un uomo malinconico, solo, elegante, senza famiglia, parenti, amici. Dal passato misterioso, di cui parla malvolentieri. Un po’ come il suo creatore, alter ego su carta sognato e vagheggiato, come lo fu per Kerouac il viaggiatore vagabondo. Questo è l’ispettore umano, che non ha terminato gli studi, che trae forza dalla propria debolezza e dalla fragilità l’empatia per entrare in contatto e smascherare l’umanità altrui, vittime e carnefici. Philip Marlowe si muove al confine tra legge e crimine, a metà tra cinismo e idealismo, all’ombra dei bassifondi della Los Angeles in bianco e nero del decennio prima, tentacolare; eppure moderna, simile alla tetra e fumosa Gotham City: quinta perfetta per violenze, minacce, ricatti. Indurito dalla vita, disincantato dal lavoro e dagli esseri umani, ma determinato: non solo ad acciuffare i colpevoli ma a scoprire le verità, a costo d’infrangere le regole. È un privato, non appartiene al corpo di polizia, quindi gode di meno libertà d’azione e sconta la necessità di lavorare per chi lo paga. Gli occhi di Marlowe sono languidi, disincantati, a mezz’asta; incollata alle labbra c’è una sigaretta, più pop della pipa Raschiando la ruvida scorza conserva ancora emozione e ironia, anche se amara. 

Il suo metodo d’indagine è l’assenza di metodo: lascia dirigere l’inchiesta da impressioni e suggestioni, spesso lontano dalla scena del delitto. Il suo tormento esistenziale è agli antipodi delle rigorose e matematiche deduzioni di Sherlock Holmes (il celebre «elementare Watson»). Il procedimento per esclusione dell’altro grande “private eye” della narrativa avrà semmai l’epigono in Nero Wolfe (che risolveva i casi seduto in scrivania con la sola forza delle associazioni mentali) e ancora dopo in Clouseau l’appendice comica e brillante.. Come è chiaramente molto distante dalla coppia di Agatha Christie, Poirot e Miss Marple (che troverà l’erede nella signora Fletcher). Già con Maigret di Simenon, una decina d’anni prima, veniva accantonato lo schema a “cruciverba”, con i personaggi impagliati come in un Cluedo - il maggiordomo, l’ereditiera, il rampollo, il professore, il cuoco - cristallizzato sulla logica conseguenziale degli indizi più che sul vissuto dei protagonisti, come chiave per comprendere le motivazioni profonde di un delitto. Una volta tirato il filo che li allinea, composto il puzzle di elementi, il libro è chiuso come una settimana enigmistica, difficilmente si presta a nuove riletture non essendo centrale lo stile, la visione della società derivata dalla trama, e quell’aspetto psicologico diventato oggi dominante nelle serie tv, filtrato dal discorso diretto, formula mutuata dall’attività di sceneggiatore per Hollywood, che avvicina al lettore. La profondità psicologica non è un riempitivo per contestualizzare l’azione ma perno della storia. L’ambivalenza e le oscillazioni del protagonista, al tempo stesso misogino e sentimentale, risoluto ma col cuore di pastafrolla, sono il contraltare dell’effetto contrasto riprodotto nella prosa da Chandler, contemporaneamente cruda e densa di humor. L’ambientazione si sposta da quella aristocratico-borghese a una più popolare, scene di sesso e violenza sono descritte senza censure: nasce il genere cosiddetto hard-boiled. 

Ugualmente molto distanti i detective sportivi, tutti muscoli e azione e un po’ troppo spiritosi, alla Magnum P.I. I coetanei di Marlowe sono in realtà il fumetto Dick Tracy e Sam Spade di Dashiell Hammett, una sorta di prototipo del complesso antieroe, non a caso interpretato anch’esso da Humphrey Bogart nel 41 ne Il mistero del falco, un anno prima de Il grande sonno. Una sceneggiatura così era fatta apposta per finire sullo schermo, piccolo o grande che fosse. Sarà Dick Powell, nel 1945, a impersonare per la prima volta Marlowe ma a farlo diventare un’icona, un “archetipo” dell’investigatore privato sarà, l’anno dopo, il volto di Humphrey Bogart nel film di Howard Hawks omonimo del romanzo. Da allora, molti altri attori hanno prestato i loro lineamenti a quel ruolo così fascinoso - Bob Mitchum, James Garner, Elliott Gould - destinato però a restare ancorato nell’immaginario allo sguardo stanco e disincantato di Bogie. Il rude dal cuore d’oro, che deve lottare con sé stesso per riaffermare i propri valori, il proprio codice d’onore: un personaggio che, se la vita non avesse sterzato, avrebbe potuto facilmente ritrovarsi dall’altra parte della barricata, dove pure non mancano criminali e assassini umanizzati, visti alla De André, come vittime a loro volta della società o degli eventi (Bogart stesso interpretò numerosi ruoli da gangster prima di cambiare sponda sul set). La figura, che troverà il suo estremo nel Cattivo tenente di Abel Ferrara, e che avrà in Vic Mackey di The Shield il suo prolungamento. Il buono al di là della legge, magari contro la legge, per l’affermarsi di un senso di giustizia semplice, collettivo e condiviso con il lettore. «Come lo vuole il brandy?» gli chiede a un certo punto il generale Sternwood ne Il grande sonno; «Nel bicchiere» risponde Marlowe. E la sua filosofia, in fondo, è tutta qui.

·         Casanova e la Gonorrea.

Il manoscritto di Casanova ha svelato che era malato di gonorrea. Pubblicato sabato, 15 giugno 2019 da Cristina Marrone su Corriere.it. Nelle sue memorie, Giacomo Casanova si è vantato di aver dormito con 122 donne, ma ha anche ammesso di aver sofferto molto per una malattia a trasmissione sessuale, la gonorrea. Il celebre seduttore vissuto nel Settecento era convinto di essere stato contagiato da una prostituta con la quale passò una notte quando aveva solo 12 anni. Verità o leggenda? Davvero l’amatore veneziano è stato tormentato per tutta la vita dalla malattia di cui ha dovuto affrontare almeno quattro ricadute? Di sicuro la patologia (che non è scomparsa, come credono in troppi) era già nota nel Medioevo, resta da capire se il focoso veneziano ne fosse davvero affetto. Domanda che ha incuriosito gli scienziati del Politecnico di Milano. Un team di ricercatori, guidati da Pier Giorgio Righetti con la collaborazione dello scienziato israeliano Gleb Zilberstein, ha sottoposto un manoscritto originale di Casanova, normalmente conservato alla biblioteca nazionale di Parigi, a un’analisi chimica nota come Eva-film (vinil acetato di etilene). Questo sofisticato test permette di catturare in laboratorio il materiale biologico di chi ha maneggiato le carte e che è rimasto in superficie. Immaginiamo una specie di «cerottino» che gli esperti applicano su lettere, dipinti, superfici di ogni tipo per catturare tutto quel che si trova: impronte digitali, residui organici, saliva. E batteri. Quando si trovano su un oggetto appartenuto a un personaggio del passato è (relativamente) facile risalire alla malattia di cui ha sofferto. Ma nel caso dei manoscritti di Casanova la ricerca (pubblicata sulla rivista specializzata Electrophoresis) ha dato un risultato sorprendente: su quelle antiche carte non c’era traccia del batterio della gonorrea. Possibile? La validità della tecnica non è in discussione. Il metodo è stato utilizzato più volte negli anni e ha permesso di identificare il batterio della peste (Yersinia pestis) su quattro registri di morte del Lazzaretto conservati nell’archivio di Stato di Milano, e l’evento è provato anche da altre fonti. Ancora prima, sulla bozza di Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov erano stati trovati tre biomarcatori della malattia renale di cui soffriva il romanziere russo e lo stesso lavoro fu svolto su una camicia appartenuta ad Anton Cechov, sulla quale fu isolato il batterio della tubercolosi, malattia che uccise lo scrittore nel 1904.

La distribuzione del mercurio sulla pagina: la parte rossa è la concentrazione più alta. Come è possibile allora che con Casanova una tecnica tanto sofisticata abbia fallito? Viene il sospetto che il rubacuori veneziano abbia un po’ esagerato con le conquiste sessuali e magari non abbia mai contratto la gonorrea. «Nelle nostre analisi» spiega Pier Giorgio Righetti, esperto di fama mondiale in questo campo e professore onorario al Politecnico presso il Dipartimento di chimica e tecnologia dei Materiali Giulio Natta «abbiamo però trovato tracce di un materiale rossastro, che poi si è rivelato solfuro di mercurio, conosciuto come cinabro, minerale tossico usato in pittura per produrre il pigmento vermiglione, ma utilizzato già nel ’500 in Europa anche per curare la sifilide portata dalle Americhe». A partire dal 1493 infatti, anno del ritorno delle prime caravelle di Cristoforo Colombo dall’America, il cinabro iniziò a essere usato, in dosi massicce ed estremamente velenose, per curare i marinai da quella che si pensava fosse un’epidemia di vaiolo e che poi si scoprì essere sifilide. Fino all’800 e oltre il cinabro venne usato per curare una varietà di malattie veneree, in particolare la gonorrea. Inizialmente i medici suggerivano ai pazienti di ingerire il “cinabro”, ma considerata la tossicità, i malati vomitavano e accusavano dolori addominali. La medicina dell’epoca proponeva anche un’altra terapia che consisteva nello strofinare il solfuro di mercurio mescolato a grasso di montone sulle ulcere provocate dalla malattia. «Casanova non era un pittore» osservano i ricercatori «eppure sul suo manoscritto le tracce di cinabro avevano un valore di venti volte superiore ai limiti. Di conseguenza, pur non avendo trovato tracce del bacillo della gonorrea, l’aver rintracciato alti livelli di solfuro di mercurio ci porta a concludere che Casanova lo stesse usando per curare l’ennesimo attacco di gonorrea e forse era in via di guarigione». Nel loro lavoro, inoltre, i due ricercatori, dopo approfondite letture delle Mémoires e dei documenti dell’epoca, hanno rivalutato la figura di Casanova. Oggi il nome è sinonimo di Don Giovanni, inguaribile donnaiolo. Fu Lorenzo Da Ponte, il librettista di Mozart, a usare la fama amorosa di Casanova per l’opera Don Giovanni, portando il numero delle amanti da un centinaio a migliaia. Casanova però fu anche un abile diplomatico, filosofo e scrittore. E un paziente con una malattia che allora era davvero difficile curare.

·         Mary, la moglie geisha che Hemingway tradiva.

Leggere Hemingway antidoto alle fakenews. Angela Azzaro il 19 luglio 2019 su Il Dubbio. Il 21 luglio di 120 anni fa nasceva il grande scrittore premio Nobel con il vecchio e il mare nel 1954.

Leggere Hemingway. Viviamo in un’epoca in cui è difficile distinguere il vero dal falso. Le fakenews si annidano ovunque e alimentate dai social anche le notizie false assumono lo statuto di oggettività. Ma la colpa non è solo di chi mente a proposito ma di un sistema mediatico che ha perso la bussola, riducendo notevolmente il rapporto con la realtà. Ripensando alla vita e all’opera di Ernest Hemingway, il primo elemento che colpisce è invece il suo assiduo corpo a corpo con la realtà, con il toccare con mano ciò che scriveva. Il grande scrittore statunitense, nato a Oak Park ( Chicago) il 21 luglio di 120 anni fa, nella sua attività sia di giornalista che di scrittore non si è mai risparmiato. Voleva vedere, sapere, partecipare. Una attività che lo ha portato in giro per i mondo e che alla fine ha martoriato il suo corpo per i vari incidenti. Si suicidò il 2 luglio del 1961, dopo anni di spostamenti e di paranoie, come quella di essere spiato dall’Fbi. Ma quanto era bulimico di conoscenza diretta tanto era asciutto, sintetico, perfetto nello scrivere: le sue frasi erano pensate, viste e riviste. Niente era affidato al caso. Se fosse vissuto oggi, molto probabilmente, avrebbe considerato il mondo dei social, in cui le frasi vengo molto spesso gettate alla rinfusa, come una diavoleria da cui fuggire come gli odiati agenti dell’Fbi. I quali, peraltro, pare che davvero gli dessero le caccia.

Per chi suona la campana. Appena diciottenne Hemingway tentò di arruolarsi per andare a combattere nella Prima guerra mondiale. Non ci riuscì a causa di un difetto della vista, ma poté comunque dare il suo contributo come autista della ambulanze. In quegli anni si spostò tra la Francia e l’Italia e quando tornò negli Usa, a guerra finita, andò in giro a raccontare l’orrore a cui aveva assistito. La sua carriera letteraria è appena iniziata. Ma la strada è segnata dalla passione. Sa cosa vuole, sa che la scrittura per lui è molto importante. Sono gli anni in cui inizia la collaborazione con il Toronto star e in cui scrive i primi racconti. Ma la vera svolta è quando si trasferisce a Parigi con la prima moglie. Lì conosce Gertrude Stein, James Joyce, Ezra Pound ed altri esuli americani che nel suo libro postumo Festa mobile definì la generazione perduta. È in questo clima di avanguardie che sviluppa il suo stile: oggettivo, paratattico, sintetico. Per noi oggi un classico, un esempio. Allora, questo signore che le foto ci restituiscono spesso imbolsito, con la barba e la postura molto altisonante, scriveva come una farfalla, facendo a pezzi la tradizione letteraria precedente. L’impegno anche politico, che lo porterà ad essere in prima linea nella guerra civile spagnola, non diventa mai prosopopea letteraria, autoreferenzialità. Nel 1926 pubblica The sun also rises dedicato alla fiesta di San Firmino a Pamplona. I protagonisti sono americani e inglesi che vivono tra la Francia e la Spagna: è l’ambiente che vive intorno a Gertrude Stein in cui si afferma la libertà femminile. Tra i personaggi spicca infatti la volitiva Lady Brett Ashley: porta i capelli corti e vive la sessualità senza pregiudizi o paure. Niente male per uno scrittore che spesso viene identificato con il maschilismo. Effettivamente si faceva chiamare Papa, ma pare che questo soprannome derivasse più dalla sua grandezza come scrittore che da pose machiste. Ciò che ora conta è che leggendo Hemingway si respira l’ambiente letterario e umano di quell’epoca: si impara ad amarlo, a toccarlo con mano. La stessa passione per la storia che traspare da Per chi suona la campana, forse il suo libro di maggior successo, che pubblicato nel 1940 ha come protagonista Robert Jordan. Il racconto si basa sulla sua esperienza di cronista di guerra nelle file dell’esercito popolare repubblicano. Il titolo è ripreso da un verso di John Donne, che dice: «… E allora non chiedere per chi suona la campana, essa suona per te». È il richiamo all’impegno, alla battaglia per l’uguaglianza, a una letteratura che si sente invischiata e responsabile per le cose del mondo. Quel verso, quel monito, quel romanzo sono entrati nell’immaginario collettivo di intere generazioni vissute con il mito della libertà dei popoli e della loro uguaglianza. Il film di Sam Wood, con due attori incredibili come Gary Cooper e Ingrid Bergman, ne sancì il definitivo trionfo.

Il bivio: avere o non avere. Il tema della diseguaglianze appare già nel libro di tre racconti Avere e non avere, in cui compare la sua amata Cuba dove passa molto tempo e a cui guarderà con attenzione durante e dopo la rivoluzione. Osservato con sospetto negli Usa maccartisti, Hemingway vince con Il vecchio e il mare il premio Pulitzer nel 1953 e l’anno dopo il premio Nobel. Pare abbia commentato: «Troppo tardi». È vero che gli amanti della sua opera non considerano Il vecchio e il mare come il suo romanzo migliore, ma resta comunque un libro che incanta per la sua essenzialità e la sua capacità di farci entrare nella testa e nella vita del protagonista. Il vecchio pescatore Santiago ingaggia nel mare cubano una lotta con il pesce più grande che abbia mai incontrato. Non lo odia, lo ama. Sono due vinti. E il vecchio lo sa. E infatti pur avendolo catturato, se lo vede portare via dagli squali che lo mangiano durante il viaggio. A terra non arriva che la lisca. Sono gli squali i veri nemici, i potenti. Non il vecchio, non il grande pesce. Lo stesso Hemingway raccontò che il vero sforzo nello scrivere il romanzo non fu costruire la storia. Ma limarla. Levare. Non aggiungere. Odiava essere prolisso. E il foglio di carta su cui aveva steso la storia era pieno di segni, non perché correggeva, ma perché asciugava. Il finale di Addio alle armi lo scrisse 47 volte. E quando gli chiesero perché, rispose: «Per trovare le parole giuste». Il vecchio e il mare è oggi considerato un classico, un libro che tutti dovrebbero leggere. E in fondo di personaggi come Santiago abbiamo ancora bisogno. Perché Santiago perde, ma lotta. Santiago perde contro gli squali ma torna a terra soddisfatto perché sa che nella sua vita non si è arreso. Ha perso ma combattendo. A volte i vincitori in realtà perdono sul palcoscenico della storia. I vinti restano nei nostri cuori per sempre. E Hemingway non solo lo sapeva, ma lo sapeva raccontare.

La vita le opere: fu machista? Parlare della vita e delle opere di Hemingway fa saltare la convinzione che deriva dalla critica poststrutturalista che i due piani debbano correre paralleli. L’opera è l’opera, la vita è la vita. Ma qui stiamo parlando di un autore che giocava in prima persona, che fino all’ultimo viaggiava tra le Americhe, l’Europa e l’Africa e che continuava a scrivere, accanto ai romanzi, i suoi reportage, come agli esordi. Grande bevitore, lo scrittore di Festa mobile, si sposò quattro volte ed ebbe diverse amanti. Fernanda Pivano, sua amica, descrisse la quarta moglie Mery come una “geisha”: era in realtà una giornalista, anche lei impegnata a scrivere reportage, che non lo aspettava a casa mentre lui andava in giro per il mondo. Se si parla di Hemingway si pensa prima di tutto all’amore per le corride, alla caccia e alla pesca. Un identikit che si è cristallizzato nell’idea che fosse machista. Ma tanti fattori, a partire dalle sue opere e dalle sue protagonista, fanno pensare il contrario. Un libro del nipote John ricostruisce il suo amore per i giochi di ruolo, una sorta di transessualità che fu preponderante nella vita del figlio di Hemingway, padre dell’autore dello scoop, il quale lascia trapelare anche la notizia di alcuni rapporti gay del nonno. Negli anni la voce sul suo amore fisico per i toreri è tornata più volte. Viene fuori il ritratto complesso anche della biografia personale e lo spaccato di uno scrittore tutt’altro che chiuso negli stereotipi. Ma, poi, forse avevano ragione i poststrutturalisti e ciò che resta sono i suoi libri. Racconti di un’epoca che emozionano ancora oggi.

Fernanda Pivano: «Mary, la moglie geisha che Hemingway tradiva». Pubblicato mercoledì, 26 giugno 2019 su Corriere.it. La prima volta che Mary Hemingway mi ha visto a Cortina, quando suo marito mi ha chiesto di andare a parlargli, mi ha accolto chiedendomi: «Che preservativo usi?» e di fronte alla mia perplessità ha risposto alla sua domanda aprendo il cassetto di un canterano completamente vuoto tranne per un complicato sistema in uso in quegli anni; e mi ha spiegato con minuzia di particolari come si doveva inserire la forcella e sistemare il diaframma protettivo. Questa, per la mia educazione vittoriana, era stata qualcosa di più che una lezione di sesso: era stata una lezione di vita e soprattutto una lezione che mi aveva fatto capire subito che questa minuscola Mary corrispondente di guerra aveva una certa familiarità col sesso. Più tardi Hemingway mi aveva raccontato che quando Mary era arrivata la prima volta alla Finca Vigia de S. Francisco de Paola e Hemingway le faceva vedere le meraviglie cubane, Mary l’ aveva interrotto dicendogli: «Perché non facciamo qualcosa di romantico?»; e molto più tardi ho avuto un’idea di cosa intendeva per «romantico» quando, accogliendomi con Virginia e Alberto Mondadori in un altro albergo di Cortina, era arrivata col marito in fondo allo scalone e aveva detto sorridendo: «Oh, ho un mal di schiena terribile. Tredici volte», senza che noi cercassimo conferme nel sorriso ironico di Mister Papa. Molto, molto più tardi quando i giornalisti le chiedevano come erano i suoi rapporti col marito lei di solito rispondeva: «Soffrivamo tutti e due d’ insonnia. E lui era sempre il benvenuto sotto le mie coperte rosa». Coperte rosa lì a Cuba io non ricordo di averne viste, ma invece vedevo la costanza con cui Mary lo circondava di attenzioni che non gli permettessero di distrarlo da lei. La sua prima seduzione l’aveva esercitata quando aveva visto la prima volta la barca, croce e delizia di Hemingway, e all’offerta del marito di prendere un marinaio che l’assistesse aveva risposto: «Voglio fare tutto quello che sai fare tu». Con questa tecnica Mary lo aveva scortato tutta la vita, e gli amici intimi per definire il suo atteggiamento dicevano che era una splendida geisha. Però anche per lei il tempo e i Papa Dobles (cioè i doppi daiquiri senza zucchero) avevano creato qualche problema; e gli amici, intimi e no, avevano saputo della crisi più o meno grande nata quando lì a Cuba dei parenti erano andati a trovare Mary che li aveva accompagnati in un ristorante; Hemingway avrebbe dovuto raggiungerla, e infatti l’aveva raggiunta, ma in compagnia di una nota prostituta dell’Havana, cosa che aveva letteralmente fatto infuriare Mary. Ma la sua idea era chiara e l’aveva spiegata a Hemingway ai tempi della sua passione per Adriana ; gli aveva detto, se dobbiamo credere all’ autobiografia How it Was: «I tuoi insulti, la tua insolenza mi feriscono, come certo sai, ma nonostante tutto ti amo e amo questo posto e amo la Pilar e la nostra vita come si svolge normalmente. Così fai pure tutto quello che vuoi per spingermi a lasciarti ma non ci riuscirai. Qualunque cosa tu dica o faccia resterò qui a dirigere la tua casa e la tua Finca fino al giorno che verrai sobrio al mattino, a dirmi con sincerità e chiarezza che vuoi che io ti lasci». Questo pare che Hemingway non glielo abbia detto mai. L’ha sempre chiamata «Kitten», gattina, e ha sempre scavalcato i momenti difficili. Mary racconta con aria estatica il contegno del marito mentre scriveva Il vecchio e il mare: «Era stato lavoro felice. Ogni mattina ascoltavo un pezzetto di registrazione, e le parole cadevano con dolcezza sulla carta nella sua macchina portatile Royal». Ciò avveniva nel salotto che Mary ha descritto così nella didascalia di una foto della Finca: «Quando non c’era un grande mazzo di fiori sul tavolo del salotto alla Finca voleva dire che io non c’ero». Io non ricordo di averli visti sempre, questi fiori, ma era carina l’idea; e idee di autodifesa come questa Mary ne aveva molte. Aveva voluto lei che la torre vicino alla casa venisse organizzata in modo che al primo piano Hemingway potesse lavorare senza essere disturbato dai rumori dei domestici, ma si era accorta senza protestare che Hemingway preferiva scrivere accompagnato da quei rumori: gli aspirapolvere, le chiacchiere dei fornitori, il chiasso dei cani e dei gatti. Una delle sue passioni era di nutrirli e Mary fingeva di non accorgersi quando Hemingway rubava i più bei pezzi di pesce per darli a loro. La tecnica del far finta di non accorgersene era stata forse una delle principali armi di Mary come moglie-amante. Aveva fatto finta di non accorgersi, per esempio, che un’ammiratrice, diventata adoratrice e presto nuora, era riuscita a rubarle il posto vicino a lui negli spostamenti in macchina per assistere alle corride, mentre scriveva The Dangerous Summer. Ma in quel momento lei era davvero preoccupata e nell’autobiografia ha confidato che aveva cominciato a chiedersi se sarebbe stata capace di lasciarlo e andare a fare la dattilografa da Scribner, l’editore che in qualche posto Hemingway aveva ereditato da Fitzgerald e dal quale non si era mai staccato. Non so dove sia finita la lettera di offerta del proprio lavoro che aveva scritto a macchina, ma aveva vinto la sua antica affermazione: «Quando si sposano certi uomini bisogna essere la prima o l’ultima moglie, non si può essere una moglie di mezzo». D’ altronde Hemingway, nei momenti di crisi, le scriveva letterine seduttorie. Avevo un’ amica lesbica deliziosa che diceva: «Ah, questi uomini!» e mi è tornata in mente quando avevo visto qualcuno di questi biglietti, che cominciavano sempre col loro leggendario «Dear Kitten» (lei invece lo chiamava «Lamb», agnellino). Per esempio il 23 settembre 1960 le aveva scritto da Madrid durante la gara dei matador, mentre il braccio di Antonio si era gonfiato per la cornata di un toro: «Vorrei che tu fossi qui per assistermi e aiutarmi e impedirmi di crollare. Mi sento malissimo e voglio soltanto stare qui sdraiato e cercare di riposare». 

Mary Welsh Hemingway, giornalista statunitense, fu la quarta moglie dello scrittore. Alle nozze lei aveva 38 anni, lui 47. Qui sono a un safari in Kenya nel 1952. Il 25 settembre 1960 dopo essere andato a visitare il suo adorato Museo Prado le aveva scritto: «I quadri sono meravigliosi, la luce perfetta. Ci sono tanti problemi, ma li risolveremo tutti. Devo uscire da tutto questo e ritornare con te alla vita sana di Ketchum e mettermi in forma per scrivere bene». Prima dell’ incontro con Adriana questi problemi non esistevano o per lo meno erano contenuti in proporzioni ragionevoli: li ricordo a Cuba nella loro vita, diciamo così, normale. Mary ogni mattina nuotava a lungo in piscina prima di preparare la famosa bistecca che piaceva tanto al marito; Hemingway andava a fare una passeggiata nei suoi campi, coi suoi bermuda troppo larghi e il suo bastone da antico personaggio della Odissea. Mary cercava di fargli fare delle cose e il più delle volte lui l’ accontentava, ma ricordo una volta che Mary aveva combinato una commissione da fare col factotum Jean e Hemingway che avrebbe voluto fare un’ altra cosa si era messo a battere i piedi per terra e a gridare come un bambino. Facevo fatica a credere che fosse vero, tanto più che era stata Mary ad averla vinta. Mi ero fatta raccontare tante volte come aveva fatto a conquistarla, ma in realtà il vero racconto l’ avevo avuto dal fratello di Hemingway. Mary era a Londra, vestita in uniforme perché stava facendo dei servizi da giornalista e, diceva il fratello di Hemingway, «aveva sempre le calze tirate senza una piega», era sempre sorridente, non parlava mai del marito dal quale avrebbe presto divorziato e faceva di tutto per farsi invitare a pranzo dal marito che avrebbe presto sposato. Nelle sue memorie Mary dava una versione più romanzesca. Era stato Irwin Shaw a presentarla a Hemingway a una colazione, impressionato dal golfino che Mary portava senza reggiseno. Hemingway si era fermato al tavolo e l’ aveva invitata a colazione per l’indomani. L’indomani sera però Hemingway l’aveva raggiunta al Dorchester Hotel dove Mary dormiva con un’amica e, se è vero quello che lei scrive nelle sue memorie, le aveva chiesto di sposarlo, confermando la richiesta la notte stessa nel letto matrimoniale di Mary. La sua abilità di moglie-geisha le ha consentito una vita privilegiata da grande stella fino agli anni della malattia finale del marito. La salute di Hemingway aveva cominciato a tradirlo già nel 1949, quando era stato internato a Padova nella casa di cura Morgagni, ma di là era tornato a Cortina e nell’ottobre lei era ritornata a Cuba con una nuova pelliccia di visone sul braccio; però cominciava a essere stanca delle «ripetizioni» nella conversazione di Hemingway. Pare poi che la sottomissione di Mary avesse anche un risvolto economico; ma forse questo non importava a Hemingway che dice in una lettera del 22 dicembre 1953: «Questa è stata la settimana più felice della mia vita». Qualcosa doveva esserci stato, perché neanche nel momento più turbinoso della sua passione per Adriana le abbia chiesto di lasciarlo; e lei abbia sopportato umiliazioni pesanti e lo abbia curato con devozione negli ultimi anni terribili che hanno seguito l’ incidente aereo nel safari in Africa. Così «quella» notte gli ha augurato «Buonanotte agnellino, dormi bene», lui le ha risposto «Buonanotte gattino», e ha sceso le scale e si è sparato un colpo di fucile nel cervello. Il commento di Mary nell’autobiografia è: «Ho tremato un’ora incapace di controllare i miei muscoli. Poi in un lampo mi sono chiesta perché dovevo lasciarmi distruggere a questo punto dall’improvvisa violenza che avevo anticipato a lungo ma troppo vagamente». Così era finito un amore, o almeno una storia, di diciassette anni.

Marco Cicala per il Venerdì- la Repubblica l'11 luglio 2019. Qualche anno fa, in un albergo di Siviglia, rilessi all' anziano matador de toros Jaime Ostos quanto Ernest Hemingway aveva scritto su di lui vedendolo in azione nell' arena a metà del secolo precedente: «Jaime Ostos mostrò lo stesso coraggio dei cinghiali delle Sierras della sua regione. Come il cinghiale, dava prova di un' audacia quasi folle e rischiava sempre più grosso fino a sembrare uno che vuole suicidarsi». Riascoltando quelle parole, Ostos minimizzava lusingato, col suo ghigno da cinghiale. Commentò: «Hemingway era una cara persona, un sentimentale. Beveva molto. Faceva colazione con una bottiglia di vino e due croissant. Come scrittore non si sentiva capito. Diceva: forse non riesco più a esprimermi, ma io continuo a scrivere le cose come le sento e non posso che andare avanti così». Incompreso Hemingway? L' uomo del Nobel e del Pulitzer? Dei bestseller globali? Sì, il vecchio torero ricordava bene. Perché "Ernie" appartiene ormai alla riserva protetta dei classici, ma per tutta la vita venne incornato dalla critica. Nei romanzi e ancora di più nei racconti, aveva scarcerato la prosa inglese dall' eloquenza, dall' enfasi, dal fronzolo vittoriano, però - a giudizio dei suoi detrattori - si era lasciato imprigionare troppo presto in uno stile da duro che rasentava l' autoparodia involontaria. Mr. Papa incassava quegli attacchi malissimo e già alla fine degli anni Trenta denunciava i sintomi paranoidi della sindrome da accerchiamento: «Mi odiano, vogliono farmi fuori» si legge in una lettera. Lo scontro più celebre, se non altro perché fisico, con un critico ebbe luogo a New York nell' agosto '37. Prima di ripartire come reporter per la guerra di Spagna, Hemingway incrocia negli uffici dell' editore Scribner un tizio col quale ha un conto in sospeso. Si chiama Max Eastman, è il giornalista che dalle colonne della rivista progressista New Republic ha malmenato il suo "trattato" sulla tauromachia Morte nel pomeriggio sfottendone soprattutto il machismo: la boria, ha scritto, «di chi si appiccica peli finti sul petto». L' ego virile sanguinante, "Hem" se l' è legata al dito. Nei locali della Scribner lo vedono afferrare un libro e scagliarlo in faccia al recensore. I due si avvinghiano, rotolano sul pavimento rovesciando scrivanie. Seppur con gli occhiali rotti, Ernest - che è più grosso e pratica il pugilato - sta per avere la meglio, ma si trattiene. Li separano. I duellanti si ricompongono bofonchiando parole di scusa. Sotto lo sguardo impietrito del grande editor Max Perkins, la bagarre si chiude lì. Ma il livore anti-Hemingway avrà vita lunga, cristallizzandosi in un pregiudizio che, oggi, nell' impero del politicamente corretto, rischia di trovare nuova linfa. Macho col sorrisetto sghembo alla Clark Gable, robusto amatore e bevitore, fanatico di corride, pescatore nei Caraibi, cacciatore in Africa... A 120 anni dalla nascita - 21 luglio 1899 - è di quell' Hemingway poseur che tornano a parlarci molte tra le foto, alcune inedite, raccolte nel sontuoso volume mondadoriano Hemingway. L' uomo e il mito. Ecco, appunto: il mito. «Io non lo sopporto. È semplicistico, limitante, stupido. Il vero Hemingway era una personalità complessa, ricca di sfumature. Era affettuoso, crudele, una brava persona e un bastardo, un tipo insicuro, spaventato dalla vecchiaia e dalla morte. Certo, la responsabilità dell' aver creato il mito fu in parte anche sua. Commise l' errore nel quale incappano spesso i "famosi": quello di pensare di poter controllare il proprio mito. Ma non funziona così: il mito assume una vita propria». Ed è lui a controllare te. Parola di Michael Katakis. Oltre che curatore dell' album ora tradotto in italiano, è il signore a cui gli eredi hanno affidato l' onere gravoso e invidiabile di gestire i diritti mondiali di Hemingway. Buttali via. Katakis vigila e tratta non solo sui libri di Mr. Papa ma pure sulla massa di cimeli oggi custoditi alla John Fitzgerald Kennedy Library di Boston. Lettere, telegrammi (tra i quali uno in cui l' ancora senatore JFK chiede a Ernest di chiarirgli il concetto di "coraggio"), plichi "top secret" dei servizi militari di intelligence sotto Eisenhower, e poi assegni, scontrini di librerie, biglietti di aerei, treni, navi... Più una marea di foto: undicimila. Hemingway è stato lo scrittore più fotografato del Novecento. Ma che rapporto aveva con la propria immagine? «La curava molto» risponde Katakis. «Oltretutto aveva la fortuna di essere fotogenico. Ha presente le famose foto realizzate a Sun Valley, Idaho, nelle quali lo vediamo con i figli o con Gary Cooper? Sono sbalorditive, alcune vennero scattate da Robert Capa. Ma Patrick, il secondogenito di Hemingway, mi ha confessato che erano costruite a tavolino per promuovere quella località. Succedeva spesso che al padre offrissero alloggio gratis e altri vantaggi per usare la sua faccia a scopi pubblicitari». Questa di Hemingway cripto-testimonial turistico ci mancava. Il narcisismo "mediatico" di Ernest era cominciato molto presto. Prendi quello scatto celeberrimo che a Parigi, da giovane, lo ritrae insieme a Sylvia Beach davanti alla libreria Shakespeare and Company: Hemingway sogghigna spavaldo con la testa fasciata da una benda delle dimensioni di un turbante. Che gli è successo? Niente di speciale. Una notte che era sbronzo si è alzato per andare al gabinetto, ma al buio ha scambiato la catenella dello sciacquone con quella della luce e tirando di strappo s' è fatto crollare la plafoniera sulla zucca. E il giorno dopo eccolo lì che sfoggia la cicatrice nemmeno fosse una ferita di guerra. Civetterie di un esibizionista precoce, ma anche di uno che, fondendo esperienze vissute e scrittura, aveva deciso di scaraventare in quell' impresa tutto se stesso, a cominciare dal proprio corpo. E, dalle 220 schegge di mortaio austriaco che a diciott' anni s'era beccato nelle gambe mentre faceva l' ambulanziere sul fronte italiano ai terribili incidenti aerei durante il viaggio africano del '54 dal quale rientrò mezzo cieco e sordo, con cranio ustionato, fegato e rene stritolati, fratture multiple alla spina dorsale, quello di Hemingway fu - in vita - il corpo più martoriato nella storia della letteratura. A un secolo di distanza è davvero difficile rendere l' idea dell' impatto che una simile figura di scrittore-personaggio produsse sulla scena letteraria dell' entre-deux-guerres. Per quanto i bollori dei "folli" anni Venti incoraggiassero certe trasgressioni, Ernest Miller Hemingway atterrò in quella temperie come un venusiano. Era un giovanotto della buona borghesia di Chicago che, contro i desiderata di una madre arpia e della propria classe, aveva rinunciato all' università per mettersi a fare il sordido mestiere di giornalista. Il vero scrittore «è uno zingaro» avrebbe teorizzato più tardi, ma nomade lui lo divenne da subito. Tra viaggi, guerre e rivoluzioni spesso vissute come vacanze estreme, «Hemingway est tout le temps dehors», è sempre da qualche parte là fuori, chiosava un critico francese. Rompendo con l' immagine del letterato ottocentesco sigillato in uno studio, Mr. Papa scrive in alberghi, bar, accampamenti nella savana. Perfino quando lavora in casa sembra circondato da una caotica atmosfera di provvisiorietà non sedentaria. Quanti la visitarono prima che venisse plastificata a museo, raccontano la dimora cubana della Finca Vigía come un delirante bric à brac di poltrone sfondate, pendole scariche, teste di bufalo, pelli di antilope, pugnali, cavallucci di Murano, pipistrelli sotto formalina, quadri di Miró, Braque, Masson, cappe da torero, medicinali, e le pareti del bagno cosparse di graffiti perché Hemingway si controllava la pressione ogni giorno annotandone i valori sul muro. Ernest gira in bermuda sorretti da uno spago o da una cintura con su inciso Gott mit uns sottratta al cadavere di un tedesco durante l' ultima guerra. Un filo balbuziente, in Europa e a Cuba parla un esperanto di sua invenzione nel quale mescola spagnolo, francese e italiano. Negli States ha invece il vezzo di esprimersi come i pellerossa nei vecchi western o nelle barzellette: «Io scrivere libri.

Io pensare mai» ridacchia, contro gli intellettuali. Anche grazie a stravaganze del genere, Hemingway divenne «un trendsetter, un creatore di tendenze», ricorda Katakis. I giovani, ragazze comprese, iniziarono a radunarsi nei posti da lui celebrati, a scimmiottare il linguaggio prosciugato, allusivo e così contagioso dei suoi libri. Che all' occasione non disdegnavano il turpiloquio. Defense of Dirty Words si intitolava un articolo del '34 nel quale "Ernie" giustificava quel vocabolario per amore di realismo. Osserva Katakis: «Oggi viviamo in un' epoca politicamente corretta. Per certi aspetti va benissimo, mentre su altri è repressiva e stupida. Penso che Hemingway comprenderebbe il fastidio odierno, che so, verso la caccia, ma credo che non accetterebbe limitazioni alla libertà di dire o scrivere. Lui non aveva paura delle parole. Cercava sempre di scrivere com' era realmente il mondo, non come desiderava che fosse. A me pare che in quest' epoca teoricamente illuminata continuiamo a incontrare la stessa quantità di stronzi di sempre. Oggi però non si può chiamare figlio di puttana un figlio di puttana. Bisogna chiamarlo uomo d' affari o banchiere». Tra pochi giorni si aprirà a Key West, Florida, il tradizionale concorso per il miglior sosia di Hemingway, arrivato quest' anno alla 39° edizione. Per quale altro scrittore si organizzano gare tra imitatori? Non me ne viene in mente nessuno, ma posso sbagliare. La kermesse si svolge allo Sloppy Joe' s, uno di quei bar dove Hemingway, trincando, raccoglieva materiale per le sue storie, ma nei quali vide pure il proprio mito impazzire come la maionese. Nel '50 scriveva a un amico: «Entri in un locale notturno e subito ti si avvicina uno che ti fa: "Lei è Hemingway, vero?" e ti molla un cazzotto senza dare spiegazioni, oppure comincia a strofinarsi contro tua moglie... Henry James non aveva di questi problemi». Non era più vita. La leggenda cominciava a fare a pugni col suo campione, ma adesso lo trovava stanco, imbolsito, amaro. Forse le foto più belle sono quelle in cui il vecchio Ernest dorme, spesso visibilmente ciucco. Aveva vissuto tanto, troppo per infilare tutte le cose viste e provate in quel piccolo imbuto che è la letteratura. Si aggrappava ai ricordi e quando, per sottrarlo agli abissi maniaco-depressivi, gli svuotarono la memoria con una quindicina di elettroshock, disse: «Mi hanno rubato il mio capitale». Ma ricordava ancora come si carica un fucile dal caccia, e all' alba del 2 luglio 1961 lo usò contro di sé. Mosso da un' ambizione senza scrupoli, era stato irriconoscente fino alla perfidia con gli amici, da Sherwood Anderson a Scott Fitzgerald, che lo avevano aiutato a diventare chi diventò. Però poteva essere anche d' una generosità sfrenata e quelli che gli volevano bene assicurano che sotto il carapace era «fragile come una meringa». Tutti gli eroi dei suoi libri sono degli sconfitti. Non dei falliti in senso borghese, ma degli uomini che scommettono, si buttano nella lotta vitale e falliscono. Speculare all' ossessione americana del successo, il fallimento è il tema chiave dell' arte di Hemingway. E forse quello che più irrita un' epoca anti-tragica e idiotizzata dal progresso come la nostra. Una volta Fernanda Pivano mi disse che Hemingway considerava Morte nel pomeriggio il suo libro migliore. Perché? «Per via del capitolo 16» rispose "la Nanda". Sono le pagine in cui "Ernie" spiega la propria poetica del personaggio, dell' emozione, dell' omissione deliberata. A me però il capitolo più importante è sempre sembrato il 20°, l' ultimo. Mr. Papa - che aveva un talento speciale per i finali struggenti - lo scrisse nel dicembre '31 ed è un elenco di tutte le toccanti cose spagnole che lui non è stato in grado di mettere nel libro: "Se fossi riuscito a fare un vero libro, ci sarebbe stato dentro tutto... le giornate di treno in agosto con le tende abbassate dalla parte del sole e il vento che le gonfia... l' odore del grano e i mulini a vento di pietra... le strade innaffiate nel sole e le gocce ghiacciate sui boccali di birra... le cicogne sulle case e volteggianti nel cielo... un caldo che nessuno sa che cosa sia il caldo finché non c' è stato..."». Stilista supremo (riscrisse la fine di Addio alle armi 47 volte), venuto su nella palestra del Modernismo con Joyce, Pound e Gertrude Stein per trimurti, Hemingway non è riuscito a fare un "vero libro con dentro tutto" non per imperizia, ma perché nel Novecento la letteratura ha divorziato dalla totalità, dall' idea dell' autore onnisciente. Death in the Afternoon è perciò un frammentone di 300 pagine. Stavolta a fallire non è più un personaggio ma l' artista, l' opera d' arte stessa. Che, per quanto lunga, rimarrà sempre incompiuta. Del resto, moriamo tutti incompiuti. Maledettamente incompiuti - avrebbe detto lui.

·         Ian Fleming: il mappatore.

Ferran Bono per “El Pais” - pubblicato da “la Repubblica” il 4 dicembre 2019. Traduzione di Luis E. Moriones. Le mappe erano vitali. La sconfitta britannica e francese nella campagna di Norvegia contro l' esercito nazista, nell' aprile del 1940, mise in evidenza la necessità di disporre delle migliori e più aggiornate mappe per vincere la seconda guerra mondiale. Gli aviatori inglesi non avevano le informazioni necessarie per localizzare i loro obiettivi e molti rientravano alla base senza aver sganciato nemmeno una bomba. Le migliaia di mappe elaborate durante la prima guerra mondiale erano obsolete o incomplete. Il primo ministro Winston Churchill lo sapeva. E poco prima dell' offensiva per il controllo del ferro norvegese, il contrammiraglio britannico John H. Godfrey e il suo assistente del Naval Intelligence Service (Nid), Ian Fleming, autore anni dopo dei romanzi di James Bond, si misero in contatto con un prestigioso geografo dell'università di Oxford, Kenneth Mason. Bisognava creare un organismo capace di fornire nuove mappe agli Alleati. Al materiale esistente si aggiunsero nuove informazioni, raccolte sul campo grazie a confidenti e spie e a immagini aeree scattate dai ricognitori della Royal Air Force. Si ottennero altre informazioni anche dalle foto scattate dai turisti britannici che avevano viaggiato in Europa prima della seconda guerra mondiale e che erano state richieste dal governo con un annuncio tramite la Bbc. In Spagna, si effettuarono voli da Gibilterra per ottenere foto e mappare le principali città del Paese, in particolare la costa mediterranea e il Sud per il loro valore strategico. Sebbene l' esausta Spagna falangista si fosse dichiarata prima neutrale e poi non belligerante, inglesi e americani non si fidavano e temevano che Franco si unisse all' Asse o lasciasse entrare i nazisti (la cosiddetta Operazione Felix, mai portata a termine) per controllare un' area fondamentale, lo Stretto di Gibilterra e il Maghreb, da cui si domina l' accesso al Mediterraneo. Per tutte queste ragioni e per garantire il successo dell' Operazione Torch (Torcia) del 1942 - che prevedeva lo sbarco degli Alleati in Nord Africa e l' apertura del secondo fronte chiesto da Stalin per alleviare la pressione sui sovietici - l' esercito alleato pianificò l' Operazione Backbone (colonna vertebrale). L'obiettivo di questo piano era quello di invadere la Spagna meridionale e il protettorato marocchino, ma non venne mai messo in atto. Gli Stati Uniti hanno declassificato molti di questi documenti negli ultimi anni e oggi possono essere consultati presso le università del Texas (che ha mappe di circa 50 città spagnole) e di Princeton. È quanto ha fatto Fernando Sanz. Laureato in Geografia e storia e studioso di cartografia e storia militare, Sanz si stava dedicando a delle ricerche quando si è trovato davanti una mappa di Valencia, la città dove risiede, che ha attirato la sua attenzione. Era datata 1943, in piena seconda guerra mondiale. Il suo collaboratore, César Guardeño, ha scoperto che ce ne era una copia alla Princeton University e un' altra in Texas e che entrambi erano documenti elaborati un anno prima dall' esercito britannico, da una sezione dei servizi segreti creata dal leggendario John H. Godfrey. Questo ufficiale è passato ai posteri non solo per i suoi meriti militari, ma anche perché, molto probabilmente, ha ispirato il personaggio di M, il capo della spia britannica James Bond, protagonista della popolare saga letteraria e cinematografica. L' autore dei romanzi, Ian Fleming, non ha mai nascosto la sua ammirazione per Godfrey. Fleming stesso lavorò come spia a Gibilterra, con il compito di analizzare il comportamento della dittatura franchista nei confronti dei nazisti e di avviare un' operazione per sabotare qualsiasi tentativo di alleanza con l' Asse. Quell' operazione si chiamava GoldenEye, che è anche il titolo di un film di James Bond nonché il nome della villa di Fleming in Giamaica - oggi diventata un resort di lusso - dove scrisse i suoi popolari romanzi. Un passaporto dell' autore messo all' asta nel 2000 conferma il suo passaggio in Spagna nel 1941. «La mappa di Valencia era molto interessante, molto dettagliata, con una precisa indicazione degli obiettivi, disegnata a mano con le vecchie penne Rotring e con dettagli come quello della sabbia della spiaggia di Nazaret, che oggi non esiste più. Tracciarono meticolosamente anche il passaggio dalla spiaggia alla zona coltivata, come si può vedere nelle foto aeree. Era una mappa tattica per consentire azioni di combattimento, bombardamenti, sabotaggi, molto semplice e chiara, come richiesto dalle istruzioni dell' Istd», spiega il geografo. Istd è l'acronimo di Inter-Services Topographical Department, il corpo creato da Godfrey, da cui dipendeva l' Isis (Inter-Services Intelligence Series). Nella parte in basso a sinistra della carta si può leggere che la mappa di Valencia è stata fatta dall' esercito americano, ma sotto si spiega che è stata copiata da una dell'Isis nella stessa scala: «Allora l'esercito britannico e quello americano si scambiavano le informazioni ». La legenda della mappa fornisce molte informazioni. Sia quella di Valencia che quella delle altre città spagnole «erano classificate come informazioni riservate», dice Sanz indicando un angolo della carta aperta sul tavolo. Lo accompagna lo storico César Guardeño, co-autore della ricerca e dell' ampio e documentato articolo che la illustra, di prossima pubblicazione. La sigla Cb sta per Confidential Books (libri riservati). Sanz e Guardeño sottolineano che gli inglesi qualificarono le mappe come riservate per proteggere i loro informatori dalle reti di spie naziste e franchiste in un momento in cui entrare in una libreria e chiedere una mappa era sospetto. Non a caso negozi come le tabaccherie erano gestiti in Spagna da persone fedeli alla dittatura. Sanz sottolinea anche «il lavoro prezioso e silenzioso » delle persone che «misero a rischio la propria vita» trasmettendo le informazioni necessarie alla realizzazione delle mappe: «Eroi anonimi».

·         Le Memorie di Giorgio De Chirico.

Camillo Langone per “il Giornale” il 20 novembre 2019. «Io sono un uomo eccezionale, che tutto sente e capisce cento volte più fortemente degli altri». «Con quel coraggio indomabile, quella volontà di ferro e quel disprezzo assoluto dell' opinione altrui che mi hanno sempre guidato nella vita». «Anche allora, come oggi, ero io il più buono e il più intelligente di tutti». Potrei continuare coi virgolettati ma ormai è chiaro: Memorie della mia vita di Giorgio De Chirico (La nave di Teseo) potrebbe sottotitolarsi Elogi e stroncature. Dove gli elogi sono rivolti innanzitutto a sé stesso perché il grande pittore metafisico aveva l' autostima a mille, come oggi nemmeno un rapper americano coi denti di diamante. Le sue sempre roboanti e spesso divertenti affermazioni a volte ricordano Salvador Dalí, a volte Carmelo Bene, a volte Vittorio Sgarbi, di certo nessun pittore italiano vivente. È naturale: nessun pittore italiano vivente può vantarsi di aver creato, tutto solo come ha fatto De Chirico, un fenomeno artistico di rilievo internazionale, e inoltre ogni pittore pennellante oggi in Italia è umiliato dalla marginalità dell' arte, dall' agonia del mercato, dalla crisi della nazione. Difficile autocelebrarsi in queste condizioni. Tuttavia l'inventore della metafisica oltre al genio e al contesto aveva dalla sua il carattere, «le eccezionali facoltà che possiedo io». Gli altri pittori, adesso vengo alle stroncature, a facoltà ovviamente scarseggiavano. E stiamo parlando di mostri sacri (per tutti tranne che per il dissacrante memorialista). Van Gogh è uno «pseudo-genio», Gauguin uno «pseudo-maestro», Cézanne un grande fra virgolette siccome i suoi quadri altro non sono che «crostoni». Simile spassoso vocabolario è usato nella stroncatura di Modigliani, il tipo del «pittore morto di fame, del genio smunto che, in una soffitta gelata, soffre per seguire un suo sublime ideale, sognando il capolavoro che deve procurargli gloria e quattrini e che di solito è un formidabile crostone, come sono appunto le figure e i ritratti di Modigliani, detto dagli snobboni Modì». A questo punto si potrebbe pensare che De Chirico si scagliasse solo contro i morti, risparmiando i contemporanei al fine di evitare guai. Nient' affatto. Nel 1945, anno di pubblicazione delle memorie, erano vivi sia Braque che Matisse, entrambi definiti «fabbricatori di pseudo-pittura», ed era vivissimo Dalí, altro gigantesco immodesto e però, purtroppo per lui, «antipittore per eccellenza». Erano ancora attivi tutti gli altri surrealisti più famosi, «campioni dei campioni dell' imbecillità modernistica». Il superpolemico metafisico si definisce «monomaco, colui che resta solo a combattere e davvero questo libro potrebbero intitolarsi De Chirico contro tutti: oltre che coi colleghi pittori ce l'ha coi critici, con Joyce, con Wagner, coi dodecafonici, coi francesi in blocco e perfino con poeti all' apparenza innocui come Paul Eluard, una faccia tra di onanista e di cretino mistico». Da decenni leggiamo lodi sperticate a Palma Bucarelli: nelle Memorie altro che lodi, la mitologica direttrice della Galleria d' Arte Moderna di Roma viene ritratta come «perfida organizzatrice» colpevole di una «profonda incomprensione per quanto riguarda la pittura». Da decenni leggiamo rivalutazioni di Giuseppe Bottai in quanto fascista colto e tollerante ma nelle Memorie il Ministro dell' Educazione Nazionale risulta invece «un protettore di tutti gli analfabeti dell' arte e un valido sostenitore di ogni imbecillità e di ogni snobismo di marca parigina». A proposito di fascismo: De Chirico non era un fascista, non lo era ovviamente nel '45 ma nemmeno prima perché era piuttosto un conservatore, un anti-avanguardista (sebbene sfiorò l' avanguardia negli anni di Parigi), un anti-politico, un individualista assoluto che anteponeva la propria arte a tutto. Figuriamoci se gli poteva piacere il comunismo di fronte al quale molti artisti si stavano genuflettendo. Nell'edizione ampliata del '62 (l' edizione seguita dalla Nave di Teseo) inserisce un passaggio rivelatorio contro «i congressi che attualmente organizzano le donne comuniste in favore della pace, con gran sfoggio di colombe più o meno picassiane e invocazioni perché non si fabbrichino più bombe atomiche. In quei congressi però non si dice, ma credo sia sottinteso, che se le bombe atomiche si dovessero fabbricare in Russia e soltanto in Russia, allora andrebbe bene, anzi benissimo e più se ne fabbricherebbero e meglio sarebbe». Sapeva pensare, oltre che dipingere, De Chirico, continuando a farlo anche durante la moda del cervello all' ammasso.

·         Renato Balsamo con un ritratto sapeva rubarti l'anima.

Renato Balsamo con un ritratto sapeva rubarti l'anima. Il pittore viveva al confine di due mondi, mare e montagna, terra e cielo, natura e uomo. Vittorio Sgarbi, Domenica 08/12/2019, su Il Giornale. Sfogliando il menabó del volume che sta per andare in stampa, ritrovo, con il volto di Renato Balsamo in diversi momenti della vita, tutta la attività pittorica, durata più di un cinquantennio, di un artista che è molto più vario e molteplice di come lo ricordavo. Già me lo figuravo inquieto nei lunghi anni di frequentazione bipolare, nel suo dividersi tra Sorrento e Cortina, non sapendo lui stesso, in questo radicale contrasto, se il cuore o la ragione fossero nell'uno o nell'altro luogo. Viene da pensare che il cuore fosse a Sorrento e la ragione a Cortina, ma è vero fino a un certo punto. Cortina era anche il luogo degli affetti, Rachele e la moglie Mina, dolcissima e amatissima. Il mare d'amore di Cortina, le stanze odorose di legno. Insomma, un uomo semplice, ma carico di contraddizioni. E mi accorgo ora che esse si riflettono anche nella sua produzione pittorica, che vede al primo numero un bellissimo cavallo pezzato, del 1952, l'anno della mia nascita. Quando ne scrissi la prima volta, nel 1985, Balsamo era un combattivo pittore figurativo, tra Surrealismo ed Iperealismo, in perfetto contrasto con il Postcubismo e l'Astrattismo di cui, nel suo temperamento almeno bipolare, lui stesso era stato esponente. Me ne accorgo adesso, vedendo una produzione che, negli anni 60, è fortemente sperimentale, in una rincorsa dell'avanguardia, sia pure tardiva, e, inevitabilmente, irrisolta. C'è un po' di tutto in quegli anni: Espressionismo, Surrealismo, Astrattismo, Concettualismo, tutti gli «ismi» possibili, con esiti formali che alludono a Picasso, a Bacon (addirittura con studi per vescovi e papi), con Soutine, Wilfred Lam, Matta; e chi più ne ha più ne metta. Ma tutti tentativi irrisolti o insoddisfatti. Fino a quando, sugli inizi degli anni 70, Balsamo è turbato dalla visione de L'isola dei morti di Arnold Boecklin, che interseca con la pittura di Magritte, in una contaminazione eloquente. È a partire di qui che, uscendo dall'ossessione della sperimentazione, Balsamo entra in una fase nuova e conflittuale con la sua stessa esperienza espressionistica e d'avanguardia. Boecklin è lo spartiacque, la sua Isola dei morti è un mondo ritrovato da cui ripartire senza ingombri ideologici, senza parole d'ordine. La storia non si ripete, ed è inutile iscriversi nella lista degli epigoni. Così Balsamo esce dalle formule obbligatorie del linguaggio dell'arte di quegli anni. È solo, ma è felice. Il nuovo approdo è il Surrealismo, e i maestri amici sono Max Ernst e Magritte. Balsamo li traduce in Naturalismo, nella natura accogliente degli ulivi, che diventano il soggetto prevalente della lunga stagione sorrentina, vissuta e ricordata. Sono i primi anni 80, scanditi da un rinnovato e sempre più convinto omaggio a Boecklin, in sintonia con Fabrizio Clerici. Le immagini del pizzo a strapiombo di Sorrento, dal mare, sono indimenticabili. Balsamo sta mutando pelle: nei paesaggi, nelle nature morte, nei capricci, c'è sempre una maggiore evidenza naturalistica, temperata da una luce morbida che carezza gli oggetti, negli interni. Balsamo si muove fra le nuvole, al di sopra delle cime, fino a quando, tornato a terra, non rimane impressionato dagli ulivi, dalla loro corteccia accidentata, dalla loro stessa disarmonia e deformità. La serie di ulivi e grandi ulivi è una fuga dallo studio per trovare, nella natura, Dio. Sono quelli gli anni della nostra frequentazione, quando Balsamo propone una interpretazione antropomorfica degli ulivi di Puglia, come vecchi, come persone, anch'essi con la loro storia, con il loro tempo. Credo quegli ulivi danzassero contro un cielo sempre più azzurro, attraversato da nuvole di tutte le forme. Per quanto siano «fisiche», queste immagini, pur nella loro simbologia o allegoria, sono intimamente metafisiche, complementari alle vedute della costa di Sorrento come una barriera insuperabile. Nelle nature morte di questo tempo, Balsamo accentua il virtuosismo, dichiara l'orgoglio del mestiere, il piacere del disegno. Sono quelli gli anni di incontri che cambiano la vita e lo stile. Anche qui si parte da Boecklin, con il divertimento di un Boecklin che dipinge De Chirico. Con quel filtro, Balsamo racconta gli affetti e gli esercizi di ammirazione, in una serie di indimenticabili ritratti, svaporati, quasi monocromi. Se gli ulivi segnavano il rapporto con la forza della natura, questi ritratti indicano un dialogo di anime. Tra i primi, ancora in una fase iperrealistica, il ritratto di Mario Rimoldi, il collezionista che lasciò le sue opere alla Casa delle Regole di Cortina, di cui Balsamo fu a lungo direttore. I soggetti sono legati alla vita familiare, la madre, la moglie, la grande suocera Rachele. Ma ci sono anche gli scrittori e amici Giovanni Comisso e Giorgio Soavi, e poi Umberto Tirelli, il costumista di Visconti, e Pietro Barilla, e Riccardo Muti, e Zoran Music. E altri, legati alla committenza, per ragioni professionali: come gli studiosi Terisio Pignatti e Lionello Puppi, i coniugi Menego, i galleristi Tiziano a Paola Forni. Un universo di persone e conoscenti, restituiti con l'evidenza delle loro anime, in una pittura trasfigurata, tendenzialmente monocroma. Alla galleria non mancano numi tutelari, grandi vecchi, come Franco Parenti, Antonello Trombadori, Mario Luzi, Neri Pozza. Ma uno spazio particolare tocca a me e alla mia famiglia, in particolare a mia madre, che entra nella pittura accostante, insinuante ma oggettiva, come una presenza carica di vita. Ponte naturale tra lui e me, nella vita. Quando poi, senza pose romantiche (Muti, Soavi) o atteggiate (Montanelli), Balsamo si misura con me, in un memorabile ritratto, dove pretende di rubarmi l'anima, io sono fermo davanti a lui, in atto di sfida. È forse il suo ritratto più bello, più onesto, più severo, fra tanti affettuosi, dolci, deferenti. Noi ci parliamo, e lui mostra di capirmi, in allegoria, come non ha fatto con nessun altro: dietro quel giovane risoluto e temerario, con le mani nervose, ci sono due protettori, autorevoli e solenni, due angeli custodi: a sinistra Roberto Longhi, a destra la Regina di Saba di Piero della Francesca. Scacco matto. Per ritrarmi, Renato non ha bisogno di me soltanto, ma vuole evocare i fantasmi della mia mente, vuole stanarmi. Vuole dirmi: «non dimenticarmi»; «ricordati di me». Esattamente quello che sto facendo ora. Renato, eccomi.

·         Povero Belli.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 27 novembre 2019. Povero Belli: miracolo di nevrosi creativa, prodigio d' energica ipocondria, fulgore contraddittorio, groviglio di altissima poesia. Ma povero davvero, Giuseppe Gioachino, perché solo attraverso le sue confessioni si riesce a comprendere quanto poco lieta fu la sua vita, costantemente dominata da un senso oscuro di minaccia incombente, preda, scrive di se stesso, «del destino e del diavolo». E non era, come pure poteva sembrare a quei tempi, una posa o un vezzo d' artista svenevole e preromantico. Osservate con lo sguardo del cuore, ansia e infelicità vengono fuori dalle lettere che vanno dalla gioventù al momento in cui, nell' autunno 1837. Belli ebbe tali e tanti guai, e tutti piombatigli addosso nello stesso momento, da disamorarsi fino a ripudiare l' opera colossale e semi-clandestina, quel "monumento alla plebe di Roma" che è poesia assoluta, lirica prosaica e visionaria, ma densa anche di cronaca, politica, teologia, storia sacra, geografia, antropologia; una variegata profondità di spunti popolari e universali da coinvolgere, in un corpus di 2279 sonetti composti in pochi anni, non solo il bene e il male di vivere, ma anche ciò che dovrebbe seguirne: «E pper urtimo, Iddio sce bbenedica,/ viè la Morte,/ e ffinissce co l' inferno ». Così, osservato a distanza di due secoli negli affetti come nelle incombenze, sottoposto ad autopsia epistolare nelle sue smanie e fragilità, ecco che "Peppe er tosto", come si firmava, genio comico e ritmico, giocoliere di parole al livello di Rabelais, Joyce e Gadda, si rivela un' anima in pena: onesto ma pavido, mite e pignolo, permaloso e lamentoso, sempre afflitto da qualche affanno e malanno; un tipo anche brillante, curioso e culturalmente illuminato in una società più che retriva, eppure troppo spesso depresso, però anche tentato da un certo istrionismo, per poi ricadere nella solitudine, tutt' altro che beata, dell' auto-nascondimento. Troppe diverse persone, si direbbe, in una sola fuggevole e in fondo inafferrabile personalità. Accademico ed erudito vorace e irrequieto, tale da passare le occhiute dogane pontificie con i libri proibiti "sotto cappotto", e tuttavia scialbo, lezioso, forse anche un po' ipocrita autore di poesie in lingua italiana (a cui però teneva moltissimo); partecipe idealmente, ma al tempo stesso lungi dall' impegnarsi personalmente nei moti progressisti che a quel tempo agitavano l' Italia e l' Europa, spaventato quando viene a sapere che Mazzini va diffondendo un suo sonetto anti-papalino; cristiano sincero e problematico, ma qualcosa non torna se si pensa che dalla sua penna escono tra le più spaventose blasfemie della storia letteraria mondiale. Tutt' altro che maledetto, del "Commedione". Impiegato a lungo nullafacente, come usava ai borghesi benestanti, tiene i conti di casa, ama viaggiare, adora Milano "città benedetta", ma non esce mai dall' Italia; sposatissimo a una donna più anziana e ricca, Mariuccia, tipico marito che ha appeso il cappello, ma poi finisce per volerle davvero bene, nel frattempo innamorandosi di contessine e attrici di grido, a loro volta destinatarie delle lettere più interessanti e sconcertanti, un po' da pavone, vai a sapere quanto sincere. Padre ansioso, severo e soffocante, ma pronto a dolersi se il figliolo posteggiato a studiare a Perugia, Ciro, gli si rivolge con il "lei", agognando dal fanciullo il più famigliare "voi". Uomo da mille problemi e contraddizioni, letterarie ed esistenziali. Fino al dilemma dei dilemmi, e cioè come sia stato possibile, di punto in bianco o quasi, che da massimo demolitore del potere temporale e supremo sbeffeggiatore del governo dei preti, si sia fatto codino, reazionario, censore pontificio, addirittura destinando l' opera sua magnifica e sotterranea, già lodata da Gogol e Saint-Beuve, nientemeno che "alla fornace" - salvo affidare tale compito a un intelligente monsignore, Vincenzo Tizzani, che si guarderà bene dal farlo. Poche avventure artistiche sono così ambigue e tortuose come quella belliana. Basterebbe questo a spiegare l' importanza storica e l' impresa editoriale che l' editore Quodlibet si è assunto nel pubblicare l' Epistolario 1814-1837 (1202 pagine, 90 euro), volumone come se ne fanno ormai purtroppo di rado, 597 lettere di cui 150 completamente inedite, 500 i testi riportati dei suoi corrispondenti in un tripudio anche tipografico di varianti, note, fonti, abbreviazioni, parentesi di ogni ordine e grado e perfino note che consentono di approfondire il vissuto di "996" (come pure a un certo punto sigla i sonetti) indicando i pesi, le misure e il valore dei soldi nel primo Ottocento a Roma. L' accurata introduzione è affidata al giovane filologo-detective Davide Pettinicchio che al mare magnum della corrispondenza belliana ha dedicato qualche anno di vita ed energia orientandosi tra lettere originali, pubblicate, non pubblicate, copiate, fotocopiate, rubate, negate, alcune anche recuperandone in giro per l' Italia da archivi, biblioteche, fondi famigliari discendenti del Belli e dei suoi antichi destinatari. Qualche mistero adesso si chiarisce. Sia l' esplosione in romanesco che il suo spegnersi trovano riscontro biografico, secondo Pettinicchio, in due crisi che appaiono insieme pubbliche e private. Nel primo caso, la scelta della lingua ha l' apparente leggerezza di un divertissement che via via si fa esperimento, scorciatoia comunicativa, espediente che permette a una sensibilità estenuata di contenere il dolore con il riso. E tuttavia, tanto più in una stagione politica velleitaria e parolaia, l' autentica e irrefrenabile eruzione vulcanica che porta Belli a scrivere anche dieci sonetti al giorno, ciò che lo precipita nel pozzo nero della miseria, al fondo dell' ignoranza e della barbarie, dentro la rabbia sociale e la potenza dell' osceno, ecco, altro non è tale calata nel profondo che il frutto di una "crisi di presenza", malattia dell' animo, categoria interpretativa utilizzata un secolo dopo Ernesto De Martino. Con l' artificio e la torsione della mimesi, Belli recupera a se stesso un rapporto finalmente vero con la parola, la voce, il corpo e la realtà: donde lo sfavillio del capolavoro. Quanto alla fine del torrente lavico dei sonetti, tutto si compie tragicamente in una manciata di giorni: morte improvvisa della moglie, scoperta del disastro economico domestico, creditori sull' uscio, trasloco umiliante presso parenti ricchi, figlio lontano in tutti i sensi, insomma la catastrofe gli piomba addosso mentre a Roma - di nuovo l' aspetto pubblico - infuria una terribile epidemia di colera che costerà 10 mila morti. E stringe il cuore in quei giorni di sofferenza e di panico leggerlo e rileggerlo alle prese con un certo "medagliere" che dalle Marche l' hanno pregato di piazzare, e lui non sa, non può, è a pezzi, ma teme si possa pensare che se ne sia appropriato... Fra le due crisi, l' una generativa e l' altra terminale, rivive e si consuma nelle lettere la più contorta relazione fra il poeta e quella che ai tempi non solo a lui doveva sembrare un' opera impossibile, ma che recitava apprezzatissimo nei salotti. Perciò dei sonetti parla il meno possibile, per fuggevoli accenni, "sillabe romanesche", "versi da plebe", "le mie satiresche follie"; quelle che qualcuno avvicinerà un giorno a Dante e a Shakespeare. Povero e grandissimo Belli. «Intanto il Tevere corre e correrà sempre - scrive - come se il Signor Giuseppe non fosse mai nato».

·         Parlando di Rossana Rossanda.

«Lucio è morto per una scelta anche politica». Pubblicato sabato, 08 giugno 2019 da Maurizio Caprara su Corriere.it. «Un’Italia così non me la ricordavo. L’avevo lasciata nel 2005-2006 per trasferirmi a Parigi. Il clima di adesso è pieno di risentimento. Tutti ce l’hanno con tutti», sostiene Rossana Rossanda, classe 1924, un nome che dice poco ai ragazzi di oggi e che tra la fine degli anni Sessanta e nei due decenni successivi era noto a parecchi nelle università e nelle scuole. Nata a Pola, diventò comunista tra Milano e Venezia nel 1943 mentre la repressione nazifascista contro i partigiani era feroce. «Li ho visti gli impiccati, il collo storto, le membra lunghe e abbandonate», scrisse successivamente. Il viso di questa donna che adesso si muove su una sedia a rotelle sembra tuttora meno anziano di quanto è. In gran parte lo si deve a un aspetto: agli occhi di molti, li ha da sempre i capelli di un grigio argentato. Le si imbiancarono a 32 anni d’età, cambiarono di colore nel 1956. Successe durante i giorni dell’invasione sovietica dell’Ungheria. Dirigente locale del Partito comunista italiano, combattuta tra un certo spirito libertario e un’usurata fiducia per Mosca, lei rimase colpita dalla foto di un funzionario durante la rivolta ungherese. Era impiccato a un fanale. «Il povero e l’oppresso hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto», affermò 50 anni più tardi Rossana Rossanda nel ricordare quel periodo e i tormenti nella sua coscienza. Con un ragionare pacato nei toni e radicale nella sostanza, ha affascinato sia studenti della «sinistra rivoluzionaria» sia intellettuali italiani e stranieri. Nel 1969 sdegnò numerosi dirigenti del Pci, partito nel quale era cresciuta e che la radiò perché con il gruppo del Manifesto aveva condannato risolutamente l’invasione sovietica di Praga. Una nuova pagina nera, quell’aggressione sferrata da Leonid Breznev contro la capitale della Cecoslovacchia, in una storia immaginata in precedenza migliore. Rossana Rossanda rimase comunista anche quando Achille Occhetto, chiudendo un’era della politica italiana, dopo il 1989 propose di trasformare in Partito democratico della Sinistra il Pci nel quale lei non era mai rientrata. Nonostante tutto, non si è arresa. Con Luciana Castellina, il mese scorso, è intervenuta a un incontro nella Casa delle Donne per la campagna elettorale de La Sinistra. Mente lucida, labbra vivide con rossetto brillante, «La ragazza del secolo scorso», come Rossana Rossanda si definì in un suo libro edito nel 2005 da Einaudi, è seduta nello studio di casa a Roma. Qualche sguardo agli scaffali della libreria permette di rintracciare ingredienti sparsi della sua formazione e dei suoi interessi: La città futura 1917-1918di Antonio Gramsci, saggi in francese e in inglese, letteratura, filosofia. Molta la storia, dai ricordi di Marco Aurelio a The nemesis of power. The German Army in politics 1918-1945. La conversazione che segue comincia parlando della ragazza diciassettenne lasciatasi morire in Olanda, giorni fa, perché non desiderava più vivere. Fu Rossana Rossanda, nel 2011, ad accompagnare in Svizzera Lucio Magri, 79 anni, un altro dei fondatori del Manifesto, quando lui fece porre fine alla propria esistenza. Per età e motivazioni della scelta, due casi diversi. Così l’incontro è proseguito parlando di Magri e altri argomenti che il suo suicidio assistito può evocare. Che cosa è la vita, la propria vita, per alcuni ex dirigenti comunisti cresciuti nel sogno di un’uguaglianza nella giustizia secondo i termini teorizzati da Karl Marx. Che cosa hanno provato queste persone, nel Paese che ebbe il più forte partito comunista dell’Occidente, quando soltanto al principio degli anni Novanta riconobbero l’uscita del comunismo dagli eventi realizzabili in un futuro accessibile ai contemporanei. Che cosa è l’Italia di oggi vista a 95 anni dalla ragazza del secolo scorso. Doveroso premettere che Rossana Rossanda, tra 1978 e 1979, al Manifesto quotidiano è stata direttore di chi scrive queste righe.

Quali riflessioni derivarono dall’accompagnare Magri al suicidio assistito?

«Pensavo e penso che lui avesse diritto. Non mi sono opposta alla sua volontà di finire».

Affinché arrivasse il suo ultimo giorno andaste insieme vicino Zurigo. La misura nell’uso delle parole rende l’idea di quanto accade più di alcuni toni alti. Sulla morte di Magri la tua descrizione fu questa: «È stato tristissimo. Non terribile, ma tristissimo».

«Lucio aveva perduto sua moglie a causa di una malattia».

Mara, scomparsa tre anni prima. La mancanza di lei accentuò un suo malessere?

«Sì. Rispetto agli altri amici che non erano d’accordo sulla scelta di Lucio io non ho avuto difficoltà ad accompagnarlo. Ma per lui, come per tutti, decidere di morire non è semplice. E lui aveva la sensazione che ormai non c’era più niente da fare. Non solo, come è ovvio, per la sua compagna. Anche per la vita politica».

Dunque per quanto era successo dopo il 1989, l’apertura del Muro di Berlino, e la fine dell’Unione Sovietica nel 1991. Ma tu Magri e altri, nel 1969, foste radiati dal Pci perché eravate in contrasto con il vostro partito sull’Urss e sull’invasione della Cecoslovacchia. Perché risentire fino a quel punto della sconfitta sovietica? Fosti tu tra 1977 e 1979 a promuovere i convegni del Manifesto sulle «società post-rivoluzionarie», atti d’accusa contro la dittatura di Breznev.

«Fummo radiati perché eravamo in dissenso con il partito. Il nostro dissenso con l’Unione sovietica però veniva da lontano».

E come mai il collasso dell’Urss doveva essere motivo di disperazione per Magri?

«Perché non era solo il crollo dell’Unione sovietica, ma delle nostre speranze in Italia. Del resto guarda un po’ come va oggi. Non è che Lucio sbagliasse. Allora al governo c’era stato fino a poco prima Silvio Berlusconi».

Tuttavia sei stata ragazza durante il fascismo. Non è che in gioventù avessi vissuto momenti politici migliori per una comunista. Erano stati infinitamente peggiori.

«Ero giovane».

Rispetto alla vita, la vostra generazione ha conosciuto molto più dolore rispetto a chi in Italia è giovane adesso.

«Vedere finire ogni speranza di una vita diversa non è cosa da poco».

Non credi di aver dato ad altri insegnamenti che non si disperdono?

«Non mi pare di aver fatto niente di speciale».

Davvero?«Davverissimo».

Venivi ascoltata sempre con attenzione e rispetto in riunioni e assemblee. Le divergenze politiche e vicende della vita ci hanno portato in tanti su strade diverse da quella del Manifesto, ma, solo nel campo del giornalismo, tu sei stata considerata una dei maestri anche da Gianni Riotta, Lucia Annunziata, Norma Rangeri che invece al Manifesto è rimasta e lo dirige.

«È una vostra fantasia. Molte cose sono state insegnate a me. Avevo 15 anni nel 1939. Dal 1939 al 1945 ero già abbastanza grande. Ho imparato. Non era semplicissimo. Non è che si trovassero i comunisti o gli antifascisti così facilmente. Quindi sono stati i libri ad avermi fatto maturare, soprattutto quelli esteri. Penso a Fascisme et grand Capitaldi Daniel Guérin».

Credi che non esista alcuna prospettiva per la sinistra? E, dal tuo punto di vista, nessuna possibilità per un miglioramento del genere umano?

«Comunque quello che era un nostro progetto era proprio fallito. Adesso poi le cose sono peggiorate. Non è semplice accettare che la persona adesso con più peso in Italia sia Matteo Salvini. Non è un problema?».

Un italiano, qualunque sia la sua posizione politica, se lo considera problema non lo ritiene certo di vita o di morte. E tu, Pintor, Valentino Parlato, altri dirigenti della sinistra diffidando di vari estremismi insegnavate a fare i conti con la realtà: cercare di capire qual è il campo di battaglia e se le vie desiderate non funzionano, trovarne di nuove.

«In effetti è solo Lucio che anche per le valutazioni politiche ha deciso di finire. Noi no».

Che la fine di un sogno strutturato in ideologia possa causare disagio, dolore è comprensibile. Eppure a sinistra c’è chi rispetto ai comunisti ha azzardato meno nell’ambizione, nell’utopia, e ha compreso meglio la realtà. Molti socialisti, laburisti, socialdemocratici.

«Ma non è che il realismo ti obblighi ad accettare tutto».

Questo «tutto» è riferito alle ingiustizie, allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Però le condizioni dei lavoratori italiani sono migliori di 50 anni fa. Senza rinunciare a uno spirito critico sulla società attuale, è un dato di fatto. Andrebbe riconosciuto.

«Dipende. Bisogna misurarsi anche con le speranze. In ogni modo, io non mi sono uccisa. Ho accompagnato Lucio. E non credo che in Italia si stia meglio di 50 anni fa. Perché conta anche l’investimento che fai nelle speranze. Adesso ce n’è molto poco».

Un po’ come una spiegazione che il Manifesto diede delle proteste studentesche del 1977? Contava relativamente che i giovani non fossero poveri come lo erano stati i genitori, si sosteneva, se in tempi di crisi economica l’aver studiato non garantiva loro il tipo di lavoro sperato. È un paragone valido anche per l’oggi?

«Le aspettative delle persone contano. Anche adesso».

Tornando al rapporto tra situazione attuale, passato, speranze e delusioni incontrate dalla tua generazione, non solo da chi era comunista: ma voi non avete visto di peggio? E in tanti non reagiste con tenacia? C’erano stati la guerra e i campi di sterminio, in Europa, mentre eravate giovani voi.

«È un’altra dimensione quella dei campi di sterminio. Vale la riflessione di Primo Levi: chi non l’ha provato non ha conosciuto quel senso di annullamento».

Sopravvissuti ai lager nazisti della Shoah sono poi emigrati in Israele e lì hanno contribuito a far nascere banane nel deserto, a trasformare aree desertiche in zone coltivate. A maggior ragione la storia va spinta in avanti, non indietro.

«Sì, è vero. Però in questo contesto che cosa vuol dire: che Lucio aveva torto?».

Vuol dire che il suo dolore esistenziale e individuale merita rispetto, ma la sua scelta non era una via per tutti voi.

«Se rileggi i libri di Luigi neanche lui era molto positivo (Luigi Pintor, altro fondatore del Manifesto, direttore e corsivista brillante che spiccava per graffiante ironia e che allo stesso tempo soffriva il peso interiore di un’amarezza provata da quando nel 1943 il fratello Giaime morì su una mina, ndr)».

Di sicuro Luigi Pintor non era sempre ottimista. Il suo Servabo, parola latina che ha tra i suoi significati «conserverò» oppure «servirò, sarò utile», è un libro sofferto. Tuttavia sul serio anche molto utile.

«Certo. A quale aspetto ti riferisci in particolare?»

Pintor spiegò così come mai gli esseri umani, mortali, si sforzano «in forme esasperate» per accumulare denaro, costruire relazioni e avere potere: perché sentono di doversi curare quando in un momento dell’esistenza arriverà «l’accerchiamento finale». Però a chi assiste una persona cara che sta male alcuni passaggi di Servabo possono dare conforto. Soprattutto uno: «Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi».

«Comunque puoi capire che per qualcuno la speranza ideale, politica, sia una sfida di vita o di morte. Puoi dire: “Non sono d’accordo”».

Che cosa legge attualmente Rossana Rossanda? Che cosa guarda o che ascolta?

«Ho cercato di capire un po’ più della politica italiana ed è veramente desolante, devo dire».

Lo sostengono in parecchi, al di là delle collocazioni politiche. A volte, comunque, le persone delle quali non si condividono le idee possono fornire insegnamenti a ciascuno di noi se riescono a vedere qualcosa di noi che non vediamo o non vogliamo vedere.

«Vero, eppure nella circostanza specifica aiuta poco. E personalmente non ho rancori. Se penso al passato, neanche verso Giorgio Amendola. Constato che alcuni dirigenti del Pci, più tardi, hanno voluto demolire il Partito comunista. Hanno fatto bene? Non lo penso».

Parlavi di fallimento di un progetto. Ritieni possibile migliorare lo stato delle cose senza sottoporre a cambiamenti criteri e finalità dell’ideologia nella quale ti formasti?

«Domanda del tutto legittima. Ma sono convinta che l’Italia sia peggiorata, non migliorata in questo periodo. Da quando l’avevo lasciata, poi, è un Paese involgarito».

Rossana Rossanda e la radicalità del nuovo femminismo Politica. Lea Melandri il 26 Maggio 2019 su Il Dubbio. Non mi stupisce che Rossana Rossanda ancora una volta abbia saputo cogliere, in quella ripresa duratura del femminismo che è la rete Non Una Di Meno, la radicalità di un soggetto politico capace di portare allo scoperto il rapporto di potere e di sfruttamento che passa da secoli sul corpo delle donne. Al suo senso di giustizia attribuisco la lucidità con cui ha saputo sottrarsi a contrapposizioni semplificatorie e divisive intorno a temi come la prostituzione e la gravidanza per altri. Rossana Rossanda e la radicalità del nuovo femminismo. Se c’è un tratto particolare che distingue Rossana Rossanda dalla “donna qualunque tra milioni di altre”, appartenenti alla cultura greco romano giudaica – così come ama definirsi nell’articolo uscito su L’Espresso -, è il suo profondo senso di giustizia. Non saprei come definire altrimenti quel suo “dover essere” che l’ha portata fin dalla giovinezza a tenere fermi gli occhi sulla miseria, a diventare comunista, ma anche a riconoscere, dall’orizzonte del mondo e della grande Storia, l’anomala, imprevista “sfida” del femminismo degli anni Settanta alla politica: un movimento – scrisse allora Rossana – la cui portata “eversiva” consisteva nell’essersi inoltrato nelle “acque insondate delle persona”, in una materia segreta, imparentata con l’inconscio. La centralità che ha avuto sempre la lotta di classe nel suo percorso di donna, marxista ortodossa, militante nel Pci fino alla sua espulsione, fondatrice de il manifesto, non le ha impedito di vedere allora la “dimensione immensa” che sta nella identità di sesso, e nella cultura femminista, non un complemento, ma una “critica vera e perciò antagonista, negatrice della cultura altra”. Ma aveva fretta Rossana, avrebbe voluto che quella presa di coscienza delle donne cadesse con tutto il suo peso dentro il mondo personale e pubblico dell’uomo, che accelerasse la scomposizione dei poteri, che investisse come tema di riflessione l’insieme delle forze e dei soggetti sociali e politici. Temeva, a ragione, che da quelle acque “un po’ torbide” sarebbe stato difficile risalire, difficile dare umanità e immediatezza alla politica senza perdere la capacità di comunicazione, senza atomizzarsi nella pure cerchia della persona. La nostra amicizia si è collocata allora su questo crinale, fatto di curiosità, interesse reciproco e di sguardi affettuosamente critici. Non l’ho mai giudicata “una donna di potere”, non ricordo di averle neppure detto “tu sbagli” – come ha scritto in un articolo di Lapis. Capivo soltanto che la sua fretta, dopo l’avvicinamento degli anni Settanta e Ottanta – le trasmissioni su Radio Tre sulle parole della politica in dialogo con amiche femministe, gli articoli raccolti nel libro Anche per me, in cui ammetteva di essersi concessa “qualche scorreria” in territori del pensare rimasti per lei privati, vincendo l’indiscrezione del raccontarsi -, l’avrebbe allontanata da noi. Non è stato così, come dimostra la sua collaborazione negli anni 90 alla rivista Reti, diretta da Maria Luisa Boccia, e alla mia rivista Lapis, a cui ha regalato pagine sorprendenti per la coraggiosa esposizione di sé – il rapporto col suo corpo, l’invecchiamento, la morte, l’amicizia tra donne, la dipendenza dalle immagini del femminile ricevute dall’altro sesso e stratificate nella memoria profonda di ogni donna. Ma soprattutto, come ci tiene a sottolineare nell’articolo su L’Espresso, ha condiviso tutte le battaglie delle donne, sia pure con qualche riserva. Non mi stupisce perciò che, ancora una volta, con una maggiore distanza generazionale, abbia saputo cogliere, in quella ripresa duratura del femminismo, che è la rete Non Una Di Meno, la radicalità di un soggetto politico capace di portare allo scoperto il rapporto di potere e di sfruttamento che passa da secoli sul corpo delle donne, dalla sessualità alla maternità, dalla divisione sessuata del lavoro al binarismo di genere, all’eterosessualità obbligatoria, vista come fondamento biologico della famiglia patriarcale. Al suo senso di giustizia attribuisco la lucidità con cui ha saputo sottrarsi a contrapposizioni semplificatorie e divisive intorno a temi come il polimorfismo sessuale, la prostituzione e la gravidanza per altri. Quello che più conta per ogni scelta – dice Rossana -, anche quelle su cui abbiamo riserve, è la libertà di chi la pratica. Così è per l’aborto – «va eliminata dalla 194 l’obiezione di coscienza da parte dell’operatore della sanità pubblica» -, così per la Gpa – «impedirla vorrebbe dire mettere un limite alla libertà della donna e dell’uomo che lo desidera». Ma poi aggiunge: «Non per questo si deve ignorare che consentirla comporta un pericolo permanente di mercificazione». Altrettanto articolato nella sua complessità e nelle sue contraddizioni è il giudizio che Rossana dà per l’uscita dal binarismo sessuale: se sono augurabili forme più libere, polimorfiche, di sessualità e di famiglia, è importante tenere conto che non scompare per questo la tentazione di fissare regole, leggi, e di conseguenza nuovi rapporti di potere, che si parli di un terzo sesso, nuove intimità o famiglie omogenitoriali. Piuttosto che “nuove definizioni”, dichiara in modo sorprendente, meglio “incertezze e disordine”. Al suo sguardo partecipe e insieme “luciferino” non poteva sfuggire neppure quel “patto” che ha visto per secoli le donne esercitare, nella indispensabilità all’altro, un sottopotere sostitutivo di altri loro negati. Dalla sua intelligenza profondamente umana e dalla sua passione politica, abbiamo ancora molto da imparare.

·         Gaia Servadio.

UNA VITA GAIA. Antonio Gnoli per Robinson – la Repubblica il 12 settembre 2019. Davanti a un'insalata di riso, nella penombra di una allegra cucina in una casa della campagna umbra, Gaia Servadio sembra improvvisamente spogliarsi dei suoi ricordi, che sono ricchi di persone talentose e di esperienze talvolta uniche. Dopo un paio d' ore di conversazione, in cui il tintinnio delle parole risuonava armonioso, eccola alle prese con una terra arsa dal sole, l'acqua che scarseggia, e la solitudine che accarezza il vasto paesaggio e lascia lievemente attoniti. Londra è ormai diventata la sua patria e l' Italia una gradevole dependance dove alleggerire i pesi che l' inverno inglese, fatalmente, carica sulle spalle. Gaia ha tre figli, un secondo matrimonio con un uomo deliziosamente discreto e un congruo numero di libri alle spalle. Il primo, il romanzo "Tanto gentile e tanto onesta pare", decretò quasi per caso il successo letterario. L' ultimo è la storia di Giovanni Battista Belzoni: egittologo, avventuriero, esploratore e uomo di invidiabili risorse mentali e fisiche. Diventò famoso in Inghilterra anche grazie alle ammirate descrizioni di Charles Dickens e Walter Scott. Mi chiedo se nel ripercorrerne la vita Gaia non abbia trovato in lui argomenti e gesti consimili al suo carattere.

A leggere ciò che scrive, dà la sensazione di trovarsi a suo agio solo con gli argomenti nei quali rivede una parte della sua vita.

«Mi piace pensare che la scrittura catturi qualcosa del mondo che amo e nel quale mi riconosco. Ho scritto di Rossini perché mi identificavo nella sua musica, nel suo inimitabile umorismo; ho scritto di Visconti perché è stato l' italiano più sui generis che abbia conosciuto; ho scritto di Belzoni perché fu incapace di adattarsi alle convenzioni. In ognuna di queste storie, come in altre, c' è una parte di me».

Lei giunse in Inghilterra negli anni Cinquanta.

«Arrivai in un paese che faceva fatica a riprendersi. Londra era una città cupa e povera. Dai vestiti al mangiare, non si trovava nulla. Ricordo che mia sorella mi spedì una cassetta di arance. Fu un evento che scalfì la durezza del momento che attraversavo. Venivo da Parma, una città a misura della gente. Frequentavo, malgrado la giovane età, Attilio Bertolucci, Enrico Medioli, Luigi Magnani. Una provincia colta ma asfittica. E a volte maldicente. Londra era l' esatto opposto e all' inizio ne ebbi paura».

Cosa faceva a Londra?

«A 18 anni studiavo arte figurativa alla St Martin' s School of Art, nel cuore di Charing Cross. Mi piacevano la grafica e il giornalismo. Cominciai con delle piccole corrispondenze per la Gazzetta di Parma e poi ebbi l' occasione di scrivere per il Mondo di Pannunzio».

Lo ha conosciuto?

«Nel timore di dire le cose sbagliate restai intimidita l' unica volta che lo vidi. Mio padre conosceva Ernesto Rossi, il suo più stretto collaboratore. Per me era solo un nome».

Suo padre di cosa si occupava?

«Era un chimico. Ma si era laureato in fisica. Veniva dal gruppo di Enrico Fermi. Ma poi scelse di specializzarsi in chimica. Divenne amico di Primo Levi, anche lui chimico, oltre che scrittore. La nostra famiglia, di origine ebraica, durante la guerra fu perseguitata. Dal campo di concentramento ci salvò un carabiniere, fidanzato di una nostra tata. Riuscimmo a scappare in tempo prima che i tedeschi ci arrestassero. Dopo la guerra si parlò pochissimo di quello che era accaduto agli ebrei. Per lungo tempo ci fu una specie di rimosso».

Perché?

«Quelli che si erano salvati volevano dimenticare. E poi chi li avrebbe creduti? Per anni non riuscii a pronunciare il mio nome. Ne avevo vergogna. Come quando a scuola durante l' appello scandivano "Servadio" e io mi nascondevo, convinta che quel nome fosse infamante. Quando finalmente riuscii a scrivere della nostra vicenda familiare incontrai l' ostilità di mia madre e di mia sorella. Solo mio padre, ormai moribondo, mi disse che era giusto che raccontassi quella storia. Ora sto lavorando a un nuovo romanzo sulla storia di tre generazioni di ebrei».

Come ha imparato a raccontare storie?

«Per me è stato un misto di ambizione, di volontà e di occasioni che hanno favorito questa piccola vocazione. Il primo incontro significativo che feci a Londra fu con un editore importante, George Weidenfeld. Fu lui a introdurmi negli ambienti letterari. Una svolta in tal senso fu conoscere il direttore letterario dell' Observer , Terry Kilmartin. E poi Alberto Arbasino che fu per me il grande e involontario educatore. La prima immagine che ho di lui sono gli occhi un po' mongoli, le mani piccolissime e le sgargianti camicie attillate che indossava. Mi colpiva l' assoluta disinvoltura con cui si era calato nel mondo che avevo cominciato a frequentare».

Gli stava a pennello.

«Alberto era uno dei pochi italiani che poteva vantare un' autentica mise internazionale. Una volta ero a Nizza e lui arrivò al volante di una fiammeggiante MG decappottabile. Ero con Mary McCarthy, ci fece segno di salire. Andammo in direzione di Saint- Tropez, scappavamo felici da un noiosissimo convegno di editori».

Come aveva conosciuto la McCarthy?

«Fu il mio primo marito, Willy Mostyn-Owen, a presentarmela. Sospetto fosse stata la sua amante.

Willy parlava un buonissimo italiano, era stato assistente di Bernard Berenson e conosceva bene Mary che adorava il mondo dell' arte. Con Willy ci sposammo dopo un breve corteggiamento. Era un vero aristocratico, afflitto però da un senso di frustrazione dovuto a un padre che lo considerava una mezza calza. In comune avemmo la passione per i viaggi e per la musica. Non molto altro».

Certamente anche i figli e una serie di conoscenze.

«I figli sì, le conoscenze col tempo divennero mondi separati. Finimmo nell' infedeltà reciproca, nel disprezzo reciproco, nella noia reciproca. L' unica soluzione fu il divorzio. Fece bene a entrambi. Sicuramente a me, che consolidai alcune amicizie interessanti».

Una di queste fu con Philip Roth.

«Conobbi Roth a un pranzo a Chester Square. L' invito era arrivato da una dama americana. C' erano anche Martin Amis e Mick Jagger. A un certo punto la conversazione si indirizzò su Woody Allen e Philip, che era seduto accanto a me, mi chiese che cosa ne pensavo. Risposi che non mi veniva in mente niente e che forse l' argomento non era poi così interessante. La mia risposta innescò la sua curiosità».

Gli piacevano le belle donne.

«Non ne ha mai fatto mistero, ma aveva sposato Claire Bloom».

Com' era Roth in privato?

«Affettuoso e premuroso. Ma ricordo anche l' irritazione per Londra, che lo aveva stregato e col tempo deluso. Credo detestasse quel fair play sotto il quale si nasconde la peggiore spazzatura. Ricordo anche il disappunto con cui accolse la notizia che mia figlia Allegra avrebbe sposato Boris Johnson».

L' attuale premier inglese?

«Proprio lui. Philip detestava Boris, lo definiva "un ridicolo insettone albino" per giunta antisemita».

Condivideva quel giudizio?

«Boris, fin dagli anni di Oxford, dove aveva conosciuto mia figlia, sviluppò un atteggiamento di plateale arroganza. Verso tutti e tutto».

Un esibizionista?

«Ma capace di prendersi la scena. Philip voleva spezzare quel legame tra Boris e Allegra. E mi disse che, se glielo permettevo, avrebbe parlato con un suo amico, un senatore democratico che cercava un assistente per l' imminente campagna elettorale. Fui d' accordo. E quando tutto sembrava fatto, mia figlia mi chiamò e mi disse: sai mamma, ho deciso di rifiutare l' offerta americana. Perché? le chiesi. Dovrei stare troppo tempo lontano da Boris e questo significherebbe la fine del nostro rapporto. Una settimana dopo mi annunciò che si sarebbero sposati!».

Lo sono ancora?

«No, hanno divorziato».

Prima accennava all' amicizia con Mary McCarthy.

«Adoravo il fatto che fosse una donna severissima e insieme una grande cuoca. Come le due cose potessero andare assieme è un mistero. Aveva avuto un' infanzia difficile: orfana e accolta da odiosi parenti, crebbe con la determinazione che solo la letteratura avrebbe cancellato l' angoscia delle sue origini. E ce la fece. Siamo state molto amiche. Mi dispiacque che alla fine della sua vita si lasciasse coinvolgere in un litigio feroce con Lillian Hellman».

Provocato da cosa?

«Durante un programma televisivo, Mary disse che non le era piaciuto l' ultimo romanzo della Hellman, che si era inventata tutto. Le diede della bugiarda. La vicenda finì in tribunale e perse la causa. Oltretutto, Mary era anche malata di cancro e credo che la vicenda giudiziaria abbia influito sul suo stato di salute. Mi parlava spesso della sua grande amica Hannah Arendt che io vidi una sola volta».

So che lei ha frequentato Isaiah Berlin e Piero Sraffa.

«Due personalità molto diverse. Con Berlin condividevo la passione per la musica. Eravamo entrambi amici di Claudio Abbado. Isaiah desiderava che Claudio diventasse il direttore artistico del Covent Garden. Aveva una parlata velocissima e capivo metà delle cose che diceva. Più rapido di lui era solo Brodskij. Berlin mi portò a una sua conferenza e non compresi quasi nulla. Non era simpatico Brodskij. Non amava l' Inghilterra. Per lui c' era l' Italia, soprattutto Venezia, le donne e la poesia».

E Sraffa?

«Fu Nicholas Kaldor a presentarci. Confesso che non sapevo minimamente chi fosse Sraffa, né dei suoi rapporti con Wittgenstein e del credito di cui godeva tra tutti i grandi economisti di Cambridge. Quando entrammo in confidenza provai a leggere il libro per cui era diventato famoso».

Ossia "Produzione di merci a mezzo di merci"?

«Proprio quello. Non ci capii nulla e glielo dissi. "Non si preoccupi, Gaia, non c' è niente da capire", mi rispose serafico. Ogni tanto andavo a trovarlo nella sua stanza all' università di Cambridge dove viveva. Qualche volta veniva a Londra da me. Incredibile le persone che aveva conosciuto: da Turati e Gramsci a Togliatti. Mi disse che a Cambridge era arrivato grazie all' aiuto di Keynes. Alla fine degli anni Settanta si ammalò di Alzheimer. Le mie visite si diradarono. Il college dove viveva gli aveva creato intorno una discreta protezione. Quando morì, nel 1983,la cerimonia funebre fu tenuta alla periferia di Cambridge».

Lei ci andò?

«Mi pareva il minimo che potessi fare. Fu cremato in un posto squallido e anonimo, senza musica e alla presenza di pochissimi amici. Avrebbe meritato di meglio».

Pensa mai alla morte?

«Cerco di non farlo. Ma poi mi tornano sotto gli occhi la fine di mio padre e quella di mia sorella, atroce, perché imprigionata nel proprio corpo. Non è bello immaginare come diventeremo. E poi gli esami di coscienza, i bilanci... uffa».

Non ne fa?

«Servono? Boh. So di essere stata molto antipatica e penso che oggi non sono la stessa persona di trenta o quarant' anni fa. Forse sono stata molto intollerante, esprimevo giudizi senza pensarci troppo. Libri, persone, eventi non risparmiavo nulla. Oggi sono più cauta, come se il tempo avesse smussato certi aspetti del carattere. A volte mi dico: Gaia, parli come una vecchia. E l' altra parte di me risponde: sei vecchia. Ecco, oscillo tra queste due sensazioni. La tecnologia ci sta rendendo presuntuosamente ubiqui. Pensiamo di essere ovunque, in realtà siamo soltanto soli, confitti in un punto trascurabile dell' universo».

Tornerebbe a vivere in Italia?

«No, anche se l' Inghilterra mi pare abbia preso una china imprevedibile e pericolosa. Sull' Italia potrei dire le solite banalità: la bellezza, il sole, una certa originalità. Ma la verità è che a causa del suo cattolicesimo non ha mai pagato per i suoi peccati. E questo la rende decisamente diversa dal resto dell' Europa».

·         Stefania Auci.

Totò Rizzo per Leggo il 3 ottobre 2019. «Mi scusi ma devo uscire perché in sala professori il cellulare non si sente bene». Suona strano che lo dica Stefania Auci, scrittrice rivelazione dell'estate, autrice di un best-seller che ha venduto più di 150 mila copie, che ha battuto in classifica due miti come Camilleri e Stephen King. Un libro da 448 pagine al centro di una serrata trattativa per la trasposizione televisiva, che il 7 novembre esce in Olanda, a febbraio in Spagna, a ruota in Francia e in Germania, e che in primavera HarperCollins distribuirà nei Paesi di lingua anglosassone: dall'Inghilterra agli Stati Uniti, dal Canada all'Australia. Si intitola I leoni di Sicilia (edizioni Nord), storia della famiglia Florio, gli imprenditori di origine calabrese, poi siciliani d'adozione, sempre raccontati sotto il profilo finanziario e sociale ma che nessuno aveva mai pensato di narrare sotto forma di saga domestica, romanzandone vita privata ed affari tra la fine del '700 e gli albori del '900. La Auci, ovviamente, è già al lavoro per il sequel. Non ancora travolta da improvviso successo, lei, 44 anni, trapanese di nascita trapiantata a Palermo, continua a fare nel capoluogo siciliano l'insegnante di sostegno all'Istituto alberghiero Paolo Borsellino: «Non ho voluto prendere l'aspettativa, sono entrata di ruolo solo due anni fa e poi mi dispiacerebbe lasciare i miei alunni».

La sua vita sarà un inferno, confessi.

«No, perché? Se si resta con i piedi per terra, tutto sta nell'organizzarsi. Sveglia alle 5 del mattino, incombenze da casalinga (ho un marito e due figli di 15 e 13 anni), sistemo casa, carico lavatrici, preparo colazioni e poco prima delle 6 mi metto al computer. Poi vado a scuola: in auto, auricolare incollato all'orecchio per aggiornamenti dalla casa editrice, interviste, accordi per spostamenti aerei o ferroviari per il week-end quando vado a presentare il libro in tutta Italia. Torno sulla tastiera e sui libri di storia dopo pranzo, e li alterno al lavoro scolastico che devo sbrigare a casa, fino ad ora di cena. Alle nove, è chiaro, crollo sul cuscino».

Cosa è piaciuto del suo libro a più di 150 mila lettori?

«La storia di una famiglia attraverso uomini e donne che erano sempre stati al centro di un racconto mercantile, finanziario: le intuizioni commerciali all'avanguardia, il successo economico, i fasti della Belle Epoque Qui si parla anche di sentimenti, di psicologie. Poi, non sta a me dirlo, credo abbia contribuito una scrittura chiara: sono dell'idea che il lettore non debba essere costretto a rileggere un periodo per capirlo».

I detrattori parlano di polpettone: cosa risponde?

«Il polpettone è uno dei classici della nostra cucina: buonissimo».

Ha stracciato in classifica due dei suoi autori preferiti: lei in testa, Stephen King secondo e Camilleri terzo.

«Non me ne parli, un'estate di sensi di colpa. Camilleri ha creato un nuovo immaginario della Sicilia e un linguaggio della cui profondità forse non ci siamo ancora resi conto. King è un genio assoluto, ha predetto anni fa quell'America che adesso ci troviamo davanti, profetico come tutti i maestri».

Lei legge di tutto...

«Diffido di chi fa distinzioni tra letteratura tout court e letteratura di genere, tra scrittura alta e di consumo. Guardo male chi dice ma quello è un libro d'evasione. E allora?».

In tv chi le piacerebbe come protagonista nei panni di Vincenzo Florio?

«Mi piacerebbe molto Francesco Scianna».

Pur restando una con i piedi per terra, avrà fastidio di qualche aspetto della popolarità.

«Amo incontrare i lettori, ne sento l'affetto, mi piace firmare autografi, scrivere dediche, mi sottopongo volentieri al rito dei selfie. Non amo invece curiosità eccessive o intrusioni nel mio privato anche perché, come s'è capito, è di una normalità disarmante».

Figli e marito hanno da recriminare adesso che è la diva di casa?

«Cerco di non far mancare loro anche la minima attenzione. I figli, più risoluti, hanno soltanto avvertito: Se vieni a parlare nella nostra scuola faccelo sapere così quel giorno non andiamo.

Molto più tenero mio marito: Quando vai a presentare il libro in Australia, porti anche me?. Abbiamo fatto il nostro viaggio di nozze in Australia, 18 anni fa. Ma lui forse non sa che non c'è niente di meno romantico di un tour di promozione editoriale».

·         Liliana Cavani.

LILIANA CAVANI. “Comunismo? Fu un sogno, a metà tra Cristianesimo e Rivoluzione Francese”. Francesco Agostini l'1.11.2017 su Il Sussidiario. Liliana Cavani parla del suo personale rapporto con il Comunismo e con l’ideale di un movimento che ha ereditato le idee del Cristianesimo e della Rivoluzione Francese. Liliana Cavani è ancora oggi uno dei nomi forti del cinema italiano, uno di quei nomi sinonimo di qualità di contenuti e di alto tasso culturale. A 84 la Cavani ha ancora voglia di rimettersi in gioco e di affrontare temi delicati come quello del Comunismo, una linea di pensiero estrema che in Italia ha sempre incontrato un certo grado di favore. Sulle pagine de La Stampa la Cavani ha espresso il suo libero pensiero su quello che fu il Comunismo, un movimento iniziato con grandi ideali e poi degradatosi alla stesse stregua del fascismo o del nazismo. La visione della Cavani è lucida, asciutta, storicamente competente e con una elevata coscienza critica. Sulle pagine de La Stampa leggiamo: "Il Comunismo è stato una specie di sogno, almeno all’inizio. Tentava di mettere in pratica tutti quei principi di eguaglianza che erano tipici del Cristianesimo e anche in seguito della Rivoluzione Francese." Poi un approfondimento su un personaggio a lei molto caro, San Francesco: "Anche Francesco puntava all’uguaglianza. Non lo ha mai predicato apertamente ma la sua vita diceva esattamente questo, è innegabile." Per comprendere la storia bisogna essere anche in grado di contestualizzare ciò di cui si sta parlando, senza estremismi o preconcetti di alcun tipo. Liliana Cavani, nella sua speciale critica, si sofferma su quella che è stata una data importantissima per il Comunismo: il 1917: "Nel 1800 non c’era altro che miseria, analfabetismo ed emigrazione. Lenin, con la sua rivoluzione, riuscì a riscattare tutti quanti. Purtroppo, però, gli intellettuali finirono tutti come le rivoluzionarie francesi, ossia lottarono per essere escluse.’ Dopo Lenin e alcune altre vicende politiche, inizierà il buio assoluto per la Russia, che cadrà sotto il giogo di Stalin, un dittatore terribile e mostruoso che percorrerà la strada già battuta dal fascismo prima e dal nazismo poi. Nonostante la terribile pressione staliniana, comunque, Liliana Cavani ha cercato lo stesso di intravedere un minimo spiraglio di luce: ‘Rimanne comunque valida la buona idea che l’essere umano meriti l’emancipazione politica." In questo spaccato di storia si inserisce anche un elemento che fu di fondamentale importanza per la propaganda: il cinema. Tutte le dittature si avvalsero dell’azione di convincimento di massa grazie all’operato del cinema. In primis perché era un mezzo nato da poco, agli albori della sua storia; nonostante questo si capiva già benissimo che le sue potenzialità erano enormi. La Cavani infatti afferma: "L’arte del cinema era una cosa completamente nuova per quegli anni e fu proprio in quel periodo che nacque il cinema sociale. Nacque il montaggio e si comprese che la storia poteva diventare facilmente un romanzo filmato." Di questa particolare situazione ne approfittarono, come già spiegato, le terribili dittature dell’epoca: nazismo, fascismo e comunismo. Continua la Cavani: ‘Non dobbiamo affatto sorprenderci se i totalitarismi dell’epoca ne approfittarono in toto. Il cinema riusciva a trasmettere il messaggio della modernità.’ Le pellicole venivano utilizzate, infatti, come mezzo autoreferenziale: i regimi lodavano se stessi e presentavano un’immagine di sé amplificata, volta soprattutto ad autoesaltarsi. Ma,come sappiamo benissimo dallo svolgersi della storia, anche quella non era altro che finzione. Liliana Cavani ha avuto una carriera meravigliosa e tutti continuiamo a ricordarla per i suoi film di grande qualità. Due su tutti, forse: Galileo, con la sua regia limpida, fredda, austera e Francesco, un gioiellino in cui Mickey Rourke, da sempre simbolo di trasgressione e machismo, venne invece utilizzato per interpretare il santo d’Assisi patrono d’Italia. Riuscendo anche ad essere pienamente credibile e convincente. Ma tornando a Galielo, la Cavani ricorda come il ‘suo’ scienziato fosse molto distante da quello rappresentato da Bertolt Brecht: ‘Non ho mai amato quel Galileo, quello di Brecht; il mio lo feci molto diverso. Molti pensano che lui tradì quando abiurò le proprie idee ma le cose non stanno così. Galileo aveva compreso che la vita è la cosa più importante di tutte e infatti, in seguito all’abiura, scoprì il microscopio.’ Una donna straordinaria Liliana Cavani, capace di regalare emozioni con film densi di significato, soprattutto spirituale; un modo di vedere la vita e il cinema che oramai non c’è più e che resta, per fortuna, ben impresso nella nostra memoria. 

Liliana Cavani: «Io, il sesso e le censure. Ho un film già scritto e in Italia aprirei solo scuole». Pubblicato lunedì, 08 luglio 2019 da Giuseppina Manin su Corriere.it. «Fosse per me in Italia farei solo scuole. Scuole, scuole, scuole... Il bene primario, ma da noi nessuno se ne occupa. Se si vuol far crescere un Paese è lì che bisogna investire. Il sapere è l’unica garanzia di progresso, civiltà, benessere. Altrimenti vinceranno “gli altri” quelli che ragionano non con la testa ma con le armi». Liliana Cavani, 86 anni di battaglie, di cinema e di vita, guarda dritta al futuro. E il futuro per cui val la pena di esistere e sognare per lei comincia dalla materia prima per diventare cittadini, l’educazione. «Va difesa, bisogna ridarle peso e qualità, approfondire la conoscenza del passato. Altro che tagliare storia e storia dell’arte! E poi, sostenere gli insegnanti, così vilipesi e sottopagati».

Da come ne parla, a lei la scuola ha dato molto. 

«Non sono stata un’alunna modello. Ho cominciato male, alle elementari a Carpi, dove sono nata, finivo spesso in castigo. Tutto è cambiato al liceo, a Modena. Ottima scuola, professori che mi hanno fatta innamorare di greco, latino, filosofia. E poi Lettere Antiche a Bologna, avrei voluto fare archeologia ma non conoscendo il tedesco... Mi laureai in Filologia linguistica, tesi sul dialetto della mia regione».

A Carpi è rimasta sempre legata. 

«Tutto è cominciato lì. I miei genitori si sono separati presto, mio padre è sparito, non porto neanche il suo cognome. Non l’ho voluto. E la mamma era un po’ naif, spesso in Liguria per sospetta Tbc, quando tornava a Carpi mi portava al cinema. Sono cresciuta con i nonni e gli zii, in modo laico e libertario. La passione per la politica, il gusto per la ribellione li ho respirati in quella famiglia della Romagna di una volta, il nonno anarchico e sindacalista, la zia Delfina discriminata a scuola perché si rifiutava di indossare la divisa del fascio, la nonna che appoggiava la Resistenza. Ero bimbetta quando vidi in corridoio una borsa piena d’uva, mi avvicinai per piluccare qualche acino, scoprendo nascoste sotto i grappoli delle bombe. Intanto in cucina la nonna stava discutendo con due partigiani, loro volevano sgozzare due prigionieri tedeschi, lei insisteva per un giusto processo».

Clima rovente, aveva paura? 

«Ma no! Il paese era piccolo e diviso in due. Tutti sapevano che noi eravamo contro i fascisti, tutti sapevano che il nostro vicino di casa era un fascistone. Eppure mia nonna era molto amica di sua madre, la difendeva, “non ha colpa se il figlio è uno squadrista” diceva. I valori erano opposti, si è sfiorata la guerra civile, ma ci si parlava. Una tolleranza oggi perduta, con così tanta gente piena di odio, incarognita a difendere il proprio piccolo castello». 

Quella visione di stampo sociale l’ha segnata per sempre? 

«Mi ha dato le ali per volare senza tema. Mio nonno, tra una boccata e l’altra di toscano, ogni tanto mormorava convinto “Eppur si muove”. Una frase che mi tornò buona quando girai Galileo. Suggerii a chi lo interpretava di avere, al momento dell’abiura, quell’espressione di certezza».

«Galileo» girato nel ‘68, vietato ai 18 anni, mai visto in tv... 

«Troppo anticlericale dicevano allora. E anche dopo visto che né Rai né Mediaset l’hanno mai mandato in onda».

La sua prima censura per un eretico. Ma anche il santo Francesco d’Assisi non ebbe vita facile. 

«Non piacque che a interpretarlo fosse Lou Castel, reduce dai Pugni in tasca di Bellocchio dove faceva fuori tutta la famiglia. Ci fu un’interpellanza parlamentale, il patrono d’Italia non poteva avere quella faccia. Ma io volevo raccontare un ribelle, mica un santino».

Fu il suo film d’esordio, come riuscì a realizzarlo? 

«Grazie alla Rai di un tempo. Dopo la laurea ero venuta a Roma, tentai il concorso Rai: 11mila partecipanti per 30 posti. Prova finale sul Wilhelm Meister di Goethe. Oggi sa di fantascienza, ma anche allora non è che l’avessero letto tutti. Per caso io sì, comprato su una bancarella pochi giorni prima, edizione Bur. Passai l’esame. Iniziai con dei documentari, il Terzo Reich, le Donne della Resistenza... Poi mi capita in mano un altro libro, la Vita di Francesco di Paul Sabatier, storico eretico messo all’indice dalla chiesa. Vado da Angelo Guglielmi, gli dico che voglio farne un film. L’idea gli piace ma bisognava trovare i soldi. Gli viene in mente un giovane, Leo Pescarolo: “Mangiamo una pizza con lui”. Pescarolo, simpatico e pure bello, voleva iniziare la carriera da produttore. Il suo primo film fu il mio. Partii per l’Umbria, cinepresa a mano, troupe di 7-8 persone, ma con un gigante delle luci come Domizio Ercolani. Abbiamo girato in povertà davvero francescana. Costo totale 30 milioni».

Soldi ben spesi, il film andò dritto al festival di Venezia. 

«Era il ‘66, Rossellini vi portava La presa del potere da parte di Luigi XIV. I critici decisero che il suo e il mio erano i due film più belli della Mostra. Ci intervistarono insieme come il maestro e l’allieva. Alloggiavo al Des Bains, mi sentivo chissà chi...».

Trasmesso in due puntate, Francesco fu visto da oltre 20 milioni di spettatori. 

«La prima mini-serie Rai! Un successo che mi permise di andare avanti nella mia indagine, di girare un secondo (con Mickey Rourke) e poi un terzo film, sempre su Francesco. Così avanti nei tempi per il suo amore per la natura, la sua idea di fraternità, ben più interessante dell’uguaglianza della sinistra. Non si può essere uguali, ma fratelli sì». 

Bollata come cattolica dai comunisti, estremista dai democristiani, messa al rogo dai benpensanti per «Il portiere di notte», film-scandalo degli anni Settanta. 

«Non era mia intenzione. Il tema, una donna scampata a un lager che ritrova il suo aguzzino e inizia con lui un rapporto sado-maso, era disturbante. Ma lo spunto era reale. Anni prima una signora della Milano borghese sopravvissuta a Auschwitz mi aveva confidato di una relazione oscura nata lì, che le aveva permesso di salvare la vita ma l’aveva lasciata morta dentro. Il Portiere è nato così. Da quel legame melmoso vittima-carnefice, metafora di tanti conflitti irrisolti. Dirk Bogarde e Charlotte Rampling hanno saputo interpretarlo con la dolorosa ambiguità necessaria. Quando il film uscì in Francia, Le Nouvel Observateur parlò de Il portiere “della” notte, il custode delle tenebre che hanno generato fascismo e nazismo. L’irrazionalità e la paura in cui l’Europa è tuttora immersa». 

All’estero si accesero dibattiti sul nazismo sommerso, in Italia la censura vide il sesso...

«Fu ritirato tre volte. Poi vietato ai minori di 18 anni. Quando chiesi a uno della commissione di censura il perché di quel divieto, mi rispose: “Perché c’è una scena erotica dove la donna sta sopra l’uomo”. Restai di stucco. Trovai solo la forza di mormorare: “Beh, capita”».

Cosa è stato il cinema per lei? 

«Una passione e una salvezza. Lavorare con una troupe è difficile, ma trovi sempre gente animata dal desiderio. Il cinema salva dal pessimismo». 

Vale anche per il teatro e la lirica? 

«Certo. I meccanismi sono gli stessi. L’opera mi coinvolge, mi emoziona, ne ho dirette tante... La Traviata realizzata anni fa per la Scala è diventata uno spettacolo-simbolo, l’anno prossimo la porteranno in Giappone per le Olimpiadi». 

Il cinema italiano di oggi? 

«Mah, mi pare che si occupi solo di mafia. Film, serie tv, traboccanti di malavitosi violenti, volgari... Dicono che è denuncia. A me sembrano solo pessimi modelli da proporre ai giovani. Sono così contraria a questo genere di film che, pur amandolo moltissimo come attore, non ho perdonato a Brando di aver offerto il suo talento al Padrino». 

E il cinema italiano di ieri? 

«Il più grande è stato De Sica. Dovessi salvare un film dall’apocalisse non avrei dubbi, L’oro di Napoli. Dentro c’è tutta l’Italia. Non ho mai incontrato De Sica ma amo ogni suo film, li proiettavo al cineclub che tenevo a Carpi».

Ora i cineclub sono quasi spariti e i grandi film del passato non li conosce nessuno. 

«Andrebbero insegnati a scuola! Se non hai visto tre De Sica, tre Bergman, tre Fellini, non puoi dire di amare il cinema. I cineclub spariscono? Fossi sindaco, li darei da gestire agli anziani. I cinema di quartiere dei nonni per far scoprire i capolavori del passato ai nipoti».

E lei, quale film vorrebbe ancora realizzare? 

«Le idee sono tante... Avevo in mente un film sul Bosone di Higgs, le nuove frontiere della fisica sono più affascinanti di qualsiasi fantascienza. Se il tempo non esiste non esiste neanche la morte... Non finisce nulla, si cambia! La nuova fisica è come la fede, ti dà speranza di continuare a vivere in altri modi... E la speranza è la virtù più civile che ci sia. Ma questo ai produttori fa sbarrare gli occhi. Adesso ho pronta una storia dei nostri giorni che riunirà due attori a me cari, Charlotte Rampling e Mickey Rourke. Ho finito di scrivere il copione, vediamo se riuscirà a andare in porto».

·         Susanna Tamaro.

Susanna Tamaro: «Greta ed io sentiamo le fragilità della natura». Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 su Corriere.it da Susanna Tamaro. Venerdì su 7 un’intera sezione del magazine dedicata alla crisi ambientale, aperta da un ritratto di Greta firmato dalla scrittrice che in lei si rispecchia. Dal magazine, venerdì in edicola, proponiamo un estratto dell’articolo di copertina dedicato alla sedicenne Greta Thunberg dalla scrittrice che, come lei, soffre sin dall’infanzia della sindrome di Asperger. Salvate il soldato Greta. Questo è il primo pensiero che mi è venuto quando si è scatenato il fenomeno di Greta Thunberg a livello mondiale. (...) Greta ha il volto immobile di un’icona. Mi ha fatto ricordare di quando, qualche anno fa, mi sono iscritta a un corso di ritratti. «Ma tu sai disegnare solo icone?», mi ha detto al termine la mia simpatica insegnante. Ancora non sapevo di avere lo stesso problema di Greta ma, quando l’ho scoperto, tutto mi è stato chiaro. Le persone come noi hanno una difficoltà estrema nel comprendere le espressioni dei volti, forse è per questo che, soprattutto in condizioni di stress, assumiamo la stessa fissità delle icone. (...) Greta ha solo 16 anni e, nell’età in cui le sue coetanee amano considerarsi già donne, si definisce «una bambina». Ed è una bambina. Le lunghe trecce, i jeans, le magliette, le camicie a quadri ci parlano di una persona lontana da qualsiasi desiderio di seduzione. Eppure, malgrado ciò, è riuscita a sedurre decine di milioni di suoi coetanei in tutto il mondo. Greta non ha malizia, non ha secondi fini (...) I dolori di un bambino normale non sono minimamente avvicinabili a quelli che prova un bambino Asperger. (...) Il non capire il linguaggio degli uomini viene compensato dal capire con chiarezza assoluta e immediata tutti i linguaggi che umani non sono. Gli animali ci parlano, e noi parliamo con loro. Abbiamo dialoghi intensi e sorprendenti con gli alberi e con i fiori. È questa capacità che ci permette di vedere prima degli altri — più degli altri — sofferenze, devastazioni e fragilità sempre più dilaganti di cui la natura ci parla (...).

Tamaro racconta Greta Thunberg: «Lei vede ciò che altri non vedono». Pubblicato venerdì, 04 ottobre 2019 su Corriere.it. Salvate il soldato Greta. Questo è il primo pensiero che mi è venuto quando si è scatenato il fenomeno di Greta Thunberg a livello mondiale. Salvatela da tutta quella confusione, dal fragore, dal mare di cattiverie, malignità e derisioni che, insieme alla fama, le sono piovute addosso. Greta ha il volto immobile di un’icona. Mi ha fatto ricordare di quando, qualche anno fa, mi sono iscritta a un corso di ritratti. «Ma tu sai disegnare solo icone?», mi ha detto al termine la mia simpatica insegnante. Ancora non sapevo di avere lo stesso problema di Greta ma, quando l’ho scoperto, tutto mi è stato chiaro. Le persone come noi hanno una difficoltà estrema nel comprendere le espressioni dei volti, forse è per questo che, soprattutto in condizioni di stress, assumiamo la stessa fissità delle icone. Cosa vuol dire vivere nel mondo senza essere in grado di comprendere tutto ciò che passa attraverso l’espressione? Vuol dire sentirsi drammaticamente, disperatamente soli. Vuol dire essere consapevoli, in ogni istante della nostra vita, di essere precipitati su un pianeta di cui non conosciamo il linguaggio. Vuol dire vivere un’infanzia segretamente compressa tra l’ansia e il terrore, provare una rabbia disperata perché il mondo è lì, davanti a noi, ma non riusciamo in alcun modo a raggiungerlo. Greta ha solo sedici anni e, nell’età in cui le sue coetanee amano considerarsi già donne, si definisce «una bambina». Ed è una bambina. Le lunghe trecce, i jeans, le magliette, le camicie a quadri ci parlano di una persona lontana da qualsiasi desiderio di seduzione. Eppure, malgrado ciò, è riuscita a sedurre decine di milioni di suoi coetanei in tutto il mondo. Greta non ha malizia, non ha secondi fini, non conosce nessuna delle tecniche manipolatorie che permettono di muoversi con scioltezza nella società. Ed è proprio questa sua innocente purezza che attrae gli strali di chi, invece, nella stessa società, si trova a proprio agio. Fin dalla più tenera età, la sindrome di Asperger porta ad attraversare deserti infuocati, grovigli di emozioni impossibili da decifrare dall’esterno. Il vuoto è cosmico, come la solitudine. I dolori di un bambino normale non sono minimamente avvicinabili a quelli che prova un bambino Asperger. Ma dove la natura toglie, da un’altra parte dona. Il non capire il linguaggio degli uomini viene compensato dal capire con chiarezza assoluta e immediata tutti i linguaggi che umani non sono. Gli animali ci parlano, e noi parliamo con loro. Abbiamo dialoghi intensi e sorprendenti con gli alberi e con i fiori. È questa capacità che ci permette di vedere prima degli altri — più degli altri — sofferenze, devastazioni e fragilità sempre più dilaganti di cui la natura ci parla. La madre di Greta racconta del turbamento provato un giorno a scuola da tutta la classe vedendo un filmato sul grande continente di plastica che naviga da anni indisturbato nell’oceano. Nei suoi compagni questo turbamento si era già dissolto nell’ora seguente, incalzato da altri e più allegri argomenti. Solo Greta aveva cominciato a piangere, e aveva continuato a farlo a casa, inconsolabile. Quel mostruoso continente senza vita era ormai diventato per lei un vortice ossessivo. Vedere ciò che gli altri non vedono. Vedere, e non riuscire a dimenticarlo. Vedere e improvvisamente capire che il nostro compito non è altro che quello di aiutare gli altri ad aprire gli occhi. Da bambina io singhiozzavo per giorni se trovavo un nido distrutto, un gattino morto, un fiore buttato nella spazzatura, e non è che le cose, ora che sono adulta, vadano molto meglio. Non si tratta di sentimentalismo — nulla ci è più estraneo — ma di non aver alcun filtro capace di schermare il cuore. C’è una straordinaria bellezza nel mondo vivente, una straordinaria complessità, una straordinaria innocenza. E quando questa bellezza, questa complessità, questa innocenza vengono ferite, distrutte, derise, dentro di noi si formano delle voragini di disperazione. Perché distruggere, perché trasformare il mondo in una maleodorante pattumiera? Perché vivere senza una visione che possa contemplare anche la speranza? Il mondo si può cambiare, basta assumersene la responsabilità (ndr. lo ha sottolineato Greta al suo arrivo a Manhattan e poi alla manifestazione di New York). Se una cosa si può fare, quella cosa si deve fare.

Susanna Tamaro, 61 anni, triestina. Il suo bestseller Va’ dove ti porta il cuore è del 1994. Nel libro Il tuo sguardo illumina il mondo (edizioni Solferino), la scrittrice ha rivelato di soffrire della sindrome di Asperger . Le infinite sfumature delle elucubrazioni mentali non appartengono al mondo Asperger. Quando ho avuto un successo planetario con il mio libro, sono stata travolta da un’infinità di insulti, derisioni, calunnie. C’era sempre un retropensiero su tutto quello che facevo o dicevo, mi si attribuivano ombre, furbizie, astuzie che non sono mai stata in grado di concepire. Una persona Asperger non ha mai secondi fini, perché non fanno parte del suo orizzonte. Non ci sono ambiguità dentro di noi, né ombre che non siano i fantasmi della nostra stessa mente. Ci dedichiamo con assoluta dedizione a quello che ci sta a cuore, per una semplice ragione: perché crediamo che sia una cosa importante. Io so scrivere e relazionarmi attraverso i miei libri con migliaia di persone; Greta sa parlare alla sua generazione come nessun altro di un problema estremamente complesso che non contempla facili ricette ma che, comunque, ci riguarda tutti. Noi Asperger mettiamo le nostre enormi e magnetiche energie nel fare ciò che ci sta a cuore e, se le cose non vanno come pensiamo debbano andare, veniamo anche rapiti da indomabili furori (ndr. come quando Greta, furente all’Onu, ha accusato i grandi del mondo di averle rubato i sogni). Penso che Greta, da adulta, non farà politica, non si arricchirà, non creerà una linea di abbigliamento. Resterà la ragazza con le trecce che sorride con cauta timidezza, che parla con lo stesso pacato distacco con i potenti del mondo come con i coetanei che le sfilano accanto. Forse studierà biologia, o ingegneria ambientale o geologia. Di sicuro farà della sua sensibilità l’interesse di una vita. Ma intanto, con il coraggio della sua cristallina fermezza, ha ottenuto qualcosa che nessun attivista, nessun politico finora era riuscito a ottenere. Fare aprire gli occhi al mondo intero, fare alzare gli sguardi dei suoi coetanei dagli smartphone e spingerli a lottare insieme, dicendo: «Sì il futuro della Terra ci appartiene, è una responsabilità che è arrivato il momento di assumerci».

Silvia Luperini per “la Repubblica – Weekend” il 12 luglio 2019. Sedici milioni di copie vendute nel mondo, traduzioni in più di 50 lingue, un film girato da Cristina Comencini: Va' dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro ha compiuto 25 anni. Nel frattempo, l' autrice triestina ha scritto altri 32 libri - fra romanzi, fiabe per bambini e saggi - ai quali si aggiungerà a settembre Alzare lo sguardo (Solferino editore) e il documentario, Inedita, di Catia Bernardi sulla sua vita. Intanto il suo bestseller è diventato longseller: in Turchia è arrivato alla 158a ristampa e in Italia è stato ripubblicato da Bompiani. «Il successo è stato travolgente. Ero in un ascensore in Equador con un signore. Mi fissava. Poi ha aperto la sua 24 ore: dentro c' era Va' di porta il cuore che ho trovato persino in Namibia. Pazzesco. Mi stupisce e mi emoziona».

Come se lo spiega?

«Il libro è stato venduto dal Sud America al Medio Oriente. Dove le strutture famigliari sono forti è andato meglio. Il successo mi ha regalato tranquillità economica - ho comprato una casa a Orvieto - e mi sono salvata dalla dannazione perché non mi è mai interessato replicarlo. Avrei potuto firmare contratti milionari, ma ho preferito non legarmi a nessuno per poter scrivere anche solo per tremila persone».

Il pappagallo di "Luisito", lo scoiattolo di "Il grande albero", Buck di "Va' dove ti porta il cuore". Perché tanti animali nei suoi romanzi?

«Soffro della sindrome di Asperger che mi impedisce di capire le emozioni delle persone, i doppi sensi e di decifrare il linguaggio dell' altro, con l' ansia e i fraintendimenti che ne conseguono. Con l' animale invece non ci sono malintesi, il codice è quello e l' affettività è libera di esprimersi senza vincoli di comprensione. Fin da bambina, è stato fondamentale avere un animale vicino, ne ho moltissimi».

Ci fa un inventario?

«Tre cani, quattro gatti, un cavallo, nel tempo ne ho salvati tanti dal macello. E poi un asino, una voliera con pappagalli, una di passeracee, galline e un laghetto con pesci rossi, tritoni, rane. Ho un alveare, e in passato qui pascolavano pecore e capre. Ho imparato a fare il miele e il formaggio. In trent' anni mi sono lanciata in qualunque esperienza agricola. Ora ho rallentato, sono stanca e le finanze cominciano a diminuire. Ma ho imparato tanto».

L' Asperger ha avuto anche risvolti positivi?

«Chi ha questa sindrome si concentra completamente in ciò che fa e quindi può raggiungere livelli altissimi. Il problema semmai è che non riesce a gestire il resto. Se c' è chi ti aiuta, puoi dare il massimo in qualunque attività, ma se non trovi uno sbocco può diventare una patologia. Io ho avuto la fortuna di poter incanalare la mia energia nella scrittura e di aver trovato persone che mi hanno aiutato».

Per questo ha studiato a fondo zoologia, entomologia e botanica?

«Ho una biblioteca immensa. Quando mi appassiona una cosa, leggo e studio tutto quello che c' è finché non la posseggo, poi ricomincio con un nuovo argomento. Per la scrittura è perfetto».

Cosa l' appassiona degli insetti?

«Sono macchine straordinarie con regole così perfette e incrollabili che osservandoli entro in un mondo rassicurante dove non ci sono equivoci possibili. Ho studiato le api, le formiche ma anche le arti marziali, universi ristretti e relazioni sociali dominati da regole chiare. È stata la mia salvezza».

Anche l' orto?

«Serve moltissima cura e attenzione. Pomodori e cavoli, per esempio, non si amano. È come un' orchestra che va diretta per raggiungere armonia e equilibrio. Intorno alla mia casa ho piantanto alberi, un frutteto, un oliveto, la vigna e adesso c' è una tale giungla che la casa resta in penombra! Querce grandi come matite sono diventate un bosco».

Che pianta vorrebbe essere?

«Un grande salice ma non piangente, ridente, perché è una pianta vitale, generosa. Sta vicino all' acqua e ha fronde meravigliose».

Ha molte affinità con Greta Thunberg: le piacerebbe che vincesse il Nobel per la Pace?

«Per il suo equilibrio preferirei di no. La sua dedizione totalizzante è tipica della sindrome: per le persone come noi, la troppa popolarità può rivelarsi deleteria se non si è ben supportati.

Le hanno detto cattiverie terribili anche perché è una ragazza. Non sono femminista, ma sono atterrita dal maschilismo becero che si scatena quando una donna non sta nei ranghi».

È cintura nera, terzo Dan, del karate Goju Ryu. Insegna ancora?

«Dopo Roma, ora insegno a Orvieto, è la mia passione. Mi affascina vedere come cambiano in meglio le persone che praticano. Una volta, nello spogliatoio, sento un' allieva dire: "La maestra assomiglia moltissimo alla Tamaro ma è molto più simpatica!" (ride, ndr). Aveva ragione, il successo è stato un incubo e la relazione con i media terribile perché non capivo la malizia, le domande, cosa era meglio non dire. In tv ero così stressata che mi trasformavo in una maschera di rigidità. Mi sono messa nei guai con le mie mani, ma ero malata e l' ho scoperto solo di recente».

Da bambina voleva farsi chiamare Carlo, sognava una carriera militare.

«Adesso sembra una rivendicazione di genere, ma in realtà sognavo di entrare in Marina o diventare una Giubba rossa. Visto che non erano attività per bambine la soluzione mi sembrava cambiare sesso».

Ha detto: "Tagliarmi le trecce mi sembrò come liberarmi da una zavorra". Sicura che non fosse una questione di genere?

«Farle fuori è stata una conquista: ho sempre odiato i miei capelli biondi e lunghi. Quando colpisce le femmine, l' Asperger dà al cervello un' impronta maschile che toglie l' emotività. Chi ne soffre non metterà mai una gonna né si truccherà e avrà una sobrietà maschile, non mascolina. Da piccola per questa mia diversità ho subíto aggressività e bullismo, ho sofferto molto, ma sapevo di essere una bimba. A 15 anni mi sono innamorata di un giovanotto e sono sempre stata eterosessuale. Ho il 43 di piedi e mani enormi e per il mio aspetto androgino sono stata persino cacciata dai bagni delle donne, c' è qualcosa in me che crea equivoco. Forse oggi, rispetto al passato, si esagera in senso contrario e si interviene troppo presto: i bambini non vanno chiusi nelle nostre visioni ideologiche. C' è una tale frenesia di classificazione e invece ci vorrebbe più libertà. Chissà quante bimbe con l' Asperger non diagnosticato sono spinte a fare trattamenti».

Le chiedono spesso se è lesbica...

«Continuamente. Se lo fossi sarebbero tutti più contenti. Ma banalmente mi piacciono gli uomini e mi sono sempre piaciuti, amo il ricamo, coltivare i fiori. E poi non si capirebbe da quello che scrivo?»

Dorme ancora da sola, in castità?

«Ho avuto una vita sentimentale ricca, ma è una fase che è finita. Vivo con tante persone, ma ho la mia camera e nessun coinvolgimento sentimentale e sessuale».

Lei ha adottato una famiglia. Come mai?

«Ci siamo incontrati per strada, erano giovani, peruviani. Ho visto la loro bambina, ci siamo piaciute subito. Li ho cercati e gli ho proposto di venire a stare da me. Per loro ho costruito una casetta. La bambina nel frattempo è diventata mamma. Abbiamo un nipotino di sette anni. Si può essere soli condividendo una vita affettiva importante».

Vive anche con la sua amica, la scrittrice Roberta Mazzoni.

«Avevo bisogno di una persona accanto per interpretare meglio la realtà. Da trent' anni ci completiamo a vicenda. Abbiamo una grande amicizia e siamo silenziose».

Silenziosa lo è stata a lungo...

«Da bambina ero muta e il silenzio una prigione che ho rotto scrivendo. Adesso la prigione è a intermittenza. Nel silenzio raccolgo i miei pensieri per scrivere ed è necessario affinché le parole possano uscire vere e profonde».

Susanna Tamaro: «Mi ritiro dalla vita pubblica». Pubblicato giovedì, 12 dicembre 2019 su Corriere.it da Giulia Ziino. L’autrice di «Va’ dove ti porta il cuore»: «Non ho più energie per muovermi. Scelgo di restare a casa per poter ancora scrivere». «Mi ritiro dalla vita pubblica perché non ho più energie per muovermi. Soffro di una sindrome neurologica, quella di Asperger, che dà tanti vantaggi, come una memoria spaventosa, ma anche tanti svantaggi, soprattutto dopo i 50 anni». Così Susanna Tamaro, nel giorno del suo 62° compleanno, annuncia la sua scelta: fare un passo indietro dai suoi impegni pubblici, senza però smettere di creare. Anzi: «Scelgo di rimanere a casa per poter ancora scrivere». La scrittrice soffre della sindrome di Asperger: lo aveva rivelato poco più di un anno fa, in un libro, Il tuo sguardo illumina il mondo (Solferino), dedicato ad un amico, il poeta scomparso Pierluigi Cappello. L’annuncio del «passo indietro» arriva da Orvieto, dove Tamaro è di casa da circa trent’anni: vive nella campagna umbra, nel comune di Porano. Qui, al Vetrya corporate campus, scuola di innovazione e tecnologie, la scrittrice ha festeggiato il compleanno donando il computer Mac con cui scrisse Va’ dove ti porta il cuore, il romanzo che nel 1994 l’ha rivelata al grande pubblico e fatta balzare in testa alle classifiche. Ieri — durante un evento tutto dedicato a lei, organizzato dalla Fondazione Luca & Katia Tomassini, fondatori dell’azienda digital Vetrya — la scrittrice triestina ha ricordato quel periodo, con luci e ombre: «Quando ho pubblicato Va’ dove ti porta il cuore ho ricevuto molti attacchi. Ci fu chi mi chiese, stupito, se lo avessi davvero scritto con il computer: allora sembrava una magia. Sì, l’ho scritto con il computer ed ecco il computer», ha detto, scoprendo la teca dove il Mac sarà custodito d’ora in poi. «Ha vissuto per tanti anni con me, ha scritto tanti libri ed è bello che ora le persone lo possano vedere, che possa far parte della comunità. Dopo tanti anni di macchina per scrivere per me è stato come una bacchetta magica, una liberazione poterlo utilizzare». Ricordi di trent’anni di carriera, iniziata in sordina: «All’inizio — ha detto ancora Tamaro — quando ho visto che Va’ dove ti porta il cuore era primo in classifica ho pensato a un errore. Poi ci è rimasto per tre anni. Il libro ha parlato a tutto il mondo, evidentemente ha toccato qualcosa di umano che lega tutti e questa è una ricchezza enorme per uno scrittore». Successo, affetto dei lettori ma anche critiche. «Per anni ho ricevuto attacchi a 360 gradi da tutte le parti, anche minacce di morte. Ne ho sofferto molto e questo mi ha tolto la gioia di scrivere che avevo prima». Una gioia a cui però Tamaro non ha intenzione di rinunciare: «Il mio non è un ritiro per il disgusto del mondo» ha sottolineato la scrittrice. Ed è tornata ancora sulla sindrome di Asperger: «Finché ero giovane — ha detto — ho potuto gestirla; dopo i cinquanta ho cominciato a peggiorare. Non posso più muovermi, viaggiare, fare incontri, non ho più forza per farlo e dovendo scegliere scelgo di rimanere a casa per poter ancora scrivere».

Susanna Tamaro si ritira dalla vita pubblica: "Sindrome di Asperger mi toglie le forze, ma continuerò a scrivere". "Non è un ritiro per il disgusto del mondo, ma non posso più muovermi, viaggiare, fare incontri. Finché ero giovane ho potuto gestirla, dopo i 50 ho cominciato a peggiorare". L'annuncio durante la festa per i 62 anni della scrittrice. La Repubblica il  12 dicembre 2019. Susanna Tamaro si ritira dalla vita pubblica. Non smetterà di scrivere, ma rinuncia agli impegni sociali. Lo annuncia nel giorno del suo 62esimo compleanno, spiegando che non ha più energie per muoversi. “Soffro di una sindrome neurologica, quella di Asperger – spiega - che dà tanti vantaggi, come una memoria spaventosa, ma anche tanti svantaggi, soprattutto dopo 50 anni. Scelgo di rimanere a casa per poter ancora scrivere. Non è un ritiro per il disgusto del mondo". Susanna Tamaro ha parlato della sua decisione nel corso di un evento a lei dedicato “Buon compleanno Susanna” a Orvieto. Nell'occasione ha donato il suo Mac, usato per scrivere nel 1992 “Va' dove ti porta il cuore”, successo da 15 milioni di copie. "Quando ho scritto il libro ho ricevuto molti attacchi, uno fu: 'Ma come, lo ha scritto con il computer?'. Allora sembrava una magia, per me è stata una liberazione poterlo utilizzare. Ha vissuto per tanti anni con me, ha scritto tanti libri ed è bello che ora le persone lo possano vedere, che possa far parte della comunità". Il computer è stato donato al Vetrya corporate campus e posato in una teca nel corso dell'appuntamento organizzato dalla Fondazione Luca & Katia Tomassini, fondatori dell'azienda digital Vetrya. "All'inizio - ha spiegato - quando ho visto che "Va dove ti porta il cuore" era primo in classifica ho pensato a un errore, poi ci è rimasto per tre anni. Il libro ha parlato a tutto il mondo, evidentemente ha toccato qualcosa di umano che lega tutti e questa è una ricchezza enorme per uno scrittore. Ho risposto a migliaia di mail e lettere, poi ho scoperto che solo Hermann Hesse lo faceva". Il successo ha portato il benessere economico ("i soldi mi mettevano angoscia, non sapevo che farmene, per questo nel 2000 ho donato tutto a una fondazione creata per promuovere progetti per le donne") ma anche le critiche. "Per 10-15 anni ho ricevuto attacchi a 360 gradi da tutte le parti, anche minacce di morte. C'era un clima di caccia alle streghe, perché ero io la strega. Uno zoccolo di odio molto grave, a causa dei media. Per un'artista molto sensibile come me è stato terribile. Ne ho sofferto molto e mi ha tolto la gioia di scrivere che avevo prima". Da 30 anni vive in Umbria, nel  comune di Porano. "Fortunatamente sono molto distratta e non ricordo di essere una persona famosa, questo mi permette una vita più rilassata. Sono molto legata alle mie origini, ma in Umbria c'è un tempo ottocentesco, non c'è fretta, c'è arte, cultura e un livello di relazioni umane bello, caldo. È importante essere venuta qua perché mi ha permesso di scrivere libri importanti". Infine l'annuncio di essere costretta a ritirarsi dalla vita pubblica per la sindrome di Asperger. "Una patologia che dà tanti vantaggi - ha spiegato - ma anche tanti svantaggi, soprattutto dopo 50 anni. Finché ero giovane ho potuto gestirla, dopo i 50 ho cominciato a peggiorare. Non posso più muovermi, viaggiare, fare incontri, non ho più forza per farlo e dovendo scegliere scelgo di rimanere a casa per poter ancora scrivere".

Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 12 dicembre 2019. Susanna Tamaro, una delle narratrici italiane più amate, annuncia il ritiro dalla vita pubblica. Ma non dalla scrittura. Lo annuncia nel giorno del suo 62esimo compleanno, a Orvieto, spiegando ai fan che non ha più energie per muoversi. «Soffro di una sindrome neurologica, quella di Asperger spiega - che dà tanti vantaggi, come una memoria spaventosa, ma anche tanti svantaggi, soprattutto dopo 50 anni. Scelgo di rimanere a casa per poter ancora scrivere. Non è un ritiro per il disgusto del mondo». Era in corso «Buon compleanno Susanna» a Orvieto, un evento nel corso del quale la Tamaro ha donato il suo Mac, usato per scrivere nel 1992 Va' dove ti porta il cuore, successo da 15 milioni di copie. La scrittrice ha ricordato anche le feroci critiche ricevute dal suo bestseller, inclusa quella oggi grottesca di averlo scritto al computer, cosa in quegli anni non abituale. Di fronte al clamoroso successo commerciale di Va' dove ti porta il cuore (1994), la critica militante, con le dovute ma numerate eccezioni, sul conto dell' autrice Susanna Tamaro si è posta domande capitali. Roba di questa portata: è una lesbica? Davvero convive more uxorio con una donna? Cosa mangia, è vegana o vegetariana? Sarà mica una fascista? Ha letto Evola? È un' artista o una plagiatrice seriale? È cattolica, buddista o cosa? Comunque sia non è un po' strana, con quei capelli da maschio? Strana è strana, bisogna ammetterlo. Infatti pochi autori sono in possesso di una sintassi articolata ma così limpida da non richiedere un inciso di troppo o una punteggiatura ridondante. Segno che la Tamaro ha le idee molto chiare su cosa vuole dire e quale effetto vuole ottenere. I libri riusciti sono pietre acuminate: perfettamente levigate, per questo appuntite e dolorose. Alla critica militante comunque non piacciono neppure il tono sentenzioso e le metafore precotte. I «benevoli» sono pronti ad ammettere, con paternalismo, che questi difetti sono dovuti a un fatto molto semplice. La Tamaro non si rivolge al lettore z«forte» ma alla massa di ignoranti che snobba la vera letteratura. Massa calcolabile in circa quindici milioni di italiani trascurabili (dai critici). Altra stranezza della Tamaro, è il rifiuto dello psicologismo o peggio ancora della sociologia da strapazzo che ogni autore «profondo» si sente in dovere di tirare in ballo in tutte le occasioni. Terza stranezza. Nella Tamaro «cuore» non fa rima con «amore» ma con «orrore». Anche l' ottimismo new age rimproverato all' autrice sembra più che altro una leggenda. Infatti i libri della Tamaro sono piuttosto una rassegna di crudeltà: bambini violati nella loro innocenza, bambini per niente innocenti, bestie stramazzate, famiglie decomposte, madri degenerate, padri da galera. Il gelo avvolge i personaggi delle favole dark della Tamaro, si vedano i cinque monologhi di Per voce sola spesso e volentieri al limite del sadismo. Infine. Pochi autori italiani sono in grado di cogliere la poesia degli animali. Alla Tamaro basta l' occhio di un pesce o l' apparizione di un cervo per spalancare un abisso sotto i piedi del lettore. Non sarà una novità, in Italia non lo è dai tempi di Federigo Tozzi, ma nessuno è bravo ad amministrare questo artificio come la Tamaro. Talento messo a frutto anche nei suoi racconti per bambini, per niente secondari nella sua produzione. Insomma, la Tamaro non meriterebbe un giudizio più equanime? Perché tutto questo scandalo intorno all' autrice nata a Trieste nel 1957? Il successo straordinario ottenuto senza bisogno di alcuna legittimazione da parte dei mitici «salotti» potrebbe aver scatenato qualche antipatia? L' anticomunismo esplicito di romanzi come Anima Mundi, subito sottolineato acidamente nelle recensioni, potrebbe aver inciso? Sono ipotesi Nel frattempo, un bocca in lupo alla Tamaro, e restiamo in attesa dei suoi nuovi libri e dei suoi nuovi articoli.

·         Carlo Fruttero e Franco Lucentini.

Luigi Mascheroni per il Giornale il 25 novembre 2019. Sono una coppia, quindi è giusto che il «Meridiano» sia doppio. Autori: Carlo Fruttero (1926-2012) e Franco Lucentini (1920 2002). Titolo del volume, in due tomi: Opere di bottega (Mondadori). Contenuto: quattordici titoli, da Notizie degli scavi di Lucentini (1964) al congedo di Fruttero col poemetto La linea di minor resistenza (2012), attraverso tutti i testi più importanti firmati insieme (nel 1958 aprirono la florida ditta F&L), più una corposa introduzione di Domenico Scarpa e - tradizione della prestigiosa collana mondadoriana - una «Cronologia» che è a tutti gli effetti, viste le avventure esistenziali e professionali dei due protagonisti, un altro romanzo. E forse fra i più divertenti da leggere: provate. Fruttero e Lucentini costituiscono la più celebre coppia di scrittori del nostro '900. E non solo per quanto riguarda il giallo, la fantascienza o il giornalismo (insieme firmano romanzi, saggi, rubriche, traduzioni, sceneggiature e antologie). Ma per quanto riguarda la letteratura tout court. Il fatto è che oltre a essere bravi F&L erano troppo commerciali (a partire dalla «&» della firma) e, come sempre accade, essere popolari e vendere molto in Italia è un limite. Che peraltro tutti gli scrittori vorrebbero avere. Comunque: dare conto in un semplice articolo dell'opera e la vita di Fruttero e Lucentini, che stanno strette persino in un doppio Meridiano, è arduo. Ma, pescando soprattutto nel ricchissimo saggio introduttivo di Domenico Scarpa, si può tentare di raccontarne alcuni aspetti meno conosciuti. Ad esempio: DANNUNZIANI F&L, preferendola a quella di moltissimi scrittori del '900, amavano la prosa di Gabriele D'Annunzio (cui dedicarono peraltro uno straordinario scritto: D'Annunzio dall'aereo al metrò, storia dei mezzi di trasporto nei romanzi del Vate). Se poco interessava loro dei personaggi e della trama dei libri di D'Annunzio, ne apprezzavano la lingua: il senso del ritmo, il suono, la scelta delle parole... E poi c'era l'ammirazione, ironica, per l'onnivora bulimia sociale del personaggio-D'Annunzio. Alla domanda: «Ma oggi D'Annunzio andrebbe ospite da Raffaella Carrà?», rispondevano: «Ma sarebbe lui la Carrà!».

AMICI MA NON «COMPAGNI». Il motivo per cui nel 1961 Fruttero e Lucentini escono dall'Einaudi - di solito lo si ricorda malvolentieri, o lo si dimentica del tutto - è che l'ambiente dello Struzzo stava loro ideologicamente molto stretto. Se ne vanno per insofferenza politica. Vogliono più libertà, sia per come pensare sia per le cose da fare. Fruttero, quando lo ricorderà, più avanti negli anni, carica un po' le tinte: ma la verità è che a loro, dell'impegno che va molto di moda all'epoca, interessa zero. Stanno lontano dal Partito e vicino agli autori meno connotati politicamente. Beckett, Robbe-Grillet, Borges, Salinger... All'engagement preferiscono la Science fiction, ai proclami le storie di fantasmi. A loro interessava il fatto letterario, il raccontare per raccontare. Erano, con declinazioni sfumate, due anarco-libertari che non vogliono sprofondar nella palude ideologica di quegli anni.

NÉ SINISTRA NÉ DESTRA. Anche quando nel 1974 F&L accettano l'invito di Indro Montanelli a scrivere per il suo Giornale, lo fanno non per motivi ideologici. Lo fanno da una parte per riconoscenza (Montanelli li aveva difesi quando il colonnello Gheddafi, che partecipava al capitale Fiat, chiese il loro licenziamento dalla Stampa per un pezzo ironico sui suoi rapporti con gli Agnelli) e dall'altra perché sul nuovo quotidiano avrebbero potuto azzardare un esperimento giornalistico fuori dal tempo: il feuilleton. E così, scrivendo ogni giorno il fogliettone di Terza pagina, per venti puntate, nacque Il significato dell'esistenza... ALTO&BASSO F&L furono in fondo i più bravi a tenere in equilibrio perfetto la cosiddetta cultura alta con la cosiddetta cultura mainstream. Coltissimi, si sporcavano le mani con tutti i generi, dalle storie di guerra al fumetto, dal rosa all'horror, dal western al fotoromanzo. Sapevano scendere dal «livello A» al «livello B», e poi risalire, divertendosi e divertendo il lettore. Certo, anche Italo Calvino giocava con i generi letterari. Ma non al punto di praticare in proprio il romanzo popolare come loro si proponevano di fare, e alla fine fecero. Per dire: negli anni '70 Calvino studia a livello teorico quello che loro invece fanno in pratica. La commistione tra alto e basso. Attenzione: F&L distinguono benissimo il «livello A» dal «livello B». Sanno che Ken Follett non è uguale ad Ariosto. Ma senza snobismi leggono entrambi, e li «usano». Li mischiano, li contaminano. Sono spregiudicati, sperimentatori, «pasticcioni-pasticcieri». E i prodotti che sfornano, sono ottimi oltre che essere per tutti.

NO A NEGRI, PEDERASTI E PACIFISTI. Da segnalare un documento trovato in archivio dal curatore del Meridiano: la lettera che Fruttero, a nome di entrambi, scrive a Vittorio Sereni quando entrano in Mondadori (ottobre 1961) per spiegare la propria «filosofia». Dove si legge: «I nostri criteri generali di lavoro sono la leggibilità e la validità estetica. In altre parole, a un racconto di guerra brutto ma interessante, perché il protagonista è negro, o pederasta o pacifista noi non ci vergogniamo di preferire un racconto di guerra bello, dove il protagonista si limita a sparare, a detestare il sergente, ad avere paura, fame ecc...». Un passaggio così politicamente scorretto che piacerebbe moltissimo al Bret Easton Ellis di Bianco.

L'IMPORTANTE È IL BELLO, NON IL BUONO. Che poi: F&L non sono neppure politicamente scorretti. Sono insofferenti sì al clima Einaudi, ma semplicemente seguono un'altra strada: a loro interessano i valori assoluti del Bello e del Godimento, che di volta in volta possono trovare in una rivista di pulp fiction o una pagina di D'Annunzio. Davanti a tutte le avanguardie o movimenti impegnati, di qualsiasi colore siano, loro svicolano. Liberi dal ricatto morale, dagli snobismi raffinati, dai paternalismi pedagogici. Un buon motivo per (ri)leggerli.

LABORATORIO. Il loro credo (ed ecco spiegato il titolo del Meridiano: Opere di bottega) è l'artigianalità. F&L, nel ruolo di redattori, romanzieri, saggisti o traduttori, lavorano come contadini. Per loro la scrittura è qualcosa che spacca le ossa. Una fatica (il romanzo La donna della domenica è un cantiere sterminato, tra riscritture, correzioni, cambi di progetto...). F&L non fanno discorsi ideali e di metodo. Sono artigiani che tagliano, cuciono, costruiscono trame e frasi. È gente che usa e pratica i verbi d'azione, il gesto, il «mettere le mani in pasta». Le loro unghie sono sporche della creta della finzione. Fiction come «fare», come valore etimologico della parola.

NIENTE PREMI. Può sembrare strano, ma F&L, che vendettero moltissimo, insieme non vinsero alcun premio. Anche di fronte alla evidenza cioè una qualità letteraria altissima - la critica, con pochissime eccezioni, forse giusto Pietro Citati, non li riconobbe all'epoca. Erano considerati furbi e abili manipolatori, e i loro prodotti troppo popolari, un po' farlocchi. Quando invece ciò che esce dal loro laboratorio è frutto di una cultura che il 90% degli scrittori italiani se la sogna.

IL PRINCIPIO ERA IL VERBO. Per F&L - come per tutti gli scrittori davvero grandi - la parola, la lingua, sono tutto. Volevano (ri)fondare un italiano letterario che fosse efficace dal punto vista comunicativo, plausibile dal punto di vista della resa e di assoluta dignità stilistica. E ci riuscirono. Se è vero che sulla trama e sulla struttura del romanzo si sono ammazzati di lavoro, l'attenzione per il linguaggio era persino superiore. Volevano che ci fosse un colpo di scena linguistico non a ogni pagina, ma a ogni capoverso.

AGNELLI INEDITO. Nell'archivio di F&L c'è anche un inedito molto curioso: Vita segreta di Giovanni Agnelli. Un romanzo d'appendice illustrato in stile primo '900 - una sorta di prequel del fotoromanzo - fatto con disegni e lunghe didascalie in cui s'immagina una pseudo vita dell'Avvocato. Rimasto incompiuto, sopravvivono una trentina di immagini commentate.

CRETINO. Al cretino F&L hanno dato, dal punto di vista letterario, tantissimo. La prevalenza del cretino (1985), La manutenzione del sorriso (1988) e Il ritorno del cretino (1992). Ma chi è - davvero - il cretino? Colui che vorrebbe essere anticonformista e sogna velleitariamente di essere unico, ma poi fa scemenze colossali tali da ritrovarsi più comune e banale di tutti quelli che tentano l'impresa di essere comuni. Il cretino, insomma, è colui che vorrebbe avere la vita inimitabile di D'Annunzio ma alla fine - più «uguale» di tutti gli altri - si ritrova a essere un personaggio di Orwell. Insomma, il contrario di F&L. Che fingendosi i più «banali» fra gli scrittori, si riscoprono i più originali di tutti.

·         Pietrangelo Buttafuoco.

Aspettando Sarkò. PietrangeloButtafuoco il 23 novembre2019 su Quotidiano del Sud. La sentenza di Corrado Augias ormai è totem: la destra è bruto istinto mentre la sinistra è fatica di una qualità alta. Basta un rutto e si è centrodestra. A sinistra, invece, ci si impegna a sdegnare la cafonaggine. Chi è di sinistra, al seguito di Augias, è superiore, si stacca dalla volgarità e diventa appunto Augias. Un gradino sotto l’eccellenza. Una sottomarca, comunque. Una specie di Carla Bruni che non ha ancora un suo Sarkò.

Augias spara a zero su Buttafuoco? Un maestro senza più alunni diligenti. Francesco Marotta del 7 Novembre 2014 su Destra.it. Corrado Augias questa volta ha fatto straripare la teiera. Davvero una cosa difficile per l’imperturbabile giornalista e scrittore dell’intendere la cultura a capo verso. Una semplice questione di punti di vista. Mercoledì sera a Otto e Mezzo, il programma diretto da Lilli Gruber su LA7 alle 20.30 (il video integrale potete rivederlo nella nostra rubrica Televisionando) , l’imprevedibile Pietrangelo Buttafuoco ha sparigliato le carte in tavola. La pagina delle lettere del quotidiano La Repubblica, curata dall’ultimo “dandy” del liberismo culturale della sinistra italiana, riceverà parecchie lettere appassionate. Il conduttore televisivo, scrittore, giornalista ed ex politico, ha finito i pasticcini deliziosi dell’auto-compiacimento culturale, che, durante la trasmissione, sono stati ridimensionati a briciole e si sono rilevati per lui indigesti. Per una volta, al suo fianco, non c’era traccia del solito ospite e di nessun alunno perfetto a cui somministrare racconti storici, concettualmente viziati e le abituali biografie, scandalistiche, di illustri personaggi. Purtroppo, solo per una manciata di minuti, uno dei suoi interventi televisivi, spesso accomunati da una deontologia dell’informazione somigliante all’incedere di un convegno “unitarista universalista”, non è andato a buon fine. A tradirlo è una passione in particolare: la fatica di vestire quotidianamente i panni da Metropolitan Country e quell’aria da Hugh Grant dei primi anni ’90. Prossimo a ripercorre le strade della letteratura tutto logica e raziocinio. Una pecca che persino le pie adoratrici di Kensington, risvegliatesi tardone, hanno notato; smettendo di strizzare l’occhiolino e turandosi l’orecchio con le dita durante le sviolinate dell’ex Visionario di Charles Darwin. Ma che cosa ha spinto Augias a dileggiarsi con due affermazioni degne di Tomás de Torquemada? Durante la trasmissione i due ospiti della Gruber, conversavano pacatamente sul ruolo della religione nella società. All’improvviso a Buttafuoco, viene in mente la sciagurata idea di citare Voltaire e la sua teoria dei tre impostori: Mosè, Gesù e Abramo. Cosa che ha fatto imbestialire il bel Corrado, che non ci ha pensato due volte a trattenere la sua vena inquisitoria, rispondendo per le rime:« e qui viene fuori il tuo antisemitismo». Appena dopo, quando il “Moro” di Catania illustrava la sua ultima fatica letteraria, I cinque funerali della signora Goering (Mondadori), ecco che con il solito charme e con la sveltezza di chi è in difficoltà, di quelli che come lui nella vita non si sono mai fatti mancare nulla, tranne un contraddittorio, pone una domanda che vuole essere un trabocchetto inaspettato al suo interlocutore: «perché sei così affascinato dal nazismo»? Mancavano solo gli applausi finti dei talk show d’Oltremanica e lo sgambetto programmato, avrebbe richiamato l’attenzione dei patroni di un pulpito serale. Il romanzo di Buttafuoco che narra le peripezie dei coniugi Göring è solo un pretesto? Oppure, i “segreti” sviscerati da Augias su Roma, Londra, Parigi e New York, comprese le varie inchieste su Maria e Gesù, hanno sortito un effetto onnipotente ? Nulla di questo. Nel rispetto delle credenze altrui e con semplicità, è bastata un’ospitata per scompaginare le speranza dell’informazione comportamentale (mediata) e dell’approfondimento mediatico. Delle cerchie ristrette della cultura che deve essere in mano a pochi. Forse, quei riti di chi odia a prescindere chi la pensa all’esatto opposto e i loro officianti, qualcosa temono. Quando la paura pronunciata lentamente, tradisce i professori.

Andrea Di Consoli per quotidianodelsud.it il 25 novembre 2019.

Pietrangelo Buttafuoco, come sta? Che periodo della vita è per Lei questo?

«Magnifico, entusiasmante, con molta adrenalina. Perché le mie giornate sono dei mosaici, e ogni singola pietruzza ha un suo racconto. Poi, appena posso, mi godo il romanzo nel suo insieme.»

Quindi prova qualcosa che potremmo definire felicità.

«Sì, sento il creare, l’ebbrezza del creare. Una bellissima sensazione, come attraversare l’elettricità delle cose.»

Però avrà vissuto anche momenti bui, avvilenti. Ne ricorda qualcuno, in particolare?

«Forse la morte della professione. Quando morì il giornalismo vidi il buio.»

Perché, il giornalismo è morto?

«Sì, certo che è morto. Mi sentivo nel pieno dell’energia, del possesso di una tecnica, e poi è tutto cambiato. Mi accorsi che era come quando era stato inventato il telaio e qualcuno continuava a tessere alla vecchia maniera.»

E fisicamente non lo avverte il passare gli anni, l’affacciarsi della maturità?

«Quello sì, me ne accorgo. Perché essendo pedone in una città terribile come Roma, ogni passo che faccio è un agguato, un inciampo, allora avverto che le risposte del corpo non sono più come quelle di un tempo.»

E l’eros? Non l’avvilisce l’idea che con il passare degli anni il corpo perda vigore?

«Un proverbio dice: “L’uomo sessantino lassa a fimmina e pigghia lu vino”. Vuol dire che anticamente si conoscevano bene i passaggi del tempo. L’attraversamento delle stagioni mi muove a tenerezza.»

Non avverte l’ombra della decadenza, insomma.

«No, grazie a Dio no. È un periodo anche storico molto affascinante. Un vecchio sistema sta per andarsene; e se ne sta andando, se Dio vuole, senza traumi sanguinari.»

E cosa se ne sta andando, del vecchio mondo?

«Stiamo perdendo l’illusione della ragione. Tutta la grande superstizione illuministica si è frantumata.»

L’illuminismo è una superstizione?

«Totalmente. Coi suoi tabù del razionalismo, del laicismo, del progressismo.»

E quindi siamo in un’epoca nuova. Che epoca è, dunque, questa che stiamo vivendo?

«Diciamo che è l’epoca della tecnica compiuta dove prevale uno spettro di possibilità ulteriori. Adesso c’è la possibilità di adottare nuovi linguaggi che molto somigliano a quelli dei pitagorici. L’algoritmo non è altro che un’intuizione di Pitagora.»

Anche la letteratura fa parte del vecchio mondo che sta andando via?

«Se noi stiamo parlando della voce, del “poetar cantando”, no, ci sarà sempre, perché appartiene all’umano.»

Quindi per Lei non è cambiato nulla, come scrittore.

«Dal punto di vista industriale sì. Perché è chiaro ormai che i libri sono come i bigliettini da visita. Non esiste più il consumo dell’opera d’arte, specie nella sua riproducibilità. Invece dal punto di vista della liberalità della creazione non è cambiato niente. È sempre la solita ebbrezza.»

E la politica La entusiasma ancora?

«La politica è una delle forme che accompagnano la trasformazione di questo tempo. La forma del politico deve riadattarsi al cambiamento. Fino al ‘900 siamo stati accompagnati dalla diade terra e mare. Ora la diade è diventata una triade: terra, mare e spazio. E i confini del politico si ridisegnano secondo questo schema. Una volta c’era l’impero della terra e del mare. Ora c’è anche la terra dello spazio.»

Buttafuoco, ha qualche nostalgia?

«Quelle semplici di tutti noi. Dei cari, per esempio. Però tra le superstizioni che se ne sono andate via c’è anche quella del futuro. Sul futuro prevale l’avvenire, con tutto l’etimo che trascina con sé.»

Perché, qual è la differenza tra futuro e avvenire?

«L’avvenire ti dà un tempo di completezza. Il futuro è l’accadere: è come la pioggia, che però poi si asciuga. Mentre l’avvenire è la storicità di ciò che avviene, l’avvenimento che mette radici.»

Quindi lei crede nell’avvenire.

«Sì, senza dubbio. Dopo il perdurare nella decadenza, ora s’avvia il buonumore.»

E come mai tutti dicono che siamo in piena decadenza?

«Lo dicono perché devono gestire la realtà con strumenti obsoleti come la rivoluzione francese. È molto più utile il Bhagavadgita, della rivoluzione francese.»

E la morte come la vive lei oggi?

«È solo un transito. Di certo non è un evento definitivo.»

E lei come lo sa?

«Perché basta sollevare lo sguardo e raddrizzare la punta del naso verso il cielo. Solo così ci si rende conto che la morte non è definitiva. Bisogna prendere un punto dell’infinito e metterselo sulla giacca come un distintivo.»

E la preghiera che cos’è?

«La preghiera è come nuotare nel canto perdurante dell’eterno.»

Buttafuoco, Lei dove si sente a casa?

«L’ultima volta che ho avuto la sensazione di trovarmi a casa è stato ad Agrigento, nella Valle dei Templi, al tramonto, ritrovandomi faccia a faccia con una capra girgentana.»

Cosa provò?

«Per me era la dimora, il dimorare.»

Esiste davvero la Casa, quella assoluta?

«Sì, ma solo nella forma del presagio.»

Si sente a casa solo in Sicilia o anche a Roma?

«Roma è lavoro. Anzi, è servizio.»

Un giorno tornerà per sempre in Sicilia?

«Sì, come no, tanto che non ho mai cancellato la residenza in Sicilia.»

Vorrà morire in Sicilia dunque?

«O quanto meno lì sarà la mia tomba»

Dove esattamente?

«La mia tomba sarà a Leonforte.»

Come sarà la sua tomba?

«Sotto terra.»

Quali sono le parole della sua infanzia, quelle che non hanno mai smesso di accompagnarla?

«Intanto “melograno”. Perché mi dà il senso della piena goduria, dell’attesa, perché devi aspettare quella stagione e nessun’altra, il melograno non lo trovi con facilità da supermercato. Un’altra parola è “zalora”, è un frutto bellissimo della Sicilia. Come vede le sto dicendo parole che presuppongono passeggiate per le campagne.»

Lei è uomo di terra?

«Diciamo che sono uomo di campagna.»

E il mare?

«Il mare? Tanto di cappello per il mare, ma io sono uomo di campagna.»

E la Sicilia è di mare o di terra?

«La Sicilia è più di terra. Quando a noi siciliani gli amici dicono che vanno a Salina, ad Alicudi, a Filicudi, noi li guardiamo sbalorditi, perché il mare siciliano è il grano.»

Con quali scrittori non più in vita le piacerebbe trascorrere del tempo?

«Ovviamente con Ibn Hamdis. E poi Nino Martoglio. E poi con altri due che sono più impegnativi: uno è Pirandello, l’altro è Giovanni Gentile.»

E con Sciascia?

«È già troppo affollata la sua tavolata.»

E con Vincenzo Consolo?

«Consolo non mi sopportava. Lui era troppo ideologico. Ma “Il sorriso dell’ignoto marinaio” è un romanzo stupendo.»

Che sogni fa solitamente?

«Quasi ogni notte sogno mio padre.»

E cosa Le dice? Cosa accade in sogno tra lei e suo padre?

«Facciamo cose normali, sono scene di vita normale.»

In che modo sente la presenza di Suo padre ora che non c’è più?

«Lo sento anche incontrandolo nelle giornate qualsiasi, nei momenti inaspettati. L’ultima volta l’ho incontrato mentre facevo le scale mobili all’aeroporto. Me lo sono ritrovato accanto. Così, con naturalezza. Gli racconto le cose che faccio.»

Qual è il difetto che non si perdona?

«Forse l’essere eccessivamente impulsivo.»

Il musulmano Buttafuoco cosa pensa del cristianesimo?

«Io sono molto legato alla religione dei nostri padri, nel senso che mi piace molto la religione nella sua versione greca. E quindi mi affascina ritrovare nel cattolicesimo i furti praticati a questa storia.»

Ma Lei è uomo d’Oriente o d’Occidente?

«Né Oriente né Occidente. Sono uomo del Mediterraneo.»

Si sente uno scrittore universale?

«Sì, quello sì, mi sento universale. Quelle poche volte che mi sono trovato in situazioni geograficamente distanti ho sempre sentito delle forti affinità. Le ho avvertite in India, nelle lande siberiane, in Persia.»

Non Le ho chiesto di Sua madre.

«Mia madre è il fondamento che salda tutta quest’autenticità.»

Di cosa ha paura oggi Pietrangelo Buttafuoco?

«Del sussurratore.»

E chi è?

«Il diavolo.»

E com’è il diavolo?

«È una persona. Esiste in quanto tale.»

E Lei lo riconosce sempre?

«Sì, lo riconosco. Arriva attraverso un brivido, un tipo particolarissimo di freddo.»

·         Indro Montanelli.

E un Montanelli da leggenda sbucò dal Tg2. Il reportage su Indro di Miska Ruggeri. Libero Quotidiano il 26 Luglio 2019. “Non beatificatemi troppo, perché non riuscirete a pareggiare il conto...». Mentre visionavo La leggenda di Indro, il bel reportage a firma Miska Ruggeri sul Tg2 Dossier (Rai Storia, martedì, prime time), mi è venuto in mente l’autoepitaffio con cui, con falsa modestia, Montanelli annaffiava il suo mito.  Mi capita spesso di aggrapparmi a Montanelli, al suo giornalismo permeato di “insolente capacità di scrittura” (diceva Carlo Cecchi), di senso dell’onore e di dignità della sconfitta. Ho un figlio che si chiama Gregorio Indro che ancora non sa che nel suo nome è racchiuso un modello di vita inimitabile. Ed è bene che, ad intervalli irregolari ci sia sempre un memento montanelliano per le nuove generazioni. Il reportage del Tg2 prende lo spunto delle date di nascite e morte del Maestro; ma, in realtà, è un escamotage narrativo per riprenderne dalle teche Rai le immagini, gli occhi, i gesti, le gambe da fenicottero, la sua storia immensa da cui nessuno osa trarre un film. Ognuno degli intervistati, qui, da la sua versione di Montanelli. Gervaso ricorda che “Montanelli nel giornalismo italiano del 90 è stato quello che Voltaire è stato nel giornalismo francese del 700; è riuscito a far capire al lettore quel che il lettore – e spesso lui stesso- non capiva mai”. Vittorio Feltri ne evoca “lo stile che si sposava perfettamente con il comune sentire del popolo” (farsi capire “dal lattaio dell’Ohio”, diceva Indro durante il praticantato alla United Press); Massimo Fini ne liscia la schiena dritta e Michele Brambilla l’abilità a rendere il verosimile più vero del vero. Eppoi ecco Indro che racconta a Ugo Tognazzi la tentazione di “fare il brigante, poi ho fatto il giornalista che più o meno è la stessa cosa”; Indro e, la depressione; Indro e il XX Battaglione Eritreo e la sposa dodicenne; Indro e i reportage da Albania, Finlandia e Ungheria; Indro contro il film sul Generale Della Rovere e la “corporazione” della letteratura che lo rifiutò. E’, per me che l’ho vissuta, trattata con troppa diffidenza l’avventura della Voce, rappresentata nel racconto del Vecchio Cilindro come la figlia della serva.  Nel reportage di Miska Ruggeri non spicca, certo, nulla di nuovo; ma brilla l’essenza della leggenda. Fate conoscere Montanelli ai vostri figli. Non importa quel che è realmente stato, ma ciò che ha rappresentato…

Antonio Gnoli e Francesco Merlo per “la Repubblica” il 23 ottobre 2019. Abbiamo passato molto tempo con Eugenio per preparare un libro che lui ha letto solo quando è stato stampato. Quasi due anni di lavoro per raccontare i mille Scalfari "che mi somigliano tutti un po' con una vita molteplice e ormai indipendente dalla mia". La cifra unica di questi mille Scalfari è stata l'allegria. E il racconto, anche quando diventa intimo, rivela sempre la sua gioia di vivere: "C'è stato molto divertimento nella mia vita. Nel lavoro mi sono sempre divertito. E quando ho smesso di fare qualcosa è perché non mi divertivo più". Anche noi ci siamo divertiti e ci auguriamo che queste confessioni sorprendenti e libertine ora divertano il lettore. Il capitolo che qui anticipiamo, intitolato "Io e Montanelli", è il penultimo. I capitoli sono 24, l'ultimo è il "Lungo addio". C'è poco di quel che si conosce, anche dell' amicizia con il Papa: "Di tutto quel che ho realizzato nella mia lunga vita, la cosa che piacerebbe di più alla mamma è l'amicizia con Papa Francesco. In questi anni mi è stato chiesto che senso ha per un laico parlare di religione e di Dio. Che ne sanno, loro, di me e di mia madre?". (a.g. / f.m.) Un giorno pronunciammo entrambi la stessa frase: «Ti immagini noi due insieme?», e non so se i nostri stupori fossero uguali; non so se lui si riferisse all' impossibilità di mettere insieme il suo carattere ribaldo di toscanaccio e la mia cocciutaggine di calabrese o la sua Italia di destra e la mia Italia di sinistra. Indro aveva rotto con il Corriere ed ero andato a trovarlo a Milano, a casa di una signora da cui viveva e che credo fosse la sua compagna. Gli proposi di fare insieme un giornale e gli offrii il posto di direttore. Mi disse che voleva scrivere articoli e non dirigere giornali e lo rassicurai promettendogli che così sarebbe stato: avrebbe fatto i suoi editoriali di direttore e al resto ci avrei pensato io. Le mie parole gli giunsero chiare, ma non colsi nessuna reazione emotiva. Dunque non so se restò lusingato dalla proposta. Mi assicurò soltanto che ci avrebbe pensato per un paio di giorni. E, quando ci salutammo, aggiunse che con ogni probabilità la risposta sarebbe stata no. E in effetti, come aveva promesso, e come a quel punto prevedevo, quarantotto ore dopo mi arrivò il suo no: non avrebbe fatto, mi spiegò, il direttore di un giornale che nella realtà sarebbe stato tutto mio. Montanelli realizzò il quotidiano facendosi finanziare da Berlusconi e questa è stata una delle ragioni per cui per molto tempo ce ne dicemmo di tutti i colori. Poi però, quando fu licenziato dal Giornale e fondò La Voce, ci rivedemmo ancora, due o tre volte. In un' occasione rievocò, con una punta d' ironia, quel nostro incontro milanese: «Credi che se io avessi accettato di diventare il direttore del tuo giornale, tu avresti avuto lo stesso successo?». Era sempre l' uomo mordace che avevo imparato a conoscere fin dagli anni in cui a Milano capitava di incrociarci al Covino, un ristorante dove mangiava spesso con Longanesi. Ricordo con simpatia il Montanelli novantenne, mi rivedo nei suoi sorrisi senza goffaggini, mai fuori contesto, mai giovanilisti, che è la peggior maniera di essere vecchi, negando sé stessi. Del vecchio Montanelli ricordo il viso lungo nell' intreccio scarnificato di solchi e di macchie: era stato sempre magro, ora era traballante e curvo. Non aveva i miei capelli né la barba bianca con qualche striscia lucente, ma la pelle era la stessa: sdrucita e sottile, non gli copriva ma gli scopriva le ossa, le sue più ancora delle mie. Mi è piaciuto il suo modo di invecchiare. Ma anche quando quello stesso Berlusconi che ci aveva allontanato ci avvicinò, continuammo ad avere punti di vista differenti sull' Italia e sul mondo. Curiosamente, il legame si rinsaldò allorché insieme partecipammo a un festival dell' Unità, ma non ci fu nessuna sbandata di Indro a sinistra, come in quell'occasione dissero i berlusconiani delusi. E soprattutto nessuna ruggine senile nel suo pensiero. La verità era che un uomo di destra del suo stampo si trovava molto meglio con una sinistra alla Prodi che con una destra alla Berlusconi. Non si riconosceva nella sinistra, che però non gli faceva più paura; al contrario, temeva la destra che era la sua bandiera, e dunque si sentiva tradito. Indro rimase il grande giornalista che era sempre stato, l' interprete più arguto del senso comune: quello che gli italiani di solito sentivano con la pancia, lui lo restituiva nell' inimitabile efficacia del suo stile. Ogni italiano aveva in casa uno zio brillante e pungente, un fratello caustico che somigliava a Montanelli. Io ho cercato invece di essere l' interprete del buon senso, che è cosa diversa dal senso comune, ma oramai eravamo entrambi vecchi e questo ci rendeva più compatibili, sebbene avessimo fantasmi diversi: lui con i suoi Longanesi e Prezzolini; io con i miei Pannunzio e Benedetti. Io di sinistra e lui di destra. E benché ce ne dicessimo di cotte e di crude, siamo stati, a modo nostro, amici e alla fine era vero che ci somigliavamo. Nonostante fossi più giovane, abbiamo vissuto nella stessa epoca e attraversato lo stesso fuoco, trasformando il nostro mestiere in un romanzo, al punto che il mondo reale e il mondo narrato non si distinguono più, con una folla di Scalfari e una folla di Montanelli, tutti veri, tutti falsi, tutti verosimili, tutti leggendari. Entrambi abbiamo fatto i conti con il liberalismo: lui da conservatore anarcoide, io da radicale libertino; lui divulgatore di storia e io scrittore di filosofia. Entrambi ci siamo fatti beffe di quella ipocrisia che chiamano «i fatti separati dalle opinioni», ed entrambi siamo stati circondati da servizievoli cloni ai quali abbiamo sempre preferito gli avversari, non gli insultatori e i quaquaraquà, ma la gente con cui ci si intende anche quando ci si morde. Avevamo in comune pure la pretesa dell' eleganza, quell' idea di indossare con semplicità un cachemire come fosse lana grezza. Siamo stati «la dualità italiana», come qualcuno ha detto, la mano destra e la mano sinistra del giornalismo del Novecento, due irriducibili ghibellini: il ghibellino bianco e il ghibellino nero. E anche due provinciali, aggiungo, uguali e diversi: la sua Fucecchio è il mondo che rimanda alla metafora dell' individuo, alla solitudine e alla singolarità, ma anche allo spazio chiuso che più resiste al tempo; la mia Civitavecchia è il mare aperto, l'orizzonte, lo sguardo. Da un lato la provincia chiusa di un toscanaccio che si liberava girando il mondo e andava a cercare il segreto dell' universo in Finlandia e in Ungheria; dall' altro la provincia aperta del Viandante di Caspar David Friedrich che cercava il segreto dell' universo scrutando l' orizzonte. La provincia gelosa e permalosa del sarcastico provocatore in faccia alla provincia paterna e dolce che dalla riva guarda le navi lasciare il porto e diventare punti lontani. Oggi sorrido immaginando me stesso con Montanelli accanto, a passeggiare nel secolo. Ma non voglio esagerare. E non solo perché i nostri modelli giornalistici restarono inconciliabili nello stile e nel modo di pensare. Nel ricordo non mi pesano le critiche e i giudizi aspri che per decenni ci siamo scambiati. Confesso però che mi dispiacque quando appresi che nei suoi Diari mi dipingeva come una specie di Bel-Ami, il personaggio che Maupassant immortalò assegnandogli il tratto della spregiudicatezza. Ora, per quello che ne so, la spregiudicatezza può essere tanto mancanza di scrupoli quanto libertà dal pregiudizio; può trasformarsi in cinismo oppure in indipendenza d'opinione e perfino in anticonformismo. Ritengo che la mia, anche quando ha sfiorato l' azzardo, non abbia mai forzato le regole del gioco. Qualunque partita da me affrontata è sempre stata condotta secondo le regole. Maupassant consegnò al lettore un tipo umano che, attraverso il giornalismo, scopre la seduzione del potere e se ne innamora al punto da volersi sostituire ai potenti che descrive. So bene che il mio mestiere è stato una forma di dominio che ho esercitato lungo sessant' anni. Tutta la mia vita è stata costellata di incontri con quella «razza padrona » che ho cercato non solo di combattere, ma anche di raccontare in maniera dettagliata. E non c' è mai stata la tentazione di sostituirmi a loro, di voler essere come loro. Lo dico senza snobismo, con la consapevolezza che la mia storia, come ho raccontato, nasceva da altre premesse. È vero, tuttavia, che a lungo ho avuto un potere reale. E, avendolo esercitato nella doppia veste di giornalista ed editore, è sembrato ancora più grande. Per me è naturale che la figura di Bel-Ami lasci il posto a qualcosa di più sfumato, perfino di malinconico. Nel senso che ho sempre avuto chiaro che il potere, rispondendo alle leggi della meccanica, per il semplice fatto che c' è, si può perdere. Ho combattuto molte battaglie: ho difeso quando c' era da difendere e ho attaccato quando ho avvertito la minaccia di un nemico deciso a insidiare le nostre postazioni. Non penso sia un' eccezione aver vissuto in modo alquanto tempestoso certi momenti dell' esistenza. Il Novecento, più di altri secoli, è stato il tempo delle burrasche e delle bonacce. Averlo attraversato per un lungo tratto mi consente di vedermi come un protagonista che ha lottato, patito, desiderato affinché le proprie idee, i propri progetti avessero la meglio in una competizione che non ha mai ignorato la correttezza. Ecco perché la spregiudicatezza alla quale alludeva Montanelli mi è parsa inappropriata. Quanto a me, non ho mai discusso l' autorevolezza del giornalista né la lealtà e la generosità dell'uomo che ha sempre conservato un certo sprezzo per la vita. Semmai ho preso di petto le sue convinzioni politiche. Sulla scia di Longanesi, Montanelli ha creduto che l' unica borghesia degna fosse la più conservatrice. Si sbagliava? Penso di sì. Ritengo che proprio di quel soggetto, al quale più volte ha fatto riferimento, spronandolo, sferzandolo e criticandolo, si sia sentito il legittimo interprete, depositario di una verità sociologica moderata che a me ha fatto soprattutto pensare alla difesa di un' Italia arretrata. Montanelli fu un italiano sui generis. Non lo avvicinerei, come pure è stato fatto, alla figura di Curzio Malaparte, il troppo avventurista autore della Pelle . Semmai, ritengo che abbia fatto parte di quella schiera di pessimisti che, oltre a Longanesi, ha avuto in Giuseppe Prezzolini un indiscutibile punto di riferimento. Perfino nel suo lavoro di divulgatore storico non seppe sottrarsi alla convinzione che l' Italia fosse un paese diverso dal resto dell' Europa, una zattera che si era staccata dalla terraferma per galleggiare e ondeggiare seguendo il flusso delle correnti. Anche nei momenti in cui più accese furono le controversie fra noi, non ho mai visto in Montanelli il mio nemico, e non solo perché mi pareva troppo grande come giornalista, troppo fuoriclasse, ma perché ci univa una passione comune: quella per la libertà.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 25 ottobre 2019. Il tempo aiuta ad alleggerire i ricordi, in qualche caso addirittura a cancellarli. È quello che dev'essere successo a Eugenio Scalfari superata la soglia dei 95 anni. Il fondatore di Repubblica ha appena dato alle stampe un libro di memorie, in cui, ripercorrendo la sua carriera, racconta del suo rapporto con Indro Montanelli, rivelando di avergli offerto la direzione di un giornale - presumibilmente la costituenda Repubblica - allorquando il Corriere lo licenziò. A leggere la ricostruzione, trapela una stima e una consonanza che negli scritti dell' epoca però non si ritrova. I due non erano amici fraterni e non avevano certo la stessa visione del mondo. Il primo era ardentemente filocomunista, convinto che il modello capitalistico sarebbe stato sconfitto e quello sovietico avrebbe trionfato. Il secondo, avendo visto i carrarmati di Mosca invadere l'Ungheria, l'Urss la combatteva e la temeva. Che stessero su sponde opposte lo dimostrano anche le cose scritte negli anni in cui Repubblica vedeva la luce. Quando il quotidiano romano prese il largo, i due si scambiarono un biglietto di auguri e proprio tra le lettere del fondatore del Giornale si ritrova un messaggio indirizzato a colui che negli anni i suoi giornalisti avrebbero ribattezzato Barbapapà. «Tu, quando noi nascemmo, mi gettasti addosso sacchi di merda, anche sul piano personale. Non ti domando perché l' hai fatto: conosco il tuo temperamento. Però non farlo più, perché su questo piano tu non hai lezioni da darmi e io non ho da prenderne da nessuno. Quindi, per riassumere: polemica aperta sul piano ideologico, che sarà benefica ad entrambi, ed istruttiva per i lettori: rispetto sul piano personale. Ma reciproco. Ti va bene?». Non si sa che cosa rispose Scalfari, in privato, a Montanelli. Si sa però che cosa scrisse in pubblico. Nella primavera del 1977, un anno dopo la nascita di Repubblica e dunque del monito di Indro, il quotidiano chiese che al direttore del Giornale fosse proibito di apparire in tv. Che cos' era accaduto? Due sere prima, Indro era stato ospite di Maurizio Costanzo, nella trasmissione che andava in onda su Rai 1. A Bontà loro - questo il nome del programma della televisione pubblica - erano sfilati tipi come Luciano Lutring, soprannominato il solista del mitra, o come Salvatore Samperi, il regista degli amori proibiti. Però Montanelli no: a lui doveva essere impedito il diritto di tribuna «per i suoi sfoghi personali». A suscitare scandalo era stato il fatto che Montanelli avesse detto quel che pensava senza adeguarsi al conformismo dell' epoca. Marcello Staglieno, che lavorò al Giornale, in un libro dedicato al direttore controcorrente annota: «A un solista del mitra, accoglienza festosa, ma un solista delle opinioni va messo a tacere». Scaramucce tra grandi firme, cioè polemiche aperte sul piano ideologico, ammesse come regole del gioco dallo stesso Indro nel suo biglietto a Scalfari il giorno della nascita di Repubblica? Niente affatto. E anche qui basta rileggere i diari di Montanelli, in particolare ciò che scrisse il giorno dopo essere stato gambizzato dalle Brigate rosse. «Anche L' Unità esce con un titolo a sette colonne in cui campeggia il mio nome. Lo stesso fa Repubblica, ma con un articolo di Scalfari ancora più infelice di quello che scrisse dopo Bontà loro per chiedere la mia esclusione dalla tv nazionale. Sostiene la strana tesi che l' attentato è stato organizzato contro i nemici di Montanelli, cioè contro di lui, insinuando così il sospetto che me lo sia organizzato da me. Il mio successo lo riempie di un furore che lo fa sragionare». Le vendite di Repubblica infatti languivano intorno alle 50.000 copie, quelle del Giornale, nonostante i boicottaggi, all' epoca superavano le 150.000. Oggi Scalfari scrive che «anche nei momenti più accesi in cui ci furono le controversie fra noi, non ho mai visto in Montanelli il mio nemico, e non solo perché mi pareva troppo grande come giornalista, troppo fuoriclasse, ma perché ci univa una passione comune: quella per la libertà». Sarà, ma Indro non la pensava così. Anche qui basta scorrere i suoi diari. «Di Scalfari non ho un' opinione precisa. C' è in lui un pizzico di Baldacci, un pizzico di Bel-Ami, e perfino un pizzico di Ramperti. So che ha fatto parecchi soldi (ne farà di più vendendo Repubblica a Carlo De Benedetti, come gli ha ricordato di recente l' Ingegnere, ndr). La sua ambizione è sfrenata e scoperta. Ma vuole arrivare a qualcosa o vuole fuggire da qualcosa? Nella sua frenesia c'è del patologico. Le sue polemiche (come questa con me) sono quasi sempre gratuite. Questo nemico di tutti è soprattutto nemico di sé stesso, animato da un irresistibile cupio dissolvi». Scalfari era in quegli anni un sostenitore del matrimonio «clerico-marxista» e Indro lo liquidò così: «È incredibile la carica d' intelligenza ch' egli investe in tesi così stupide». Quanto all' idea di un giornale da dirigere a quattro mani, negli appunti di Montanelli, così densi di informazioni e giudizi, non c' è la minima traccia. Forse, anche in questo caso, il tempo ha cancellato i ricordi. Di sicuro rimangono gli articoli.

Marcello Veneziani per ''La Verità'' il 26 ottobre 2019. Come Gesù Cristo anche Eugenio Scalfari lascia che a scrivere il suo Vangelo siano gli apostoli. Due bravi apostoli, come Antonio Gnoli e Francesco Merlo. L' opera, ben scritta in prima persona come se l'avesse dettata Lui, non s' intitola In verità vi dico o Parola del Signore ma in modo più mondano Grand Hotel Scalfari (Marsilio, 296 pagine). Da quando è apparso a papa Bergoglio, Scalfari ha completato il suo tragitto. È stato, come lui stesso rivendica con candore leggermente spudorato, fascista e antifascista, monarchico e repubblicano, anzi fondatore de La Repubblica, liberale e socialista, radicale e comunista, dannunziano e volterriano. Però non era mai stato cattolico. Ma da quando Bergoglio siede alla Sua destra, Scalfari lo ha eletto a Suo Vicario in terra, lo ispira e a volte gli attribuisce pensieri ed eresie che appartengono invece ai giochi teologici della Sua Mente libertina. Eugenio non è diventato credente ma è convinto che Bergoglio sia diventato un suo credente, oltre che inquilino nella sua Casa. Scalfari è un grande del giornalismo ma è un grandissimo come impresario, fondatore e direttore dei giornali. Non è un principe della scrittura - come per esempio i solisti Curzio Malaparte o Indro Montanelli - non è eccelso come politologo e profeta politico e non è quel colto umanista che da qualche tempo vuol apparire. Ma è stato un eccellente croupier di grandi firme e grandi avventure editoriali, con gran fiuto. In particolare con La Repubblica che fondò, portò a grandi vendite e persino al sorpasso del Corriere della Sera. La Repubblica ha influenzato tanto la politica e cultura e ha accompagnato più di ogni altro la trasformazione della sinistra da comunista in radical, da proletaria in neoborghese, da popolare in elitaria, da credente in supponente, da classe operaia in corpo docente, da massa in razza padrona. Scalfari, Umberto Eco & C. sono stati i battistrada di quella mutazione antropologica laicista. Portarono la sinistra da Mosca a New York, con scalo ideologico a Parigi. Non tornerò sul suo fascismo giovanile, che ora Scalfari ammette senza ritrosie, anche se lo giustifica curiosamente: «Tutto quel mio essere convintamente fascista ha poi reso solido il mio antifascismo». Come dire che l' antifascismo coerente di Vittorio Foa, scontato con la galera, fosse meno solido del suo, che diventò comodamente antifascista a babbo morto, o morente. Non vi dirò della sua infanzia, dei suoi amori e della sua sbandierata bigamia, della sua ammissione di essere narciso, innamorato del suo Ego, dannunziano e dandy, della sua «albagia» come lui ama ribattezzare quel che in modo meno alato si chiama superbia o presunzione. E non tornerò sui suoi scritti su Roma fascista, poi della sua ridicola resistenza, riparato in Vaticano in attesa degli americani. Né risalirò alle sue origini calabresi, a suo padre giocatore accanito di poker e direttore del Casinò di Sanremo, o agli esordi d' Eugenio come direttore del casinò di Chianciano e poi bancario. Non vi racconterò di suoceri, editori e compagni di scuola e di lavoro. Molti fascisti, da Nelson Page a Mario Tedeschi e Peppino Ciarrapico sfilano nella sua biografia o agiografia. Un tempo avrebbe fatto finta di non averli mai conosciuti. Questo testo ha il merito di risparmiarci la sua apoteosi come scrittore, filosofo, poeta e teologo; o la prosopopea per la grottesca pubblicazione nei Meridiani, come se fosse un classico. Anzi merita lode la sua sincerità quando racconta la doppia bocciatura di Roberto Calasso alla sua proposta di pubblicare con Adelphi. Meritano lode pure alcune pagine sulla vecchiaia e sulla malinconia. Il paragone con Indro Montanelli è forse la parte più viva del libro: l' occasione perduta di fare un giornale insieme, la trentennale polemica e la finale simpatia, rinata nel nome comune dell' antiberlusconismo. La sua ammirazione non parve però ricambiata: Montanelli paragonò Scalfari a Bel Ami di Maupassant, per sottolinearne il cinismo arrivista senza scrupoli. Ed Eugenio se ne duole. Il giornale di Scalfari vendeva molto più del Giornale di Montanelli, ma i suoi articoli non furono memorabili come quelli di Indro; Scalfari fu molto seguito ma non fu amato come lui; Scalfari fu uomo di potere, mentre Montanelli, pur senza mai contrastare davvero il potere, se ne tenne elegantemente lontano. Scalfari fece grandi profitti dai suoi giornali, Montanelli no. Di Scalfari restano i suoi prodotti, come La Repubblica, di Montanelli invece resta Montanelli, il suo stile, la sua prosa, il suo carattere. L' egoteismo di Eugenio in Indro si fa gigioneria, da pronunciare con la g fiorentina. Montanelli lo immagini tra Leo Longanesi, Giovanni Guareschi e Malaparte; Scalfari è di altra pasta. Negli anni Novanta Scalfari mi chiamò a scrivere su La Repubblica, mi cercò il suo vice, Antonio Polito; scrissi per un annetto, credo, una volta scrissi nel paginone culturale de La Repubblica perfino di Pier Paolo Pasolini «reazionario»; poi arrivò Ezio Mauro e interruppe bruscamente la collaborazione. Impensabile quella presenza aliena in questi anni rognosi e livorosi. Mi fa male oggi leggere alcuni suoi editoriali, le sue omelie domenicali, con alcuni passaggi imbarazzanti; suggerirei, se non vuole gettare la spugna per limiti d' età, di farsi aiutare dai suoi apostoli per finire in bellezza una gran carriera. Lo dico senza polemica, anzi col rispetto che si deve a una figura eminente e a un' età ragguardevole che merita premure e deferenza. Scalfari torna poi alla megalomania nel finale del suo Nuovo Testamento, quando si vede scomparire nel buio come il Gattopardo e sfumando «porta con sé la nobiltà, la saggezza, la prudenza, l' autorevolezza, il potere come visione del bene comune». Un necro-elogio superbo, in tutti i sensi. In principio era la barba, come si addice ai padreterni, poi venne Il Mondo.

Da “Libero quotidiano” il 31 ottobre 2019. «Ha deciso giustamente di andarsene. E una creatura singolare che io ho conosciuto, ci siamo voluti bene e abbiamo collaborato, poi piano piano i nostri destini si sono divisi». Così Eugenio Scalfari, fondatore e storico direttore del quotidiano «Repubblica», a margine della presentazione del libro "Grand Hotel Scalfari", scritto da Antonio Gnoli e Francesco Merlo, commenta la decisione di Carlo De Benedetti di lasciare la presidenza onoraria di Gedi, il gruppo che edita «Repubblica», «La Stampa» e «Secolo XIX». «Io non voglio dire che aveva tutti i torti, io stavo con i figli, lui litigò anche con loro, poi ha rinunciato - ha aggiunto Scalfari- Ha detto non sono un presidente effettivo e quindi è inutile che io sia presidente onorario». Per il direttore di Repubblica Carlo Verdelli l' addio di De Benedetti è un vero e proprio «lutto».

Cecilia Cirinei per “la Repubblica - Edizione Roma” il 31 ottobre 2019. Alle 18 già non si trovano posti a sedere. Pienone da grande evento ieri pomeriggio al Tempio di Adriano in Piazza di Pietra. È stato presentato alle 18,30 il libro sul fondatore di "Repubblica" Eugenio Scalfari "Grand Hotel Scalfari. Confessioni libertine su un secolo di carta" (edito da Marsilio). A leggere brani del volume l' attore Roberto Herlitzka mentre sul palco, a moderare l' incontro, Simonetta Fiori. Seduti accanto a lei i due autori Antonio Gnoli e Francesco Merlo, Paolo Mieli, storico ed ex direttore del Corriere della Sera, e Carlo Verdelli, attuale direttore di Repubblica. Alle 19,30 Eugenio Scalfari, 95 anni e mezzo (precisa), nato nel 1924, sale sul palco in jeans e pullover. Applausi del suo pubblico, della grande "famiglia" di Repubblica in sala da Raimondo Bultrini a Daniele Mastrogiacomo. Fra le prime ad arrivare le figlie Donata ed Enrica Scalfari, Alberto Asor Rosa, Irene Bignardi, Michele Ainis, Angelo Guglielmi, Selma Dell' Olio, moglie di Giuliano Ferrara e Jas Gawronski che dice: «Per me Scalfari è "il giornalismo" Ha reso questa professione qualcosa che la gente ammira ». Paolo Mieli racconta: «Ci siamo conosciuti che avevo 18 anni, sono cresciuto alla sua scuola, è stato il mio primo direttore all' Espresso. Ed è un amico da oltre 50 anni. Questo libro va letto come un romanzo». E ancora, Pietrangelo Buttafuoco: «Il libro è così festoso. Penso che sia perfetto per vincere il Premio Strega». Herlitzka comincia a leggere alcuni brani, si parla dell' infanzia, della storia della barba di Eugenio e dei suoi genitori. Paolo Guzzanti commenta: «Ci siamo rivisti un anno fa dopo tanto tempo. Mi fa piacere che abbia questa soddisfazione trionfale». Selma Dell' Olio sottolinea: «È un' icona del giornalismo. Non si poteva non venire». Il libro è scritto in prima persona. Verdelli dice: «Prima di diventare direttore non lo conoscevo e mi sono augurato di fare colpo su Scalfari. E lui mi ha stupito. Mi ha fatto un gran regalo, un pomeriggio a casa sua». E Scalfari guardando Verdelli precisa: «Non ci conoscevamo, ma direi che "ci siamo innamorati". A volte quando siamo insieme ci viene da piangere o perché abbiamo capito una cosa bella o brutta o entrambe. Questa è la vita e questo commuove ».

Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 31 ottobre 2019. Una vita da romanzo in cui l' infanzia, il rapporto con i genitori, i ricordi lontani sono vivissimi e hanno lasciato il segno. Roberto Herlitzka legge le prime pagine di Grand Hotel Scalfari-Confessioni libertine su un secolo di carta di Antonio Gnoli e Francesco Merlo, edito da Marsilio, e il fondatore di Repubblica è un bambino che osserva il padre mentre si rade. Le pagine sulla barba («è stata una carta d' identità») raccontano l' uomo e il tempo che passa «sono novantacinque anni e mezzo, anche la barba si è fatta fragile». L' infanzia cattolica («Oggi mia madre sarebbe felice che sono amico di Papa Francesco »), la straordinaria avventura della nascita di Repubblica, le battaglie politiche, gli amori, il rapporto con gli amici e i nemici. «È un capolavoro scritto apparentemente da me, ma io non ho scritto una parola» dice Scalfari alla presentazione del libro, a Roma, in un incontro affollatissimo al Tempio di Adriano moderato da Simonetta Fiori, con gli autori, il direttore di Repubblica Carlo Verdelli e Paolo Mieli. In platea Alberto Asor Rosa, Piero Citati, Irene Bignardi, Paolo Guzzanti presenti tanti giornalisti - di ieri e di oggi - legati a Repubblica. Scalfari saluta la sala sorridendo: «Ma vi conosco tutti! È come stare a casa mia. Questo libro» dice «mi ha fatto capire cose che erano dentro di me e loro le hanno rese esplicite. È molto speciale. Una specie di Madame Bovary... Gli autori mi hanno fatto una quantità di domande, poi hanno raccolto altre informazioni ma non mi hanno detto che scrivevano un libro. Non ho scritto una riga ma mi sono riconosciuto». La passione per il giornalismo che segna la sua vita (dell' ingegner Carlo De Benedetti, presidente onorario del gruppo Gedi dice: «Creatura singolare, ha deciso giustamente di andarsene», riferendosi alle recenti dimissioni), Scalfari è raccontato da Gnoli e Merlo che scrivono in prima persona, come se fosse lui l' autore. «Mai mi sarei immaginato che Eugenio affidasse ad altri di scrivere la sua vita» osserva Mieli «è un romanzo in cui due bravissimi giornalisti trattengono quello che a lui sta a cuore. Viene fuori un quadro diverso, in cui il passato è importantissimo. Gli anni recenti lo sono molto meno. Lo hanno colpito più i nemici degli amici: Craxi è citato, Prodi una sola volta». «Abbiamo cercato il filo rosso che unisce i mille Scalfari - ha spiegato Merlo - . Secondo noi è l' ottimismo, la gioia di vivere che nemmeno il fascismo e la guerra hanno scalfito. Repubblica somiglia al casinò di Sanremo che il padre dirigeva, c' è la commedia umana del fascismo e dell' antifascismo. Con un po' di audacia abbiamo trovato la misura. Scalfari è lo spartito e noi lo abbiamo suonato». Già il titolo, Grand Hotel Scalfari, suggerisce lo scorrere la vita, gli incontri. «Dà l' idea delle storie che entrano in un ambiente e vengono restituite» dice Gnoli «un luogo letterario in cui si intrecciano divertimento, nostalgia, storia, racconto». Repubblica viene fondata nel 1976, diventa un punto di riferimento per le battaglie sociali, è la grande avventura di un giornale che diventa community. «Quando superammo il Corriere » ricorda Scalfari «ho avuto paura: eravamo attrezzati a fare i cani che inseguono, non le lepri che fuggono ». «Scalfari come Montanelli e pochissimi altri, è un maestro» dice il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli «Quando sono arrivato al giornale, da barbaro, perché non appartengo alla grande famiglia di Repubblica, temevo molto il primo incontro con Scalfari, volevo fare colpo su di lui e mi ha stupito. Abbiamo passato un pomeriggio insieme e lo ricordo come un punto di svolta. Smisi di sentirmi un barbaro e cominciando a lavorare per capire quale giornale fare, sono risalito alle sorgenti per ricongiungermi a quel giornale». Scalfari ricambia: «Se me lo consente dico che ci siamo innamorati, al punto che spesso vado nella sua stanza e a volte, toccando quello che uno di noi pensa, ci viene da piangere. O perché abbiamo capito una cosa bella, o perché abbiamo capito una cosa brutta. E questo ci commuove. Io sono sentimentale ». Rivela che quando parla con Papa Francesco, il pontefice gli dice: «Prego per lei, la prego di fare altrettanto. Allora gli spiego: "Santità, non sono credente". E lui mi dice: "Pensi a me, è la stessa cosa pensare a una persona volendole bene"».

Aldo Cazzullo per “il Corriere della Sera” il 22 novembre 2019. C' è il piccolo Eugenio Scalfari che ricama all' uncinetto; ma quando un bambino gli butta i giocattoli dalla finestra, lui gli impone di andare a riprenderli, «e da allora so che cos' è per me il carattere». C' è il padre Pietro, giovane legionario di d' Annunzio a Fiume disgustato dal regime e da sé stesso, che talora facendosi la barba al mattino si sputa nello specchio. C' è la madre che piange e singhiozza quasi tutte le sere: «In casa non ci fu mai un' atmosfera veramente drammatica, ma melodrammatica sì». C'è Italo Calvino che scappa dal bordello con i pantaloni in mano, perché non vuol essere toccato da una prostituta. C' è Angelo Rizzoli che affida il giudizio di Dio sugli affari - compreso finanziare o no «Repubblica» - al suo pappagallo, che sentenzia: «Angelo, sei uno stronzo». C' è Lino Jannuzzi che va in America a intervistare Ella Fitzgerald, ottiene due posti in prima fila - l'altro è per Serena Rossetti -, ma durante il concerto si addormenta clamorosamente, Ella Fitzgerald se ne accorge e ritira l'intervista. Insomma, a leggere Grand Hotel Scalfari alla ricerca di aneddoti, se ne trovano tanti, e strepitosi. Ma il libro è molto di più. Era un' operazione editoriale ad alto rischio di reducismo e di celebrazione; è diventata il racconto di formazione non solo di un giornale e di una comunità, ma di uno stile e di una corrente politico-culturale che da sparuta si fa di massa, sia pure quasi sempre minoritaria e quindi all' opposizione. E se questo è accaduto significa che ognuno dei vari artefici dell' operazione editoriale ha saputo fare il suo mestiere: Eugenio Scalfari, il protagonista, racconta, Antonio Gnoli e Francesco Merlo domandano e scrivono, e l' editor Ottavio Dibrizzi con il know-how della Marsilio fa la sua parte. Il risultato è un libro che resterà. Il titolo viene dalla passione dichiarata di Scalfari per i grandi alberghi, dove talora si ritira - al Grand Hotel di Roma, al Crillon di Parigi - anche nelle città in cui ha casa, per il gusto di guardare chi passa, indovinare gli amori, partecipare alla vita dei Salon che gli ricordano i casinò della sua giovinezza: quello di Sanremo, diretto dal padre, e quello di Chianciano, la cui direzione gli viene affidata dal padre dopo la guerra, s' intende senza stipendio. Con la stessa tecnica del direttore di un casinò - o di un circo, o di un' orchestra: memorabile la riunione in cui fa ascoltare ai capiservizio il nastro con la furia di Toscanini verso i suoi musicisti - Scalfari dirige i giornali. E Grand Hotel Scalfari è «la descrizione di uno stile, di un gusto, di una cultura, di un mondo che erano soltanto suoi e che sono diventati nostri» come scrivono i due autori: dove la parola «nostri» include tre generazioni di lettori, e quindi milioni di persone, mentre erano appena 12 mila le copie vendute dal «Mondo» di Mario Pannunzio, dove tutto ha inizio. Ed è una storia molto diversa da quella della sinistra tradizionale. Una storia che parte da Gabriele d' Annunzio, passa attraverso Francesco Pastonchi, poeta e retore di cui gli studenti torinesi ridevano già ben prima del Sessantotto ma a cui i ricordi d' anteguerra di Scalfari restituiscono fascino e dignità, le riviste del frondismo fascista, la temperie radicale e anche radical chic, il libertinismo intellettuale, l' apertura prima al socialismo poi al comunismo, prima a De Martino poi a Berlinguer. Certo c' è anche l' individuazione del nemico, che per un giornale è sempre una grande semplificazione: per vent' anni Craxi, per i vent' anni successivi Berlusconi; ora c' è Salvini che promette bene. Ma anche stando all' opposizione Scalfari non ha mai perso il gusto di sorprendere, distinguere, e anche di cambiare idea o farne convivere due. Come le donne della sua vita. La sincerità è il tratto che lega il racconto: l' adesione al fascismo, la cacciata, la Resistenza in convento, fino alla debolezza della vecchiaia. Il culmine dell' introspezione è il capitolo che si intitola «Due donne di cuori», che così comincia: «Sono ormai lontano dall' amore fisico. La vecchiaia non mi dà gioie, mi lascia i desideri e mi priva della loro realizzazione. Il corpo non risponde più come una volta alle sollecitazioni della mente. Il suo lento deteriorarsi mi fa pensare alla barca che si allontana, governata da venti e correnti che non dipendono da me. Il mio desiderio resta sulla riva ma nulla, tranne la morte, potrà ricondurlo a quel nucleo che marcisce di nervi e sangue, di energia e muscoli». Eppure solo la vecchiaia, la malattia, la morte recano pace, prendono decisioni che l' uomo non riesce a prendere, sciolgono il nodo di una vita intrecciata tra due donne, entrambe amatissime, entrambe necessarie, inevitabilmente divise da una rivalità che si stempera nelle parole dolcissime e struggenti con cui Simonetta morente chiede a Scalfari di spargere un po' del profumo che le ha regalato Serena. E davanti a questo miracolo tutto il resto, il potere, la politica, la storia patria passano in secondo piano, «ora che la natura mi sta rosicchiando», ma non gli impedisce di portare al suo giornale, che so, un' intervista al Papa. Così di Scalfari, come dei sacerdoti, si può dire che sarà giornalista in eterno.

·         Oriana Fallaci, vergogna di Stato: la Rai l'ha boicottata.

Oriana Fallaci, il j'accuse dopo anni di silenzio. Islamizzazione e terrorismo, immigrazione incontrollata, fallimento dell'integrazione. La grande giornalista aveva ragione quando diceva queste cose per Panorama nel 2002. Edoardo Dallari il 4 dicembre 2019 su Panorama. Se all’interno del dibattito pubblico stiamo assistendo a un ritorno prepotente del pensiero di Oriana Fallaci il merito è di Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Le sue idee non hanno mai avuto chiaro colore politico. È tuttavia un fatto inequivocabile che, a partire dalla trilogia La Rabbia e l’Orgoglio, La forza della Ragione e Oriana Fallaci intervista se stessa, siano state abbracciate e portate avanti dagli ambienti legati alla destra italiana. La critica all’Islam culla del terrorismo, l’opposizione al pericolo dell’islamizzazione dell’Europa attraverso un’immigrazione di massa strumento dell’invasione «condotta all’insegna della clandestinità», la denuncia del fallimento del multiculturalismo e dell’idea di integrazione, l’attacco all’antisemitismo, la difesa della libertà occidentale, le posizioni pro vita («nascere è meglio di non nascere»), fanno sì che la Fallaci entri di diritto nel Pantheon intellettuale della Nuova Destra europea. Si trova così oggi accanto al comunitarista Alain De Benoist, all’ideologo dell’Eurasia Aleksandr Dugin, all’anti-islamista Michel Onfray. E questo accade nonostante fosse estranea, come ovvio, al dibattito contemporaneo globalisti-sovranisti, e il suo riferimento politico fosse la Destra storica liberale italiana dei Cavour e dei D’Azeglio, dei Gioberti e dei Cattaneo. E benché sia proprio il liberalismo a essere criticato da quegli autori «populisti».

Dalla Sinistra, quella Sinistra «confessionale», «ecclesiastica», «illiberale», «totalitaria», «anti-occidentale» come quell’Islam radicale antisemita che, apprezzando Khomeini e Arafat, ha difeso e sostenuto, Oriana è stata censurata, demonizzata, odiata. Proprio lei, che è nata antifascista e si è schierata contro la guerra in Vietnam, che ha fatto del femminismo una delle battaglie più importanti della sua vita. Quel grido, quell’«Io mi vergogno», risvegliò le coscienze, esaltando o indignando poco conta. Un grido che, insieme al «Wake up Occidente, sveglia!» testimonia tutta la sofferenza e la preoccupazione di chi sente che un’intera civiltà è al bivio decisivo: risorgere o tramontare. Senza boria dei dotti, contro le anime belle, contro ogni coscienza anestetizzata e sclerotizzata dal politically correct progressista dei maîtres à penser nostrani (le «cicale») che si diffonde come un morbo nella società. L’11 settembre 2001, l’«Apocalisse» squarcia il velo dell’illusione della fine della storia preconizzato da Francis Fukuyama: la caduta del Muro di Berlino e dell’Urss non hanno decretato il trionfo della democrazia liberale, ma dato inizio a una nuova fase di incertezza. Non è più il socialismo reale a farsi carico ideologicamente delle istanze dei popoli poveri, ma l’Islam. E la Fallaci, con toni accesi, violenti, a tratti pericolosi, vede che l’11 settembre ha scoperchiato il vaso di Pandora: il Nemico pubblico dell’Occidente, il Nemico mortale, si è palesato. L’Islam politico teocratico da un lato funge da veste ideologica dell’anti-occidentalismo che si diffonde in quel Medio-Oriente dove le potenze occidentali hanno fallito, dall’altro è l’humus del terrorismo globale. Per Samuel Huntington era l’inizio di un nuovo scontro di civiltà, per la Fallaci l’avvio di una «Crociata alla rovescia», la Jihad, che, attraverso una «penetrazione graduale», come sostiene anche Michel Houellebecq, altro autore caro al «populismo di destra», ha come mira finale la «sottomissione» della cultura occidentale a quella islamica, mercé l’introduzione della Sharia. L’opposizione all’Eurabia è a un tempo per Oriana un’accusa a un’Europa stanca, smarrita, rassegnata e impotente, e a un Occidente nichilista incapace di affermare la sua identità e di ricordare le sue radici pagane e giudaico-cristiane. «Io sono un’atea cristiana» è un’invocazione all’orgoglio, a combattere una guerra che non si può vincere con la viltà del pacifismo e la retorica ipocrita dell’umanitarismo, e che non si può perdere, anche a costo di essere tacciati di razzismo. Il rispetto dell’altro non può voler dire abdicare ai propri valori, rinunciare a se stessi. È un’invocazione a lottare per la difesa del nostro Occidente, nonostante tutti i suoi limiti, gli errori e gli orrori che ha perpetrato. Whatever it takes.

Il testamento della Fallaci: l'integrazione una balla. Nel 2005 la scrittrice avvisava sui rischi del politicamente corretto e di certe sentenze. Diana Alfieri, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. Denunciare la «fandonia dell'Islam moderato» è stata l'ultima crociata della combattente Oriana Fallaci. La scrittrice aveva cercato in tutti i modi di costringere l'Occidente a spalancare gli occhi e stracciare il velo dell'ipocrisia per riconoscere quella che per la Fallaci è una verità innegabile. «Continua anche la panzana che l'Islam è una religione di pace, che il Corano predica la misericordia e l'amore e la pietà. Come se Maometto fosse venuto al mondo con un ramoscello d'ulivo in bocca e fosse morto crocifisso insieme a Gesù. Come se non fosse stato anche lui un tagliateste e anziché orde di soldati con le scimitarre ci avesse lasciato san Matteo e san Marco e san Luca e san Giovanni intenti a scrivere gli Evangeli». È uno stralcio del suo ultimo articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 16 luglio 2005. Si intitolava «Il nemico che trattiamo da amico». Profetica? La Fallaci non amava l'idea di fare la Cassandra ma a leggere le sue parole è difficile negare che la sua prospettiva sul futuro dell'Europa e dell'Occidente fagocitati dall'Islam fosse molto lucida. La scrittrice fiorentina cercava di scuotere un Occidente che appariva cieco di fronte al pericolo. La sua crociata aveva preso il via dopo gli attentati dell'11 settembre 2001 in Usa ed è proseguita fino alla sua morte nel 2006. Nel mirino della Fallaci prima di tutto proprio l'Europa che, scriveva, «non è più Europa ma Eurabia e che con la sua mollezza, la sua inerzia, la sua cecità, il suo asservimento al nemico si sta scavando la propria tomba». Critica proprio nei confronti del via libera alla costruzione delle moschee sulla base della «bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo». Durissima pure con il sistema giudiziario con i «magistrati sempre pronti a mandare in galera me e intanto ad assolvere i figli di Allah. A vietarne l'espulsione, ad annullarne le condanne pesanti, nonché a tormentare i carabinieri o i poliziotti che li arrestano». Il mito da sfatare per la scrittrice è quello dell'esistenza di un «Islam Moderato». La Fallaci vuole smascherare «il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un'esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in paesi lontani. Bé, il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ce l'abbiamo in casa da oltre trent'anni». Il rischio più grande è che questo nemico non viene riconosciuto come tale, avverte la Fallaci. «È un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente inserito nel nostro sistema-sociale: col permesso di soggiorno, con l'automobile. Con la famiglia». Per questo scioccamente non lo temiamo più e lo «trattiamo da amico» ma intanto quel nemico in realtà «ci odia e ci disprezza con intensità». Dunque questo nemico trasforma le moschee «in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e obbedisce ciecamente all'imam, però guai se arresti l'imam». Per la Fallaci non ci sono mai stati dubbi o perplessità perchè «l'Islam è il Corano e il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. E' incompatibile col concetto di civiltà». Un buona parte della responsabilità della perdita di orientamento dell'Occidente la Fallaci la attribuisce all'indulgenza «che la Chiesa Cattolica professa nei riguardi dell'Islam», continuando a sottolineare il «comune patrimonio spirituale fornitoci dalle tre grandi religioni monoteistiche». Quella cristiana, quella ebraica, quella islamica. Perla scrittrice non esiste alcun «patrimonio in comune» perché: «Allah non ha nulla in comune col Dio del Cristianesimo. Col Dio padre, il Dio buono, il Dio affettuoso che predica l'amore e il perdono. Il Dio che negli uomini vede i suoi figli. Allah è un Dio padrone, un Dio tiranno. Un Dio che negli uomini vede i suoi sudditi anzi i suoi schiavi. Un Dio che invece dell'amore insegna l'odio, che attraverso il Corano chiama cani-infedeli coloro che credono in un altro Dio e ordina di punirli. Di soggiogarli, di ammazzarli». Impossibile dunque «mettere sullo stesso piano il cristianesimo e l'islamismo». Inaccettabile «onorare in egual modo Gesù e Maometto».

Oriana Fallaci: "Sull'Antisemitismo". Il celebre articolo del 2002 con cui la grande giornalista attaccava e condannava l'antisemitismo. Panorama il 7 dicembre 2019. Io trovo vergognoso che in Italia si faccia un corteo di individui che vestiti da kamikaze berciano infami ingiurie a Israele, alzano fotografie di capi israeliani sulla cui fronte hanno disegnato una svastica, incitano il popolo a odiare gli ebrei. E che pur di rivedere gli ebrei nei campi di sterminio, nelle camere a gas, nei forni crematori di Dachau e di Mauthausen e di Buchenwald e di Bergen-Belsen eccetera, venderebbero a un harem la propria madre. Io trovo vergognoso che la Chiesa Cattolica permetta a un vescovo, peraltro alloggiato in Vaticano, uno stinco di santo che a Gerusalemme venne trovato con un arsenale di armi ed esplosivi nascosti in speciali scomparti della sua sacra Mercedes, di partecipare a quel corteo e piazzarsi a un microfono per ringraziare in nome di Dio i kamikaze che massacrano gli ebrei nelle pizzerie e nei supermarket. Chiamarli «martiri che vanno alia morte come a una festa».

Io trovo vergognoso che in Francia, la Francia del Liberte-Egalite-Fratemite, si brucino le sinagoghe, si terrorizzino gli ebrei, si profanino i loro cimiteri. Trovo vergognoso che in Olanda e in Germania e in Danimarca i giovani sfoggino il kaffiah come gli avanguardisti di Mussolini sfoggiavano il bastone e il distintivo fascista.

Trovo vergognoso che in quasi tutte le università europee gli studenti palestinesi spadroneggino e alimentino l'antisemitismo. Che in Svezia abbiano chiesto di ritirare il Premio Nobel per la Pace concesso a Shimon Peres nel 1994, e concentrarlo sulla colomba col ramoscello d'olivo in bocca cioè su Arafat. Trovo vergognoso che gli esimi membri del Comitato, un Comitato che (a quanto pare) anziché il merito premia il colore politico, abbiano preso in considerazione la richiesta e pensino di esaudirla. All'inferno il Premio Nobel e onore a chi non lo riceve.

Io trovo vergognoso (siamo di nuovo in Italia) che le Televisioni di Stato contribuiscano al risorto antisemitismo piangendo solo sui morti palestinesi, facendo la tara ai morti israeliani, parlando in modo sbrigativo e spesso in tono svogliato di loro. Trovo vergognoso che nei loro dibattiti ospitino con tanta deferenza i mascalzoni col turbante o col kaffiah che ieri inneggiavano alla strage di New York e oggi inneggiano alle stragi di Gerusalemme, di Haifa, di Netanya, di Tel Aviv.

Trovo vergognoso che la stampa scritta faccia lo stesso, che si indigni perché a Betlemme i carri armati israeliani circondano la Chiesa della Natività, che non si indigni perché nella medesima chiesa duecento terroristi palestinesi ben forniti di mitra e munizioni ed esplosivi (tra loro vari capi di Hamas e Al-Aqsa) siano non sgraditi ospiti dei frati (che poi dai militari dei carri armati accettano le bottiglie d'acqua minerale e il cestino di mele).

Trovo vergognoso che dando il numero degli israeliani morti dall'inizio della Seconda Intifada, (quattrocentododici), un noto quotidiano abbia ritenuto giusto sottolineare a gran lettere che nei loro incidenti stradali ne muoiono di più. (Seicento all'anno).

Io trovo vergognoso che 1' Osservatore Romano cioè il giornale del Papa, un Papa che non molto tempo fa lasciò nel Muro del Pianto una lettera di scuse per gli ebrei, accusi di sterminio un popolo sterminato a milioni dai cristiani. Dagli europei.

Trovo vergognoso che ai sopravvissuti di quel popolo (gente che ha ancora il numero tatuato sul braccio) quel giornale neghi il diritto di reagire, difendersi, non farsi sterminare di nuovo.

Trovo vergognoso che in nome di Gesù Cristo (un ebreo senza il quale oggi sarebbero tutti disoccupati) i preti delle nostre parrocchie o Centri Sociali o quel che sono amoreggino con gli assassini di chi a Gerusalemme non può recarsi a mangiar la pizza o a comprar le uova senza saltare in aria.

Trovo vergognoso che essi stiano dalla parte dei medesimi che inaugurarono il terrorismo ammazzandoci sugli aerei, negli aeroporti, alle Olimpiadi, e che oggi si divertono ad ammazzare i giornalisti occidentali. A fucilarli, a rapirli, a tagliargli la gola, a decapitarli. (Dopo l'uscita de La Rabbia e l'Orgoglio qualcuno in Italia vorrebbe farlo anche a me. Citando versi del Corano esorta i suoi «fratelli» delle moschee e delle Comunita Islamiche a castigarmi in nome di Allah. A uccidermi. Anzi a morire con me. Poiché e un tipo che conosce bene l'inglese, in inglese gli rispondo: «Fuck you»).

Io trovo vergognoso che quasi tutta la sinistra, quella sinistra che venti anni fa permise a un suo corteo sindacale di deporre una bara (quale mafioso avvertimento) dinanzi alla sinagoga di Roma, dimentichi il contributo dato dagli ebrei alia lotta antifascista. Da Carlo e Nello Rosselli, per esempio, da Leone Ginzburg, da Umberto Terracini, da Leo Valiani, da Emilio Sereni, dalle donne come la mia amica Anna Maria Enriques Agnoletti fucilata a Firenze il 12 giugno 1944, dai settantacinque dei trecentotrentacinque uccisi alle Fosse Ardeatine, dagli infiniti altri morti sotto le torture o in combattimento o dinanzi ai plotoni d'esecuzione. (I compagni, i maestri, della mia infanzia e della mia prima giovinezza).

Trovo vergognoso che anche per colpa della sinistra anzi soprattutto per colpa della sinistra (pensa alia sinistra che inaugura i suoi congressi applaudendo il rappresentante dell'OLP, in Italia il capo dei palestinesi che vogliono la distruzione di Israele) gli ebrei delle città italiane abbiano di nuovo paura. E nelle città francesi e olandesi e danesi e tedesche, lo stesso.

Trovo vergognoso che al passaggio dei mascalzoni vestiti da kamikaze tremino come a Berlino tremavano la Notte dei Cristalli cioè la notte in cui Hitler avviò la Caccia all'Ebreo.

Io trovo vergognoso che obbedendo alla stupida, vile, disonesta, e per loro vantaggiosissima moda del Politically Correct i soliti opportunisti anzi i soliti parassiti sfruttino la parola Pace. Che in nome della parola Pace, ormai più sputtanata delle parole Amore e Umanità, assolvano da una parte sola l'odio e la bestialità. Che in nome d'un pacifismo (leggi conformismo) delegato ai grilli canterini e ai giullari che prima leccavano i piedi a Pol Pot aizzino la gente confusa o ingenua o intimidita. Che la imbroglino, la corrompano, la riportino indietro di mezzo secolo cioè alla Stella gialla sul cappotto. Questi ciarlatani ai quali dei palestinesi importa quanto a me importa di loro. Cioè nulla.

Io trovo vergognoso che tanti italiani e tanti europei abbiano scelto come vessillo il signor (si fa cosi per dire) Arafat. Questa nullità che grazie ai soldi della Famiglia Reale Saudita fa il Mussolini ad perpetuum e che nella sua megalomania crede di passare alla Storia come il George Washington della Palestina. Questo sgrammaticato che quando lo intervisti non riesce nemmeno a compilare una frase completa, un discorso articolato. Sicché per ricomporre il tutto, scriverlo, pubblicarlo, duri una fatica tremenda e concludi che paragonato a lui perfino Gheddafi diventa Leonardo da Vinci. Questo falso guerriero che va sempre in uniforme come Pinochet, mai che indossi un abito civile, e che tuttavia non ha mai partecipato ad una battaglia. La guerra la fa fare, l'ha sempre fatta fare, agli altri. Cioè ai poveracci che credono in lui. Questo pomposo incapace che recitando la parte del Capo di Stato ha fatto fallire i negoziati di Camp David, la mediazione di Clinton. No-no-Gerusalemme-la-voglio-tutta-per-me.

Questo eterno bugiardo che ha uno sprazzo di sincerity soltanto quando (en prive) nega a Israele il diritto di esistere, e che come dico nel mio libro si smentisce ogni cinque secondi. Fa sempre il doppio gioco, mente perfino se gli chiedi che ora e, sicché di lui non puoi fidarti mai. Mai! Da lui finisci

sistematicamente tradito. Questo eterno terrorista che sa fare solo il terrorista (stando al sicuro) e che negli Anni Settanta cioè quando lo intervistai addestrava pure i terroristi della Baader-Meinhof. Con loro, i bambini di dieci anni. Poveri bambini. (Ora li addestra per fame kamikaze. Cento baby-kamikaze sono in cantiere: cento!).

Questa banderuola che la moglie la tiene a Parigi, servita e riverita come una regina, e che il suo popolo lo tiene nella merda. Dalla merda lo toglie soltanto per mandarlo a morire, a uccidere e a morire, come le diciottenni che per meritarsi l'uguaglianza con gli uomini devono imbottirsi d'esplosivo e disintegrarsi con le loro vittime. Eppure tanti italiani lo amano, si.

Proprio come amavano Mussolini. Tanti altri europei, lo stesso.

Lo trovo vergognoso e vedo in tutto cid il sorgere d'un nuovo fascismo, d'un nuovo nazismo. Un fascismo, un nazismo, tanto più bieco e ributtante in quanto condotto e nutrito da quelli che ipocritamente fanno i buonisti, i progressisti, i comunisti, i pacifisti, i cattolici anzi i cristiani, e che hanno la sfacciataggine di chiamare guerrafondaio chi come me grida la verità. Lo vedo, si, e dico ciò che segue.

Io col tragico e shakespeariano Sharon non sono mai stata tenera. («Lo so che è venuta ad aggiungere uno scalpo alla sua collana» mormorò quasi con tristezza quando andai a intervistarlo nel 1982). Con gli israeliani ho litigato spesso, di brutto, e in passato i palestinesi li ho difesi parecchio. Forse più di quanto meritassero. Però sto con Israele, sto con gli ebrei. Ci sto come ci stavo da ragazzina cioè al tempo in cui combattevo con loro, e le Anne Marie morivano fucilate. Difendo il loro diritto ad esistere, a difendersi, a non farsi sterminare una seconda volta. E disgustata dall'antisemitismo di tanti italiani, di tanti europei, mi vergogno di questa vergogna che disonora il mio Paese e l'Europa. Nel migliore dei casi, non una comunità di Stati ma un pozzo di Ponzi Pilato. Ed anche se tutti gli abitanti di questo pianeta la pensassero in modo diverso, io continuerò a pensarla cosi.

Oriana al femminile (non femminista). Una raccolta di interviste e reportage sul sesso che, per lei, non era certo «debole». Eleonora Barbieri, Martedì 05/11/2019 su Il Giornale. Se nascerai donna, per Oriana Fallaci, è un auspicio. Quello che formula nelle righe che pubblichiamo in questa pagina, tratte da Lettera a un bambino mai nato. Il bestseller uscì per la prima volta per Rizzoli, nel 1975, ed è uno dei testi che ora la casa editrice ripropone, insieme a una serie di reportage e di interviste di Oriana Fallaci sulle donne e alle donne, in una raccolta che si intitola, appunto, Se nascerai donna (pagg. 352, euro 20, in libreria da oggi). La maggior parte dei pezzi uscì su L'Europeo, come quelli sulla libertà femminile (una inchiesta in cinque puntate, pubblicate fra aprile e maggio del 1965, nata da una intervista alla cantante Milly Monti in cui viene posta la domanda provocatoria: «La donna è oggi più libera?») o sui movimenti di liberazione femminile, in cui la Fallaci ci fa incontrare le leader della protesta, come l'americana Kate Millet, una che nel suo Sexual Politics mise all'indice D.H. Lawrence, Henry Miller e Norman Mailer, e con la quale non può che esserci scontro: «Direi che invece d'una intervista facemmo un dibattito: una specie di litigio sui punti deboli del femminismo». Lo spirito di Oriana Fallaci non era fatto essere imbrigliato nelle ideologie e, quindi, nemmeno nel femminismo, sebbene scriva: «Negare che la società in cui viviamo sia una società inventata dagli uomini, imposta dagli uomini, dominata dagli uomini, sarebbe cretino. Come sarebbe cretino negare che tale società poggi sulla distinzione dei sessi» (Che cosa vogliono le donne, in L'Europeo, 1971). «Dura» in servizio quanto femminile nell'aspetto, e nel privato, qualche riga prima definisce la guerra fra uomini e donne come la «più paradossale che si sia concepita» e spiega che lei, la cronista, non è affatto d'accordo, con questa guerra agli uomini: «Non solo perché lei con gli uomini ci si trova benissimo (...) ma perché verso di lei gli uomini son sempre stati giusti e gentili». Alcune delle donne che appaiono in questa raccolta, del resto, riescono a dare del filo da torcere perfino a lei: la strepitosa senatrice Lina Merlin e Coco Chanel, capaci di zittirla; Mina («Siamo destinate a non capirci, noi due» le dice la cantante); l'inarrivabile Golda Meir, l'unica per la quale Oriana Fallaci ammetta un debole: «Pecco di ottimismo o, diciamo pure, di femminismo? Forse. Ma io non sarò mai obiettiva su Golda Meir (...) non si può fare a meno di rispettarla, ammirarla, anzi volerle bene». È vero. Golda Meir, una donna di una volta, potente, divisa (già allora) tra famiglia e lavoro, che definisce «pazze» le femministe che bruciano i reggiseni, e giudica «irritante» lo pseudo-complimento di Ben Gurion, secondo cui lei, Golda, sarebbe stata «l'uomo più in gamba» del suo governo. «Perché cosa significa in fondo? Che essere uomo è meglio che essere donna: principio su cui non sono affatto d'accordo».

"Spero che tu sia donna: non è una disgrazia bensì una sfida che non annoia mai". Le parole di coraggio e amore in «Lettera a un bambino mai nato». Oriana Fallaci, Martedì 05/11/2019, su Il Giornale. Ti ho portato dal medico. Più che la conferma, volevo qualche consiglio. Per risposta ha scosso la testa dicendo che sono impaziente, che non può ancora pronunciarsi, ripassi tra quindici giorni, pronta a scoprire che eri un prodotto della mia fantasia. Tornerò solo per dimostrargli che è un ignorante. Tutta la sua scienza non vale il mio intuito, e come fa un uomo a capire una donna che sostiene anzitempo di aspettare un bambino? Un uomo non resta incinto e, a proposito, dimmi: è un vantaggio o una limitazione? Fino a ieri mi sembrava un vantaggio, anzi un privilegio. Oggi mi sembra una limitazione, anzi una povertà. V'è un che di glorioso nel chiudere dentro il proprio corpo un'altra vita, nel sapersi due anziché uno. A momenti ti invade addirittura un senso di trionfo e, nella serenità che accompagna il trionfo, niente ti preoccupa: né il dolore fisico che dovrai affrontare, né il lavoro che dovrai sacrificare, né la libertà che dovrai perdere. Sarai un uomo o una donna? Vorrei che tu fossi una donna. Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d'accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia. La mia mamma, quando è molto infelice, sospira: «Ah, se fossi nata uomo!». Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio per indicar l'assassinio di un uomo e di una donna. Nelle leggende che i maschi hanno inventato per spiegare la vita, la prima creatura non è una donna: è un uomo chiamato Adamo. Eva arriva dopo, per divertirlo e combinare guai. Nei dipinti che adornano le loro chiese, Dio è un vecchio con la barba bianca mai una vecchia coi capelli bianchi. E tutti i loro eroi sono maschi: da quel Prometeo che scoprì il fuoco a quell'Icaro che tentò di volare, su fino a quel Gesù che dichiarano figlio del Padre e dello Spirito Santo: quasi che la donna da cui fu partorito fosse un'incubatrice o una balia. Eppure, o proprio per questo, essere donna è così affascinante. È un'avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c'è un'intelligenza che chiede d'essere ascoltata. Essere mamma non è un mestiere. Non è neanche un dovere. È solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto a ripeterlo. E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più divertente che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto. Sì, spero che tu sia una donna: non badare se ti chiamo bambino. E spero che tu non dica mai ciò che dice mia madre. Io non l'ho mai detto.

Oriana Fallaci, scomoda per tutti.  Pubblicato mercoledì, 07 agosto 2019 da Pier Luigi Vercesi su Corriere.it. Confessò di aver pianto rare volte e mai mentre gli altri cercavano una lacrima di paura o di dolore sotto ai suoi occhiali scuri. Uscita dalla camera mortuaria di Alekos Panagulis, l’amore della sua vita, la gente si dava di gomito: «Non piange nemmeno». Tutte le lacrime che aveva, Oriana Fallaci le versò nello stanzino stretto che dava sugli ulivi e su un pero, nella casa in Toscana dove si ritirò per scrivere Un uomo, non la biografia ma il racconto dell’anima a cui era stata aggrappata per tre anni, da quando smisero di torturarlo nelle carceri dei colonnelli greci a quando morì in un misterioso incidente mentre si apprestava a denunciare i mali della rinata democrazia ellenica. Mentre il pero si caricava di frutti e perdeva le foglie per tre volte, unica misura del tempo nel suo esilio doloroso, al piano di sotto si spegneva sua madre. Negli ultimi giorni, quando il cancro le aveva intaccato le corde vocali e reagiva solo stringendo la mano e ruotando lievemente gli occhi, Oriana le confessò gioie e dolori della sua esistenza divenuta ormai celebre. Concluse ringraziandola d’averla messa al mondo. Suo padre stava varcando la soglia della stanza e la moribonda ruotò gli occhi nocciola, stringendole la mano per farle capire: lo devi anche a lui. Al padre doveva la carenza di lacrime. Ne andava fiera, capo partigiano fiorentino nelle file di Giustizia e Libertà, incarcerato e torturato perché tradisse, ma mai una parola. Durante un bombardamento, Oriana cominciò a singhiozzare per la paura e lui le diede uno schiaffo: «Una ragazzina non piange». Se lo ricordò divenuta staffetta partigiana. Scorrazzava in bicicletta, beffando i posti di blocco tedeschi con le sue treccine e la faccia da bambina. E in Vietnam, quaranta chili per un metro e cinquantacinque di donna, tra le bombe al napalm e le sventagliate di mitra. Raccontò la guerra per «L’Europeo», settimanale che contribuì a fare grande con i suoi reportage. Fino ad allora le avevano assegnato servizi più femminili, attori e quant’altro, storie e vite di «antipatici» che vivevano in mondi irreali. Non piangeva mai, Oriana, perché aveva imparato a non avere paura di avere paura. Ne scherzava anche, ad esempio con il suo editore Angelo Rizzoli. Lo andava a trovare prima di partenze impegnative. Lui che tutti riverivano. Entrava nel suo ufficio e gli toccava una spalla: porta bene. Dovendo raggiungere la Cambogia, si spinse a sfiorargli la pancia. «Come ti permetti, scimmia dispettosa?». Così le diede la sua benedizione. L’avventura più tragica l’ebbe a Città del Messico, durante una manifestazione di studenti e operai nella piazza delle Tre culture. Due «pallottoline», come le definì, la centrarono mentre si era mischiata alla folla. Alla prima pensò: se resto viva rimarrò immobile. Paura fottuta ma non pianse. Alla seconda: mi dovranno amputare la gamba. Nemmeno allora pianse. La soldataglia messicana la trascinò via per i capelli, le strappò l’orologio dal polso e l’accatastò su una montagna di cadaveri. Quando riprese i sensi non pianse, imprecò così forte contro i suoi carnefici da risvegliare un prete. La portarono al pronto soccorso, dove da ore la stava cercando l’ambasciatore italiano. Avvenne in Messico, con un governo di sinistra, contro studenti inermi che non volevano le Olimpiadi. Allora cominciò a diffidare dei rivoluzionari: spesso abbattono i dittatori per prenderne il posto. Destra o sinistra, si aveva solo il dovere di sbattere in faccia ai potenti la verità. Cominciò a farlo intervistando i grandi della terra. Il segretario di Stato americano Henry Kissinger accettò, e mal gliene incolse. Raccontando lo scià di Persia lo definì un figlio di puttana con tale convinzione che l’ayatollah Khomeini accettò di riceverla, tutta fasciata di nero e in chador. Anche lì lasciò il segno. Oriana Fallaci fu per tutta la vita una donna scomoda. Sembrava provasse piacere a esserlo. Come Alekos si sentiva un’anima solitaria. Si chiedeva come mai tante persone la detestassero e poi comprassero i suoi libri. La risposta è semplice: perché sono meravigliosamente pieni di vita. Solo lei si poteva raccontare, perché interpretarla era impossibile. Nacque così il libro Solo io posso scrivere la mia storia. Autoritratto di una donna scomoda, ora in edicola con il «Corriere della Sera», il giornale che amò e per cui lavorò, tornando a far sentire la sua voce forte e chiara dopo l’attentato alle Torri Gemelle della sua New York. E la polemica su quel suo intervento non è ancora sopita.

Vittorio Feltri e il ricordo di Oriana Fallaci: "Vi racconto la mia amica e i suoi ultimi giorni con me". Libero Quotidiano il 16 Settembre 2019. Ogni anno il 15 settembre, anniversario della scomparsa della mia cara amica Oriana Fallaci, vengo assalito dalla nostalgia. Dai meandri del cuore emergono dolci e aspre memorie, come era lei. Per celebrarla ho deciso di condividere con voi il capitolo del mio libro "Il borghese", dedicato a questa donna straordinaria. Mi congratulo con Matteo Salvini per averla ricordata ieri a Pontida e per non averne dimenticato insegnamenti e moniti.Oriana la vidi, più che la conobbi, per la prima volta all' inizio degli anni '80, quando scriveva le sue interviste colossali e interminabili, che erano quasi dei romanzi, a personaggi come Khomeyni, capo spirituale e politico iraniano dal '79 all' '89, Gheddafi, l' allora primo ministro della Libia, e gentaglia simile. Fallaci, non essendo una giornalista ordinaria, non è che vergasse la dannata intervista e la mandasse attraverso gli stenografi o il fax. Il suo dattiloscritto non viaggiava mai da solo. Giungeva in redazione insieme alla sua autrice, che si fermava in via Solferino fintanto che il suo articolo non fosse stato impaginato con il titolo che decideva lei, nel modo in cui voleva lei, quando lo stabiliva lei. E noialtri tutti zitti e mosca. A un dato momento compariva al primo piano di via Solferino, dove si creava una confusione da manicomio. "Oddio, c' è la Fallaci", si udiva riecheggiare nei corridoi, "Si salvi chi può". Mezza redazione era mobilitata: passare il testo, disegnare il menabò, scegliere i caratteri tipografici, mille verifiche e mille discussioni. Non andava mai bene niente. Oriana ribaltava anche ciò che era pronto. Roba da prenderla a sberle. "Avanti, ricominciamo daccapo". "Meglio così?". "Meglio un corno", protestava lei dando del bischero a chiunque. Un delirio. Perciò il panico serpeggiava già diverse ore, se non addirittura giorni, prima del suo ingresso. Fallaci si imponeva anche per i dettagli, i sommari, i titolini che servono per spaziare il testo. Non lasciava scampo. Arrivava come una dea ed una tiranna e metteva a soqquadro il giornale. Si scatenava la guerra una volta che Oriana varcava la soglia dello stanzone albertiniano, una copia di quello del Times, dove c' erano le postazioni dei giornalisti, alcuni dei quali dovevano dedicarsi esclusivamente a lei. Uno di questi era il malcapitato Sandrino Rizzi, capo-servizi degli esteri, la vittima prediletta di Oriana, la quale, forse non ricordandone mai il nome, gli aveva affibbiato un nomignolo alquanto mortificante, soprattutto per un uomo: "Cosino". Rizzi, da parte sua, non osava ribellarsi o protestare. Non appena udiva la mitica sospirare: "Cosino, vieni qui", Sandrino trottava, si precipitava, accorreva, al fine di soddisfare qualsiasi capriccio di Oriana, che se la prendeva anche con le virgole, anche queste ad un certo punto ne avevano piene le palle dei girotondi a cui Fallaci le costringeva. Le impuntature della fiorentina facevano rabbrividire, si potevano perdere delle ore per un nonnulla, che per Oriana era tutto, perché era una perfezionista ossessiva, una maniaca della punteggiatura. Dalla mia scrivania, muto, osservavo le grandi manovre fallaciane e queste scene un po' divertito e un po' sconvolto. "Questa donna è una calamità", pensavo. Lo spettacolo si protraeva fino alle 23. Per la redazione, in subbuglio per il pezzo di Fallaci, sembrava ad un certo punto arrivare la tregua quando l' articolo era ormai impaginato. Macché. Era tutta una diabolica finta. Mentre si rileggevano in religioso silenzio i bozzoni delle pagine umidi e odoranti d' inchiostro, all' improvviso si udiva un improperio. Era Oriana, che era riuscita a ravvisare persino in questa fase qualcosa fuori posto, da rifare, da sistemare, da correggere seduta stante, mandando tutti in crisi psicomotoria. Tipografi che accorrevano con gli occhi sbarrati, correttori di bozze esausti e tremanti. Altro delirio. Alle due del mattino, cascasse il mondo, il giornale si chiudeva. Oriana Fallaci saltellante e vispa come un grillo, lanciata un' occhiata di commiserazione a noi poveri amanuensi, raccattava cappotto e borsetta, scendeva a passo svelto lungo lo scalone e, inghiottita da un' automobile, svaniva nella notte insieme ai nostri incubi. L' indomani il Corrierone con la perla di Oriana in apertura di prima pagina era preso d' assalto in edicola. Oltre un milione di copie vendute. La stampa di mezzo mondo che riprendeva la prosa della matta e ne faceva oggetto di dibattiti che duravano settimane. Allora i giornalisti, orgogliosi di avere partecipato alla costruzione del capolavoro di successo, e godendo di riflesso della gloria di Oriana, si davano di gomito: "Però, la matta ha colpito ancora".

NOTTI INFERNALI. Fu durante una di quelle notti infernali che Fallaci entrò nella mia vita. Nel 1981, o '82, una sera, saranno state circa le 22, dunque ancora nella viva fase di elaborazione di un suo articolo, mentre Oriana era indaffarata, intenta a cambiare un aggettivo, a togliere una virgola, a metterne un' altra, fumando come una ciminiera, ad un certo punto si accorse di avere finito le sigarette. Sul suo viso lessi per un istante un lampo di disperazione. Ma non si perse d' animo e, dopo essersi guardata intorno con una rapida occhiata per scorgere qualcuno che fumasse, come un falco pose i suoi occhi su di me, che avevo un pacchetto di Muratti sulla scrivania, poggiato accanto alla Olivetti portatile. Ed in un soffio me la ritrovai dinnanzi alla postazione di lavoro a me riservata: "O te, bel giovane, mi offriresti una sigaretta?". "Prego", risposi, porgendo un intero pacchetto che avevo estratto dal mio cassetto appositamente per lei. Oriana, risollevata, anzi contentissima come una bimba, tornò al suo meticoloso lavoro di cesello sul suo pezzo. Sennonché, fumando una cicca dietro l' altra, dopo un' ora e mezza aveva già prosciugato le ultime riserve che gli avevo procurato. Era un fumo nevrotico il suo. Rieccola lì, parata davanti alla mia scrivania. Sollevai lo sguardo dalle mie carte e vidi che mi fissava. "Ne hai altre?", mi chiese. "Non ho più pacchetti, ma te ne do alcune delle mie". Ne estrassi tre o quattro per me e le lasciai il resto. Afferrò il tutto e, prima di girare i tacchi, commentò: "Le Muratti non sono buone, pizzicano in gola". "Cambierò marca", replicai. "Bravo, vedo che le idee intelligenti non ti mancano". Mi sembrava una matta completa, ma ne ero affascinato, perché Oriana metteva nel suo lavoro una tale foga e concentrazione da suscitare ammirazione. Fallaci terrorizzava chiunque, faceva casini, urlava, non era mai paga di ciò che si stava creando. Non era considerata né era vista come una donna, bensì come una giornalista scassacazzi, una sorta di Attila della carta stampata. Alcuni anni dopo passai da Il Corriere della Sera alla direzione de L' Europeo, il settimanale che aveva lanciato Oriana. Chiamò in redazione chiedendo del direttore. Risposi. Fallaci mi salutò cordialmente, dicendo che le avrebbe fatto piacere incontrarmi per conoscermi di persona. Combinammo l' appuntamento presso il bar di un albergo, a Milano. Non appena mi vide nel luogo convenuto, Fallaci si alzò dalla poltrona e scoppiò a ridere. "Ma tu sei il bel giovane delle Muratti!". "Sì, sono io. Ma adesso fumo Philip Morris". "Sei peggiorato". Da quel giorno la nostra tribolata amicizia si intrecciò con il lavoro. Erano più numerose le liti delle conversazioni. Oriana si divertiva a questionare, qualsiasi spunto era motivo di piccoli scontri, cui seguivano immancabili riappacificazioni, talvolta precedute da scambi di lettere piccate. Oriana mi chiamava, mi dava suggerimenti sulle tematiche da approfondire, mi segnalava le campagne da sostenere, i motivi per cui battermi. A volte le dicevo che in Italia ormai era cambiata la musica, che era arrivata la Lega, lei replicava: "Ma chi? Quei bischeri? Sono proprio dei campagnoli". Ogni due o tre mesi rientrava in Italia e voleva vedermi. Fallaci si sentiva quasi esiliata, ma voleva vivere negli Stati Uniti, nel centro di New York aveva una stupenda casa in stile liberty. Insomma, il suo era un esilio volontario e dorato. Però comprendo che in patria si sentisse avversata. Oriana era amata dai lettori, ma non dai colleghi, che la invidiavano per i suoi successi e non la tolleravano per la sua arroganza ed il suo caratteraccio. Solo con me la brillante giornalista non manifestava atteggiamenti di presunzione, era molto carina. Mi riempiva di regali, camicie stupende, sculture per la casa. Un giorno concordammo una cena in via Statuto, da Alfio. Alle 21 ero seduto al tavolo. Di lì a poco arrivò lei trafelata, con un borsone gigantesco. "È per te, Vittorio!", esclamò con entusiasmo. Ne estrasse una pelliccia di visone tra lo stupore degli avventori, che saranno stati una cinquantina, tutti attratti dalla Fallaci e soprattutto dalla pelliccia di foggia maschile. Dissimulai l' imbarazzo e cercai di manifestare gioia e anche qualcosa di più. Ma ero terrorizzato all' idea che, al prossimo rendez-vous, sarei stato obbligato ad indossare quel capo per non offenderla. Oriana, vivendo gran parte dell' anno in America, era diventata americana anche nei gusti, almeno a riguardo dell' abbigliamento da uomo. Mangiava come un uccellino: tre o quattro acciughe salate, quattro granellini di riso insaporiti da una strisciolina di tartufo. E beveva un vino dolce emiliano, Malvasia. Raccontava storie recitando con piglio da attrice teatrale, mimica formidabile, gusto per i dettagli, inserendo motteggi popolari e battute sferzanti. Una sera con lei di buonumore era più spassosa e sapida che al cabaret. Spigolosa e generosa, piena di slanci, si rabbuiava per un' inezia. E non apriva più bocca se non per dire: "O te, s' è fatto tardi, portami via da qui".

L'INTERVISTA. Durante la guerra del Golfo Oriana si era recata sul terreno dei conflitti per conto del Corriere e mi propose di essere intervistata da me per L' Europeo. Non appena rientrò in Italia ci incontrammo all' hotel Excelsior, a Roma. Tuttavia, forse per la nostalgia di casa che le aveva messo addosso l' atmosfera bellica, Oriana aveva fretta di rientrare a Firenze e non appena mi vide disse: "Si va a casa mia. Subito". Così dalla capitale ci spostammo nel capoluogo toscano in macchina. Il suo appartamento era modesto. Ci mettemmo subito all' opera. Facevo le domande, lei rispondeva, poi si pentiva. Dopo qualche ora mi ero rotto i coglioni e mi ero procurato un mal di testa pazzesco. Non ce la facevo più. Ne avevo fin sopra i capelli di quella matta e non vedevo l' ora di essere a Milano. Sano e salvo. Erano circa le 20:30 quando le venne appetito. "Oh, si mangia qualcosa?", propose Oriana. "Volentieri", dichiarai io, che non vedevo l' ora di prendere respiro. Aprì il frigo e non trovò un cazzo. Mai frigorifero fu più triste di quello. L' unico elemento che alleggeriva un minimo tanta desolazione era costituito da un barattolo da mezzo chilo di caviale. Afferrate due posate ci nutrimmo di cucchiate di caviale come fosse una minestra, rimettendoci subito al lavoro. Terminammo l' intervista a mezzanotte. Fu un parto travagliato. Oriana insistette a lungo perché mi fermassi a dormire lì, ma io non avevo il cambio per il giorno seguente, e soprattutto ero animato da tanta voglia di rincasare e mi misi in macchina per correre a Milano, dove giunsi intorno alle 3 di notte. L' intervista fu un successo. Giunto l' inverno, Oriana invitò me e mia moglie, Enoe, a trascorrere l' ultimo giorno dell' anno in corso ed il primo di quello nuovo con lei, a Greve in Chianti, località in cui la giornalista aveva una casetta bellissima. Purtroppo, il freddo era insopportabile ed io ed Enoe, nel tentativo di non morire assiderati, dormimmo avvinghiati. Era presente anche una delle due sorelle di Fallaci, Paola, con la quale Oriana litigò tutto il tempo, persino durante la cena, per motivi futili. A tavola consumammo una zuppa deliziosa. Io mi complimentai con le sorelle per la bontà di quel piatto. Non lo avessi mai fatto: Oriana si incazzò perché non era stata lei a cucinare, bensì Paola. Avrebbe voluto averla preparata lei quella maledetta minestra. Oriana aveva la sindrome della prima donna. Tornò ad essere indiscussa ed indiscutibile protagonista quando iniziò a narrarci le vicende della guerra. Fallaci non si limitava a fare il suo racconto, si levava in piedi e sceneggiava il tutto come una diva. Noi la osservavamo affascinati e perplessi. Aveva la capacità di catturare il pubblico. Mia moglie aveva una simpatia particolare per questa donna, la quale spesso la chiamava per fare quattro chiacchiere.

IL VECCHIO CASALE. Quando finalmente arrivò il momento di andare, Oriana mi pregò di seguirla perché desiderava farmi visitare un suo vecchio casale, che avrebbe voluto vendermi. La costruzione si trovava in prossimità di un fiume. Un freddo boia. Non me la sentii di fare questo "investimento". Enoe mi guardava con gli occhi sbarrati per la paura che io potessi accettare l' affare. Dopo quel capodanno continuammo a vederci, poi nel '92 i nostri incontri si fecero più sporadici. Io avevo assunto la direzione de L' Indipendente e per gli impegni reciproci ci perdemmo un po' di vista. Oriana mi cercò qualche volta, io la scansai. Poi un giorno mi chiamò da New York e mi disse: "Vittorio, tu non mi vuoi più vedere perché ci ho i cancri". La rassicurai. Non era questo il motivo. Anzi, una ragione non c' era. A volte capita che i grandi amici si allontanino per un po', ma questo non vuol dire che l' affetto venga meno. Mi sembrava improbabile che avesse il cancro. Per tutti Oriana era invincibile, una forza della Natura, indistruttibile: non poteva mica ammalarsi. Non la vidi mai piangere. "Ti voglio bene come sempre", le risposi. Oriana però si ammalò sul serio. Nel '94, assunta la direzione de Il Giornale, Fallaci mi telefonò per congratularsi. Tra lei e Montanelli non correva buon sangue, quindi la notizia che io fossi alla guida del giornale da lui fondato al posto suo la allettava alquanto. Indro e Oriana discutevano spesso, del resto, con lei era facile litigare. Anche Biagi la odiava. Il motivo era semplice: lei era più brava di lui. La Fallaci era vista da tutti come una rivale formidabile. Nel periodo in cui fondai Libero il mio rapporto con Oriana divenne più intenso di prima e lei si attaccò morbosamente a me. Allora non stava affatto bene. Penso che mostrasse la sua vulnerabilità soltanto a me, eppure la dissimulava, la travestita, perché non c' era cosa che la inorridiva di più del fare pena, tanto era il suo orgoglio. Mi chiedeva consigli, alcuni dei quali non ero in grado di darli: sui rapporti con gli editori, sui diritti d' autore, in generale, sui suoi affari. Spesso, la sera tardi, il mio cellulare suonava e difficilmente rispondevo. Ma se sul display scorgevo il suo nome, pigiavo il tasto "ok" senza esitazione. Nella fine settimana, conoscendo le mie abitudini e sapendo quindi che rientravo a Bergamo, mi chiamava direttamente a casa. Non appena affondavo la forchetta negli spaghetti, con una puntualità sconcertante, l' apparecchio squillava. "Pronto, sei te, Vittorio?", domandava con tono profondo. Minimo minimo mi toccavano 30 minuti buoni di monologo, infiorato di coloratissimi toscanismi, tra cui invettive variamente distribuite a Tizio e a Caio. Mi metteva in guardia dal pericolo costituito dall' islam radicale. Mi parlava molto male di alcuni colleghi. I suoi giudizi erano folgoranti. Le sue critiche ai politici italiani, feroci. Le sue previsioni nazionali ed internazionali, pessimistiche. Con me si sfogava. Ad un tratto, però, mi faceva intendere che si era rotta le scatole di parlare e bruscamente si congedava. "Ora mi sono stufata, me ne vado a dormire, ci ho i cancri, vaffanculo, ciao!", e metteva già la cornetta. Finalmente potevo tornare al mio spaghetto. Ormai freddo. Tra il 2003 ed il 2004 Oriana cominciò a scrivere per Libero e nel 2005 mi consegnò un pezzo meraviglioso, si trattava di un' intervista ad un vescovo polacco. Era estate e per la prima volta il quotidiano da me fondato superò le 100 mila copie. Passare un suo articolo era il solito tormento, l' equivalente di votarsi al suicidio. La affidai ad Alessandro Gnocchi, che per lei assunse lo stesso ruolo che aveva avuto il povero Sandrino, ossia Cosino. Nonostante fosse sfiancante, avere a che fare con Oriana rappresentava un onore per chiunque. Un giorno mi attaccò con un pretesto che non ricordo, probabilmente sempre per qualcosa inerente ad uno dei suoi articoli, non le andava mai a genio niente. Da New York mi mandò una lettera carica di insulti tramite fax. Fu una lite furibonda. Io feci ciò che forse non si sarebbe aspettata: le risposi a tono, dicendogliene di tutti i colori. Il fatto che l' avessi mandata al diavolo invece di allontanarla, chissà perché, l' avvicinò ancora di più a me. Non avevo reagito con odio, ma le avevo tenuto testa. Una mattina mi chiamò come se non fosse successo nulla. Era un tipetto davvero particolare. Presa dal desiderio di sistemare i conti, mi propose ancora una volta un acquisto immobiliare. Stavolta si trattava della sua casa di New York. "Oriana, come ti salta in mente? Io non parlo l' inglese, non predo l' aereo, non mi muovo da Milano, cosa devo farci con un appartamento negli Stati Uniti?", le risposi. E lei rise di gusto. Gli ultimi suoi dodici mesi furono duri. Stava sempre peggio. Le telefonate dall' America erano brevi ma frequenti. "Ci ho tre o quattro cancri, Vittorio, non li conto nemmeno più". Si stancava presto, aveva il fiato corto e troncava la comunicazione: "Ora ciao ché devo morire". Che idiota ero: pensavo scherzasse e non la pigliavo sul serio.

RICHIESTE DI AIUTO. A giugno del 2006 squillò il cellulare. Era lei. Mi pose un problema. "Vittorio, ho bisogno del tuo aiuto. Rientro in Italia perché voglio morire a Firenze. Prima però faccio un salto, anzi mi trascino a Milano. E lì non so dove appoggiarmi. Non ho casa e in albergo non scendo. Mostrarmi in pubblico conciata in questo modo, con i cancri che mi divorano, non mi garba. Dimmi te, che si fa?". Percepita la sua disperazione, non esitai a proporle la mia abitazione milanese. Accettò. Mi recai a riceverla e la accompagnai a destinazione. Le feci visitare l' appartamento, che trovò di suo gradimento, salvo lamentarsi alla vista di un gradino all' ingresso della cucina. "Che ci fa qui sto scalino?!", esclamò sbigottita. "E ci fa! Oriana, è uno scalino che porta in cucina". "Che tu parli fiorentino ora?". "Parlo come cazzo mi pare". Ridevamo come matti, sebbene fossi incredulo e amareggiato nel vederla in quello stato. Avevo il cuore a pezzi. Sullo scalino non sorvolò, ovviamente. Fece subito comprare del nastro bianco e rosso, come quello che mettono per strada al fine di delimitare dei lavori in corso o gli incidenti, e lo appose tra gli schienali di due sedie disposte in prossimità del vano cucina. Insomma, aveva trasformato l' area in una sorta di "scena del crimine". Prima di abbandonare l' appartamento per quella settimana, dissi ad Oriana che l' avrei affidata alle cure della mia governante. "Non la voglio tra i coglioni", mi rispose serafica. Andava la sua segretaria a farle qualche lavoretto o commissione. Ed io stesso mi recavo a trovarla ogni pomeriggio. Suonavo il campanello e, per aprire la porta, Oriana armeggiava dieci minuti. Entravo nella mia abitazione imbarazzato e camminavo in punta di piedi perché mi sentivo invadente. Tutto era in disordine. Mozziconi ovunque. Il 24 di giugno, giorno del suo compleanno, le portai una bottiglia di Dom Pérignon, il suo champagne preferito. Oriana sembrava felice come una pasqua. Ne bevemmo un goccio, giusto per festeggiare la ricorrenza noi due soli. Intanto lei non aveva perso il vizio: continuava a fumare una sigaretta dietro l' altra, come oltre vent' anni prima faceva al Corriere, e la spegneva sul bracciolo del mio divano con una nonchalance disarmante, lasciandoci dei buchi. Mi dispiace farglielo notare. Il giorno seguente mi disse: "In questo palazzo abita la signora Trussardi? Mi piacerebbe conoscerla, perché, quando mi trovavo in Medio Oriente, mi concedevo un unico vezzo: qualche goccia di profumo del suo marchio". Luisa, mia cara amica dai tempi delle scuole elementari, organizzò un magnifico pranzo per Fallaci, la quale si vestì e si agghindò per l' occasione come una regina. Era elegantissima. Indossava un abito meraviglioso, stupendi gioielli, i tacchi, in un attimo sembrava quasi avesse cancellato e dimenticato i segni dell' odiosa malattia. Come era solita fare, Oriana non mangiò quasi nulla, ma era gioiosa. Quando la accompagnai a casa, mi disse: "Vittorio, c' ho un altro desiderio: vorrei andare in salumeria". L' indomani andai a prenderla e la condussi tenendola al braccio, passino dopo passino, ad una salumeria vicina, dove comprò felice quattro cosette. Poi la misi sul divano dicendole: "Oriana, ora devo correre in redazione". E lei ridendo: "Ho lavorato tutta la vita io ed ora devo stare a sentire te che ti dai delle arie perché lavori due giorni". Si trattenne a Milano circa una settimana. Sbrigò le sue faccende e partì alla volta di Firenze con un' auto ed un autista che le procurai io su sua richiesta. Fu un viaggio stancante persino per me che non lo feci. Durante il tragitto Oriana mi chiamò più volte lamentandosi del fatto che in macchina facesse troppo caldo e che la colpa fosse di colui che guidava, poi del fatto che facesse troppo freddo. Io da lontano cercavo di accomodare tutto pregando l' autista di assecondare le richieste di Oriana senza fiatare. Dopo qualche mese mi ammalai di una prostatite acuta, rischiai addirittura il decesso e venni ricoverato d' urgenza in ospedale per una decina di giorni, durante i quali Oriana provò a contattarmi perché desiderava parlarmi di qualcosa. Chiamò anche a casa mia, a Bergamo. "Ho bisogno di sentire Vittorio, Enoe, devo dirgli delle cose. Come si fa? Io ci ho pure da morire ora", sospirò affranta a mia moglie. Non seppi mai cosa volesse annunciarmi Oriana. Ho cercato in questi anni di sciogliere questo dubbio che mi pesa dentro e mi sono convinto che forse mi volesse raccomandare di continuare la battaglia contro l' estremismo islamico. Erano trascorsi tre o quattro mesi dalla scomparsa della mia amata amica, quando un mattino, verso le 4, feci un sogno, che sembrava terribilmente realistico. Mi trovavo in un ascensore di legno lucido, bello ed elegante. Non provavo quel disagio che di solito avverto quando sono in uno spazio tanto angusto. Mi sentivo sereno. Arrivato al piano che dovevo raggiungere, si spalancò la porta e mi ritrovai in un' ampia stanza, non molto luminosa ma piuttosto accogliente, sebbene fosse vuota. C' era solo una piscina, l' acqua era azzurra, limpida. Uscendo dal locale sentii una voce che cantava meravigliosamente. Era Oriana, che mi veniva incontro sorridente. Era giovane. Fresca. "Oriana, ma come canti bene, perché non mi hai mai svelato queste tua dote?", le chiesi sorpreso. In quel momento mi svegliai. Ancora disorientato ed emozionato, mi misi seduto sul mio letto, poggiando le spalle sulla testiera. "Pensa che sogno del cazzo!", mormorai tra me e me. E all' improvviso udii nitida una voce, era rauca come quella di Oriana: "Vittorio, Vittorio, ti devo parlare". Sì, era proprio lei. E continuava a ripetere il mio nome. "Oriana, vattene, ho paura", urlai disperato. E fu silenzio. Di lì a qualche tempo presenziai ad un convegno su di lei. C' era anche monsignor Rino Fisichella, che le era stato vicino negli ultimi dolorosi giorni. Il prelato mi consegnò un sacchetto di plastica: "Oriana mi ha raccomandato tanto di restituirti questa roba". Il sacchetto conteneva un bicchiere e un cucchiaino, che la giornalista aveva prelevato dalla mia credenza prima di raggiungere Firenze. Le erano serviti per assumere un medicinale antidolorifico durante il viaggio. Monsignor Fisichella mi precisò che Fallaci era preoccupatissima di non farcela a restituirmeli. Così aveva incaricato lui. Nulla doveva restare in sospeso. Questa è la mia Oriana. di Vittorio Feltri

Oriana Fallaci in prima linea. Pubblicato domenica, 28 luglio 2019 da Roberta Scorranese su Corriere.it. Né allieva, né maestra, orgogliosamente lontana da pompose primogeniture, Oriana Fallaci è stata un curioso caso di insegnante senza discepoli, pioniera senza corpo d’armata. Non c’è nemmeno una fondazione a lei intitolata, così come farebbe sorridere parlare di «eredi». Eppure, col disincanto della giornalista che sulla lapide ha voluto solo la parola «scrittore», Fallaci ha aperto la strada a un piccolo esercito di inviate di guerra e reporter d’inchiesta. È stata l’avanguardia che ha scavato un tunnel in un mestiere che prima era maschio e basta, come ha detto anche Christiane Amanpour in una delle tante commemorazioni. La copertina del primo titolo della serie dei libri di Oriana FallaciMa sempre con la giusta distanza. A metà degli anni Settanta un’allora giovane Natalia Aspesi arrivò a Saigon dopo aver appena seguito un festival di Sanremo. Oriana Fallaci la squadrò dalla testa ai piedi: «È una vergogna che mandino te qui, tu che manco conosci i nomi dei fiumi del Vietnam». Non era veleno, era un divario necessario, che lei tracciava perché altrimenti da dove avrebbe attinto la forza per incunearsi nel mondo degli Henry Kissinger e dei Ruhollah Khomeini se non da una roca, guerriera, pienissima solitudine?

Forse è proprio questo il tratto che ha segnato la vita e la carriera di Oriana Fallaci: una solitudine rumorosa, fatta di colleghe da tenere a distanza ma (in fondo) da proteggere, di amiche assieme alle quali era bandita ogni ciancia su amori e figli, ma alle quali mostrava, di colpo, la pistola Smith & Wesson (Alice Oxman una sera rimase senza fiato) che teneva riposta dietro alla pila di libri. Diceva che le donne «non sono una fauna speciale» e per questo rifiutava ogni battaglia di genere: forse perché lei stessa era cresciuta con la consapevolezza che certe cose, all’epoca, non erano traguardi collettivi, ma conquiste personali, forse duelli. E così fare la staffetta partigiana prima e imporsi nel difficile mondo del giornalismo dopo, non sono stati che due momenti della stessa intima lotta. Perché prima della Oriana con l’elmetto e con la penna brandita davanti ai grandi della Terra, c’è stata l’Oriana che ha raccontato le sfilate di moda a Palazzo Pitti, all’epoca una delle poche «finestre» concesse alle donne che volevano testimoniare il proprio tempo. C’è stata l’Oriana delle interviste ai divi americani, per «L’Europeo», a metà degli anni Cinquanta: certo, erano pagine patinate, ma già in quegli scritti affiorava lo spirito guerrigliero e bastian contrario, quasi un assaggio delle celebri conversazioni con la storia, condite da riflessioni fulminanti («Hollywood non esiste. Hollywood è uno stato mentale, un miraggio. Non si guarda Hollywood con gli occhi, ma col desiderio, l’invidia, la suggestione»). 

Poi, però, arrivò la Luna. Fu proprio con gli scritti attorno alla missione spaziale americana che Fallaci fece il grande passo: un lungo soggiorno negli Stati Uniti, le interviste agli astronauti, il racconto di quello che era il sogno che univa un intero pianeta. Era il suo decollo verso un universo extraterrestre dove, come inviata per il suo giornale, avrebbe dovuto confrontarsi con generali e capi di Stato, combattenti e politici di lungo corso. E persino in amore, come si fa a non ravvisare una certa tattica militare nella donna che va ad aspettare il perseguitato politico fuori dal carcere (il greco Alekos Panagulis, leader dell’opposizione al regime dittatoriale dei colonnelli) ? Lo cerca, lo racconta, lo protegge, ci litiga e ci fa pace, si strugge nel dolore alla sua morte e poi fa una personale — e pressoché solitaria — battaglia per denunciarne (quello che per lei è stato) l’omicidio. L’amico Furio Colombo ha scritto che la sua voce «era sempre molto diversa dalla “conversazione”, era piuttosto uno straordinario parlare in pubblico». Quanto questa intercapedine tra lei e gli altri abbia contribuito a farne una maestra senza allievi non lo sappiamo. Di certo ne ha edificato il personaggio: litigioso ma con uno stile personale, superbamente noncurante, polemica fino ai limiti, ma anche così avida di oltrepassare i confini. Della storia, della vita, della parola. Una teatralità la sua che la faceva sembrare sempre esposta, scoperta e in prima linea quando, invece, Oriana Fallaci visse lunghi, lunghissimi periodi di isolamento, in Italia e negli Stati Uniti. Ogni tentativo di definirla sarebbe inopportuno. Ci ha pensato lei stessa con una frase diventata poi il titolo di un suo libro, «Il mio cuore è più stanco della mia voce»: poteva mettere a riposo tutto, tranne le parole.

Oriana Fallaci: “Sono nata in un paesaggio di chiese, Cristi, Madonne”.  Giornale Off 27/05/2019. L’ Italia, è un paese molto vecchio, ma io non la regalo a nessuno. La sua storia dura da almeno tremila anni. La sua identità culturale è quindi molto precisa e bando alle chiacchiere: non prescinde da una religione che si chiama religione cristiana e da una chiesa che si chiama Chiesa Cattolica. La gente come me ha un bel dire: io-con-la-chiesa-cattolica-non-c’entro. C’entro, ahimé c’entro. Che mi piaccia o no, c’entro. E come farei a non entrarci? Sono nata in un paesaggio di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi. La prima musica che ho udito venendo al mondo è stata la musica della campane. Le campane di Santa Maria del Fiore che all’epoca della Tenda la vociaccia sguaiata del muezzin soffocava. È in quella musica, in quel paesaggio, che sono cresciuta. È attraverso quella musica e quel paesaggio che ho imparato cos’è l’ architettura, cos’è la scultura, cos’è la pittura, cos’è l’ arte. È attraverso quella chiesa (poi rifiutata) che ho incominciato a chiedermi cos’è il Bene, cos’è il Male, e perdio… Ecco: vedi? Ho scritto un’ altra volta «perdio».

Con tutto il mio laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di cultura cattolica che essa fa addirittura parte del mio modo d’esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio, perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui, Cristo là. Mi vengon così spontanee, queste parole, che non m’ accorgo nemmeno di pronunciarle o di scriverle. E vuoi che te la dica tutta? Sebbene al cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che m’ ha imposto per secoli incominciando dall’Inquisizione che m’ ha pure bruciato la nonna, povera nonna, sebbene coi preti io non ci vada proprio d’ accordo e delle loro preghiere non sappia proprio che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e quelle Madonne e quei Santi dipinti o scolpiti. Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i monasteri e i conventi. Mi danno un senso di pace, a volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle sinagoghe. Si o no? Sono più belle anche delle chiese protestanti. Guarda, il cimitero della mia famiglia è un cimitero protestante. Accoglie i morti di tutte le religioni ma è protestante. E una mia bisnonna era valdese. Una mia prozia, evangelica.

La bisnonna valdese non l’ ho conosciuta. La prozia evangelica, invece, sì. Quand’ero bambina mi portava sempre alle funzioni della sua chiesa in via de’ Benci a Firenze, e… Dio, quanto m’ annoiavo! Mi sentivo talmente sola con quei fedeli che cantavano i salmi e basta, quel prete che non era un prete e leggeva la Bibbia e basta, quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e che a parte un piccolo pulpito aveva un gran crocifisso e basta. Niente angeli, niente Madonne, niente incenso… Mi mancava perfino il puzzo dell’ incenso, e avrei voluto trovarmi nella vicina basilica di Santa Croce dove queste cose c’ erano. Le cose cui ero abituata. E aggiungo: nella mia casa di campagna, in Toscana, v’ è una minuscola cappella. Sta sempre chiusa. Dacché la mamma è morta non ci va nessuno. Però a volte ci vado, a spolverare, a controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido, e nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio agio. Nonostante il mio mangiapretismo, mi ci muovo con disinvoltura. E credo che la stragrande maggioranza degli italiani ti confesserebbe la medesima cosa. (A me la confessò Berlinguer). Santiddio! (Ci risiamo).

Sto dicendoti che noi italiani non siamo nelle condizioni degli americani: mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che, proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un’ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell’altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c’ è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l’ Italia. E io l’Italia non gliela regalo. (Oriana Fallaci, La rabbia e l’orgoglio, Rizzoli, 2014, 161 pagine)

Oriana Fallaci, vergogna di Stato: quello che non avete visto, così la Rai l'ha boicottata. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano l'1 Luglio 2019. In questi casi non sai se sia stata celebrata o dimenticata, e non sai se provare più Rabbia o più Orgoglio, per usare le sue parole. Lo spettacolo su Oriana Fallaci, andato in onda due giorni fa su Rai 5 in occasione del 90mo anniversario della nascita della scrittrice e intitolato Le parole di Oriana in concerto, era una chicca rara nel panorama televisivo, uno di quei prodotti che, mescolando generi e mezzi diversi, la letteratura, il teatro e la tv, ti fanno riconciliare col piccolo schermo. Ti faceva male però vederlo proiettato su un piccolissimo canale, uno di quelli che trovi col lanternino nell' esercizio di zapping, il numero 23 del digitale terrestre.

La Numero Uno Oriana scaraventata sulla quinta rete Rai in 23ma posizione alla griglia di partenza...Faceva tristezza perché, come dicevamo, il prodotto era raffinatissimo e godibilissimo, con un monologo diretto e interpretato magistralmente dall' attrice Maria Rosaria Omaggio, impressionante per somiglianza di connotati, tonalità vocale e intensità espressiva alla Fallaci. Il racconto fatto da lei in prima persona nelle vesti di Oriana attingeva direttamente ai testi della scrittrice, mettendone a nudo l' anima, intima e professionale, in un collage ben riuscito e privo di reticenze. Attraverso le parole della Omaggio coglievi il lato politicamente scorretto, quando non era di moda esserlo, di Oriana, il suo essere fieramente donna ma altrettanto fieramente anti-femminista, ostile alla riduzione del femminile a una categoria protetta da difendere («Le donne non sono una fauna speciale»). E riconoscevi, proprio nel suo essere donna, occidentale e intellettuale, la sua battaglia annosa contro l' islam fanatico, cominciata col gesto epocale di togliersi il chador durante l' intervista a Khomeini e finita con le parole di fuoco dopo l' 11 settembre, quando la Fallaci aveva visto compiersi le sue profezie sulla dissoluzione dell' Occidente, la crisi della nostra civiltà e l' imminente guerra di religione. E sempre da donna, e da persona libera, Oriana era andata controcorrente nel suo schierarsi contro l' aborto, contro quel diritto che in realtà è un delitto perché «Nulla è peggiore del Nulla», partorendo, è il caso di dire, quella perla che è Lettera a un bambino mai nato. Fare delle sue convinzioni personali, della sua passione civile alta letteratura. Era questo il segreto inarrivabile della Oriana pubblica.

Ma nelle parole della Omaggio, accompagnate al pianoforte da Cristiana Pegoraro, si stagliava anche il profilo privato della Fallaci, di una donna segnata da ansie d' amore, di un' amante bulimica e spesso delusa; ed emergeva così la tensione tra la sua ricerca di pienezza a due e l' impossibilità di convivere per sempre con un uomo e di far convivere questo aspetto sentimentale con la sua libertà di scrittrice. È su questo filo sottile che si sono giocati i suoi amori con Alfredo Pieroni, con Alekos Panagulis e il futuro astronauta Paolo Nespoli. Una tensione d' amore che legava Oriana anche all' Altro per eccellenza, quel Dio cui non riuscì mai a convertirsi, sebbene ne fosse sedotta, al punto da definirsi atea cristiana. Eterna pellegrina, questuante d' amore, ma impossibilitata a diventarne devota. Insieme Cassandra, dallo sguardo profetico, e Penelope, paziente sentinella in attesa dello sposo. È il miglior omaggio che la Omaggio potesse fare alla Fallaci: leggere Oriana non attraverso quello che finora è stato detto di lei, ma attraverso quello che lei stessa ha scritto, e restituirci così la sua voce autentica. E allora peccato che questo monologo sia stato scaricato su un canale dove i programmi fanno share da prefisso telefonico, mentre su Rai 1 poco dopo andava in onda il premio Biagio Agnes, intestato alla memoria di un' altra eccellenza del giornalismo, però col solito rituale di toni paludati, rassicuranti, tipici della rete ammiraglia, e tali da garantire un buon gruzzoletto di ascolti (quasi 1 milione e 200mila spettatori). Ma l' anniversario della nascita di Oriana imponeva il dovere di osare, di portare il grande teatro dedicato a una grande giornalista in prima serata Rai 1, anziché accontentarsi del Techetecheté di turno e compiacersi di vincere facile. No, i campioni non possono indossare la casacca numero 23. Gianluca Veneziani

Oriana Fallaci, ostinata guastafeste al servizio dei lettori. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019 da Francesco Cevasco su Corriere.it. È come quell’onda che torna e ritorna. Sempre con la stessa forza. E così sono i libri di Oriana Fallaci. Eccoli che tornano. E raccontano, tutti, una storia: quella, soprattutto, di chi li ha scritti. Una specie di autobiografia per titoli. Non c’è libro della Fallaci che non sia un tassello della sua autobiografia. Raccontava le dive di Hollywood e le donne-Penelope, il colore della Luna e l’odore del napalm in Vietnam, i padroni del mondo e le ciliegie dei ricordi domestici. E c’era sempre di mezzo lei e il suo «dico e scrivo quello che penso; fine». Era fatta così. Si pensi a Solo io posso scrivere la mia storia: dice già tutto. Non l’ha mai nascosto: ho fiducia solo nei miei lettori, degli altri non m’importa (tempo perso dire che è stata ripagata). Gli altri sono i giornalisti e i critici. I giornalisti: «Mi dispiace non poter leggere gli articoli sulla mia morte. Descriveranno come io non ero». I critici: «Parassiti che lavorano sul lavoro degli altri, cioè anche il mio. Da loro non mi aspetto nulla di buono. Sono guidati dall’arroganza e dal livore. Dalla gelosia per chi scrive nonché dalla pigrizia. Perché di rado si scomodano a leggere ciò che giudicano: i libri; li sfogliano e basta. Con me non sono mai giusti e mai gentili». 

Oriana Fallaci era severa anche con se stessa: «Sono alta un metro e 56 centimetri scarsi e peso 43 chili: la gente, quando mi conosce, è sorpresa da tanta pochezza. Io allargo le braccia e dico: Tutto qui!». Ovviamente, di sincero in questa frase ci sono solamente i numeri: l’Oriana, come la chiamavano quando lei non sentiva, aveva una sofferta ma grandiosa autostima. «Sono una rompiballe, lo so. Sai cosa dicevano gli astronauti americani? Un modo sicuro di tornare dalla Luna è quello di portare con noi l’Oriana». E il pensiero va, ovviamente, a Quel giorno sulla Luna. 

Ecco un altro titolo: Intervista con la Storia. «Uno dei miei libri che ho amato di più». Amava ricordare quando davanti a Khomeini si tolse l’obbligatorio chador e gli rivolse la blasfema invettiva: «Vada al diavolo!». E quando rimproverò a un tizio di nome Kissinger: «Questa è una stupida frase da cowboy». Delle interviste aveva un’opinione precisa: «Le detesto, le ho sempre detestate, incominciando da quelle che facevano ai cosiddetti Potenti-della-Terra». Erano quelle che lei definiva «da leccaculi»; che davano voce soltanto all’intervistato. Lei no. Lei la sua voce la voleva far sentire, eccome. A costo di soffocare quella dell’interlocutore («Ma era giusto, perbacco! Il giornalismo fatto attraverso le interviste l’ho inventato io!»). L’Oriana non si è mai sentita una giornalista e basta; ha sempre avuto dentro il furore dello scrittore prestato al giornalismo giusto il tempo per covare e far sbocciare il demone della letteratura. «Quando sto scrivendo un libro dico: sono incinta di un libro. Quando l’ho finito dico: ho partorito un libro». 

Un figlio mai nato che avrebbe amato più di un libro c’è stato nella vita di Oriana : Lettera a un bambino mai nato. Ci sono due parole, ne bastano due, che parlano d’amore. Sono «Forse» e «Ora». Facciamo raccontare a lei: «Nelle prime trentasei edizioni Lettera a un bambino mai nato si concludeva così: “Tu sei morto. Forse muoio anch’io. Ma non conta perché la vita non muore”. Dalla trentasettesima edizione ho cambiato così: “Tu sei morto. Ora muoio anch’io…”. Quel “forse” è diventato “ora” non per un ripensamento ma alla fine di una bella e tormentata storia d’amore». La storia d’amore è quella con Alekos Panagulis. Sarebbe stato anche suo quel figlio. Alekos, nella casa di Atene in cui allora viveva con Oriana, intercettò le bozze del libro. Le trovò nascoste in una pentola. La Fallaci non accettava intrusioni nel suo lavoro nemmeno da lui. Cambiò, Panagulis, il finale cancellando la frase che rivelava la morte della donna («questo è un assassinio, non si uccide così una povera donna che già soffre tanto», tentò di spiegare a Oriana). Ma Oriana, fatta com’era, nonostante il gesto d’amore di Alekos, si adirò. E se ne andò a Firenze. Tre giorni dopo Panagulis la raggiunse e le propose un compromesso: non «ora» muoio ma «forse» muoio. E (per amore!) Oriana accettò. Almeno fino alla trentasettesima edizione. 

Ecco che piano piano la Fallaci diventa sempre più umana. La immaginate che parla, si commuove, quasi intona — in una sera di pensieri e ricordi — un discorso sulla musica? Ecco il fedele ricordo. Diceva Oriana Fallaci: «Grieg, Sibelius, Smetana, Dvorak. E poi sinfonie nordiche. Mi riconosco nella musica non mediterranea. Chiedo scusa a chi ne resterà ferito, ma io non ho mai amato le canzoni napoletane. Né le nenie arabe né il flamenco. Quei suoni sono sempre stati per me un rumore molesto. Io ho un motivo musicale in testa che più di chiunque altro mi tocca il cuore e il cervello. E questo motivo è Greensleeves. La sua dolcezza e la sua malinconia mi struggono talmente che dico: Quando sarò morta, non sprecate tempo ai funerali. Anche se mi buttate sotto un ulivo, per me va bene. Ma se buttandomi suonate Greensleeves, mi fate una cortesia». (Greensleeves è un inno all’amore dedicato a una donna dalle maniche verdi simbolo di giovinezza e sensualità, citato anche da Shakespeare nelle Allegre comari di Windsor).

UOMO SULLA LUNA. Il mistero di quell’ignoto che Paolo VI capì meglio di Armstrong. Mario Gargantini il 19.07.2019 su Il Sussidiario. Cinquant’anni fa i primi due uomini scesero sulla Luna: ecco come vissero quel momento due testimoni d’eccezione, Oriana Fallaci e Paolo VI. Tanti in questi giorni celebrano, con più o meno retorica, lo storico evento di cinquant’anni fa dello sbarco dell’uomo sulla luna, quando due uomini hanno per la prima volta toccato il suolo lunare lasciandovi quelle impronte fotogeniche che sono molto più che un simbolo perché parlano di noi, raccontano dell’uomo, del suo inestinguibile desiderio di conoscere, di esplorare, di investigare, di incontrare. Si ricordano le prime passeggiare di Niels Armstrong e Buzz Aldrin su quella che quest’ultimo ha chiamato “magnifica desolazione”, dalla quale hanno rischiato di non ripartire data la non prevista inclinazione con la quale il modulo lunare è atterrato (pardon, allunato). Sono tanti i personaggi che, insieme ai tre astronauti dell’Apollo 11, si possono associare al ricordo di quell’impresa e ne abbiamo selezionati due, molto diversi tra loro ma altrettanto colpiti da quegli avvenimenti; due testimoni le cui considerazioni conservano un tenore di grande attualità e possono aiutare noi uomini di un altro secolo, proiettati verso altri traguardi spaziali (Marte, asteroidi, comete…) a convivere con gli entusiasmi e con i timori che imprese del genere comportano. Parliamo di Oriana Fallaci, inviata speciale del settimanale L’Europeo a Houston e a Cape Kennedy, e di Paolo VI, assiduo frequentatore in quei giorni della Specola Vaticana, l’osservatorio astronomico della Santa Sede a Castel Gandolfo. Ma prima ancora dobbiamo citare un altro testimone che, in anticipo di un secolo, ha narrato, meglio di Tito Stagno e di Ruggero Orlando, la prima missione sul nostro satellite: è Jules Verne, autore dei romanzi Dalla Terra alla Luna (1865) e Intorno alla Luna (1870). Verne è il padre della fantascienza ma qui si è superato, descrivendo alcuni aspetti e alcune situazioni straordinariamente simili a quelle dell’Apollo 11: come la scelta della Florida come base di lancio; o la forma e le dimensioni della capsula-proiettile progettata dai soci del Gun Club di Baltimora, non molto diverse da quelle del modulo di servizio spinto verso la Luna dal potente razzo Saturn V; o ancora i retro-razzi propulsori necessari, sia nella fiction che nella realtà del luglio 1969, a portare la navicella fuori dall’orbita lunare per il ritorno a casa degli astronauti; e questi, in entrambe i casi, sono tre. Certo, per farli entrare nella capsula alla partenza Verne non è riuscito a immaginare l’ascensore e li ha fatti salire con una scala a pioli; come pure non ha pensato a una tuta a più strati e allo scafandro. Però ha descritto con vivace realismo il momento in cui si avverte l’assenza della gravità, il passaggio della “linea neutra”, il “punto d’eguale attrazione”; ed è arrivato a immaginare la possibilità di una passeggiata nello spazio, quella che oggi siamo abituati ad ammirare come “EVA, Extra-Vehicular Activity”; infine è spettacolare la scena del recupero in mare della capsula, riconosciuta da un piroscafo in mezzo al Pacifico, esattamente come accadrà all’Apollo 11. Ma veniamo ai due testimoni prescelti. La Fallaci è stata ben più che una cronista di quelle epiche giornate; col suo tipico approccio, di chi vuole partecipare a ciò che descrive, ha pensato di trasferirsi negli States per lunghi periodi negli anni 60, vivendo a Houston e diventando un’ospite fissa del centro di addestramento della Nasa. La giornalista-scrittrice ha voluto capire dall’interno come si stava preparando la storica missione promossa dagli appassionati discorsi del presidente John Kennedy: quello del maggio 1961 al Congresso e quello del settembre 1962 in Texas, con quell’epica conclusione “Abbiamo scelto di andare sulla Luna in questo decennio, e di fare altre cose, non perché siano facili ma perché sono difficili”. Oriana ha voluto rendersi conto direttamente di queste difficoltà, ha studiato i dettagli del programma di volo, ha visto i diversi progetti alternativi ideati per effettuare l’allunaggio, ha provato il simulatore di volo e l’assenza di gravità. Ma soprattutto ha incontrato i protagonisti: gli astronauti, i tecnici, gli scienziati, a cominciare da Werner von Braun; ha voluto conoscere gli astronauti nella loro normalità quotidiana, fino a diventare amica di alcune delle loro mogli, cercando di capire cosa vivevano davvero quando affermavano di non avere paura per il mestiere del marito. E quel 20 luglio del ’69 era lì a Cape Kennedy, ha visto da una ventina di metri Armstrong, Aldrin e Collins “proprio mentre – racconterà su L’Europeo – si avviavano verso quel camioncino che li porta al razzo, una specie di camioncino del lattaio. Erano molto sorridenti, molto contenti, io ero un po’ sorpresa, perché gli altri che ho visto, anche quelli dell’Apollo 10, erano sempre un po’ aggrondati, pensierosi. Invece questi ridevano proprio con allegria. Dietro il vetro del casco spaziale ho visto bene i denti bianchi che sorridevano. Erano molto belli”. Nei reportage della Fallaci – come nel libro che li raccoglie, Quel giorno sulla Luna – c’è tutta l’emozione che accompagna un’impresa unica; c’è tutta l’ammirazione per la bravura, la genialità, l’audacia di chi vi ha partecipato nei diversi ruoli; c’è la riflessione di chi ha vissuto quei momenti senza lasciarsi dominare esclusivamente dall’emozione, senza nascondere dietro al trionfo tutti gli aspetti problematici e anche negativi, senza rinunciare a interrogarsi sul perché. Oriana è preoccupata per la possibile assuefazione anche a un fatto così clamoroso, teme che il tempo possa consumare anche un evento di queste proporzioni: “Ci si abitua a tutto, anche al miracolo di essere usciti dalla nostra prigione per approdare a quell’isola brutta: presto ce ne scorderemo, come abbiamo scordato il miracolo del primo pesce che uscì dalle acque per approdare sulla terra e diventare un uomo”. In quella notte straordinaria tutti i 500 milioni di telespettatori che hanno seguito le dirette delle tv in bianco e nero, si sono rispecchiati negli sguardi dei tre astronauti, si sono sentiti un po’ artefici di quel grandioso risultato. La Fallaci però avverte una inadeguatezza: “Forse il successo ci ha fatto perdere il senso delle proporzioni, forse ciò che è avvenuto è troppo grande per essere giudicato da noi”. E con un profondo senso di realismo commenta: “A noi contemporanei, a noi spettatori, resta solo da narrare ciò che abbiamo visto e udito ora con orgoglio ora con vergogna. Giacché siamo composti dell’uno e dell’altra, e anche nel viaggio alla Luna gli uomini hanno dimostrato la loro bellezza e la loro bruttezza, che è come dire la loro umanità”. Sull’umanità che si rivela in simili occasioni rifletteva anche Paolo VI, dopo aver seguito con attenzione e apprensione fino a tarda notte i servizi televisivi della Rai. Ne aveva già accennato all’Angelus di domenica 20 quando, dopo aver augurato un felice esito per la missione lunare, aveva invitato tutti a “meditare sull’uomo, sul suo ingegno prodigioso, sul suo coraggio temerario, sul suo progresso fantastico. Dominato dal cosmo come un punto impercettibile, l’uomo col pensiero lo domina. E chi è l’uomo? Chi siamo noi, capaci di tanto?”. La mattina di lunedì 21 aveva poi inviato ai tre astronauti un messaggio che si apriva con un solenne Gloria a Dio! ripetuto “come inno di festa da parte di tutto il nostro globo terrestre, non più invalicabile confine dell’umana esistenza, ma soglia aperta all’ampiezza di spazi sconfinati e di nuovi destini”. Il messaggio proseguiva con un “onore a voi, uomini artefici della grande impresa spaziale! Onore agli uomini responsabili, agli studiosi, agli ideatori, agli organizzatori, agli operatori! Onore a tutti coloro che hanno reso possibile l’audacissimo volo … che allarga alle profondità celesti il dominio sapiente e audace dell’uomo”. Infine il 23 luglio, un giorno prima del rientro dell’Apollo sulla Terra, era tornato sull’esigenza di meditare su quanto era accaduto: “Ciascuno vi pensi a suo modo, purché vi pensi!”. Si era rivolto soprattutto al mondo giovanile, attraversato dai fermenti della contestazione, invitandoli a “sentire l’impulso ideale e positivo che loro è offerto dalla magnifica avventura spaziale”, nella convinzione che “il campo scientifico merita ogni interesse” contro ogni tentazione di disfattismo e di “spregiudicato disprezzo verso la nostra età e verso il suo sforzo creativo”.  Aveva proseguito indicando una tendenza insita nella natura umana, tanto più avvertita quanto più l’uomo progredisce; l’ha chiamata tendenza cosmica: “chi studia, chi cerca, chi pensa non può sottrarsi ad una obiettiva onnipresenza di Dio… Impossibile sottrarsi da questa presenza, di cui la materia, la natura è, per chi lo sa comprendere, un libro di lettura spirituale… Il Dio ignoto è sempre lì; ogni studio delle cose è come un contatto con un velo dietro il quale si avverte un’infinita palpitante Presenza”. Infine aveva esortato i fedeli a non temere “che la nostra fede non sappia comprendere le esplorazioni e le conquiste, che l’uomo va facendo del creato, e che noi, seguaci di Cristo, siamo esclusi dalla contemplazione della terra e del cielo, e dalla gioia della loro progressiva e meravigliosa scoperta”. All’epoca queste parole non hanno avuto la risonanza mediatica che avrebbero oggi; forse avrebbero favorito una migliore comprensione della storica frase di Armstrong (“That’s one small step for a man, but one giant leap for mankind”), indicando la natura del “grande balzo” e dando un degno significato alla parola “umanità”. 

La Luna di Oriana Fallaci di Michele Magno su startmag.it. Tra giugno e luglio di cinquant’anni fa Oriana Fallaci (1929-2006) raccontò da Cape Kennedy e da Houston il viaggio sulla Luna. Incontrò i protagonisti e, sulle pagine dell’’Europeo, commentò la preparazione della missione, il lancio dell’Apollo 11, l’allunaggio del 20 luglio 1969. E poi il rientro degli astronauti e lo studio dei materiali riportati a terra. Quegli scritti vennero poi raccolti in un volume, ripubblicato da Rizzoli (2018) e intitolato “La Luna di Oriana”. Da questo libro sono tratti i brani che seguono.[A cura di Michele Magno]

Un uomo, messo acconto a quel razzo, sembra meno di una formica. È un razzo così ciclopico che la sua altezza equivale a quella di un grattacielo con trentasei piani, la sua ampiezza è quella di una stanza di sette metri per sette. Pieno di carburante, pesa trentaseimila tonnellate. Per alzarsi, ha bisogno di una spinta pari a quattromila tonnellate. Se ne raggiungi con un ascensore la cima, io l’ho fatto, ti coglie il terrore. E di ciò non ti rendi conto alla televisione o quando lo guardi dal recinto della stampa che è il più vicino alla pista di lancio: un chilometro e mezzo. La torre che lo sostiene è altrettanto grossa, tutto intorno la pianura è deserta: ti mancano i termini di paragone, e solo il boato che segue la fiammata da apocalisse ti riconduce alla realtà. Poi lo spostamento d’aria che ti investe come un mastodontico schiaffo. Ma è una realtà irreale: mentre lui sale dentro l’azzurro sputando come una cometa di fuoco arancione, tuonando l’esplodere di mille bombe, non credi ai tuoi occhi e ti senti quasi offeso nelle tue dimensioni umane. Offeso, ricordi che in fondo è una bomba, nacque da una bomba che si chiamava V2 e non serviva a volare nel cosmo, serviva a distruggere la città, a massacrare gli inermi. Pensaci al momento in cui è partita per la Luna, il 16 luglio. La data è il 16 luglio. L’ora le nove e trentadue del mattino. Il luogo, Cape Kennedy in Florida. […] Non illudiamoci. Gli uomini continueranno come prima a soffrire, a uccidersi nelle guerre, a offendersi nelle ingiustizie, e con la Luna allargheranno i confini della loro perfidia e del loro dolore. Ma allargheranno anche quelli della loro intelligenza, della loro curiosità, del loro coraggio e, se le insidie non si materializzeranno, può anche darsi che il Grande Spettacolo diventi una buona avventura […][…] Il razzo, da qui, si vede benissimo, ce l’ho proprio davanti, Dio com’è bello! Uno degli spettacoli più belli che abbia mai visto perché l’hanno illuminato con una trentina di riflettori, sai, allo stesso modo in cui noi in Europa illuminiamo i monumenti… E’ anche lui un monumento. Un monumento alto come un grattacielo di trentasei piani, tutto in metallo, ma il metallo non si vede: si vede solo la luce. È come un unico fascio di luce, un immenso gioiello che brilla nel buio, lanciando bagliori, e… guarda, è commovente. Sì, credo che commovente sia la parola giusta. Commovente come una stella. Sai, verso le due del mattino, quando sono arrivata, m’ha preso come un nodo alla gola. Visto da lontano sembrava proprio una stella caduta sulla Terra: è difficile restare freddi dinanzi a cose del genere. Come sarà difficile restare freddi al momento in cui il razzo partirà. […] È da quando l’uomo apparve sulla Terra e alzò gli occhi al cielo e vide il pianeta che chiamiamo Luna, è da allora che l’uomo sogna di andarci… E fra poche ore ci va. Con tutti i suoi difetti, le sue colpe. […] L’uomo, dice Pascal, non è né angelo né bestia ma angelo e bestia: e questo viaggio sta per essere compiuto dagli uomini, non dagli angeli. Gli uomini sono quello che sono: vogliono far soldi anche su Lourdes e sulla Luna. Non sono buoni, o non spesso. Ma se aspettassimo di diventare buoni per fare le cose, non faremmo mai nulla: sì o no? Tu parli di volgarità, io parlerei piuttosto di bene e di male: lo sai che anniversario è oggi? Lo scoppio della prima bomba atomica ad Alamogordo. Quando Fermi ed Oppenheimer e gli altri provarono l’ordigno terribile che fu usato poi a Hiroshima. Gli uomini sono così: inventano la bomba atomica, uccidono con essa centinaia di migliaia di creature, e poi vanno sulla Luna. Nè angeli né bestie ma angeli e bestie. Io non me ne dimentico neppure quando mi lascio commuovere dall’immensa stella che chiamiamo razzo Saturno. E penso che in questo momento centinaia di creature stanno morendo in Vietnam, e che, nel momento in cui il razzo si staccherà dalla Terra e tutti grideranno al miracolo, almeno una creatura o dieci creature moriranno uccise da una pallottola, da un colpo di mortaio… Meno quattro, meno tre, meno due, meno uno, e il razzo si prepara a partire, un uomo si prepara a morire… E’ atroce. Eppure sulla Luna bisogna andarci lo stesso. E chissà che non serva a migliorare un poco gli uomini, a farli essere un poco più angeli e un po’ meno bestie. […] Eccolo, eccoci…meno otto, nove, sei, cinque, sette, quattro, tre, due, uno, fuoco! Dio, Dio, Dio! (Alla televisione si vede un gran fumo bianco uscire dal razzo poi il fumo si scurisce e si allarga in corolla). Lo vedete? Non s’è ancora alzato, ecco, si alza, sale, guarda come sale, bello dritto, che lancio! Mai visto un lancio così! Perfetto! Lo senti il rumore? Qui c’è stato uno spostamento d’aria che ci ha quasi buttato per terra… Guarda come sale… come sale! Dio, ci vorrebbe Omero per descrivervi quello che vedo! Dio, a volte gli uomini sono così belli! Sentilo, il rombo! Sembra un bombardamento, ma non ammazza nessuno, mioddio! Oh, che cosa stupenda… si alza così lentamente, sai, lentamente…va sulla Luna…la Luna… Vorrei che oggi nessuno morisse.” […] All’improvviso ci accorgemmo che l’ora era giunta e tutto cambiò. E non ci importò più che la Luna rappresentasse un volgare scopo politico, non ci importò più che i due uomini scelti dal caso fossero antipatici. La Luna divenne qualcosa di religioso e i due uomini divennero qualcosa di santo: un simbolo di tutti noi, vivi o morti, buoni e cattivi, stupidi e intelligenti, noi pesci che cerchiamo sempre altre spiagge senza sapere perché. […] […] Erano due uomini che nessuno aveva scelto perché migliori degli altri e il loro unico merito consisteva nell’essere bravi piloti, ma non migliori di altri. Umanamente non valevano granché. Privi di fantasia e di umiltà, prima della partenza si erano mostrati arroganti, durante il volo non si erano resi simpatici: mai una frase dettata dal cuore, un motto scherzoso, un’osservazione geniale. Avevano visto la Terra che si allontanava centinaia di migliaia di miglia e tal privilegio s’era risolto in un’arida lezione di geografia: «Vedo a destra la penisola dello Yucatán, a sinistra la Florida…». Qualcuno li aveva definiti “unmanned crew”, equipaggio senz’uomo, il termine che si usa per le astronavi che non hanno persone a bordo, insomma dei piloti automatici. Amareggiato e deluso dal loro silenzio, li perdonavi solo sapendo che avevano paura, ma neanche ciò bastava ad amarli mentre l’ora si avvicinava. Nel distintivo della Nasa fatto disegnare dai tre astronauti si vedeva un’aquila che scende con le ali spiegate e gli artigli spalancati fra i crateri della Luna. Osservandolo, alcuni avevano ricordato che l’impegno di sbarcare sulla Luna entro il 1970 era stato assunto da John Fitzgerald Kennedy dopo la crisi di Cuba, anzi dopo la Baia dei Porci, per scopi strettamente politici. C’era bisogno di una grossa impresa che restituisse prestigio e rispetto agli Stati Uniti e la Luna era apparsa la soluzione più facile e più clamorosa. Lo stesso Lyndon Johnson aveva confermato ciò in una trasmissione televisiva […] […] Armstrong dovette aprirlo, allungando la mano sinistra, proprio mentre parlava con Houston perché in quel preciso momento gli schermi si illuminarono e vedemmo ciò che vedeste anche voi, ciò che vide tutto il mondo, vedemmo la zampa del LM (modulo lunare – ndr), la parte inferiore del LM, e l’orizzonte della Luna. E poi vedemmo quel piede, quel grande piede che scendeva a cercare il piolo della scaletta, era un piede sinistro e scendeva così lento, così cauto, ma allo stesso tempo così deciso. E dal Centro Controllo Bruce McCandless gridò: «Man! Riceviamo una immagine sulla TV! Oh, man!». E Aldrin, tutto contento, rispose: «Bella immagine, eh?», e Bruce McCandless aggiunse: «Neil, Neil! Ti vediamo scendere per la scala a pioli!». Erano le nove e cinquantasei, ora di Houston. E nell’auditorium tutti ripetevano con Bruce McCandless: «Man! Oh, man!». Che vuol dire uomo. Uomo, non Dio. E mentre invocavano l’uomo invece di Dio, Armstrong risalì di due o tre scalini, a provare se ciò costava fatica, ma non gli costava nessuna fatica e riprese a scendere cauto, deciso. E presto lo vedemmo tutto intero, prima la tuta bianca e poi il casco: fu all’ultimo piolo dove ebbe un momento di esitazione, perché l’ultimo piolo è assai alto, per scendere sopra il piattello della zampa del LM bisogna fare quasi un saltino, e sembrò quasi che gli mancasse il coraggio di fare il saltino, il coraggio di uscire dall’acqua, lasciare l’ultima onda e gettarsi sopra la riva. Ma poi il coraggio gli venne, e si buttò giù e fu dentro il piattello. E le sue prime parole sulla Luna furono queste: «Sono ai piedi della scaletta, I am at the foot of the ladder… i piedi del LM sono affondati nella superficie per circa uno, due pollici… la superficie tuttavia appare molto, molto granulosa quando ti avvicini. È come polvere. Fine, molto fine. Ora esco dal piattello del LM».

L’UOMO CHE ANDÒ SULLA LUNA DOPO AVER MESSO INCINTA ORIANA FALLACI. Barbara Costa per Pangea News dell'11 marzo 2019.  “Ho detto al dottore che non posso permettermi il lusso di stare a casa, a riposo, né quello di rivelare che sono incinta”. E non può permetterselo perché è una donna orgogliosa, che lavora duro, fa l’inviata, e si chiama Oriana Fallaci. Il padre del suo bambino non c’è perché Oriana non glielo dice che è incinta, vuole crescere quel figlio da sola, e poi con quest’uomo non ha una storia, non ce l’ha mai avuta, ma non è tutto, la verità è che lui è sposato, e per il suo lavoro è famoso in tutto il mondo. Perché questo ‘lui’… mi sa che ha camminato sulla Luna. È stato un colpo di testa, la passione di una notte, forse qualcuna in più, e la Fallaci ci ha fatto l’amore senza precauzioni perché convinta di non poter avere bambini. Ne è convinta da quando ha perso quel primo figlio il cui padre non voleva né lui, né la madre. Il figlio mai nato di Alfredo Pieroni, nome che oggi non vi dice niente, ma è stato un giornalista del Corriere della Sera, e autore di libri. Alfredo era figo e dongiovanni, non voleva Oriana né altri legami, e quando lei rimane incinta, lui le dà i soldi per abortire. Sono soldi mai spesi, Oriana perde il bambino per un aborto spontaneo, si sente male per strada, a Parigi, ed è sola. Superata una lunga depressione, dimenticato Pieroni, Oriana mette su i mattoni per diventare la Fallaci, ed è una donna che vive da sola per scelta, ama gli uomini che vuole, senza dare né aspettarsi impegni.

Negli anni ’60 Oriana è spesso in Texas, alla NASA, con gli astronauti che si stanno preparando a conquistare la Luna, e che fuori e dentro l’America sono i nuovi eroi, le star che rubano attenzione ai divi del cinema e dello sport. Sono i protagonisti de Il sole muore, e di Quel giorno sulla Luna, i due libri che Oriana Fallaci dedica al viaggio lunare, ma pure del postumo La Luna di Oriana, uscito da poco, che raccoglie suoi inediti scritti per L’Europeo: articoli che si avvicinano, vivono quegli allunaggi, per poi allontanarsene maledicendoli. Il richiamo di quella notte, 20 luglio 1969: chi c’era stava con gli occhi fissi alla tv, ma a Houston c’era anche lei, la Fallaci. Neil Armstrong, Buzz Aldrin, Mike Collins, i primi ad aprire le porte del cielo, Oriana li ha conosciuti, ma questi dell’Apollo 11 sono i tre astronauti a lei più antipatici, Armstrong soprattutto, un robot freddo, incapace di emozioni, e forse proprio per questo scelto dalla NASA come comandante di un viaggio in rotta verso l’ignoto. Ma a Oriana sta antipatico per un motivo personale, Armstrong ha rubato il posto e la gloria a chi le sta a cuore, quel Pete Conrad che sulla Luna ci va nella missione successiva, l’Apollo 12, e sotto la tuta ha una foto e un ciondolo di Oriana.

È Conrad il padre del bambino? L’ho creduto a lungo, dopo aver letto La Luna di Oriana non so più, vi è una Oriana così amica della moglie di lui, sembra impossibile che le abbia fatto un torto simile. Eppure…l’intesa con Pete è massima, palpita tra le righe, nelle parole della Fallaci si sente che Conrad non è come gli altri: la loro è un’amicizia che supera l’affetto, va oltre la stima, è forte come è forte la loro rottura: litigano per la politica, Conrad è un repubblicano, Oriana un’apolitica innamorata della politica, e lui si arrabbia così tanto da cacciarla di casa, e quando Oriana gli telefona e gli chiede se davvero pensava quanto urlatole la sera prima, litigano ancora, e lei gli scrive una lettera che lui fa a pezzi. Non si vedranno mai più. Nel 1999 Conrad muore in un incidente stradale: Oriana non va al suo funerale, né scrive, parla alla vedova. Forse il padre del bambino di Oriana non è Conrad, la verità non lo sa nessuno, si procede per ipotesi come fa Cristina De Stefano, bravissima nel suo Oriana. Una donna, la biografia della Fallaci più completa, e va detto che De Stefano ha avuto libero e ghiotto accesso ai diari, le lettere, le foto più intime della Fallaci. E tra queste foto ce n’è una che a Oriana fa male al cuore, è nel libro postumo, è quella di Jim Lovell con lei, in Toscana, a Greve in Chianti. Non mi dite che non sapete chi è Jim Lovell, non avete mai visto il film Apollo 13? È lui, cioè Tom Hanks, quello di “Houston, abbiamo un problema”, l’astronauta che è riuscito a rientrare sulla Terra dopo che i comandi della sua astronave erano andati a farsi benedire.

Anche quello tra Lovell e Oriana è un rapporto speciale, lui porta nello Spazio, sotto la tuta, 13 amuleti comprati in Italia, in vacanza con lei, 13 talismani contro la malasorte, contro quel 13 della sua missione che teme infausta. Anche Lovell è sposato e padre, tutte le mogli degli astronauti sono gelose di Oriana, e temono la sua vicinanza ai mariti: il suo fascino, la sua esoticità non sta nel fatto che sia una straniera, ma che sia una donna non sposata che vive a New York, vista dal Sud degli Stati Uniti come la città del vizio e della perdizione. Oriana parla agli astronauti di argomenti che quelle mogli – quasi tutte casalinghe – non sanno capire, né discutere. Quegli uomini che dalla personalità di Oriana sono attratti e intimoriti. Il secondo bambino di Oriana vive nel suo grembo cinque mesi: lo perde la sera di Natale 1965. Questo bambino mai nato sarà il protagonista della Lettera, scritta in prima versione, di getto, nel gennaio 1966, e rimasta chiusa a chiave in un cassetto fino al 1974. L’amicizia tra Oriana e gli astronauti finisce molto male. Ottenuta la Luna, essi tornano sulla Terra insuperbiti, ubriachi di gloria. Oriana non li riconosce più, e per la delusione guarderà alla Luna con rabbia, e rimpianto. La sua passione per lo Spazio rimarrà in sonno per quasi 15 anni, fino a che arriverà un altro astronauta a tentarla, a farla innamorare. Ma questa è tutt’altra storia, di un’altra Oriana, racchiusa in altri libri.

·         Dacci oggi il nostro Cairo Quotidiano.

Dagospia il 5 novembre 2019. La lettera che il comitato di redazione del ''Corriere'' ha inviato al direttore Luciano Fontana dopo aver visto articolo e foto sull'editore (del ''Corriere'' e di ''For Men Magazine'') Urbano Cairo. Caro Direttore, Stamattina molte colleghe e molti colleghi ci hanno segnalato il disagio provato nel leggere l’articolo di spalla a pagina 23 sul calendario di “For Men”. Comprendiamo l’esigenza del nostro editore di voler pubblicizzare l’iniziativa di uno dei suoi mensili, ma dedicargli addirittura un articolo sulle pagine delle Cronache Italiane con due foto, virgolettati, nomi e dettagli sugli sponsor che hanno pagato, è sembrato fuori luogo a molti, e purtroppo non solo all’interno del giornale. Al di là del dubbio gusto nel dare risalto al calendario di una showgirl, ci interroghiamo su quale possa essere l’interesse dei lettori del Corriere nel leggere notizie del genere. Con spirito costruttivo e di attaccamento al giornale ti chiediamo per il futuro una più attenta vigilanza su simili episodi che, a nostro giudizio, danneggiano l’autorevolezza del Corriere della Sera.

Alessandro Fulloni per il “Corriere della sera” il 6 novembre 2019. È Taylor Mega la protagonista del maxi calendario 2020 di For Men magazine , il mensile maschile leader in Italia, di Cairo Editore. La showgirl nata a Udine è stata scelta perché «rappresenta i nuovi stili di vita e di linguaggio e soprattutto perché è una influencer di primissimo piano e manager di se stessa - spiega Andrea Biavardi, direttore del mensile -. La sua pagina Instagram vanta oltre due milioni di follower. Ho apprezzato il fatto che Taylor ha deciso di dare il cachet in beneficenza» all' associazione Wall of dolls che si occupa di violenza di genere. Il calendario (presentato ieri al Just Cavalli di Milano e che è allegato a For Men magazine in edicola) ha due sponsor importanti. Uno è Figaro, marchio che prende il nome del più famoso barbiere per la sua linea di prodotti per il benessere quotidiano dell' uomo. L' altro è Keyjey Dnm, brand leader nel settore «jeans and streetwear». Il calendario, però, è un «gioco», ha sottolineato l' editore Urbano Cairo, «perché il successo della rivista è dato dai contenuti editoriali di ogni mese e, non a caso, siamo sempre in crescita».

Da affaritaliani.it il 6 novembre 2019. “È proprio il caso di dire che quest'anno For Men Magazine, il primo mensile maschile d'Italia, ha realizzato un Mega Maxi Calendario - afferma il direttore Andrea Biavardi - La protagonista dei 12 mesi più bollenti dell'editoria italiana è infatti Taylor Mega, una delle più belle e prorompenti protagoniste dello star system”. Taylor Mega è stata scelta non solo per la sua indiscutibile bellezza, ma anche perché rappresenta la modernità, i nuovi stili di vita e di linguaggio. “È un’influencer di primissimo piano e manager di se stessa – continua Andrea Biavardi, direttore del mensile maschile leader in Italia edito da Cairo Editore - La sua pagina Instagram vanta oltre 2milioni di follower. La sua notorietà è cresciuta al punto tale che ha partecipato al Grande Fratello e all'Isola dei Famosi”. Due main sponsor per il MAXI CALENDARIO 2020 DI “FOR MEN MAGAZINE” (in edicola al prezzo totale di 6,40 Euro), entrambi per la quarta volta: Figaro, il marchio che prende il nome del più famoso barbiere per la sua linea di prodotti per la cura e il benessere quotidiano dell'uomo, e Keyjey Dnm, brand sempre alla ricerca di dettagli, tendenze e originalità, con uno stile in cui la tradizione sartoriale e la modernità del capo “jeans and streetwear” sono in simbiosi. La tiratura complessiva sarà di 100.000 copie. A supporto dell’iniziativa è attiva una campagna TV sulle reti Mediaset e La7 e una campagna stampa sui quotidiani sportivi. Attenta alle tematiche sociali come lo sono le nuove generazioni, Taylor ha deciso di scattare per il MAXI CALENDARIO 2020 DI “FOR MEN MAGAZINE” rinunciando al suo compenso e devolvendolo all'associazione Wall of Dolls, che si occupa da anni di proteggere le donne dalla violenza di genere. “Taylor ha deciso di usare il suo corpo per una causa nobile – conclude il direttore - Io sono veramente fiero di aver contribuito a far sì che questa iniziativa diventasse realtà”. I 13 scatti (copertina e 12 mesi) del MAXI CALENDARIO 2020 DI “FOR MEN MAGAZINE” sono stati realizzati dal grande fotografo Dario Plozzer che ha voluto ricreare atmosfere dal sapore anni ‘80, un recupero vintage del miglior passato per guardare al futuro che avanza. Il MAXI CALENDARIO di FOR MEN MAGAZINE fa sognare i lettori dal 2003, anno di nascita del periodico e continua a valorizzare la bellezza e la passionalità delle donne dello show business. Anno dopo anno, sulle pagine del calendario, si sono succedute tante incantevoli donne: Cecilia Capriotti, Samantha De Grenet, Raffaella Fico, Claudia Galanti, Magda Gomez, Francesca Lodo, Veridiana Mallmann, Carolina Marconi, Dayane Mello, Nina Moric, Antonella Mosetti, Cecilia Rodriguez, Mariana Rodriguez, Sara Varone, Raffaella Modugno, Ria Antoniou, Manuela Ferrera e Fabiana Britto

DACCI OGGI IL NOSTRO CAIRO (SUL) QUOTIDIANO.  Tommaso Rodano per il “Fatto quotidiano” il 14 maggio 2019.  C'è l' Urbano Cairo imprenditore che risana i conti delle sue aziende; il Cairo Robin Hood che combatte contro l' élite del calcio europeo; il Cairo sportivo che galvanizza il Torino e sponsorizza il Giro d' Italia; il Cairo politico che sferza il governo per chiedere politiche fiscali più sagge. Dove l' abbiamo letto? Sui giornali di Cairo. Dall' estate del 2016 - quando il patron di La7 ha messo le mani sul più grande gruppo editoriale italiano, diventando presidente di Rcs - i quotidiani del gruppo hanno avuto un inevitabile occhio di riguardo per le uscite pubbliche e private dell' imprenditore milanese. Nell' ultimo periodo quest' attenzione benevola è diventata particolarmente assidua. Su Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport c' è almeno un Cairo al giorno: ogni tanto in prima pagina, talvolta tra le pieghe delle pagine economiche o sportive, sempre comunque con un' enfasi discreta ma assai positiva. Normale che Cairo ci tenga alla sua immagine. Gli spifferi che vorrebbero il suo ingresso in politica ormai sono una corrente. Potrebbe essere lui - sostengono fonti azzurre - a proporsi come catalizzatore di un polo moderato e "anti-sovranista" all' indomani del 26 maggio e della possibile, definitiva esplosione di Forza Italia. Cairo, imprenditore di successo e discreto comunicatore, potrebbe raccogliere in qualche modo il testimone del vecchio Berlusconi. Ma come il vecchio Berlusconi c' è una minaccia politica (che poi sarebbe la stessa da 30 anni): la legge sul conflitto d' interessi. La proposta del Movimento Cinque Stelle dovrebbe contenere norme che metterebbero fuori causa non solo Cairo ma un' ampia platea di imprenditori. Sarebbe incompatibile con le cariche di governo, infatti, "la proprietà () di un patrimonio immobiliare o mobiliare di valore superiore a 10 milioni di euro". Luigi Di Maio ieri sera ha smentito questa direttiva, presente nella prima bozza della legge grillina. Dove c' era anche l' incompatibilità per chi detiene "partecipazioni superiori al 2 per cento () di imprese che operino nei settori della radiotelevisione e dell' editoria". Con queste formule non c' è dubbio: le eventuali ambizioni di Cairo sarebbero seppellite ancora prima di vedere la luce. Intanto però il presidente di Rcs imperversa sui quotidiani di Rcs. Certi giorni in modo piuttosto clamoroso: sul Corsera dell' 11 maggio, per dire, Cairo è citato quattro volte in quattro articoli diversi. A pagina 22, in quanto membro della giuria del premio Carli al Senato. Poi nelle pagine sportive, in un articolo sul libro di Ennio Doris su Coppi e Bartali (pubblicato "con la complicità di Urbano Cairo, amico di lungo corso dell' autore"). E ancora, nella stessa pagina, intervistato sul Giro d' Italia. "Il governo faccia come in Francia: adotti la corsa", suggerisce Cairo. Ha una modesta proposta: "Mi piacerebbe che fosse il presidente della Repubblica a premiare il vincitore". Il lettore del Corriere gira pagina e chi trova? Urbano Cairo. Che si scaglia contro la Superlega del calcio europeo progettata dalla Uefa. Al presidente di Rcs e Torino è dedicato un sommario con il virgolettato: "È iniquo e inaccettabile. Un campionato dei ricchi non può avere un futuro. Non è una grande idea". La battaglia egualitaria di Cairo contro i giganti del football continentale gli vale una costante copertura sulle colonne rosa della Gazzetta (incidentalmente, un altro quotidiano di sua proprietà). Il 10 maggio Cairo è in prima pagina per sfidare l' Uefa. "In Europa sale la protesta. Cairo: 'Servono i Churchill'". Il titolo è corredato da fotografia arrembante del presidente, la notizia viene sviscerata in una doppia pagina (10 e 11) che si apre così: "Cairo boccia l' Uefa". Lo stesso concetto era stato declinato sulla rosea appena due giorni prima (l' 8 maggio) in termini assai simili: "Cairo attacca Agnelli e l' Uefa". Dentro al giornale, altra doppia pagina ("Cairo va all' attacco di Uefa e Agnelli: 'Poca democrazia'") e altra grande foto del "leader dei contrari". A tempo perso Cairo è anche presidente del Torino. E pure le sue dichiarazioni sui granata conquistano spesso titoli accattivanti ("Cairo tiene alta la tensione, Champions mai dire mai", 12 maggio; "Cairo: Complimenti agli avversari, daranno il massimo anche con gli altri", 13 maggio). Il vero fiore all' occhiello però resta il Corsera. Qui il patron è citato una sola volta il 10 maggio ("Rcs ricavi digitali su. Continua il calo dell' indebitamento", con foto di Cairo), ben tre volte il 9 maggio, un' altra volta l' 8 maggio. Il 3 c' è una pagina intera dedicata ai risultati del suo gruppo editoriale (con richiamo in prima e dichiarazione: "Godiamoci questo dividendo che torna dopo lungo tempo"). Il primo maggio c' è un' altra paginata con intervista a Cairo medesimo sul Grande Torino. Il capolavoro è il 30 aprile: nessun articolo sul presidente ma un' imponente fotografia insieme alla figlia Cristina per pubblicizzare la fiera Amart di Milano. Perché, ci dice Cairo, "anche l' antiquariato è una forma di Design".

·         La Sapienza dei sinistri.

Lucano a La Sapienza, Forza Nuova contesta: «È nemico dell’Italia». L’estrema destra annuncia una manifestazione di protesta proprio durante la lezione del sindaco sospeso di Riace sull’accoglienza. Ma lui non demorde: «non mi fanno paura» Simona Musco l'11 Maggio 2019 su Il Dubbio. «Mimmo Lucano nemico dell’Italia, Roma non ti vuole». È con questo slogan che Forza Nuova ha annunciato una contestazione contro il sindaco sospeso di Riace, Domenico Lucano, che lunedì sarà all’Università La Sapienza, per raccontare il suo modello d’accoglienza, famoso e apprezzato in tutto il mondo. Ma non dai militanti del gruppo di estrema destra, che hanno organizzato un comizio del loro leader, Roberto Fiore, alle 14.30, nel piazzale Aldo Moro, nel tentativo di bloccare la lezione di Lucano, che parlerà agli studenti del «cammino di rinascita di un paese abbandonato». «Il simbolo del potere immigrazionista e oggi bandiera dell’ignoranza antifascista dovrebbe spiegare a docenti e studenti romani il suo ‘ fantastico mondo dell’accoglienza’ basato sul modello Riace – si legge in una nota – Roma e Forza Nuova non possono tollerare che questo nemico dell’Italia salga in cattedra». L’intento dei manifestanti – che già si erano opposti al conferimento della cittadinanza onoraria da parte del sindaco di Sutri, Vittorio Sgarbi, annunciando una contestazione che poi non c’è stata – è dire «no a Lucano, no alla sostituzione etnica, no al business dell’accoglienza e alle favole pro immigrazione» e «bloccare la conferenza del sindaco indagato per sfruttamento dell’immigrazione clandestina. Ancora una volta – continua il comunicato – gli antifascisti sventolano le bandiere commissionate dal padrone Soros e dall’odio verso l’Italia e gli Italiani e ancora una volta c’è solo Forza Nuova a difesa di Roma e della nazione». Dura la replica di Lucano, deciso a non farsi condizionare dall’annunciata manifestazione. «La loro protesta non mi spaventa, mi interessa invece parlare agli studenti, che sono il futuro della nostra società – ha affermato – In Italia viviamo un momento difficile in cui ci viene detto che deve prevalere la disumanità: si è creato un clima d’odio, di forte contrapposizione sociale, ed è inutile girarci intorno, c’è una deriva fascista». A difenderlo il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che ha chiesto alle forze dell’ordine, al prefetto e alla questura la garanzia della libertà di espressione all’interno dell’Università La Sapienza. «È evidente che solo l’annuncio di volere impedire un evento, come quello con Mimmo Lucano, è una provocazione che ci dice quanto sia importante accendere, in tutto il Paese, una battaglia delle idee a difesa della Costituzione e della democrazia», ha affermato il governatore del Lazio.

I docenti de La Sapienza si schierano con Lucano: «Vietate la manifestazione di Forza Nuova». Decine le firme a sostegno della richiesta. Il Dubbio l'11 maggio 2019. Dopo l’annuncio di Forza Nuova di voler manifestare contro la lectio di Domenico Lucano all’università La Sapienza, in programma per lunedì, a schierarsi con il sindaco sospeso di Riace sono i docenti dell’Ateneo, che in una lettera hanno lanciato un appello chiedendo che la manifestazione dell’estrema destra venga bloccata. Ecco il testo della lettera: «Il gruppo neofascista “Forza Nuova” ha indetto una manifestazione per lunedì 13 maggio a Piazzale Aldo Moro di fronte all’ingresso della Sapienza. L’intento è evidentemente quello di intimidire chi voglia recarsi ad ascoltare Domenico Lucano che è stato invitato, il 13 maggio alle 15.00, dal Dipartimento di Storia Antropologia Religioni Arte e Spettacolo insieme a Vito Teti a partecipare al seminario dottorale “Convivenze”. Questo intento è stato esplicitato attraverso un vergognoso manifesto che indica in Lucano “il nemico dell’Italia”. Nel riaffermare con forza la vocazione antifascista e democratica della Sapienza, i docenti della Facoltà di Lettere e Filosofia chiedono che venga negata la manifestazione indetta da Forza Nuova e che si consenta il regolare svolgimento degli eventi previsti”.

Una cattedra per il prof. Lucano. Ma a Papa Ratzinger La Sapienza disse no. Francesco Storace sabato 11 maggio su Il Secolo d'Italia. Sale in cattedra il prof. Mimmo Lucano. Lo ospita La Sapienza. Lo stesso ateneo di Roma che negò l’ingresso a Papa Ratzinger. Complimenti, applausi. Ma un po’ di vergogna la provate, signori dell’Accademia? Per carità, Forza nuova esagera nel voler impedire l’ingresso al discusso reuccio di Riace, non più sindaco del paese per decisione della giustizia e per i reati che gli imputano. Ma come si fa a non provare indignazione per le lezioni impartite da chi è sotto processo per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina? Bel segnale che si manda alla nostra gioventù, legalità cercasi…

La Sapienza e l’onore…Poi, ci aggiungi il comunicato del prof. Gaetano Lettieri, che a nome del Dipartimento di Storia dell’Università di Roma, esprime persino “onore” per l’invito rivolto al compagno Lucano. Lo hanno chiamato per una conferenza – dicono – a “carattere rigorosamente scientifico”. E in effetti gli inquirenti sono convinti che Lucano abbia scientificamente violato le norme sull’immigrazione, provocando sostanzialmente un vero e proprio percorso di sostituzione etnica. Anche con truffa e falso, dice un’altra inchiesta a carico dell’ex sindaco…

Pure Morucci e Schettino. Quanto pare lontano quel 2007 in cui la discussione su un invito un po’ più importante alla Sapienza riguardo una delle più grandi personalità del mondo come Papa Ratzinger. Allora nessuno si scomodo per l’onore ricevuto dal Santo Padre che aveva accettato la richiesta di parlare all’inaugurazione dell’Anno accademico. No, anzi, fu messo alla porta. Mimmo Lucano in cattedra, invece. Del resto, nello stesso luogo furono ritenuti degni di rivolgere i loro pensieri agli studenti insigni cattedratici come il brigatista rosso Valerio Morucci e persino Francesco Schettino. Tema? “La gestione del panico”, e in fondo ce lo meritiamo pure se veniamo criticati per lo stato delle nostre università. La vergogna è tutta qui, ma La Sapienza si vanta, “con onore”, di accogliere chi non dovrebbe avere alcun titolo ad impartire lezioni alla nostra gioventù. A scuola – di legge – ci vada piuttosto Mimmo Lucano.

·         Il ravvedimento degli intellettuali di sinistra.

Piergiorgio Odifreddi. Laura Secci per La Stampa il 14 giugno 2019. Anticlericale, ateo “militante”, matematico impertinente prima e impenitente poi. Piergiorgio Odifreddi è uno di quelli che sa farsi amare e sa farsi odiare. E comunque ha l’aria di chi, in entrambi i casi, se ne frega. Ospite ad Asti questa sera, venerdì 7 giugno, alle 21 del festival Passepartout, guiderà il pubblico nel viaggio «Dalla terra alla Luna: 1865-1969».

Professor Odifreddi, nel titolo del suo intervento cita due date. Sulla seconda, non foss’altro per la ricorrenza, ci siamo più o meno tutti. Ma il 1865?

«In quell’anno Jules Verne scrisse un volume sorprendente dal titolo “ Dalla Terra alla Luna” in cui Verne anticipa le prime fasi dello allunaggio avvenuto realmente oltre cento anni dopo. A questo volume seguì il secondo “Intorno alla Luna”. È avveniristico. Con i suoi astronauti anticipa non solo il fatto in sè ma anche molti dettagli che si sono puntualmente verificati».

Perchè immaginiamo da secoli di andare sulla Luna?

«Fin da Luciano di Samosata, vissuto nella Grecia tra il 100 e il 200, scrittori, poeti e scienziati immaginavano di andare sulla Luna. Keplero la vede con gli occhi della mente già nel 1593. Ma prima di lui Plutarco, scrive “Il volto della Luna”. Poi Galileo e ancora Huygens. Molti hanno immaginato la Terra vista dal suo satellite. Perchè da lassù, il nostro pianeta appare non solo colorato, ma anche 15 volte più grande e luminoso di quanto la Luna appaia quaggiù».

Qual è il motivo di tanta curiosità? Capire se c’è un’ altra forma di vita?

«Sì. È un atto di modestia. Un modo per capire che non siamo gli unici, ma solo un pianeta tra tanti. L’idea del filosofo sofista Protagora che “l’uomo sia la misure di tutte le cose” è folle. Ma per carità!».

Non ha una buona opinione dea filosofia, oltre che della religione.

«L’unica religione è la matematica, il resto è superstizione. È la scienza che ci insegna ad avere il giusto distacco, a ridimensionare quegli accadimenti quotidiani che ci sembrano problemi insormontabili. È ancora la scienza che ci insegna ad abbassare le ali di fronte alla grandezza meravigliosa dell’universo. La filosofia tutto questo, questo, non lo fa. Tanto meno i giornali che si concentrano esclusivamente sulle miserie politiche».

A proposto di giornali, dall’anno scorso non la leggiamo più su Repubblica. Ma cos’è successo con Scalfari?

«Ho detto quello che pensavo, cioè che si è inventato l’intervista al Papa. E’ stato smentito dalla fonte. Il giorno dopo, il direttore Calabresi mi ha comunicato che la mia collaborazione con Repubblica era terminata».

Per chi ha votato alle ultime elezioni?

«Non ho votato».

Non crede nei partiti?

«Non credo esista la democrazia. Ci ho dedicato anche un libro (“La democrazia non esiste”, ndr) . È una religione laica che trova le proprie basiliche nei parlamenti, il proprio clero nei governanti, le prediche nei comizi, le messe nelle elezioni».

E la Costituzione? La salva?

«Andrebbe cambiata. Lo diceva già Jefferson nel 1789. Il futuro terzo presidente degli Stati Uniti a proposito della Costituzione americana, allora appena entrata in vigore disse : “La terra viene data in usufrutto ai viventi, e i morti non hanno poteri o diritti su di essa. E le costituzioni si estinguono insieme a coloro che le hanno emanate».

Quindi ogni quanto andrebbe cambiata quella italiana?

«Applicando qualche calcolo di statistica delle popolazioni, la nostra Costituzione del 1948, risale a “due generazioni” precedenti. Ho calcolato che andrebbe modificata ogni 50 anni».

Se iniziassimo ad applicare quella che abbiamo non pensa saremmo un Paese meno intollerante?

«Questo è vero. Ma ci sono altri articoli inaccettabili. Uno su tutti: l’articolo 7. Sancisce di fatto che siamo uno Stato teocratico».

Cosa pensa degli scienziati che credono in dio?

«Che per fortuna non ce ne sono. O meglio, c’è Zichichi, che non è il massimo. Ma rappresenta una percentuale minima».

Se non avesse studiato matematica, cosa avrebbe fatto nella sua vita?

«Eh... Mi sarebbe toccato lavorare».

Gli intellettuali "meglio tardi che mai" su migranti e scuola. Rampini, Galli della Loggia, che attaccavano la destra per alcune opinioni, oggi cambiano idea trasformandole in saggi ed articoloni. Panorama il 14 giugno 2019. Funziona più o meno così. Una mattina l’intellettuale progressista si sveglia e avverte un brivido in tutto il corpo. Un’inaspettata eccitazione lo pervade, si sente euforico: ha appena avuto un’illuminazione. Si è reso conto che l’umanità è afflitta da un problema urgente, una questione che deve assolutamente essere risolta nel minor tempo possibile. A quel punto, si precipita a scrivere: un articolo, un pamphlet, un saggio breve. Tutto va bene pur di far dono al mondo della sua intuizione. C’è un solo, insignificante problema: quella stessa intuizione, quell’identica illuminazione altri l’hanno avuta prima dell’intellettuale progressista. Anni prima, magari. Decenni, talvolta. Il nostro eroe, però, non si dà per vinto. Anzi: se ne frega proprio. Lui ha partorito la sua trovata, questo è l’importante. Se poi altri lo hanno preceduto, e magari sono stati anche più efficaci, beh, è irrilevante. Del resto è cosa nota: finché non ottengono l’approvazione della sinistra del pensiero, le idee non hanno peso, non meritano d’essere considerate. Prendiamo, tanto per fare un esempio, la questione migratoria. La scorsa settimana, sul Corriere della Sera, è comparso un rovente articolo di Ernesto Galli della Loggia. Il celebre professore si lamentava del silenzio con cui è stato accolto dal milieu culturale italico un volume di straordinaria rilevanza. «Colpisce la significativa mancanza di reazioni al saggio di Raffaele Simone L’ospite e il nemico» recitava il titolo dell’invettiva di Galli della Loggia. Ma di che cosa tratta questo imprescindibile tomo, e perché è stato ignorato dai recensori gallonati? Lo rivela lo stesso professore: «Tratta di un tema chiave come la migrazione dal Sud del mondo». Fantastico: un libro sugli immigrati, argomento di stringente attualità. Riassumendone il contenuto, spiega Galli della Loggia: «Presumere che esista un diritto all’accoglienza illimitata comporta logicamente né più né meno che teorizzare la cancellazione virtuale dei confini: cioè di qualcosa che l’autore stesso definisce “una necessità etologica dei gruppi umani”». Proviamo a riassumere. Galli della Loggia si lamenta perché il libro di Raffaele Simone ha goduto di scarsa visibilità nonostante si tratti di un tomo denso di verità che gli italiani debbono conoscere. Queste verità riguardano l’immigrazione. La quale, ci dice Simone, è un grosso problema che non si può affrontare accogliendo tutti. Anzi: ci vogliono limiti, confini. Bisogna difendere i valori occidentali altrimenti la nostra millenaria civiltà rischia di sparire. Ecco, di fronte a tutto ciò uno pensa: scusate, ma sono circa vent’anni che autori conservatori, identitari, di destra, chiamateli come volete, dicono le stesse identiche cose. Le hanno dette per primi, hanno fornito dati a sostegno delle proprie tesi e non solo non sono stati ascoltati, ma sono pure stati derisi e accusati di essere razzisti e fascisti. E adesso, anno 2019, arriva un distinto intellettuale di sinistra a spiegarci che l’invasione è un dramma e noi dovremmo pure correre a adorarlo? Siamo seri. Il fatto è che ci arrivano sempre dopo, ma quando ci arrivano pretendono che le masse si sciolgano per l’emozione. Intendiamoci: siamo molto felici che illustri pensatori progressisti facciano i conti con la realtà e abbiano il coraggio di sfidare il politicamente corretto. Talvolta, però, sarebbe gustoso scorgere un poco di umiltà. Sull’immigrazione, la difesa dei confini e i rapporti con l’Islam si sono misurati fior di autori: Ida Magli, Oriana Fallaci, Alain De Benoist, Claudio Risé solo per citarne alcuni. Quel genio francese di Jean Raspail aveva previsto l’invasione migratoria in un romanzo del 1973, Il campo dei santi. Nel nostro Paese hanno dovuto pubblicarlo le edizioni di Ar, altrimenti nessuno se lo sarebbe filato. Di più: chi, in tempi più recenti, ha osato prendere di petto questi argomenti è stato marchiato a fuoco. Intollerante, maestro della paura, nazista, xenofobo… Poi, baldanzosi, arrivano gli intellettuali «democratici» e, tutto è concesso. Spunta Federico Rampini (tra tutti probabilmente il più onesto) a prendere di mira le élite cosmopolite e sradicate. Spunta Carlo Formenti a immaginare una specie di sovranismo di sinistra. Benvenuti, amici, vi aspettavamo. Prendiamo un altro caso. Sempre sul Corriere, il brillante Goffredo Buccini ha dedicato un reportage quasi letterario a Torre Maura, sobborgo romano i cui cittadini hanno protestato con rabbia contro l’assegnazione di alloggi popolari ai rom. Mentre la sollevazione era in corso, i giornali di sinistra si sbizzarrivano. Accusavano gli abitanti di Torre Maura di essere razzisti, manipolati da Casapound, fascisti. Poi guarda che succede: quasi due mesi dopo, il prode inviato del Corriere scende nella periferia e scopre un signore, elettore del Pd, di nome Sergio. «Sergio, che vota pure Pd, era in mezzo ai ribelli aizzati da Casapound, strillando in favore della telecamera che quei rom “potevano bruciarli a Torre Angela” (precedente domicilio dei poveretti)» scrive Buccini. Capito? Il signor Sergio, piddino, gridava «bruciate i rom». Chiosa di Buccini: «Ciò non fa di lui un razzista». Tutto torna. Se sei di sinistra, puoi dire che i rom vanno bruciati. Se ti dichiari progressista, puoi scoprire mesi dopo che sì, in effetti la convivenza con i rom è un problema e il razzismo non c’entra. Da destra te lo avevano ripetuto in tutti i modi che le cose stavano così, ma non sei stato a sentire. A un certo punto, passati giorni e giorni, ti accorgi che avevano ragione gli altri, ma fai finta di nulla: hai avuto l’illuminazione e tutti si devono genuflettere di fronte a tanta intelligenza. Va così più o meno in tutte le circostanze. Da tempo immemore conservatori e sovranisti spiegano che la proliferazione dei «diritti» delle minoranze è pericolosa, e come sempre sono stati vilipesi o censurati. Ma ecco che arriva il liberal americano Mark Lilla, pubblicato in Italia da Marsilio, a spiegare che le rivendicazioni delle varie minoranze fanno perdere di vista l’interesse della maggioranza, e tutta l’intellighenzia va in brodo di giuggiole. Vogliamo cambiare radicalmente campo? Parliamo della tecnologia e del Web. La «nuova destra» tuona contro lo strapotere delle macchine più o meno da quarant’anni. Nel frattempo, gli illuminati progressisti hanno celebrato la Silicon Valley, la potenza democratica della Rete, le varie primavere arabe nate sui social network. Adesso, però, i libri anti tecnologici spuntano come funghi: da Aldo Cazzullo che dice al figlio: «Metti via quel cellulare!» a Christian Rocca che grida: «Chiudete internet!», i maestri del pensiero hanno capito che l’ubriacatura digitale è un brutto guaio. E ci danno lezioni. Ma prendiamo un’altra questione rilevante: la scomparsa dell’autorità. Da Concita De Gregorio ad Andrea Camilleri, passando per vari altri numi tutelari della sinistra, c’è la gara a stracciarsi le vesti per le sorti della scuola pubblica. I professori non sono rispettati, non si studia più la storia… Che strano: prima ci avevano detto che bisognava abbattere l’autorità, buttare i professori giù dalla cattedra, mollare le polverose nozioni e portare l’attualità in classe. E ora vengono a piangere perché la scuola è un disastro? Ci avevano detto che il patriarcato andava abbattuto, che il modello di società verticale andava sgretolato, e oggi ci troviamo sommersi dai saggi del renzianissimo filosofo Massimo Recalcati sull’evaporazione della figura paterna? Sarà pure che solo gli stupidi non cambiano idea. E, lo ammettiamo, anche noi abbiamo modificato posizioni, pensieri e opinioni. Talvolta, basterebbe semplicemente un po’ più di umiltà. Basterebbe dire: ehi, ci siamo arrivati anche noi, magari ora si può dialogare. Invece la spocchia, a sinistra, continua a regnare sovrana. E allora viene da pensare: talvolta, meglio mai che tardi. 

·         Pascoli e l’omicidio del padre.

Pascoli e l’omicidio del padre. Una nuova pista riapre il caso della cavallina storna. Pubblicato giovedì, 30 maggio 2019 su Corriere.it. Sulla facciata della casa natale di Giovanni Pascoli, a San Mauro di Romagna, una targa riporta alcuni versi della poesia «Casa mia» («M’era la casa avanti / tacita al vespro puro / tutta fiorita al muro / di rose rampicanti»). Un’altra ricorda la nascita il 31 dicembre 1855 del «grande poeta della bontà». Non c’è poeta che al pari di Giovanni Pascoli, abbia invaso i primi approcci alla letteratura italiana fin dalle scuole elementari. E’ l’autore del «Fanciullino» a segnare l’approccio con la poesia di bambine e bambini, in una delle poche certezze che attraversano le generazioni, accomunando figli, genitori e nonni. Tanto forte è stato il suo legame con l’Italia, che ha visto nascere come stato unitario, che ben due comuni hanno voluto il suo cognome nel nome stesso della località: San Mauro Pascoli, a 18 chilometri da Cesena, dove è nato; e Castelnuovo Pascoli, in provincia di Lucca, dove ha a lungo vissuto e dove è sepolto. Tra i primi versi da mandare a memoria per tutti coloro che incontrano Pascoli, spiccano quelli dedicati alla grande tragedia della sua vita: la morte violenta del padre Ruggero, ucciso il 10 agosto 1867, quando il poeta non aveva dodici anni. Sono molti i componimenti che Giovanni dedica al padre ucciso, ma i più famosi sono due: «La cavalla storna» ( penultimo testo dei Canti di Castelvecchio) che contiene i versi «O cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna»; e «X agosto» (pubblicata per la prima volta ne Il Marzocco del 9 agosto 1896; successivamente venne inserita nella quarta edizione del 1897 di Myricae, nella sezione Elegie). Ruggero Pascoli era amministratore della tenuta «La Torre», un latifondo dei Torlonia a San Mauro di Romagna: il 10 agosto 1867 stava tornando a casa con il suo calesse, dopo essere stato a Cesena, quando venne ucciso a pochi chilometri da casa, sparato da dietro una siepe. Chi avesse esploso il colpo di fucile fatale e chi fossero i mandanti, non si è mai saputo. Ruggero Pascoli lasciava una moglie Caterina, che morirà «di crepacuore» pochi mesi dopo, e otto figli, tra cui Giovanni.

Tre processi si sono conclusi con un nulla di fatto e perfino le carte di quelle udienze sono andate al macero. Una delle ipotesi più accreditate racconta che Ruggero Pascoli sarebbe stato vittima di chi voleva prendere il suo posto come amministratore del fondo Torlonia. E il figlio Giovanni, pur senza nominarlo, accusa Pietro Cacciaguerra, un ricco possidente di Savignano, che in effetti andò ad occupare quel posto. Altre ipotesi rimandano al clima aspro e violento della Romagna in quegli anni, dove Ruggero Pascoli era visto come un repubblicano che si era “venduto” ai monarchici del neonato Stato italiano. Il figlio Giovanni accusò sempre le indagini di polizia svolte “poco e male”. 

Maurizio Garuti, scrittore, autore teatrale ed esperto conoscitore della realtà romagnola, ha pubblicato per la casa editrice Minerva «Il segreto della cavallina storna», un romanzo che indaga su quello che definisce «il giallo più oscuro della letteratura italiana». Nel romanzo Garuti racconta una terribile confessione trasmessa da una generazione all’altra in una famiglia di mezzadri di Savignano sul Rubicone: quell’omicidio non fu politico o di malaffare, ma una vendetta d’onore. Una ipotesi, niente di più. Ma la prosa di Maurizio Garuti meriterebbe una ampia platea di lettori che vada oltre l’interesse per il «giallo». La sua storia è raccontata da un undicenne, la stessa età che aveva Giovanni Pascoli quando venne ucciso suo padre. E attraverso gli occhi di questo bambino che si fa uomo nella Romagna degli anni Cinquanta, scopriamo un mondo contadino non tanto diverso da quello vissuto un secolo prima dalla famiglia Pascoli. Nella narrazione scorre il film di un’Italia che per molti decenni è rimasta uguale a se stessa, prima di essere stravolta dalla nuova economia, dalle macchine applicate all’agricoltura, dall’urbanizzazione forzata. Alla divisione delle famiglie, una volta riunite dal lavoro nei campi e presto disperse ognuna dietro al singolo nucleo. Questo romanzo non aiuterà forse a raggiungere un convincimento sull’omicidio di Ruggero Pascoli. Ma è uno strumento di grandissima utilità per capire la storia italiana e apprezzare le poesie del figlio.

·         Il pessimismo di Leopardi? Ottimo ritratto della modernità.

Il pessimismo di Leopardi? Ottimo ritratto della modernità. La demolizione delle idee fondanti di progresso, libertà e amore anticipa Nietzsche. E la sua pesante eredità. Giancristiano Desiderio, Sabato 04/05/2019, su Il Giornale.  Il «no» di Leopardi alla tragicità della vita, che offende i nostri desideri e delude le nostre speranze, è un «no» così disperato ma così disperato da essere quasi un «sì». Per il poeta del Canto notturno di un pastore errante dell'Asia - «È funesto a chi nasce il dì natale» - la vita può essere degna di essere vissuta se essa stessa, la vita, è più forte della ragione e le virtù, il bene, il bello, persino il progresso, sono delle illusioni forti e necessarie che consentono agli uomini di essere come se vivessero nel bene e nel meglio, altrimenti l'arida verità dissolve tutto e mostra che «tutto è nulla» e «tutto è male». Aveva ragione Francesco De Sanctis, nel suo celebre saggio su Schopenhauer e Leopardi, quando notava che il pessimismo leopardiano produce l'effetto contrario a quello che si propone: «Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto». Sarà per questo motivo che Giacomo Leopardi è sì un classico, ma anche un nostro contemporaneo, quasi uno di noi perché «anche a noi i conti non tornano» e ci sentiamo a volte tristi e disperati e ci sorprendiamo a pensare, contro noi stessi, che tutto ciò che abbiamo di bello e di buono è illusione e nonostante il dubbio o il tarlo che ci buca l'anima andiamo avanti, non foss'altro perché indietro, ai giorni della felice fanciullezza, non ci è dato ritornare. Giacomino, dunque, come uno di noi. Il senso del libro di Mario Elisei, Il no disperato (Liberilibri, pagg. 144, euro 13), è qui: Leopardi come grandissimo poeta e va bene, come filosofo e va bene con riserva, ma anche Leopardi come «pensatore della crisi» che attraverso la dolorosa esperienza personale ci dà la cifra di una condizione umana universale nella quale noi stessi, dopo la fine dei grandi racconti metafisici, ci dibattiamo facendo a pugni con «l'ospite inquietante» del niente, come lo chiamò Nietzsche. La genesi del pessimismo di Leopardi è da vedersi sia nella strage delle illusioni che è nella vita individuale di ognuno di noi; sia nella sua condizione di salute in cui la malattia diventa - ancora una volta come in Nietzsche - quasi un organo di conoscenza, persino al di là delle intenzioni di Leopardi; sia, e soprattutto, nello studio «matto e disperatissimo» con cui il poeta dei Canti volle creare un sistema filosofico con le Operette morali. Il libro di Elisei, studioso del pensiero di Leopardi, si sofferma su quest'ultimo aspetto e, considerando lo Zibaldone e l'epistolario, mostra il «nascimento» della filosofia di Leopardi. Non è la prima volta che ci si sofferma sul Leopardi filosofo. Qualche tempo fa lo fece anche Emanuele Severino con il libro Il nulla e la poesia, in cui si evidenziava che Leopardi, come Eschilo, è un maestro di nichilismo che vede nella poesia «l'ultimo rifugio». Ora Elisei ripete l'operazione sia con la novità testuale, sia con l'attenzione al Leopardi interlocutore di Locke, d'Holbach, Condillac. Non è il caso qui, né altrove in verità, di portare a spasso il lettore. Piuttosto, vale fermarsi sul punto centrale che è quanto Leopardi scrive nei suoi diari in data 17-18 luglio 1821: «Nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio anteriore all'esperienza». Ma se non c'è un «principio di ragione» che sia anteriore all'esperienza o che sia l'esperienza medesima, allora si distruggono quelle che Cartesio chiamò le idee innate o verità eterne e si distrugge, come dice Leopardi, Dio stesso che «è il nulla» e, insomma, tutto cade e viene meno e in luogo dell'essere si insedia il non-essere. Qui Leopardi chiude il passo con parole che ancora una volta anticipano quanto Nietzsche dirà nel Crepuscolo degli idoli, ossia che «il mondo vero divenne favola»: «Certo è che distrutte le forme Platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio». Non solo. Perché separando vita e pensiero Leopardi, alla maniera di Gorgia, distrugge la stessa possibilità della filosofia e trasforma l'essere in fatalità e l'uomo, privo di governo, è una foglia in balìa dei venti e dei suoi desideri irrealizzabili. A ben vedere, risiede qui la genesi del pessimismo: nell'edonismo che si capovolge in tragedia, nella promessa felice che diventa infelice e risentita verso la vita. Anche questo, in fondo, il nostro tempo ha in comune con Leopardi mentre, per una volta, è distante da Nietzsche, il quale davanti al dramma del fato lo amò non dicendo «no» ma «sì» alla vita.

Leopardi contro lo ius soli, scrive il 18 Settembre 2017 Diego Fusaro, Filosofo, su Il Fatto Quotidiano. Così leggiamo nello Zibaldone di Leopardi: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu più patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto”. Il poeta marchigiano anticipa le logiche dello ius soli come principio della distruzione della cittadinanza. Vi sono, in effetti, due vie possibili per dissolvere i fondamenti della vita etica, dalla  cellula originaria della famiglia al compimento assoluto della cittadinanza nell’orizzonte dello Stato nazionale. Si può, per un verso, procedere per riduzione, negandoli in quanto tali e dichiarandoli superati. Per un altro verso, è possibile operare per estensione indifferenziante, facendo sì che famiglia e cittadinanza siano tutto astrattamente senza esclusioni e, dunque, nulla lo sia più in concreto: se tutto, senza distinzioni, è famiglia, nulla lo è più concretamente. Se tutto è, indistintamente cittadinanza, nulla lo è più concretamente: quanti più diritti si estendono ai non-cittadini, tanto più la categoria di cittadinanza smarrisce il suo valore e si dissolve. Secondo il detto spagnuolo, todos caballeros: se tutti sono cavalieri è evidente che, di fatto, nessuno è più cavaliere. Prevale, con il sintagma hegeliano, la figura dell’eguaglianza dell’irrilevanza, mediante la quale si è tutti eguali nel senso di egualmente irrilevanti. Per questa via, la distanza tra l’élite dominante post-borghese e la nuova plebe precarizzata si fa ogni giorno più netta e più simile a quella che separa l’allevatore dal bestiame o, più precisamente, dal gregge omologato e indifferenziato. In luogo del cittadino avente diritti e doveri nel quadro dello Stato nazionale, viene definendosi il nuovo profilo dell’atomo errante e consumista, che si muove senza radici negli spazi aperti del mercato globale: nell’apoteosi dell’uguaglianza dell’irrilevanza, si disgrega in forma individualistica il popolo stesso come demos, ossia come gruppo singolare collettivo di individualità comunitarie che decidono collettivamente della propria esistenza sociale e politica. Le masse individualizzate e post-nazionali figurano, infatti, come sempre più passive, remissive e politicamente inattive, prone ai voleri dei nuovi autocrati della mondializzazione. Riducendo il mondo intero all’open space del sistema dei bisogni retto dall’insocievole socievolezza mercatistica, il capitale neutralizza la base dell’eticità (la famiglia) e il suo compimento (lo Stato): dissolve tanto la figura del figlio con padre e madre quanto quello del cittadino figlio della “famiglia universale” della società civile.

Immigrazione: Gad Lerner vs Leopardi, scrive il 12 Maggio 2015 Helmut Leftbuster su qelsi.it. Secondo Pirandello non era indispensabile trovare l’assoluto fra due punti di vista; e gli si potrebbe anche dar ragione, a patto però di riconoscere ad entrambi i punti di vista la medesima dignità di partenza. Invece, sul tema “immigrazione”, pietra dello scandalo dei nostri tempi, si santificano i “pro” e si criminalizzano i “contro” ancor prima d’averci ragionato sopra, e, nel mentre, anziché optare per strategie neutre e prudenti, si spalancano le porte della Casa comune, i confini nazionali, a miriadi di pasciuti sconosciuti meritevoli solo di non aver nemmeno bussato. Osservandoli bene, però, gli attuali profeti dell’immigrazionismo non vedono tra le proprie file alcuna trasversalità democratica: sono un manipolo di “pensatori”, attori, giornalisti e politici di quella sinistra-chic che, anche volendo, mai potrebbe rinunciare al dogma del “privilegiare il diverso”, dopo averne fatto un mantra elettorale destinato a portarle sempre più voti e consensi soprattutto man mano che gli immigrati acquisteranno la cittadinanza. Secondo costoro “l’immigrazione deve farsi progetto perché senza di essa non c’è né ripresa né risorgimento”. Ma che frase è? Che cosa significa? In quali precedenti storici, sociologici, logici trova conforto una simile astrusità? E quanta capricciosa arroganza c’è in questi pensatori nel momento in cui, dopo aver espresso la propria opinione, non accettano le conclusioni tratte in proposito dal Pubblico amministratore che agisce in contrasto con le loro idee, decidendo così di ricattarlo col broncio come farebbe un bambino a cui si negasse il lecca-lecca. Ebbene, vediamo ora chi c’è dall’altra parte del ring dialettico: anzitutto tanta gente stufa delle manifeste controindicazioni del “cosmopolitismo”, ma che, ammutolita dal terrore di essere definita “razzista”, resta silente, pur non per questo divenendo inesistente. Certo, andrebbe aiutata ad essere consapevole del proprio diritto costituzionale a dissentire, ed a questo stanno provvedendo i pochi veri anticonformisti rimasti a sfidare la censura politicamente corretta (citiamo Povia e Ruggeri, ma non sono i soli) che tentano in tutti i modi di svelare il “Re Nudo” che si cela dietro il carrozzone buonista. Ma soprattutto ci sono grandi voci dal Passato: un certo Giacomo Leopardi scriveva: “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe piú cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo: l’amor patrio di Roma divenuto cosmopolita, divenne indifferente, inattivo e nullo: e quando Roma fu lo stesso che il mondo, non fu piú patria di nessuno, e i cittadini romani, avendo per patria il mondo, non ebbero nessuna patria, e lo mostrarono col fatto ” (Leopardi, “Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura”, Firenze, Successori Le Monnier, 1898, pp. 457-8.) Con chi stare, dunque, con Gad Lerner e Manconi, o con Leopardi? Anzitutto bisognerebbe saper stare con la propria testa; e poi bisognerebbe ricordarsi che il Passato è come un genitore, un adulto che ha già vissuto ciò che il giovane vive per la prima volta, iniziando dai traumi, dagli abbagli e dalle delusioni. L’Adulto non deve impedire al Giovane di compiere le proprie cadute con le proprie gambe; ma nemmeno il Giovane può essere così stolto da disattendere gli insegnamenti derivanti dalla migliore scrematura delle esperienze storiche che l’Adulto può e deve tramandargli. Quindi, chi oggi pensa di trovare soluzioni epocali tirandole fuori dal cilindro di dottrine che hanno ancora il mocciolo al naso, non rischia di farsi male solo a proprie spese, ma mette in gioco il destino di tutti: e questo è inammissibile.

·         In questa epoca sfinita non c'è spazio per l'eroico Foscolo.

In questa epoca sfinita non c'è spazio per l'eroico Foscolo. Leopardi, in versione patetico-sentimentale, è l'unico poeta gradito alla società nichilista. Giuseppe Conte, Martedì 10/09/2019, su Il Giornale. Dove sono finiti i foscoliani? L'Italia contemporanea è tutta obbligatoriamente e compattamente leopardiana. L'autore dei Canti sta vivendo un momento di gloria mediatica che forse non gli sarebbe neppure troppo piaciuta. Al di là dei benemeriti confini della critica, che ha sempre studiato la sua opera, hanno scritto di lui giovani autori di estrazione cattolica sia pur così diversi tra loro, voglio dire Alessandro D'Avenia, Davide Rondoni, Alessandro Zaccuri, che ne ha fatto il protagonista di un romanzo ambizioso e felice, Il signor figlio. Gli ha dedicato un film un regista laico e di sinistra ufficiale come Mario Martone. In occasione del bicentenario dell'Infinito, il Corriere della Sera ha aperto le sue pagine a traduzioni in dialetto del testo leopardiano che si sono succedute a grappolo e senza sosta, a dimostrazione di come sia popolare e radicato nell'immaginario collettivo.

Benissimo. Leopardi è un poeta gigantesco, e io per primo ne ho consapevolezza. È anche un pensatore profondo, e si mostra un po' generosamente innocente Roberto Mussapi quando tenta di negarlo. Il problema è: perché solo lui? Perché ha oscurato persino il Manzoni, su cui si appuntano interessi ormai tiepidi? E perché è stato bandito Ugo Foscolo, l'autore dell' Jacopo Ortis, dei Sepolcri, di una serie di sonetti tra cui Alla sera e A Zacinto non hanno niente da invidiare all'Infinito di Leopardi né per qualità di stile né per serietà di pensiero? L'ostilità verso Foscolo è enfatizzata dall'operina insultante e stronza, ma esilarantissima, che Gadda gli dedicò, Il Guerriero, l'Amazzone, lo Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo. Ma riguarda più il personaggio che il poeta.

Foscolo fu uomo di passioni estreme, che davano fastidio ieri a letterati sedentari e linguaioli, e danno fastidio oggi, in un clima politico e sociale dominato dalla incoerenza, dalla falsa eguaglianza, dal tendere verso il basso, dai pregiudizi dei buonisti e di certo neofemminismo. Fu uomo di lettere, anche se mai pedante, e nell'ultimo periodo inglese della sua vita, inseguito dai creditori, sfuggito al carcere sotto il falso nome di Mister Flass, divenne un critico supremo, con cui è in debito il De Sanctis. Ma non solo questo. Foscolo fu anche uno spirito inquieto e ribelle, che credette in Napoleone, poi lo avversò, poi capì che era l'unica forza dirompente e nuova nell'Europa di allora. Divenne così un uomo d'armi, capitano proprio nell'esercito napoleonico. E fu un teorizzatore senza paura della libertà dei popoli tanto che a lui si richiamò Giuseppe Mazzini quando fondò la Giovane Italia. Per salvaguardare la sua personale libertà, al ritorno degli Austriaci diede all'Italia una nuova istituzione, l'esilio. Era avventuroso, vitalista, polemico, diretto nelle sue scelte. «Amor, dadi, destrier, viaggi e Marte», in questo endecasillabo sintetizzò la propria esistenza. Uno insomma a cui piaceva far l'amore, giocare d'azzardo, cavalcare, viaggiare e combattere. Un gran seduttore (oggi prevale l'odiosa parola «predatore») che adorava il femminile, e non poneva limiti al suo raggio di seduzioni, tanto da vivere temendo costantemente «gli occhi dei mariti». Rispetto a Leopardi, ragazzo catafratto nella sua tristezza e nel suo senso della vanità assoluta delle cose, un vero contraltare. Foscolo, che aveva conosciuto la filosofia di Giambattista Vico attraverso Vincenzo Cuoco, storico della Rivoluzione napoletana, credeva nella forza delle metafore, dei simboli, del mito. Chiamò «illusioni» quelle energie psichiche che consentono di sognare a occhi aperti, di dare un senso al nulla, di costruire utopie: la sua alla fine fu quella della bellezza salvifica rispetto agli orrori delle guerre che avevano insanguinato l'Europa dei suoi tempi. Tra i pochi foscoliani che ho conosciuto, ricordo l'editor della Mondadori e studioso del Futurismo Luciano De Maria, spirito fiero, cavallerizzo, comunista, forse donnaiolo.

Il correttore automatico del computer continua a segnarmi come errato il termine «foscoliano», mentre con «leopardiano» non fa una grinza: forse è il segno che nella molliccia, ipocrita e nichilista società italiana di oggi i pochi foscoliani sono condannati d'ufficio all'inesistenza? Speriamo di no, perché se scomparissero quelli che amano far l'amore, viaggiare, coltivare mito e bellezza, esser liberi come ci si sente in groppa a un cavallo, sognare e dare un senso all'esistenza e al futuro, combattere per le proprie idee senza svilirle nel conformismo e nella doppiezza, il mondo sarebbe ancora peggio di quello che è.

·         Il Nobel partigiano.

Giuseppe Ungaretti voleva il Nobel ad ogni costo. L’amarezza quando fu assegnato a Hemingway. Il Secolo d'Italia domenica 15 dicembre 2019. Giuseppe Ungaretti era convinto di meritare il Premio Nobel per la Letteratura. Dopo aver ricevuto i tributi ricevuti a Parigi per la traduzione in francese delle raccolte poetiche “L’allegria”, “Sentimento del tempo”, “Il dolore”, “La terra promessa” e “Un grido e paesaggi”. Era il 1954. Per raggiungere l’obiettivo il poeta si dette un gran da fare. Il poeta contattò in via riservata uomini di cultura italiani e stranieri. E anche accademici, editori. E ancora anche politici, come l’allora ministro degli Esteri, Attilio Piccioni. Il tutto per cercare di ottenere una candidatura ufficiale da parte del governo italiano. Ungaretti fu così più volte candidato ma non ricevette mai il Nobel. Nonostante le forti pressioni esercitate sull’Accademia Reale Svedese. Premio conquistato invece da altri due poeti italiani, Salvatore Quasimodo (1959) e poi da Eugenio Montale (1975). La vicenda è ricostruita, sulla base dei carteggi, dal ricercatore Claudio Auria nel libro La vita nascosta di Giuseppe Ungaretti. Appena pubblicato dall’editore Le Monnier (pagine 464, 29 euro). Auria consegna per la prima volta un profilo ‘integrale’ di Giuseppe Ungaretti, con molti aspetti inediti. Il tutto grazie alle informazioni già disponibili, alle testimonianze di coloro che gli furono vicini e alle fonti presenti in archivio.

Riccardo De Palo per “il Messaggero” il 22 ottobre 2019. «Sono uno scrittore, non un robot conformista: ho le mie opinioni, e per questo spesso ho pagato un prezzo». Bret Easton Ellis arriva all'appuntamento, in un albergo a due passi da Trinità dei Monti; la statura imponente, la polo nera e la tuta da ginnastica, l'espressione indecifrabile, come uno dei suoi personaggi. «Un tempo dicevi quello che pensavi e tutto andava bene. Oggi non è più così: siamo piombati nella cultura del cancel, della messa la bando di chi la pensa in maniera diversa. La libertà d'espressione è a rischio». Ellis non tornava in Italia da dieci anni: Einaudi ha appena pubblicato Bianco, il suo appassionato memoir che ha diviso l'America. E domani (ore 15, Teatro Studio Gianni Borgna) sarà uno degli ospiti d'onore della Festa di Roma, per gli Incontri Ravvicinati all'Auditorium.

Molti dei suoi romanzi, da Meno di zero a American Psycho, sono diventati dei film. Ma tutta la sua opera è fortemente influenza dal cinema, non trova?

«American Gigolò di Paul Schrader ha sicuramente contribuito a creare la mia sensibilità, la mia estetica. Non che fosse un film memorabile, ma c'era un certo distacco, un certo minimalismo, che mi hanno influenzato molto, quando ero giovane. Ho raggiunto la maggiore età negli anni Settanta, e mi ha colpito molto il cinema di quegli anni: Nashville di Robert Altman, proprio perché non c'era una trama dominante (o non c'era affatto), ma con un cast corale, di grande spessore. Sia Meno di zero che Le regole dell'attrazione devono molto a quel film. Ma di certo all'Auditorium parlerò anche di Shampoo (di Hal Ashby, 1975, ndr), che ha avuto importanza anche per The Canyons, il film di Paul Schrader di cui scrissi la sceneggiatura. E poi, certo, Carrie - Lo sguardo di Satana, di Brian De Palma; e Manhattan, di Woody Allen».

Tornerà a scrivere romanzi?

«Negli ultimi dieci anni ho lavorato più che in qualsiasi altro periodo della mia vita: una trentina di sceneggiature, per lo più per la televisione. Ora finalmente farò il mio film horror, scritto e diretto da me, il progetto è in fase avanzata di pre-produzione. Sa, è un mondo diverso, bisogna aspettare molto per reperire i finanziamenti. Ma c'è anche un romanzo che mi sussurra all'orecchio, che mi parla all'improvviso, magari mentre sto guidando in autostrada. Prima mi chiedevo: è giusto scriverne? La gente li legge? Oggi sono quasi certo che lo farò. Ma prima, c'è il progetto di un audiolibro: un testo pensato per essere ascoltato e non per essere letto. Bianco ha riattivato in me il gusto e la voglia di scrivere».

Il suo libro ha scatenato molte polemiche.

«Il mio editore sapeva di questo rischio, ma per fortuna non ha avuto ripensamenti come è successo ad American Psycho. Adesso esiste un elenco di regole non scritte, di political correctness, applicate in modo spietato. Mi revocano l'invito a una festa? Perdo qualche lavoro? Non importa. Faccio lo scrittore, questa è la mia voce».

La sua posizione sui millennial, la Generation Wuss (Generazione degli inetti), ha fatto molto rumore. La dipendenza dai like genera mostri?

«Ogni generazione si mette in contrasto con quella precedente. La mia, la Generation X, ha messo in campo un certo distacco ironico, una freddezza che a volte sfiorava il nichilismo. Adesso i millennial (e io li conosco bene perché ho vissuto con uno di loro) reagiscono alla nostra ironia. Hanno questa ossessione di piacere - magari dovuto alla precarietà - di ricevere like. Ai miei tempi nessuno si è suicidato per la vergogna, dopo avere letto qualcosa sul proprio conto».

Cosa pensa di Peter Handke, il vincitore del Nobel attaccato per le sue posizioni filo-serbe?

«Il comitato del Nobel ha fatto bene a premiarlo per il suo lavoro artistico, di portata notevole, senza pensare nemmeno per un istante alle sue posizioni politiche, al fatto di avere presenziato al funerale di Milosevic. Sono contento che il premio sia andato a lui e non a una come, per dire, Greta Thunberg».

Tutti contro il Nobel a Peter Handke. Le madri Srebrenica, gli scrittori, gli editorialisti insorgono per le posizioni filoserbe del vincitore. E c'è persino chi chiede di ritirare il premio. Gabriele Di Donfrancesco l'11 ottobre 2019 su La Repubblica. Le madri di Srebrenica, riunite nel ricordare le vittime del genocidio serbo nella cittadina bosniaca, non ci stanno. Quel Nobel per la Letteratura a Peter Handke, lo scrittore austriaco che negli anni della guerra aveva difeso con toni apologetici le azioni del regime di Miloševic, arrivando a partecipare al funerale dell'ex leader serbo nel 2006, è davvero troppo. Uno schiaffo morale alle vittime, nell'anno del Nobel che doveva cambiare tutto e segnare la rinascita del comitato dell'Accademia svedese. Proprio dopo gli scandali sessuali che avevano fatto saltare per aria la scorsa edizione. E adesso, dichiara Munira Subasic, presidente dell'associazione Madri di Srebrenica: ritirate quel premio. Una posizione convidisa da una buona fetta della comunità degli scrittori, da Salman Rushdie a Jennifer Egan. Perché Peter Handke non è solo l'autore della sceneggiatura de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, o delle posate riflessioni di Pomeriggio di uno scrittore (Guanda). E' anche l'opinionista che aveva parlato ironicamente della Serbia come del Paese che "tutti definiscono l'aggressore", fino a scrivere un libro, Un viaggio d'inverno ovvero giustizia per la Serbia (Einaudi, 1996), che già nel titolo dice tutto. Il premio Nobel per la Letteratura 2019 non ha mai ritrattato le sue posizioni filoserbe. Ha solo precisato, nell'intervista rilasciata ad Anais Ginori di Repubblica nel giorno della vittoria del premio: "Io parlo solo da scrittore. Le mie non sono posizioni politiche, non sono un giornalista". Comprensibili, perciò, le reazioni di chi la violenza del regimo serbo l'ha vissuta da vicino. Come l'ambasciatrice del Kosovo negli Stati Uniti, Vlora Çitaku, che ha scritto, sempre su Twitter: "Sono scioccata, è uno schiaffo a tutte le vittime del regime di Miloševic". O ancora, come il presidente kosovaro Hashim Thaci e il primo ministro albanese Edi Rama, che fanno sapere di essere entrambi a un tempo addolorati e disgustati dalla notizia, o infine come il sopravvissuto al massacro di Srebrenica Emir Suljagic, che risponde così ad un post dell'Accademia del Nobel: No, we were busy looking for our families and friends buried in mass graves he denied existed. Anche la comunità internazionale degli scrittori reagisce. "Siamo davvero sconvolti per la scelta di uno scrittore che ha usato in passato la sua posizione per minare la verità storica e offrire aiuto ai perpetratori del genocidio", ha detto la scrittrice Jennifer Egan, in qualità di presidente della Pen America, l'associazione no profit americana per la difesa della libertà di espressione. E ancora: "Rifiutiamo l'idea che un autore che ha ripetutamente messo in dubbio la realtà di crimini di guerra ben documentati meriti di poter essere celebrato per il suo "ingegno letterario". Giudizi analoghi a quelle di Salman Rushdie, che già nel 1999, in un articolo uscito sul The Guardian e su Repubblica, aveva assegnato allo scrittore austriaco il titolo di "Scemo internazionale dell'anno", accusandolo di "fiancheggiare l'orrore". "Non ho nulla da aggiungere a quello che ho scritto in passato", ha detto Rushdie sempre al Guardian dopo aver saputo del Nobel a Handke, ricondividendo sul suo profilo Twitter l'annuncio di Pen American e accogliendo così la notizia del secondo premio assegnato dall'Accademia svedese  (per l'anno precedente, il 2018) alla scrittrice polacca Olga Tokarczuk: "Festeggiamo la nostra vera vincitrice del Nobel". Un punto di vista condiviso da molti commentatori. In un durissimo editoriale indirizzato, il Times sostiene che con questa scelta l'accademia svedese "si macchia di un disonore che non potrà mai più cancellare". Il filosofo sloveno Slavoj Žižek, sul Guardian, va oltre: "Questa è la Svezia di oggi: un apologista dei crimini di guerra prende il Nobel, mentre invece tutto il Paese ha partecipato all'assassinio di un vero eroe dei nostri tempi, Julian Assange". E intanto è stata lanciata una petizione su Change.org per revocare il premio a Peter Handke, proprio come le Madri di Srebrenica. Nella spiegazione, si legge: "Una persona che difende un mostro come Miloševic come non merita di ricevere nemmeno il più semplice riconoscimento letterario. Figuriamoci un Nobel".

Pierluigi Battista per il “Corriere della sera” il 14 ottobre 2019. Chi l'ha detto che c'è contraddizione tra essere grandi scrittori e insieme adulatori di ogni dittatura, seguaci di ogni tirannia, innamorati di ogni despota, di ogni colore? Peter Handke ha assecondato la pulizia etnica di Milosevic ma è un eccellente scrittore meritevole del Nobel per la letteratura. Ezra Pound era fascista ed era un eccellente poeta. Bertolt Brecht si schierò con gli aguzzini comunisti che soffocarono nel sangue la rivolta operaia di Berlino Est ed era un eccellente drammaturgo. Louis-Ferdinand Céline era un mostro antisemita ed era un eccellente scrittore che rivoluzionò l' arte del romanzo. Giovanni Gentile era un pilastro del regime fascista ed era un eccellente filosofo. Gabriel Garcia Marquez fece da scendiletto del dittatore cubano Fidel Castro ed era un eccellente scrittore. Martin Heidegger vide in Hitler il compimento di millenni di metafisica ed è stato un gigante della filosofia. Louis Aragon vergò versi apologetici della Gpu («viva la Gpu/figura dialettica dell' eroismo») che perseguitava i sovietici ed era un eccellente poeta. Filippo Tomaso Marinetti volle farsi seppellire con la camicia nera ed era un poeta eccellente. Pablo Neruda scrisse un elogio sentito del boia giudiziario Vysinskij che stava massacrando i poeti come Mandel' stam, decretandone la tortura e la morte, ed era anche lui un eccellente poeta. Carl Schmitt era un seguace del nazismo ed era un eccellente giurista. Concetto Marchesi attaccò Kruscev che aveva osato svelare i crimini di Stalin ed era un eccellente latinista. Delio Cantimori passò con disinvoltura dall' adorazione del fascismo all' adorazione del comunismo ed era un eccellente storico. George Bernard Shaw fu così entusiasta dei regimi totalitari da adulare contemporaneamente Mussolini e Stalin ed era un eccellente drammaturgo. Christa Wolf ha intrattenuto quanto meno ambigui rapporti con la Stasi che in Germania Est spiava «le vite degli altri» ed era un' eccellente scrittrice. Jorge Luis Borges fece visita in Argentina al macellaio Videla ed era un grande scrittore. Dunque è giusto che Peter Handke si tenga stretto il meritato premio Nobel per la letteratura e contemporaneamente che i parenti delle vittime di Srebrenica lo maledicano per il resto dei suoi giorni. Eccellente scrittore, pessimo cittadino del mondo.

Raffaella De Santis per “la Repubblica” l'11 ottobre 2019. Nessun applauso, nessun brusio, solo un grande silenzio. Quando Mats Malm, il segretario permanente dell' Accademia ha annunciato i due vincitori, la polacca Olga Tokarczuk e l'austriaco Peter Handke, la platea, composta quest' anno prevalentemente da giornalisti, non ha reagito, sembrava imbalsamata. Le attese forse erano troppe. Dopo lo scandalo sessuale che ha mandato in frantumi la Svenska Akademien, si sperava in un premio più trasgressivo e invece davanti, compassata e inaccessibile, c' era l' Accademia di sempre. Una rivoluzione mancata, nonostante l' eccezionalità di un' edizione che sommava due riconoscimenti, recuperando anche quello cancellato nel 2018. In altri anni c'erano stati fischi e applausi. Quando fu pronunciato il nome di Bob Dylan la risposta fu chiassosa, tra entusiasti e arrabbiati. «Una situazione come quella di oggi non si era mai vista. Prima entravano le scolaresche, dove ora è seduta solo la stampa c' erano anche persone comuni », dice Björn Wiman, giornalista del Dagens Nyheter, il primo quotidiano svedese a raccontare lo scandalo sessuale che ha travolto il Nobel. Ieri il rituale è stato quello di sempre, ma ogni gesto pareva immerso in una vasca di acqua. Una sinfonia di Beethoven in filodiffusione non addolciva la tensione. Malgrado la musica, la fastosa stanza dell' Accademia, addobbata di candelabri e stucchi dorati, ricordava una sala d' aspetto. Quando i membri del Comitato Nobel, cioè coloro che hanno scelto candidati e vincitori, si sono schierati spalle al muro, è stato chiaro che il gelo non si sarebbe sciolto. Nel Comitato quest'anno sono entrati cinque esperti esterni, età media 47 anni, un bel salto generazionale rispetto ai 75 dei vecchi accademici. Sulla pedana, a fianco a un lupo consumato come lo scrittore Per Wästberg, c' erano tre rappresentanti del nuovo corso: la critica letteraria e giornalista Rebecka Kärde, classe 1991, Mikaela Blomqvist, nata nel 1987, anche lei studiosa di letteratura, e Henrik Petersen, 46 anni, il più anziano dei tre. Sono perlopiù rimasti zitti, limitandosi a dire che mai avevano letto così tanto e che la decisione ha trovato tutti d' accordo. Ma, al di là della indiscutibile qualità letteraria dei premiati, la loro zampata sulle nomine non si è vista. La verità è che ci si aspettava un nome extraeuropeo. Si pensava che la vecchia Europa avrebbe incoronato altre culture. Così aveva lasciato trapelare Anders Olsson, presidente del Comitato, in una dichiarazione della vigilia. Oggi Olsson corregge il tiro: «Nella shortlist c'erano in effetti diversi scrittori non europei. Vedremo il prossimo anno. Il solo criterio che abbiamo seguito è letterario». Probabilmente la scelta dei vincitori è stata combattuta fino alle ultime ore. Chissà se la caraibica Maryse Condé, data dai bookmaker come favorita, non sia stata trombata sulla linea del traguardo. Il significato politico del premio a Olga Tokarczuk è chiaro: con lei si sceglie un' altra Europa, quella multietnica, dei migranti, antitetica ai nazionalismi che stanno prendendo piede in Polonia. Detta con il linguaggio degli accademici: «Con passione enciclopedica rappresenta il superamento dei confini come forma di vita». Ma è su Peter Handke che si è scatenata la bagarre. La motivazione del premio non tocca direttamente questioni politiche: «Con la sua ingegnosità linguistica ha esplorato la periferia e la specificità dell' esperienza umana». Il problema è la controversa posizione filoserba tenuta da Handke in passato. «L'Accademia ha fatto una figuraccia imperdonabile», si è affrettata a dichiarare la critica letteraria Ingrid Elam. Per Victor Malm dell' Expressen, nominare Handke «è come dare un premio a Ezra Pound dopo la seconda guerra mondiale ». Sarcastica Eva Beckman giornalista della tv svedese: «Credevo che Handke fosse da tempo fuori gioco». David Lagercrantz parla addirittura di una «scelta vigliacca». Salman Rushdie ha twittato contro la decisione e le "idiozie" di Handke. E così anche il Pen America, l' organizzazione che difende la libertà di espressione attraverso la letteratura negli Stati Uniti. Poche le voci fuori dal coro. Una è quella della scrittrice Ingrid Carlberg: «L' Accademia è di nuovo in pista. Mostra di non aver perso il proprio coraggio, di non seguire vie facili. Persiste nel premiare la letteratura eccellente. È la prova della loro forza e indipendenza». Sulla stessa linea Karl Ove Knausgård: «Sono contento del premio a Handke, non credevo lo avrebbe mai avuto. Fantastico». Per capire l' impatto del Nobel basta un dato. A poche ore dall' annuncio i libri di Olga Tokarczuk sono schizzati al primo posto sul sito Adlibris, quelli di Handke vanno più a rilento. La scrittrice polacca è appena entrata a far parte della grande scuderia editoriale Bonnier, dopo essere stata per anni con un piccolo editore. Polemiche a parte, l' Accademia svedese ha giocato uno dei suoi tiri: ha sorpreso tutti rimanendo sé stessa.

Marcello Veneziani per “la Verità” l'11 ottobre 2019. Dopo l' incidente sessista dell' anno scorso, avevate dubbi che avrebbero premiato una donna col Nobel per la letteratura? Magari verde, fan di Greta... Così è stato, con Olga Tokarczuk, polacca, verde, «di sinistra», che scrive «per superare i confini», premiata in tandem con Peter Handke. Si va per gender e non per valore, per messaggio ideologico e non per qualità. L' anno scorso la massima onorificenza letteraria al mondo non fu assegnata per una palpatina sessista compiuta dodici anni prima. Si può bloccare un evento letterario planetario per un episodio di molestie sessuali, sottomettere il genio alla mannaia del Me too? Non l' hanno fatto neanche a Hollywood dove sono più fricchettoni correct, dopo la vicenda Weinstein, ben più devastante perché toccava pure gli Oscar mentre qui non ci sono premiati abusanti o abusati sessualmente. Nella fattispecie è un mistero il nesso tra la grande letteratura e la piccola libidine di un fotografo, marito di una componente della giuria del premio. In passato la mancata assegnazione del Nobel fu per ragioni come una guerra mondiale; da ultimo invece è avvenuto per una toccatina al culo. Direbbe Sigmund Freud che siamo nella fase anale della letteratura...Ma sul Nobel torno su un mio chiodo fisso, ben più grave della censura ai molestatori. Se vediamo l' elenco dei premiati dal 1901 a oggi, scopriamo decine di autori premiati ignorati dai posteri, dimenticati dalla Letteratura, irrilevanti o marginali. Ma quel che è peggio, il premio più prestigioso del mondo ha dimenticato o rimosso quasi tutto il grande Novecento letterario. Vi faccio alcuni nomi. Vi dice niente uno come Marcel Proust o come Franz Kafka, o come James Joyce oppure Oscar Wilde? Il Nobel li ha ignorati. La stessa sorte, la stessa omertà, ha colpito giganti come Eugene Ionesco e Aldous Huxley, Paul Valéry e G.K. Chesterton, George Orwell ed Ezra Pound, Ernst Junger e Louis-Ferdinande Céline. Niente Nobel. Per non dire di Leon Bloy ed Henri de Monterlhant, Fernando Pessoa e Yukio Mishima, Emil Cioran e Gottfried Benn, George Bernanos e Stefan Zweig, Karl Kraus e Hugo von Hofmannsthal, e Lev Tolstoj fino a J.R.R.Tolkien... L' elenco potrebbe continuare tra i vertici della letteratura mondiale negati a Stoccolma. Non è stata risparmiata nemmeno la letteratura italiana, dove il Nobel ha dimenticato i due poeti italiani più amati e imitati al mondo, Gabriele D' Annunzio e F.T.Marinetti. Prima di loro il Nobel ha trascurato Giovanni Pascoli e poi Giuseppe Ungaretti; andando random, non c' è traccia di Curzio Malaparte e Cesare Pavese, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, Giovannino Guareschi e Dino Buzzati e tanti altri. Sorprendono invece i premiati: da Grazia Deledda a Dario Fo, poi un po' meglio con Salvatore Quasimodo e soprattutto con Eugenio Montale e per fortuna o per errore ci sono pure i nostri Giosuè Carducci e Luigi Pirandello. Ma i quattro quinti della nostra grande letteratura sono stati ignorati dagli svedesi. Curiosi pure i filosofi premiati col Nobel: un trittico, Bertrand Russell, Henri Bergson e Jean-Paul Sartre (che rigettò il premio), ma parlando di letteratura filosofica perché escludere grandi scrittori di filosofia come Benedetto Croce, José Ortega y Gasset, Miguel de Unamuno, George Bataille, Roger Callois, Gabriel Marcel. Insomma il Nobel è una strage di letteratura, un premio ignorante. In molti casi di assegnazione o di non assegnazione, ha contato il politically correct se consideriamo che quasi nessun grande autore scomodo è stato premiato, se non prima del tempo in cui si è reso imperdonabile (penso a Knut Hamsun o a W.B.Yeats e a Aleksandr Solzenicyn, prima che attaccasse il materialismo occidentale) e la stragrande maggioranza dei grandi non premiati e da me citati non erano certo progressisti, liberal, dem e marxisti. In compenso si sono dati premi di genere o etnici (del tipo quest' anno si premia una donna, magari femminista, o si dà un premio terzomondista all' autore di un Paese povero). Insomma la presa per i fondelli del Nobel è cominciata molto prima del palpatore Jean-Claude Arnault. Ma la Svezia è la patria del politically correct, più degli Stati Uniti, come testimoniò uno studioso svedese, Jonathan Friedman nel suo libro Politicamente corretto, la cui moglie, ricercatrice, fu accusata di razzismo solo perché documentò che in Svezia è stata un fallimento la politica multiculturale d'accoglienza dei migranti. Il razzismo presunto è ex aequo alla palpatina del Nobel tra i peccati mortalmente scorretti. I verdetti, emessi da 18 svedesi, decretano da più di un secolo i falsi destini della letteratura e proclamano i presunti «Grandi» salvo poi essere smentiti dai lettori, dal tempo che è galantuomo e dai critici. In realtà il Nobel è importante non per la letteratura ma per l' entità economica e dunque per i diretti interessati, a cui cambia la vita: un sacco di soldi, celebrità, conferenze e traduzioni... Con tutto il rispetto per l' intelligenza svedese, visto che capite poco di capolavori ed eccellenze letterarie, lasciate stare la letteratura, dedicatevi all' Ikea dove siete leader. Applicatevi ai mobili in serie, a basso costo, alle viti, ai bulloni, ai montaggi fai da te. Al posto del Nobel funzionerebbe meglio il Premio Ikea, con versi smontabili e testi ricomponibili direttamente a casa vostra.

Helmut Failoni per il Corriere della Sera il 7 dicembre 2019. Una protesta silenziosa (si fa per dire), fatta di poche righe inviate a un quotidiano, ma che ha scatenato ulteriori polemiche sul caso del Premio Nobel per la Letteratura 2019 a Peter Handke (1942), a pochi giorni dalla consegna del riconoscimento martedì 10 a Stoccolma. Ieri lo scrittore e storico Peter Englund (1957), membro dell' Accademia svedese dal 2002 - dal 2009 al 2015 ne è stato segretario - ed ex inviato di guerra nei Balcani, ha mandato al quotidiano svedese «Dagens Nyheter» questo messaggio: «Non parteciperò alla settimana del Nobel (oggi il discorso di accettazione e il 10 il conferimento del premio, ndr ). Celebrare il Premio ad Handke da parte mia sarebbe pura ipocrisia». La sua defezione va ad aggiungersi a quella di uno dei cinque membri della giuria esterna, che proprio per protestare contro il premio a Handke, se n' è andato sbattendo la porta: si tratta della scrittrice Gun-Britt Sundström (1945) che contesta l' autore, reo di essere stato filo serbo; con Sundström ha lasciato un altro giurato, il poeta Kristoffer Leandoer (1962), ma per motivi personali e non politici. Ma due su cinque, durante il primo anno del nuovo corso del Nobel per la Letteratura, fa pensare che qualcosa non funzioni nelle fondamenta dell' istituzione svedese, come suggerisce Matilda Gustavsson (1987), nel suo libro Il Club. Scandali, poteri e abusi al cuore del Nobel (Solferino), nato dall' inchiesta sugli abusi sessuali di Jean-Claude Arnault, pubblicata sul «Dagens Nyheter». Inchiesta che ha poi bloccato l' assegnazione del Nobel per la Letteratura nel 2018 (per recuperare, con l'aggiunta della giuria di 5 esperti esterni, quest' anno è doppio: a Handke per il 2019 e alla polacca Olga Tokarczuk per il 2018). Un piccolo passo indietro. È il 1996 quando, a ridosso della guerra nella ex Jugoslavia, lo scrittore austriaco pubblica Un viaggio d' inverno, ovvero giustizia per la Serbia (Einaudi) , che documenta il suo viaggio nel novembre 1995 a Belgrado e in Serbia (nel «Paese - scrive - di coloro che sono abitualmente definiti gli aggressori»), fino ai confini con la Bosnia. Nel reportage-pamphlet lo scrittore (figlio di madre slovena) sostiene che la stampa tedesca e francese abbia criminalizzato i serbi. Il testo scatenò tantissime polemiche. Che si sono riaccese successivamente, nel 1999, quando lo scrittore aveva condannato i bombardamenti occidentali per costringere Slobodan Miloevic a ritirarsi dal Kosovo, regione a maggioranza albanese. Nel 2006 è poi andato ai funerali di Miloevic, morto prima che venisse pronunciato il verdetto che lo condannava per crimini di guerra davanti alla giustizia internazionale. «Quello che colpisce - racconta Hugo Lindqvist del "Dagens Nyheter", che con le sue inchieste sul caso Nobel ha contribuito alla realizzazione del libro di Gustavsson - è che i membri dell' Accademia non fanno mai dichiarazioni così forti, come quella di Peter Englund. Si aggiunga il fatto poi che due degli esperti della giuria esterna se ne siano andati. Un membro dell' Accademia mi ha confessato che chiuderebbe la giuria esterna, visti i risultati». E aggiunge che «nei prossimi giorni ci saranno proteste per le vie di Stoccolma, soprattutto martedì 10, giorno della consegna dei premi. Ho partecipato poco fa (ieri, ndr ) alla conferenza stampa di Peter Handke e il clima era molto teso». Le domande erano infatti tutte sulle sue opinioni sulle guerre dell' ex Jugoslavia. Si è infastidito al punto che ha concluso l' incontro dicendo che, dopo l' annuncio del premio, aveva ricevuto una lettera piena di carta igienica sporca. «Preferisco la carta igienica sporca e la lettera anonima rispetto al vuoto e all' ignoranza delle vostre domande». Ne ha respinta anche una su che cosa avrebbe potuto dire ai manifestanti. Polemica anche per la vincitrice del 2018, la polacca Olga Tokarczuk (1962), che con il Premio ha infastidito i conservatori del suo Paese. «Appartengo - ha detto - alla generazione della caduta del Muro. Credevamo che con il crollo finisse anche l' intromissione della politica nella vita privata delle persone. Ci sbagliavamo». Sul caso Handke la scrittrice finora non si è espressa, ma la sua traduttrice Jennifer Croft ha tweettato che trova assurdo che Tokarczuk debba dividere il palco con un «apologeta del genocidio».

Helmut Failoni per corriere.it l'11 dicembre 2019. Quando nella Concert Hall di Stoccolma, intorno alle 17, Anders Olsson (1949) — uno dei membri più autorevoli dell’Accademia di Svezia e presidente del Premio Nobel per la Letteratura — interviene alla cerimonia di premiazione per parlare delle motivazioni al premio 2019 a Peter Handke (1942), lo scrittore austriaco se ne sta seduto su una poltrona di velluto rosso, a fianco della polacca Olga Tokarczuk (1962), vincitrice dello stesso premio per il 2018. Nessuno avverte Handke che il suo papillon bianco è vistosamente storto e mentre Olsson lo elogia parlando della sua prosa innovativa e dei classici che lo hanno «salvato e preservato», lui sfoglia un libriccino. Al piano superiore della sala la Royal Stockholm Philharmonic Orchestra diretta da David Björkman ha appena eseguito la Marcia in re maggiore di Mozart (seguiranno pagine di Gounod, Sibelius, Elgar). Poco prima un rullo di tamburi annunciava l’ingresso della famiglia reale, che si accomoda sulle uniche quattro poltrone che portano i colori di Stato, azzurro e giallo. Sarà Carlo XVI Gustavo, re di Svezia, a consegnare il premio ai designati per ogni settore. Il rito è soltanto una stretta di mano seguita da un inchino reciproco. Handke si gira verso il pubblico e ne fa un secondo. Il suo volto non lascia trasparire alcuna emozione. Potrebbe essere l’uomo più felice del mondo quanto digrignare i denti per la rabbia contro la valanga di critiche ricevute, legate al fatto che abbia difeso i crimini commessi dalla Serbia nella guerra in ex Jugoslavia e negato il massacro della popolazione bosniaca musulmana a Srebrenica. E di rabbia Handke ne aveva quando ad esempio (e siamo solo a metà ottobre) tuonò, esaltandosi, contro il radiogiornale austriaco della Orf: «Lasciatemi in pace con queste domande. Io sono uno scrittore. Io vengo da Tolstoj, io vengo da Omero, io vengo da Cervantes...». O quando il 6 dicembre se l’è presa nuovamente con la stampa dicendo di preferire alle loro domande «vuote e ignoranti» la lettera anonima piena di carta igienica usata, che gli era arrivata a casa per contestare il premio. Fra le più recenti defezioni ricordiamo invece l’abbandono di un membro della nuova giuria esterna (messa in piedi per dare un’immagine più pulita al Nobel per la Letteratura, dopo gli scandali sessuali legati a Jean-Claude Arnault), la scrittrice Gun-Britt Sundström (1945) seguita, il giorno successivo, dall’accademico Peter Englund (1957). Ieri dopo il boicottaggio di Kosovo, Albania, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Turchia, Afghanistan, Macedonia del Nord, la protesta delle madri di Srebrenica, una raccolta di 58 mila firme online e alcune manifestazioni a Stoccolma, è intervenuto il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, a sua volta accusato dalla comunità internazionale di violazione dei diritti umani: «Dare il premio Nobel per la Letteratura a un razzista che nega il genocidio in Bosnia-Erzegovina e difende i criminali di guerra equivale a premiare le violazioni dei diritti umani». In Bosnia-Erzegovina forti proteste e manifestazioni di sdegno contro il Comitato Nobel si erano già registrate in ottobre, quando ci fu l’annuncio dell’assegnazione del riconoscimento a Handke. «È stato premiato il genocidio», ha detto ieri a Sarajevo Zeljko Komsic, membro croato della presidenza tripartita bosniaca. Nel centro di Sarajevo su un grosso display sono stati disegnati teschi con la scritta Shame on you! (Vergognati, ndr) e la caricatura di Handke. Ma è nato contro di lui anche un hashtag dei giornalisti che hanno vissuto la guerra in Bosnia: #BosniaWarJournalists. Il presidente serbo Aleksandar Vucic — facendo idealmente seguito a una raccolta firme pro Handke lanciata tempo fa dal regista Emir Kusturica — si è congratulato con lo scrittore: «In Serbia Lei è considerato un amico autentico e il Suo Nobel lo consideriamo come se fosse stato assegnato a uno di noi».

·         Premio Strega: metodo Palamara-CSM.

"IL METODO PALAMARA-CSM APPLICATO ALLO STREGA". Francesco Merlo per la Repubblica il 26 giugno 2019. Le nomine sono fatte con il metodo Palamara-Csm. Le case editrici "impongono" partecipanti e vincitori, ma attraverso degnissimi prestanome che li "propongono". Ogni autore ha il suo patronus. La giuria del Premio Strega, che fu il salotto della letteratura, ora è un salottino di 400 "amici" tra philosophes e clientes. Nel Csm sono solo 27. La gara è truccata, ma onestamente: la spartizione e la lottizzazione sono rivendicate dai soliti, pochi editori, a garanzia di qualità. Dunque non ci sono scandali né intercettazioni (what a shame!) che - sia detto per inciso visto il gran bisogno di premiare eccelsi ed eccessi - sono la migliore letteratura contemporanea, le nostre memorie del sottosuolo. Così il povero Strega è solo Cerimonia: niente fischi ai capolavori, ma solo applausi ai mediocri. La posta non è alta: 5000 euro dell' industriale di Benevento e la fascetta: "Vincitore...". Non c' è nemmeno la tentazione del rifiuto che in genere raddoppia un premio: «Non riconosco a quel tribunale i titoli per giudicarmi» disse Sartre del Nobel. Ma lo Strega non ruba l' anima. Dolciastro come il liquore che gli dà nome, non è «la potenza che toglie la libertà» denunziata da Ferlinghetti nel giorno del gran rifiuto, a 93 anni, del prestigioso titolo dello Stato californiano di "Poeta della Patria". Quel no onorava la Beat Generation, ma se avesse detto sì, lo Stato della California ci sarebbe rimasto male. Lo Strega impone invece «una lettera di accettazione in cui l' autore si impegna a non ritirarsi». E non è neppure nazionalpopolare come Sanremo e non solo perché nella sua storia non c' è il suicidio, che è il più nobile dei rifiuti, ma anche perché il libro non appassiona e ossessiona gli italiani come la canzone: Dalla e Battiato sono i nostri classici, ben più di Calvino e Sciascia. Quel che manca a Sanremo per essere riconosciuto come il nuovo Salotto della Letteratura è la certezza del trucco, che è il verme vitale dell' Italia e, alla fine, la sola cosa artistica e ingegnosa del premio Strega che, certo, non è un evento epocale, ma è appunto la vita che, sia pure in forma corrotta, soffia sul moribondo: La vita e il libro è il titolo che Borgese diede alle sue note letterarie, tra le quali c' era già "La crisi del libro". Era il 1923. Lo Strega nacque nell' estate del '46, quella che «la benzina è rincarata / un litro vale un chilo di insalata». L' Italia era distrutta e il premio, assegnato solo l' anno dopo (a Flaiano), portò il libro italiano nella Topolino amaranto: «si va che un incanto». Oggi gli esperti dicono che lo Strega fa ancora vendere copie, che è poi lo scopo di tutti i premi. Ma quante? Diecimila? Trentamila? Non esiste un preciso strumento di misurazione. Tanto più che in Italia c' è una minoranza (in crescita?) di lettori che si nega alle fascette, ai libri premiati. Personalmente vorrei, ma non ne faccio parte. Infatti non resisto e li leggo (leggiucchio) con la passione di chi crede nell' utilità delle cose inutili.

Radical chic in tilt: Mussolini vince lo Strega. Alessandro Gnocchi, Sabato 06/07/2019, su Il Giornale. Benito Mussolini ha spezzato le reni al Premio Strega. Giovedì notte l'edizione 2019 è stata vinta da M. Il figlio del secolo (Bompiani) di Antonio Scurati, una biografia romanzata di Mussolini, al netto delle possibili critiche (e ce ne sono state di feroci) l'unico libro interessante in cinquina. Verdetto dunque giusto. Verdetto strano. Allargando lo sguardo sui convenuti alla serata di gala, è subito evidente che qui sono tutti democratici, buoni e simpatici, eppure lo Strega a Mussolini suona come l'ammissione di una sudditanza psicologica: gira e rigira si torna lì, al Duce, al fascismo e all'antifascismo. Il fascino (anche maligno) del Mascelluto resta considerevole e superiore a quello di politici di altre epoche. Leggereste la biografia romanzata in 824 pagine, tante ne ha scritte Scurati, di Rumor, Natta, Conte, Di Maio e Salvini? Scurati dedica la vittoria «a chi ha combattuto il fascismo con le armi» e alla figlia Lucia «con l'auspicio che non debba tornare a vivere quello che gli italiani hanno vissuto cent'anni fa». Il romanzo, primo di una trilogia, vuole farci vedere come Mussolini e il fascismo ci abbiano resi quello che siamo. Il fascismo (...) (...) ha prima «sedotto» e poi «oppresso» i nostri nonni e i nostri padri. Non ci sono però tirate ideologiche in M. Il figlio del secolo. La tragedia nasce dai fatti raccontati in modo asciutto. Scurati annuncia che è già in lavorazione una serie tv, «una produzione di livello internazionale». Nessuno vuole mettere in dubbio che Scurati sia un antifascista, «precondizione dell'essere democratico» (una mezza verità: per essere democratici bisogna anche essere anticomunisti). Ma è noto come vanno le cose: un'icona è un'icona, buona o cattiva che sia. La fiction rende tutto affascinante, anche il male. Giro l'osservazione a Scurati stesso che mi incenerisce con i suoi occhi azzurri: «Questa è una domanda che può fare solo chi non ha letto il libro». E se ne va scocciato. Io però il libro l'ho letto, altrimenti non gli avrei fatto la domanda. Comunque la vittoria di Scurati, oltre che meritata, è netta. Il libro ha ottenuto 288 voti. Dietro il Duce si piazzano Benedetta Cibrario con Il rumore del mondo (127 voti), Marco Missiroli con Fedeltà (91 voti), Claudia Durastanti con La straniera (63 voti) e Nadia Terranova con Addio fantasmi (47 voti). Molti in platea notano una stranezza. Il gruppo Mondadori avrebbe avuto, come sempre, i voti per vincere, ma si è presentato in ordine più che sparso. La Cibrario per Mondadori, Missiroli per Einaudi ramo torinese, Terranova per Einaudi ramo capitolino. Ma questo era l'anno di Scurati, dopo due sofferti secondi posti. Il suo romanzo era il più venduto della cinquina, qualcuno dice settantamila copie (tantissime), che ora cresceranno come effetto della vittoria. Un grande principio è: «Conoscere per deliberare». In effetti al premio Strega si delibera in base alle conoscenze, amici e amici degli amici. Inutile ricordare che Einaudi (Luigi, non la casa editrice che qui vince spesso) intendeva tutt'altra cosa. Le trattative per convincere i 400 giurati a votare il proprio candidato sono all'incirca come quelle del Csm emerse dalle conversazioni intercettate del giudice Palamara. Telefonate, consigli, insistenza, stalkeraggio. Vale tutto. Quando qualcosa va storto e c'è un vincitore a sorpresa, volano gli stracci: in passato è successo proprio a Scurati, battuto da Tiziano Scarpa, con coda di polemiche pittoresche su chi fosse più servo del potere tra i due. L'atmosfera generale è rinascimentale, senza offesa per il Rinascimento. Si capisce che quasi tutti i presenti si sentono principi e mecenati delle belle arti, anche se di solito pubblicano, promuovono e perfino premiano romanzi inutili, mentre i Montefeltro e i Della Rovere ebbero come «dipendenti» Piero della Francesca, Raffaello, Pietro Bembo, Baldassarre Castiglione. Comunque, scherzi a parte, qui si respira la vera aria della cultura italiana: è proprio questo il problema. Gli ospiti sono divisi in importanti (i mammasantissima dell'editoria, tavolo vicino al palco), meno importanti (tavolo lontano dal palco) e per niente importanti. Questi ultimi deambulano disperati: non vedono niente, parlano solo tra loro e si buttano sui cocktail davvero deliziosi a base di liquore Strega. Bastano due «Beneventum» (liquore Strega, Vermouth extra dry, succo fresco di lime, top soda al pompelmo) per farti rivalutare il fatto che quelli seduti mangiano e tu bevi in piedi a stomaco vuoto. Con quattro si raggiunge una gioiosa serenità. Villa Giulia è davvero spettacolare, mi viene quasi voglia di scrivere «nella splendida cornice» ma non lo faccio, non vorrei essere messo in cassa integrazione su due piedi. Che bello. Sono tutti felici, la cultura è divertente, ai tavoli magnano e bevono e ridono. Non c'è neppure la tensione del risultato, ha già vinto Scurati, evviva. Si mangia in pace. Levi mangia in pace, Franchini mangia in pace, Maraini mangia in pace. Roba leggera, infatti qualcuno si lamenta perché dopo tocca andare anche a cena. La prova più importante che il Premio Strega è davvero l'Evento dell'anno è la presenza di quattro signore anziane (spero non si offendano), vestito a fiori, capello biondo tendente all'azzurrino che all'ingresso cercano di imbucarsi sotto lo sguardo severo di Fausto Bertinotti e signora. L'invito è strettamente personale, ma meriterebbero di entrare perché hanno letto il libro di Missiroli e lo hanno trovato de-li-zio-so. Non sanno che ha già perso ancora prima di iniziare lo spoglio, forse è meglio che siano rimaste fuori. A parte i concorrenti, ci sono i più importanti scrittori italiani come Dario Franceschini, non dimentichiamoci che quando era potente la «critica» lo paragonò a Gabriel García Márquez mentre oggi, che non conta niente, è considerato dalla medesima «critica» un epigono pretenzioso di Federico Moccia. Poi ci sono Edoardo Nesi sempre in movimento, Sandro Veronesi vestito da spiaggia, Nicola Lagioia vestito da direttore del Salone del libro, Christian Raimo vestito anonimo forse perché odia l'identità italiana. Latitanti i politici di area governativa, si nota l'assenza del ministro Bonisoli e della sindaca Raggi. Presente invece l'ex sindaco di Roma e presidente di Anica Francesco Rutelli con una bellissima Barbara Palombelli. Si aggira anche Stefano Petrocchi, il padrone di casa. Al termine della votazione, Scurati si fa un cicchetto di liquore Strega in favore di telecamere, poi risponde alle domande dei giornalisti. Nel frattempo il Ninfeo si svuota. Le luci si abbassano. Per quest'anno è finita. Da domani si inizia a lavorare per l'edizione 2020. Non resta che incamminarsi verso l'hotel in direzione Parioli, schivando la spazzatura e un certo numero di combattivi ratti, che non fanno una piega davanti alla presenza umana.

Il comunista Scurati festeggia con il pugno chiuso. Antonio Socci: ma che roba è il premio Strega? Antonio Socci per “Libero Quotidiano” il 7 luglio 2019. La Sinistra di (sa)lotto e di governo celebra se stessa, anche al Premio Strega. E infatti - annuncia Repubblica - il vincitore Antonio Scurati «esulta col pugno chiuso». Oggi quelli che alzano orgogliosamente il pugno chiuso non li trovi più nelle fabbriche metalmeccaniche (dove magari votano Lega), nelle fonderie o fra i braccianti del Sud. Ma c' è chi alza il pugno chiuso al Ninfeo di Villa Giulia, nel "salotto" del Premio Strega. Fra bella gente borghese e illuminata che di lì a poco, signora mia, si destreggia fra tartine e brindisi. Poi, naturalmente, siccome non siamo più negli anni Settanta e Scurati è un bravo scrittore di ampie vedute, che scrive cose interessanti, ci ha tenuto a precisare che era un gesto sentimental-generazionale, che non richiama il comunismo, ma casomai il mainstream radical-chic. Perciò a Repubblica ha spiegato: «Non era un messaggio politico. Semmai un gesto ereditato dai padri, un gesto che viene dalla mia formazione giovanile. Ho cinquant'anni e anche se sono figlio del riflusso degli anni Ottanta appartengo all' ultima generazione formata sugli ideali dell' antifascismo». A dire la verità il pugno chiuso come simbolo politico precede la nascita del fascismo e poi c' è l' antifascismo che non sta a sinistra e non si riconosce nel pugno chiuso. In ogni caso si comprende che Scurati si sente non solo autore di un libro, ma paladino della civiltà. Tutta la vicenda della sua partecipazione allo "Strega" veleggia sulle ali dell' idealismo, nel segno progressista dello spirito di sacrificio per il bene dell' umanità. Come si addice a chi è di sinistra e dona se stesso per la libertà. Repubblica fin dall'inizio ne ha fatto un'epopea. Ci si poteva immaginare l' Italia civile che trattiene il fiato fino al 1° marzo. La casalinga di Voghera, il minatore del Sulcis, il metallurgico di Taranto, il panettiere di Ancora, l' operaio torinese, il terremotato di Norcia e il pastore della Barbagia, i disoccupati e gli esodati, le partite Iva e i giovani precari, tutti nelle ambasce si chiedevano quanto ancora Antonio Scurati li avrebbe lasciati in ansiosa attesa sulla sua partecipazione al Premio Strega. Dovunque volti scuri, tutti sulle spine a chiedersi: «andrà o non andrà?», «il Premio Strega resterà orbo di tanto spiro?». Il 1° marzo 2019, finalmente, ha rotto gli indugi e Repubblica ha potuto trionfalmente suonare le trombe: «nuntio vobis gaudium magnum». Il titolo in prima pagina già diceva tutto: «Antonio Scurati. Vado allo Strega perché lo considero un dovere civile». Significava che aveva deciso di sacrificarsi per il nostro bene. Lo ha fatto per noi. Per salvare l' Italia. Diceva infatti: «Vivo la mia partecipazione come una spinta di impegno civile. Sono convinto che questo romanzo possa contribuire al risveglio di una coscienza democratica sono felice che il romanzo sia vissuto dai lettori come una palestra di antifascismo». Fino al giorno prima - c' informava Repubblica - «Scurati titubava». Ha titubato per giorni. Tituba oggi, tituba domani, forse assillato dal dubbio morettiano («mi si nota di più se non vado o se vado e sto in un angolo?»), alla fine, pensando ai superiori interessi della patria, il titubante «scrittore democratico, libertario e progressista» (come si è definito in un' altra intervista) ha sciolto la riserva. Lo ha fatto - spiegava il giornale scalfariano - «per amore ai lettori». Ha deciso di partecipare «non per il titolo, ma perché questi tempi ricordano le origini del fascismo». Infatti «tutti siamo smarriti dall' avanzata dei nuovi populismi" (eccone un altro) e quando l' intervistatrice gli ha chiesto, appunto, del "ritorno del fascismo», ha prima spiegato che è «contrario ad etichettare di fascismo i nuovi populismi" perché "fuorviante e storicamente infondato», tuttavia ha pensosamente aggiunto che «sono molti gli elementi comuni tra oggi e ieri», per questo «vivo la mia partecipazione come una spinta di impegno civile». Da quel momento dunque tutti ci siamo sentiti più tranquilli. Sul rischio di un nuovo fascismo veglia Scurati, partecipando al Premio Strega (e, ovviamente, vincendolo). Tanta generosa abnegazione merita tutta la nostra riconoscenza. Infatti è stata premiata. E celebrata. Tutta quella bella gente dei salotti letterari, pensosa dei nostri destini, intende - come lui - salvare il Paese col suo spirito democratico, libertario e antifascista. Lo fanno dall' alto del loro sapere, in quanto - dice Scurati - «uno dei tratti dei nuovi populisti è l' ostentato disprezzo verso conoscenze e cultura». Ecco perché - sia pure titubando - certi giganti del pensiero si sacrificano concedendosi al pubblico dei salotti letterari e televisivi - pensate a quel filosofo schivo, mite e affabile che è Massimo Cacciari - ed elargendo alla nostra povera mensa il pane del loro abissale sapere. Purtroppo la plebe non stima come dovrebbe cotanto senno, non pende dalle labbra del salotto accademico nazionale. Anzi, è di solito diffidente nei confronti degli intellettuali. È una plebe ingrata, che non si rende conto di quanto si sacrifichino per lei questi pensatori che oggi sono il presidio della democrazia. Un tempo, tanti anni fa, sui frequentatori di premi e salotti letterari si potevano abbattere le parole acide di un solitario come Giuseppe Berto che scriveva: «sono troppo impegnati nel farsi pubblicità, nel darsi premi, nel dedicarsi saggi e critiche in sommo grado encomiastici, nel raccomandarsi l' un l' altro presso editori e direttori di giornali». Ma oggi di sicuro non è così. Fra una tartina e un cocktail, tra un'"ospitata" dalla Gruber e un pettegolezzo mondano, questi ingegni illuminati pensano a noi, ci salvano dal fascismo incombente sotto forma di populismo, ci spronano all' impegno civile, fanno scudo alla minacciata democrazia e fustigano come si deve la dilagante ondata del razzismo. Ecco perché di solito dai premi letterari escono celebrati i migliori ingegni nazionali, la crema della nostra cultura. Del resto questa storia dei "premi" ha precedenti antichi. Pensiamo, per esempio, che nei primi anni del Trecento fu data l' incoronazione solenne di poeta (il premio letterario di quel tempo) al formidabile Albertino Mussato (lo conoscete?), autore di una tragedia, l' Ecerinis, che fu ritenuta un capolavoro immortale (chi l' ha letta?). Fu invece ignorato un altro "poetastro" vivente, tal Alighieri Dante di cui, in quegli anni, circolavano in volgare fiorentino "l' Inferno" e "Il Purgatorio" della sua insignificante "Divina Commedia". Questo poetucolo fiorentino fu comprensibilmente snobbato dalle accademie letterarie del tempo che gli preferirono il Mussato. L' Alighieri era considerato - finché visse - un fallito, sia come uomo (perché condannato ed esiliato dalla sua città: aveva osato perfino mettere all' inferno il papa), sia come politico, perché reazionario, sia come letterato perché - appunto - non all' altezza dei talenti della sua epoca. Così vanno le cose in Italia, o almeno così andavano un tempo.

La pace (armata) dello Strega. Pubblicato venerdì, 05 luglio 2019 da Cristina Taglietti su Corriere.it. Che sia davvero iniziata una nuova era per il Premio Strega? Il giorno dopo la proclamazione del vincitore Antonio Scurati al Ninfeo di Villa Giulia, sembra pensarla così non soltanto Giovanni Solimine, presidente della Fondazione Bellonci che organizza il premio, ma anche Enrico Selva Coddè, amministratore delegato di Mondadori Libri Trade, cioè, anche, di Einaudi e Mondadori. In realtà sembra più una pace armata: la vittoria di Scurati (Bompiani) che ha quasi doppiato la seconda classificata, Benedetta Cibrario (Mondadori), è stata una sconfitta per il gruppo di Segrate e in particolare per Einaudi, divisa al suo interno tra Fedeltà di Marco Missiroli, inizialmente dato come favorito, e Addio fantasmi di Nadia Terranova, pubblicata da Stile libero e fortemente sostenuta dal direttore editoriale Paolo Repetti. Una frattura (anche geografica, tra Einaudi a Torino e Stile libero a Roma) che ne ha trascinate con sé altre. Niente fronte comune, nessuna direttiva stretta da seguire, come invece accadeva spesso negli anni scorsi: ogni marchio è andato per la sua strada e il gruppo di Segrate ha portato a casa un bel medagliere, ma non il primo posto. La lotta dentro il gruppo è stata dura e piena di insidie, anche se Selva la riconduce a una scelta di coerenza e richiamo alle regole: «Premesso che, per quanto mi riguarda, è di gran lunga meglio vincere e che l’obiettivo può essere solo quello, sono soddisfatto: avere 4 romanzi in dozzina, molto diversi tra di loro anche per la presunta diversità anagrafica dei lettori di riferimento, e 3 libri su 5 che si contendono la vittoria finale, è segno della vitalità delle case editrici e della qualità della loro offerta editoriale. Detto questo, ancora onore al vincitore». Il risultato per Selva è anche «la prova che non soltanto una strategia non esiste, ma anche che non potrebbe esistere. Negli ultimi anni il regolamento è cambiato: si sono allargati il numero e l’estrazione dei lettori. Oggi è la giuria del premio a scegliere i libri che scenderanno in lizza, non più le case editrici a candidarli. Come ho sempre detto, le case editrici competono tra loro liberamente e anche in questo consiste la forza del gruppo Mondadori. Questa edizione del premio non fa che riconfermare, per l’ennesima volta, una posizione già espressa e che non muterà nel tempo: partecipare a una gara, qualunque essa sia, significa accettarne le regole». Ma questo non succedeva sempre in passato, quando i voti venivano convogliati su questo o quel candidato. «Posso immaginare che quando spettava alle case editrici scegliere, nessuna avrebbe scientemente presentato più di un candidato. Ma il fine di un premio quale è lo Strega, è dare visibilità alla migliore narrativa italiana contemporanea, e, una volta che la giuria ha scelto romanzi interessanti e autori di peso, non è credibile che alcun marchio possa abbandonare il proprio candidato, non sostenerlo, e direi che le case editrici lo hanno fatto fino in fondo con allegra ferocia». 

Certo, in casa Einaudi non c’era molta allegria giovedì notte, anzi molti imbarazzi e musi lunghi, che fanno pensare che ci siano ancora conti da regolare, ma Selva smorza: «L’Einaudi è una grande casa editrice, che ha sempre vinto molto. Quest’anno aveva due bellissimi libri, due scrittori giovani con un futuro davanti, per i quali, come per tutti i talenti, partecipare a una competizione importante è la cosa migliore per prepararsi a vincere in futuro». Giovanni Solimine è convinto che il risultato di questa edizione sia il segnale del fatto che «stanno funzionando i tentativi di cambiamento che abbiamo messo in campo da tre anni a questa parte. Prima di tutto volevamo che il premio, per poter garantire la sua indipendenza e credibilità, fosse saldamente nelle mani degli Amici della domenica. Il fatto che ora, fin dalla fase iniziale, la proposta parta da loro e poi il comitato direttivo scelga, ha dato più potere alla giuria rispetto al peso eccessivo che in passato veniva dato agli editori che decidevano quale libro far partecipare. Ora gli editori hanno un ruolo fondamentale, ma non quello di far scegliere a noi i loro concorrenti. Abbiamo cercato di tenere la barra ferma sull’indipendenza e la credibilità del premio, che è un oggetto delicato, verso cui sentiamo una responsabilità». La giuria, sottolinea Solimine, «oggi è molto più rappresentativa — i voti all’estero, i gruppi di lettura, i lettori delle librerie — , quasi un migliaio di persone tra voti individuali e collettivi». C’è stato anche un riequilibro: «Gli uomini prima erano circa due terzi, adesso siamo più o meno metà e metà e questo contribuisce a spiegare il fatto che negli ultimi anni ci sono molte donne tra i libri selezionati. I pronostici sono stati scombussolati, ma solo perché partivano dall’idea di un mondo sempre uguale, mentre il mondo sta cambiando». Quest’anno c’è stato il record di segnalazioni: 57. «Credo di poter dire che ci fossero tutte le opere migliori dell’annata — continua Solimine —. Il fatto che per gli editori più grandi, Mondadori in primis, ci fossero candidature plurime, anche 5 o 6 libri, mi sembra normale. E quando ci sono in casa tanti protagonisti ci si può anche un po’ pestare i piedi». Entrare nella cinquina, sottolinea Solimine, è comunque molto importante: «I finalisti partecipano a molti incontri, li portiamo ovunque, anche all’estero, mi pare che abbiano una grandissima visibilità». Per quanto riguarda Antonio Scurati Solimine sottolinea «la scelta coraggiosa di mettersi in gioco dopo aver partecipato ed essere arrivato secondo per due volte», ma gli preme che l’attenzione sia sempre di più sui libri. «Giovedì sera abbiamo celebrato i 60 anni del Gattopardo. Fu un premio al libro, nessuno sapeva quasi che faccia avesse Giuseppe Tomasi di Lampedusa e il romanzo è rimasto nel tempo. Mi piacerebbe che questa attenzione alla qualità e alla possibilità di essere rappresentativi sia sempre al centro». Insomma, qualcosa si muove allo Strega, anche se c’è chi sostiene che neppure il voto elettronico metta al riparo completamente dal punto di vista della trasparenza. «Lo Strega veniva accusato di essere un premio molto romano. Avere introdotto il voto elettronico permette a chi non sta a Roma di votare. Il meccanismo mi pare assolutamente limpido e non ha dato problemi fino ad ora. È impossibile sapere per chi si ha votato, non si può andare a vedere l’abbinamento delle schede e dei nomi, ma se c’è qualcosa da fare per migliorare anche questo meccanismo accettiamo volentieri qualunque suggerimento».

·         Misteri letterari…col trucco.

"LO STREGA? E' PIU' TRUCCATO DI SANREMO"! Luigi Mascheroni per il Giornale il 18 settembre 2019. I premi letterari? «Tutti truccati», tranne ovviamente quello in cui siete in giuria, o che avete vinto. Per il resto la storia dei premi - un mondo in cui risplendono al meglio, e al peggio, tutti i moti dell'animo umano: invidia, gelosia, sfida, desiderio di potere, brama di onori e denaro... - è quasi più bella di molti romanzi che li hanno vinti. Sulle grandi competizioni letterarie molto si sa, ma altrettanto resta da scoprire. Cosa che fa - lavorando su nuovi documenti d'archivio, corrispondenze inedite e interviste - un libro realizzato dagli studenti del Master in «Professioni e prodotti dell'editoria» del Collegio Santa Caterina dell'università di Pavia: Visto, si premi! I retroscena dei premi letterari. Un volume ricco di aneddoti, eventi dimenticati e altri mai rivelati, leggendo il quale si scopre che: Cesare Pavese vinse lo Strega con La bella estate nel 1950. Il 24 giugno. Le foto della serata lo ritraggono imbarazzato e stranito: dal volto traspare cortesia, ma le mani in tasca rivelano disagio. Dopo la premiazione, a un giornalista dichiara: «Si consolino i perdenti. I libri più importanti di una generazione non prendono premi». Il 21 agosto, in una lettera a Tullio Pinelli scrive: «Il premio chi se lo ricorda? Sono balle. Val la pena questa gloria?». Il 27 agosto, due mesi dopo la vittoria, si suicida. Gavino Ledda nel '75 vince il Viareggio con Padre padrone: il libro diventa un caso editoriale, fra il '75 e l'80 vende 220mila copie con traduzioni in moltissimi Paesi, i fratelli Taviani nel '77 ne traggono un film di successo (Palma d'oro a Cannes) e Feltrinelli ne fa un titolo-manifesto. Oggi, chi se lo ricorda? Nel maggio del '52 l'Osservatore Romano pubblica il decreto con cui viene messa all'Indice l'opera omnia di Alberto Moravia, che è in corsa allo Strega con I racconti. In cinquina ci sono anche Monelli, Patti, Calvino e Carlo Emilio Gadda, il quale - in uno scoppio d'ira - scrive una lettera a Gianfranco Contini (il testo è irresistibile, pure con un piccolo sfregio antisemita) denunciando il fatto che il libro di Moravia è arrivato 20 giorni DOPO la scadenza del concorso e comprende racconti già editi in volume; e lamentandosi del fatto che tutti parlano della censura subita da Moravia e non della sua: «Io sono martire quanto lui e più di lui...Eros&Priapo non si può stampare. E non ci sono coiti, mentre lui ha potuto inondare di male chiavate i suoi romanzi». Il risultato è noto. Lo Strega lo vince Moravia (attorno al quale ci fu un vero «sobbalzo di solidarietà» da parte della sinistra culturale contro le censure vaticane) e Gadda, distanziatissimo, arriva secondo. Il secondo, oggi, è un classico del '900. Il primo, non lo legge più nessuno. Beppe Fenoglio era un tipo riservato, un piemontese delle Langhe lontanissimo dai salotti romani. Però testardo. E infatti quando la sua casa editrice, Garzanti, gli chiede di ritirare la propria candidatura allo Strega - siamo nel '59 - per non intralciare il vero cavallo di razza della scuderia, ossia Pasolini, Fenoglio scrive a Pietro Citati: «I premi letterari non mi tolgono né il sonno né l'appetito. Io non scrivo per competizione, alla radice del mio scrivere c'è una primaria ragione che nessuno conosce all'infuori di me». Ma si tolgano dalla testa - questo è il senso delle resto della lettera - che io mi ritiri dalla gara. «Io sarò un brocco ma un brocco brado». Morale: Fenoglio s'intestardisce, ma non entra neppure in cinquina, Pasolini gliela giura, ma alla fine Il Gattopardo (postumo) frega tutti. Bene. Ricordate la lettera citata all'inizio, quella in cui Fenoglio se ne frega dei premi, eccetera eccetera? Rovistando in una cartella personale, qualcuno di recente ha trovato parecchi ritagli di giornale sullo Strega di quell'anno, e anche sul Viareggio, cui concorse, sempre senza vincere. Insomma: qualcosa gli interessava, eccome. A proposito di scrittori ai quali i premi proprio non interessavano. Giovanni Arpino nel '64 vince lo Strega con L'ombra delle colline. La medaglia, anni dopo, la regalerà all'amico Armando Torno. Del resto Arpino era solito togliere le targhe col suo nome dalle coppe dei premi, prima di dimenticarle in treno. A proposito invece di scrittori che nelle interviste dichiarano il contrario di ciò che confessano in privato, Gesualdo Bufalino sui giornali ostentava noncuranza per gli allori letterari, ma agli amici, come Biagio Guccione, che lo accompagnò sia al Campiello nel 1981 sia allo Strega del 1988 (vinti entrambi con Diceria dell'untore e con Le menzogne della notte), manifestò - diciamo così - ripetute narcisistiche forme di contentezza. Tra le «gocce di vanità», da segnalare i due versi (inediti) regalati a Guccione dopo il trionfo alla Fenice. «Sicché stasera, senza droga o spezia/ già mi lusingo di far fuor Venezia». Ah. Nella quarta di copertina del suo Menzogne della notte, Bufalino inizialmente scrive: «Non per superbia ma per sola senile insofferenza non desidero concorrere ai premi letterari». Testo che Bompiani cassa prima della pubblicazione. È noto, e fece scalpore, che nel giugno 1968 Pasolini scrisse una lettera durissima sul Giorno per annunciare il suo ritiro dallo Strega di quell'anno. In un J'accuse tipicamente pasoliniano («Io so!») in cui denuncia il malcostume imperante, lo scrittore afferma: «Sono venuto a conoscenza di fatti di cui purtroppo non posso né, credo, potrò mai produrre prove che mi hanno convinto che il premio Strega è completamente e irreparabilmente nelle mani dell'arbitrio neocapitalistico». La lettera aperta suscita clamori indicibili, i suoi amici Moravia e Maraini si dimettono per solidarietà dal ruolo di votanti, la «contestazione» sfiora il Ninfeo, ma senza sconvolgerlo. La serata finisce come sempre a pasticcini e liquori. Andrebbe però ricordato il fatto che la protesta, col conseguente ritiro di Pasolini, scoppia il 24 giugno, DOPO la prima votazione, nella quale L'occhio del gatto di Alberto Bevilacqua, che poi trionferà, stacca già di oltre 40 voti il pasoliniano Teorema. Chi poi ha avuto tempo e voglia di spulciare l'epistolario dello scrittore, si è imbattuto in numerose lettere in cui Pier Paolo chiede voti per i vari premi. Cose normali per l'intellighenzia italiana.

QUANTO VALE UN PREMIO? Il fattore Strega, secondo serissime indagini economiche, oggi quintuplica le vendite. Esempi. La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano passa da 6mila copie vendute la settimana prima della vittoria dello Strega, nel luglio 2008, a 30mila in quella successiva. Le otto montagne di Paolo Cognetti nel 2017 passa da 2-3mila a 14mila copie vendute.

Q COME CASTA. I Luther Blissett (collettivo di scrittori poi confluito in Wu Ming) nel 1999 poco dopo la candidatura del loro romanzo Q allo Strega, dichiarano: «È un premio più truccato di Sanremo, e quest'anno è già appaltato alla Maraini». E poco dopo: «Lo Strega è una buffonata, una delle tante istituzioni inutili di questo Paese». Il romanzo esce nella collana Stile libero della berlusconiana Einaudi, ottiene paginate su la Repubblica scritte dall'amica Loredana Lipperini, ma loro combattono le lobby dei potenti, la casta, l'alta società. Disertano la serata finale al Nifeo, lasciando vuoto il tavolo Einaudi. Vince, come da copione, Buio di Dacia Maraini. A Luther Blisset resta la gloria, le copie vendute e il mito dell'anonimato. Quest'anno, per il ventennale della pubblicazione, il libro esce con una sovracoperta che per la prima volta in assoluto nella storia dell'editoria non avrà stampato in nome dell'autore, ma solo il titolo. 

MISTERI LETTERARI. Eleonora Barbieri per “il Giornale” il 16 aprile 2019. Beh, una certa attesa c' era. Chi riesce a guadagnare centocinquantamila euro in un attimo, diciamo così, grazie a un romanzo? In Italia poi, il Paese dove metà della popolazione non legge nemmeno un libro all' anno... È proprio per questo che, da quando è stato annunciato nel settembre scorso, il premio DeA Planeta ha suscitato tanto interesse: non solo negli scrittori esordienti ma, anche, in quelli già noti, perché si capisce che la cifra in palio non si possa ignorare. E infatti ieri sera, quando è stato annunciato il nome del vincitore, si è scoperto che, dietro lo pseudonimo di Diego Tommasini (uno degli autori nella cinquina finale) si nascondeva Simona Sparaco. Quarant' anni, compagna di Massimo Gramellini, due figli (uno nato da pochissimo), Simona Sparaco ha già all' attivo diversi romanzi; di cui uno, Nessuno sa di noi (Giunti) nel 2013 è arrivato in finale al Premio Strega. Quella volta vinse Walter Siti con Resistere non serve a niente (Rizzoli); invece ieri sera a (stra)vincere è stata Simona Sparaco. Il suo romanzo, inedito, si intitola Nel silenzio delle nostre parole e, come previsto dal premio, sarà pubblicato da DeA Planeta in Italia il 14 maggio (presentazione in anteprima al Salone di Torino, sabato 11 maggio); e sarà pubblicato anche in lingua spagnola, con case editrici del Gruppo Planeta, oltre che tradotto in inglese e in francese. Insomma sarà subito lanciato sul mercato internazionale: perché si capisce che la logica di un premio così succulento sia la possibilità, per la casa editrice, di rifarsi ampiamente grazie alle vendite in libreria. O almeno così avrà considerato la giuria che ha scelto il romanzo di Simona Sparaco fra mille, e non è un modo di dire: sulle scrivanie della DeA Planeta sono arrivati 1244 manoscritti, valutati da un comitato di lettura che ha selezionato la cinquina finale. In realtà, 75 opere non sono state ammesse al concorso; quindi in tutto hanno partecipato 1169 autori, anche da altri Paesi europei, dall' Australia e dall' America. Duecentotto di loro hanno deciso di presentarsi con uno pseudonimo: fra cui, appunto, Diego Tommasini-Simona Sparaco. Del resto nella cinquina finale c' era una prevalenza di nom de plume: come David Mancini, che ha partecipato con La congregazione; o tale CP, con L' esercizio; invece nomi autentici sono quelli di Silvia Bottani, autrice di La marocchina, e di Rosa Matteucci con Io sono luce. E, quindi, un finale al femminile, con trionfo al femminile e un romanzo assolutamente femminile, che indaga i rapporti fra persone (apparentemente) vicine e le «distanze invisibili» che a volte le separano. Così lo ha raccontato la vincitrice, durante la serata di ieri al Blue Note di Milano: «Le storie dei miei personaggi si ispirano ai fatti realmente accaduti nella Grenfell Tower di Londra, che nel 2017 prese fuoco. Uno shock per mezzo mondo, me compresa. Le mie storie però sono una finzione che mi è servita come pretesto per raccontare la difficoltà di comunicare tra genitori e figli, l' incapacità di mostrarci, proprio alle persone che ci sono più vicine, per quello che siamo». Un tema così intimo e familiare è stato ispirato, pare, anche dalla situazione particolare in cui Simona Sparaco ha scritto il romanzo: «È una doppia vittoria per me. La stesura di questo libro mi ha accompagnato durante tutta la gravidanza. E non era un libro facile da scrivere in quelle condizioni...». Però ha avuto una specie di «segno»: «Quando ho saputo che la data di consegna dei manoscritti per il bando (il 28 febbraio scorso) coincideva con la data presunta del parto ho letto questa coincidenza come un segno e mi sono fatta coraggio. Tommaso è nato insieme al libro, due mesi fa, e insieme a suo fratello Diego mi ha suggerito il nome da scegliere per lo pseudonimo. Mi hanno fatto da cavalieri, per sostenermi qualora il romanzo non fosse notato, e mi hanno regalato l' emozione di essere letta dai giurati come se fossi un esordiente, e uomo». I giurati - lo scrittore Massimo Carlotto, il presidente del Gruppo De Agostini Marco Drago, il professore e scrittore Claudio Giunta, la conduttrice Rosaria Renna, che ha confessato di avere «versato molte lacrime» leggendo il romanzo e la direttrice della Libreria Hoepli di Milano, Manuela Stefanelli - l' hanno notata. E votata. Cioè, hanno votato Diego Tommasini. E ora Simona Sparaco potrebbe immaginare di partecipare anche allo Strega, per dire, un po' come sei anni fa, e vincere altri cinquemila euro... O magari basteranno centocinquantamila.

·         Editoria di “Stocazzo”.

EDITORIA DI “STOCAZZO” - LA STORIA DI MAURIZIO SBORDONI, LO SCRITTORE DELUSO CHE HA FONDATO LA “STOCAZZO EDITORE”: “L’80% DEI LIBRI IMPOSTI DAL MONDO EDITORIALE SONO SCRITTI DA PERSONE CHE NULLA HANNO A CHE FARE CON L’EDITORIA. IL PASSEPARTOUT PER ESSERE PUBBLICATI È SOLO L’ESSERE FAMOSI, ANCHE COME GIOCATORE DI SUBBUTEO”. Giulio Pasqui per Il Fatto Quotidiano  il 12 settembre 2019. Maurizio Sbordoni è uno scrittore deluso dall’editoria. Talmente deluso che ha deciso di andare controcorrente e aprire una casa editrice dal nome bizzarro: Stocazzo Editore. Un nome che fa sorridere, ma che nasconde una provocazione al mondo letterario. “L’80% dei libri ‘imposti’ dal mondo editoriale sono scritti da persone che nulla hanno a che fare con la letteratura: chef, calciatori, cantanti. Il passepartout per essere pubblicati è solo l’essere famosi, anche come giocatore di Subbuteo, non importa. Se sei il migliore al mondo a schiacciar zanzare al volo con una racchetta da Paddle e vuoi scrivere un libro, in quel mondo hai le porte spalancate”, racconta Sbordoni a ilfattoquotidiano.it. Proprio in questo scenario è nata la Stocazzo Editore. Una provocazione.

Ci racconta di più?

“Da subito ho capito che con il mondo editoriale avevo poco da spartire. Quando arrivò il momento, come da prassi, di scrivere i ringraziamenti finali per il libro pubblicato, scrissi i “non ringraziamenti”, le persone che non dovevo ringraziare, che non avevano avuto alcun merito per l’uscita del libro. Non era una boutade, una scelta provocatoria, ma naturale: non capivo perché l’autore dovesse sempre ringraziare il mondo e invece a lui, l’unico nella filiera editoriale senza il quale non ci sarebbe il prodotto libro, non lo ringraziava mai nessuno. Ricevetti molte critiche per quella scelta. La mia editor dell’epoca si offese quando non si vide citata su carta, e un noto autore di narrativa mi scrisse una e-mail di fuoco. “Con quella scelta”, scrisse, “dimostri solo di essere un rompipalle. E con un rompipalle non ci vuole avere a che fare nessuno”. Ricordo che sorrisi e pensai: meglio così”. 

In realtà, però, la Stocazzo Editore non è registrata alla Camera di Commercio e dunque non è un vero editore. Ci spiega meglio?

“La Stocazzo Editore non è registrata alla camera di commercio perché nel nostro Paese non è possibile registrare marchi o società contenenti parole contrari alla morale e al pubblico decoro (che poi, è una parolaccia di uso comune, e io da autore ho l’obbligo di scrivere come parla la gente), ma combatterò per fare in modo che quel nome appaia anche nelle carte ufficiali. Per adesso, l’editore sono io, Maurizio Sbordoni, registrato alla camera di commercio come società uninominale, e pago le tasse su ogni singola copia venduta secondo la legislazione vigente in materia di editoria, oltre a ogni altra incombenza fiscale prevista. Ma quando mi chiedono come si chiama la tua casa editrice, rispondo sempre a tutti, fiero: Stocazzo Editore. Quella parolaccia nasce dal fatto che ogni volta che qualcuno si complimentava con il sottoscritto al sentire i nomi altisonanti con cui avevo appena pubblicato, io mentalmente gridavo “se, stocazzo”, pensando al fatto che avevo dovuto fare tutto io, senza guadagnare un euro. Stocazzo Editore. Lei pensi alla situazione editoriale italiana. Suona bene, o no?”.

Non ha avuto paura di non venir preso sul serio, con un nome del genere?

“No, mai. Non si viene presi sul serio, come autori, durante il percorso tradizionale, anche se gran parte della colpa non è dei singoli protagonisti della filiera editoriale, ma di come è strutturato il mondo editoriale. Sapevo che il nome avrebbe fatto discutere, ma avevo bisogno di un’idea forte che mi aprisse un varco nella comunicazione, fermo restando che poi la parola passa al libro. È sempre lui che comanda”.

La sua esperienza con le case editrici non è stata così positiva?

“Lei giudicherebbe positiva una duplice esperienza in cui, in entrambi i casi, vede il suo libro amato, apprezzato e letto, e poi non guadagna un euro per questo? Che poi, non guadagnare è un eufemismo. Considerato cosa deve fare, al giorno d’oggi, l’autore per avere un minimo di spazio in questa giungla folle che, alla fine, penalizza solo il lettore, direi che la remissione di un mucchio di denaro è certa. Eppure l’autore non dovrebbe fare impresa, come è possibile rimetterci del denaro? E invece in questa penuria di editori, tranne pochissime eccezioni legate a un numero ristretto di autori, allo scrittore viene chiesto di tutto: dal marketing alla vendita porta a porta, dalle presentazioni sparse in luoghi ameni alla correzione ed editing dei testi”.

Ha subito ostracismo?

“No, la parola ostracismo non è adatta. Direi che per una serie di motivi economicamente incomprensibili, si fanno ostracismo da soli. Scelte economiche dissennate, politiche miopi. Eppure la maggior parte del denaro che spende un lettore entra nelle loro tasche, non nelle tasche degli autori. Le dico solo, per farle un esempio tra decine, che nel momento di massima richiesta del mio libro uscito nel 2013, dopo 40 giorni eravamo già alla terza ristampa e si stava innescando quel bizzarro fenomeno (adesso nelle librerie impossibile da verificarsi) del famoso “passaparola”. Io lo leggo e mi piace e ne parlo a te che lo leggi e ti piace, eccetera. Bene, esattamente in questa fase, il distributore della mia casa editrice è andato in ferie per due mesi, interrompendo questo domino di passione. Era agosto, e io in quanto autore non ero potuto andare in ferie, dovendo rispondere a centinaia di e-mail di lettori che avevano ordinato un libro che mai sarebbe arrivato. Be’, se lei mi chiede la mia opinione in merito, non ne ho una. Non so rispondere alle cose che non hanno un senso, da qualsiasi angolazione le si guardi”.

Il primo libro pubblicato da Stocazzo Editore si intitola Pococondriaco, e l’ha scritto lei: ce ne parla?

“Il titolo nasce da un gioco di parole di mio padre, secondo cui anche quando si parla di una nevrosi che enfatizza i sintomi, l’ipocondria, io di quella cosa ho “poco” (il titolo starebbe per poco-ipocondriaco). Mio padre mi ha sempre reputato un mezzo scemo, più o meno. Una volta disse, riferendosi alle mie qualità imprenditoriali: se Maurizio vendesse bare, la gente smetterebbe di morire”.

Come sta andando?

“La cosa straordinaria è stata la risposta dei lettori. Ho chattato con migliaia di persone negli ultimi due mesi, e la foto che ho nella camera per nulla oscura della mia mente è di un Paese curioso, appassionato, innamorato dei libri. Tutto il contrario di quello che racconta il mondo editoriale. Anche perché Pococondriaco è fuori dai canali tradizionali, si può avere esclusivamente scrivendo alla e-mail della pagina Facebook della Stocazzo Editore, e arriva direttamente a casa con dedica e autografo del sottoscritto, vergata a mano. Proprio ieri mia moglie mi ha suggerito che ho autografato e dedicato più libri io negli ultimi 30 giorni che il 95% degli autori in tutta la loro vita. E forse ha ragione”.

·         Libri contraffatti.

Libri contraffatti. Marco Valsania per Il Sole 24 ore il 25 giugno 2019.  Amazon ha creato la sua iniziale fortuna con i libri. Adesso il gigante dell'e-commerce a 360 gradi scivola proprio sulla carta stampata. Ad accendere le polemiche sulla crisi di scarsa credibilità e mancati controlli portata con sè dall'emergere del gruppo nei panni di protagonista dominante - una crisi che condivide con altri grandi leader dell'economia digitale - sono oggi proprio saggi e romanzi. Se la società di Jeff Bezos oggi vende infatti oltre la metà di tutti i volumi sul mercato statunitense, frutto di una leadership sempre più consolidata, si sono moltiplicati in realtà anche i casi di truffa, dalla contraffazione alla manipolazione dei testi. Un'inchiesta del New York Times, che cita denunce di editori e autori, accusa Amazon di non preoccuparsi nè dell'autenticità nè della qualità di quanto pubblica o vende. Sul suo sito compaiono rivenditori che non sembrano esistere se non per l'offerta attraverso Amazon di volumi da dieci dollari per cifre che possono raggiungere anche i cento o i mille dollari, sollevando persino sospetti di operazioni di riciclaggio di denaro. Boom di recensioni fasulle sono finite di recente nel mirino dell'authority federale Ftc. E controversie sono esplose sul proliferare di versioni accorciate di libri popolari o premiati - ad esempio Bad Blood, la saga dello scandalo del gigante biotech Theranos. Uno dei “capitoli” più gravi riguarda veri e propri volumi contraffatti. A volte anche di testi delicati: è il caso della The Sanford Guide to Antimicrobial Therapy, destinato a medici e contenente dosaggi esatti per la somministrazione di farmaci destinati alla cura di pazienti colpiti da infezioni. Da due anni l'editore, Antimicrobial Therapy, si batte per cercare di eliminare una pioggia di versioni del tutto irregolari del suo volume - sovente fotocopiate e mal stampate, a volte tanto da diventare illeggibili e soggette a seri errori - che potrebbero di conseguenza creare danni alla salute. Edizioni fasulle riguardano anche molti manuali tecnici, spesso costosi, quali quelli sui computer della No Starch Press. A sua volta la casa editrice da anni lotta senza grande fortuna per estirparli da Amazon. Classici - o quasi - della letteratura non sono immuni dal medesimo destino. Tra i testi piratati si contano quelli di Arthur Miller e di Jorge Luis Borges, come noti romanzi gialli di Agatha Christie quali Assassinio sull'Orient Express. Il problema è che, più che di scarsa attenzione, a venire alla luce è un “difetto” finora parso intrinseco al modello di business. Amazon ha ufficialmente un atteggiamento rilassato quando di tratta di interventi nei confronti di chi pubblica o vende attraverso il suo sito: “È vostra responsabilità assicurare che il vostro contenuto non violi leggi o diritti d'autore, marchi depositati, privacy, norme di pubblicità o altri diritti”, avverte. E i critici sospettano che Amazon non abbia incentivi a combattere davvero simili irregolarità: se da volumi contraffatti autori (famosi e non) e case editrici (grandi e piccole) ci perdono, Amazon guadagna comunque e sempre in vendite. Dell'emergere del problema, che non è limitato ai libri nonostante trovi qui una delle espressioni più eclatanti e insolite, è stata però costretta di recente a prendere coscienza la stessa azienda. In febbraio nelle sue comunicazioni finanziarie alla Sec e agli investitori ha incluso per la prima volta la contraffazione quale fattore di rischio per il suo business, ammettendo che potrebbe non essere in grado di arginare le ondate di vendite “realizzate in modo non etico e illegale”. Per i giganti hi-tech e digitali oggi potrebbe diventare sempre più difficile eludere le loro responsabilità: oltre ad essere oggetto di una crescente attenzione da parte di consumatori e altre aziende, il mondo politico e le autorità antitrust e di regolamentazione stanno ripensando al loro ruolo e alla loro influenza. Solo di recente Alphabet è finita sotto tiro per milioni di business fasulli che compaiono su Google Maps . E Facebook resta assediata da polemiche sulla diffusione di informazioni false e sulla protezione della privacy.

·         Penne brille.

Pietro Del Re per “la Repubblica” il 23 agosto 2019. Anche Bruxelles sdogana la Fata Verde, la Bleue, la bevanda che rende folli ossia l' assenzio, il demoniaco distillato alcolico bandito per quasi un secolo al quale, da lunedì scorso, i funzionari europei consentono finalmente di fregiarsi dell' indicazione geografica protetta. Dopo quindici anni di battaglie legali, alle storiche distillerie di Pontarlier, cittadina a pochi chilometri dalla Svizzera, dove nell' Ottocento si contava il più gran numero di distillerie, è stato riconosciuto il diritto di etichettare il loro prodotto come marchio di origine garantita. In Francia, di questa bevanda ad alta gradazione alcolica (fino a 70°) s' è ricominciato a produrne solo nel 2000, dopo ottantacinque anni di assoluto divieto. Verde smeraldo o verde chiaro, il liquore ha un gusto amarognolo e si produce con fiori e foglie di Artemisia absinthium e di altre piante quali melissa, anice, finocchio e coriandolo. Nacque come un toccasana nel cantone svizzero di Neuchâtel, per poi attraversare in fretta il confine e arrivare a Parigi, dove raggiunse il massimo successo attorno al 1860, quando l' ora del tè divenne "l'ora verde", in cui si consumava appunto l' assenzio. Ne abusarono molti bohémiens e "artisti maledetti", quali Rimbaud e Verlaine, ma anche Oscar Wilde e Vincent van Gogh, e qualche anno dopo Pablo Picasso e Amedeo Modigliani. Miracoloso elisir o musa per alcuni, anticamera degli ospedali psichiatrici o ascensore verso i paradisi artificiali per altri, l' assenzio non fu soltanto un aperitivo ma il simbolo di una civiltà, un fenomeno che riguardò tutte le classi sociali, dal proletariato alla grande borghesia. Fino a quando ci si rese conto che berne in modo abitudinario poteva provocare allucinazioni, cecità, depressione e convulsioni. Perciò, nel 1905, ci fu chi diede il via a una campagna abolizionista strumentalizzando un fattaccio di cronaca: l'assassinio della moglie incinta e dei suoi due figli compiuti da un grande bevitore di assenzio, Jean Lanfray. Nel 1914, con la Francia appena immersa nella Prima guerra mondiale e al seguito d' infuocati dibattiti all' Assemblea nazionale, l'assenzio fu bandito in Francia. Protagonista del recente riconoscimento da parte dell'Ue è François Guy, uno dei maggiori distillatori di Pontarlier, che già negli anni Novanta si era battuto per togliere il divieto sulla produzione. Dimostrò allora che il tujone, la molecola ritenuta responsabile dell'"abstintismo", è in realtà inoffensiva: «Ne abbiamo comunque ridotto al minimo la quantità, senza abolirla del tutto, perché è essenziale al gusto. A provocare danni nell' Ottocento era soprattutto la grande quantità di alcol ad alta gradazione che si beveva». La Fata Verde prodotta a Pontarlier è ora diventata la 239esima bevanda liquorosa che può beneficiare dell' indicazione geografica protetta in Europa. La concorrenza sarà dura.

PENNE ALLA VODKA! Massimiliano Parente per il Giornale il 26 giugno 2019. Non so se vi ricordate di un ubriacone, Brick, che viene chiamato dal padre, Bid Daddy, per fare due chiacchiere, e Brick gli risponde «Vado a fare una gitarella a Echo Spring». È una scena de La gatta sul tetto che scotta di Tennesee Williams, e Echo Spring è l'armadietto degli alcolici, che deve il nome alla marca di bourbon che ci era custodito. Olivia Laing è una scrittrice inglese di cui è appena uscito in Italia Viaggio a Echo Spring (il Saggiatore), che si immerge nel torbido mondo degli scrittori alcolisti, in particolare quelli americani. Diciamo quasi tutti: da Tennesse Williams a William Faulkner, da Truman Capote a Patricia Highsmith (Lewis Hyde, nel suo saggio Alcohol and Poetry, osserva come «su sei americani che hanno vinto il Nobel per la Letteratura, quattro erano alcolisti»). In un'intervista per la Paris Review del 1981 Tennesse Williams (campione di alcolismo), afferma: «Gli scrittori americani hanno quasi tutti problemi con l'alcol, perché nella scrittura c'è molta tensione. Ora devo moderarmi, guarda come sono pieno di macchie». Olivia Laing è interessata al ruolo dell'alcol nella vita di chi ha prodotto capolavori: via di fuga, terapia per ansia sociale, un mezzo per autodistruggersi, ma anche iniettarsi «del sangue nuovo, la stessa sostanza di cui sono fatti i sogni», sempre parole di Williams. Tra i più fragili c'era Francis Scott Fitzgerald, frustrato da molti fallimenti editoriali, che a un certo punto smette di bere, o almeno così afferma, perché non bere niente per lui significava solo rinunciare a bere gin, sostituendolo con venti birre al giorno. Fidato compagno di bevute di Ernest Hemingway, il quale però prese a disprezzarlo, perché a un certo punto non reggeva l'alcol quanto lui, e bastava - parole di Hemingway - qualche calice di vino «per trasformare Scott in un deficiente». Invece l'autore di Addio alle armi si vantava di poter «bere quantitativi infernali di whiskey senza sbronzarmi». John Cheever passò la vita in un andirivieni dagli ospedali, a causa dei problemi connessi all'alcol, senza mai riuscire a venirne fuori. «La mia memoria è piena di buchi e di crateri. In chiesa, in ginocchio di fronte all'altare, vedo, con forza devastante, quanto sono dipendente dall'alcol». Amnesie da cui era affetto anche un altro grande scrittore, Raymond Carver, il fondatore del minimalismo. Nel 1983 dichiarò alla Paris Review: «Verso la fine della mia carriera di alcolista, ero del tutto fuori controllo, una situazione molto grave. Capita di andare in macchina, fare una lettura, tenere una lezione, ricomporre una frattura alla gamba, andare a letto con qualcuno, e poco dopo non ricordare niente di tutto ciò». Tuttavia resta sempre una domanda: che ruolo ha avuto l'alcol nella scrittura, o nell'ideazione di molti capolavori? Per Hemingway era una necessità: «Io bevo da quando avevo quindici anni e ci sono poche cose che mi danno altrettanto piacere. Quando lavori duro tutto il giorno con la testa e sai che devi lavorare altrettanto il giorno dopo, cos'altro può cambiarti le idee e farle correre a un livello diverso più del whisky?». Certo, è l'alibi che si darebbe qualsiasi alcolista, ma d'altra parte stiamo parlando di grandi scrittori, non di alcolisti anonimi, e concluderla con discorsi salutisti serve a poco. È come pensare che Marcel Proust avrebbe dovuto curarsi l'asma anziché rinchiudersi in una stanza polverosa. Avrebbe vissuto dieci anni di più, ma non avremmo avuto la Recherche.

Gaia Manzini per “il Foglio” l'11 luglio 2019. Era una di quelle domeniche di mezza estate in cui tutti se ne stanno seduti e continuano a ripetere: 'Ho bevuto troppo ieri sera'". Comincia così Il nuotatore di John Cheever, forse uno dei racconti più belli mai scritti. Uscito nel 1964 nel New Yorker, Il nuotatore narra di Ned e della sua impresa in un pomeriggio d'estate. Alto, snello, atletico, Ned sta bevendo un bicchiere di gin a bordo piscina, nel giardino di alcuni vicini di casa. Si alza, respira profondamente come se volesse trasformare in ossigeno tutte le componenti di quel momento: il calore del sole, il cielo terso, la coscienza di far parte di una comunità di amici. Ecco cosa farà, pensa Ned, tornerà a casa a nuoto attraversando il sobborgo di Bullet Park e tuffandosi in tutte le piscine che incontrerà sulla strada, magari facendosi ogni tanto un bicchiere con qualche amico. "Il sentirsi avvolto e sostenuto da quell' acqua verdognola gli sembrava non tanto un piacere quanto un ritorno a una condizione naturale". Ma la condizione naturale - nuotata dopo nuotata, superalcolico dopo superalcolico - coinciderà per Ned con la sconvolgente presa di coscienza del proprio fallimento, della propria inesorabile caduta. La memoria vacilla, il senso di realtà è offuscato. Ned non fa più parte da tempo di quella comunità, da tempo ne è stato escluso. Il suo è il punto di vista di una persona confusa, che non vuole accettare la verità. La versione di qualcuno che ha bevuto troppo. Nel racconto di Raymond Carver Perché non ballate, un uomo è alla finestra. Osserva il giardino dove ha disposto tutti i mobili di casa sua in modo da ricostruire perfettamente ogni ambiente. L' uomo sta bevendo, ma è come se fosse lucidissimo. Spia la sua vita per quella che deve essere stata un tempo: da dentro spia un fuori, in una sorta di disposizione ribaltata della scena. Non sappiamo cosa sia successo a quest' uomo: sospettiamo solo che voglia vendere tutto - ogni mobile, ogni oggetto -, che voglia liberarsi della sua esistenza passata. La sua esistenza, lì in giardino. Quando arrivano un ragazzo e una ragazza decisi a comprare parte dei mobili, sembra non volerli lasciare andare; non contratta, non affretta la trattativa, versa da bere. Poi si mette a ballare con la ragazza, forse gli ricorda qualcuno. Quest' uomo ha bevuto tutto il tempo e ora danza: è un ballo intimo, come se per un attimo volesse tenere ancora la sua vita per sé, coltivare un' ultima speranza d' amore. Nel 1973, a Iowa City, Cheever e Carver salgono a bordo di una Ford Falcon due volte alla settimana e vanno allo spaccio per comprare lo scotch che poi bevono nella stanza di John. Cheever ha sessantun anni e insegna al famoso Writers' Workshop, Carver ne ha trentacinque ed è arrivato da poco in facoltà. Appena si sono incontrati, hanno riconosciuto l' uno nell' altro una matrice comune di solitudine e disperazione: insieme non fanno altro che bere. Si presentano in classe, ma non sono mai lucidi. Per tutto il tempo che passano insieme nessuno dei due tocca neanche una volta la macchina da scrivere. Olivia Laing, scrittrice e critica letteraria inglese, è autrice di un saggio narrativo - Viaggio a Echo Spring, Il Saggiatore - sui grandi scrittori americani e la loro euforica e dolorosa relazione con l' alcol. Scrive inseguendo un' ossessione che attinge alla propria autobiografia. Scrive di una dipendenza che sembra un anestetico per una dipendenza più grave, quella dal la vita. Scrive della fede nella letteratura come antidoto per entrambe, unico modo per esplorare le regioni più oscure dell' esperienza umana. Nell'introduzione a Recovery, il romanzo postumo del poeta John Berryman, Saul Bellow osservava: "L' ispirazione conteneva una minaccia di morte. Mentre scriveva le cose che aveva atteso e per cui aveva supplicato, l' alcol era uno stabilizzatore. Riduceva in qualche modo quell' intensità fatale". Fitzgerald, Hemingway, Tennessee Williams, Cheever, Carver, Berryman: quello di Olivia Laing è un reportage di viaggio attraverso l' Ameri ca di questi autori, attraverso il loro senso di inadeguatezza, l' odio per se stessi, la sessualità conflittuale, l' amore per Echo Spring, come Brick Pollitt nella Gatta sul tetto che scotta chiama l' armadietto per i liquori.

Rotte della dipendenza, sentieri della disintossicazione. Non erano solo Carver e Cheever a bere insieme. Lo stesso era successo a Hemingway e Fitzgerald, soprattutto durante la loro indimenticabile gita a Lione. Si erano piaciuti subito. Fitzgerald l' aveva presentato al famoso editor Max Perkins, a cui aveva suggerito di mettere sotto contratto quel giovane promettente. Entrambi amavano la bella vita e soffrivano d' insonnia per colpa dell' alcol, anche se Scott insisteva nel dire che tutto era iniziato dal tormento di una zanzara in una stanza d' albergo a New York, nel 1932. Gli piaceva minimizzare. Lo stesso accadeva con l' alcol: per lui smettere significava non toccare super alcolici; li sostituiva con la birra, che considerava alla stessa stregua dell' acqua. E intanto scivolava, incapace di frenare la sua inesorabile caduta - Zelda ricoverata in un ospedale psichiatrico, il suo successo affievolito dopo la pubblicazione di Tenera è la notte. Eppure a Fitzgerald rimaneva un' unica certezza: bere rendeva migliore il suo lavoro ed era una fuga dal mondo, anche se poi era difficile equilibrare ragione ed emozione. "Ho bevuto troppo e questo di sicuro mi sta rallentando. D' altra parte se non avessi bevuto non sarei riuscito a sopravvivere stavolta". In una lettera in cui cercava di spiegare la disperazione del suo amico morto ormai da dieci anni, Hemingway parlava dell' alcol che aiuta a vivere, che si usa come Ammazza -giganti e che per Scott era diventato veleno. Lui in fondo si era sempre meravigliato - un po' inor ridito - per la scarsa capacità di Fitzgerald di tollerare gli alcolici. Ammazzare i giganti, resistere, credere nella propria forza di uomini. Padri suicidi o aspiranti tali, il continuo desiderio di morte, l' infanzia infelice che accomuna questi autori. Clarence Edmonds Hemingway, il padre di Ernest, era stato perseguitato dalle preoccupazioni economiche. Il 6 dicembre 1928 bruciò alcune carte nel seminterrato, poi urlò a sua moglie che era stanco e voleva fare un pisolino prima di pranzo. Andò in camera da letto e si sparò alla testa con la sua Smith and Wesson. Scrive in questo saggio Olivia Laing: "Dentro di me stava prendendo corpo la sensazione che ci fosse un legame nascosto tra le due strategie dello scrivere e del bere e che entrambe fossero legate al sentimento che qualcosa di prezioso fosse andato in pezzi e al desiderio di ricomporlo". Da qualche parte qualcosa si è rotto e preme per emergere. Nelle Nevi del Kilimangiaro, il protagonista Harry sperimenta continue visioni sulla propria morte, nell' ultima si trova a sorvolare la foresta, proprio come aveva fatto Hemingway, vedendo zebre e gnu che corrono a grandi falcate nel giallo grigio delle pianure. Harry si rende conto di avere distrutto il proprio talento di scrittore evitando di usarlo, tradendo se stesso, bevendo tanto da smussare l' acutezza delle proprie percezioni. In quelle righe si avverte la presenza di un altro Hemingway, quello che conosceva fin troppo bene la voluttuosità della disperazione, "la spinta gravitazionale che la morte esercita nei confronti dei suoi sudditi". Nelle sue lettere era stato proprio Hemingway a minacciare il suicidio, forse era quello il gigante cui si riferiva. Ma alla fine quel gigante vinse su di lui. Ernest si sparò in Idaho, dieci giorni prima del suo sessantaduesimo compleanno. Tennessee Williams è morto il 25 febbraio 1983 nella in una suite all' hotel Elysée a pochi minuti da Brodway. Aveva settantun anni: era infelice, sottopeso, dipendente dalle droghe e dall' alcol, paranoico fino al delirio. Era venuto la prima volta a New York nel 1928 invitato del suo amato nonno, il reverendo Walter Dakin, per un tour insieme ad alcuni parrocchiani avventurosi. Non aveva mai bevuto in vita sua, ma nel loro gran tour non mancò mai lo champagne francese, non mancarono mai i suoi attacchi d' ansia, fin quando le due cose - l' alcol e quello che lui chiamava processo di pensiero - non iniziarono a viaggiare insieme. Bere come antidoto al terrore, ma anche alla timidezza, nonostante negli ultimi anni avesse aggravato l' insonnia e le palpitazioni. Diceva di soffrire di una doppia nevrosi, paura di parlare e nevrosi cardiaca. Forse era per questo che amava viaggiare: l' accelerazione di energia che arriva quando si sta per cambiare posto gli faceva dimenticare il resto. John Cheever aveva bevuto ininterrottamente per quarant' anni, soffriva di afasia e di perdita di memoria, era talmente sprofondato nelle sue illusioni difensive che si era inventato una moglie maniaco -depressiva. E mai si dimenticava di suo padre sbronzo che sulle montagne russe di Nagasakit minacciava di buttarsi di sotto, tra le risate degli sconosciuti. Per lui, che aveva preso la prima sbronza insieme all' editore Malcolm Cowley, l' alcol aiutava ad attenuare la percezione di essere un impostore tra le persone della classe media. Chiunque abbia letto i suoi diari conosce quel divario doloroso tra apparenza e interiorità. Ogni mattina Cheever prendeva l' ascensore a Sutton Place, giacca, cravatta, stile impeccabile. Ma mentre gli altri uomini vestiti come lui confluivano nella hall per affrettarsi in ufficio, Cheever scendeva nel seminterrato, si spogliava e si sedeva in mutande davanti alla macchina da scrivere. John Berryman, premio Pulitzer nel 1964, beveva perché era un nevrotico, soffriva d' insonnia e passava la notte a camminare per le vie di Detroit. Nel 1940 divenne docente di Letteratura inglese a Harvard. Si sottoponeva a un programma frenetico di studio e insegnamento, non mangiava quasi niente e soffriva di allucinazioni; diceva di sentirsi come un personaggio secondario di un romanzo scadente di Fitzgerald. Anche lui era figlio di un suicida, anche lui era ossessionato dal proprio passato. Era impossibile non mescolare successo e autodistruzione. Per lui l' ispirazione conteneva una minaccia mortale, ma non erano stati i suoi Canti onirici a ucciderlo. Non erano le poesie ad aver causato il delirium tremens, provocato la ginecomastia; non lo avevano fatto cadere dalle scale, vomitare o defecare in pubblico. Forse l' alcol aveva placato la sensazione di panico, ma un drink dopo l' al tro aveva plasmato una vita di angoscia e disgregazione fisica e morale. "Perché un uomo beve? ", si chiede Tennessee Williams in una lettera a Elia Kazan, dandosi subito due risposte: se la fa sotto dalla paura per qualcosa; non riesce ad affrontare la verità su qualcosa. In Three Players of A Summer Game (New Yorker, 1° novembre 1952), Brick dice che un uomo quando beve è due persone insieme: una che afferra la bottiglia e l' altra che lotta per impedirglielo. Torna l' idea dell' impostura, dell' essere dimidiati, costretti a un doppio gioco con sé stessi; come sapeva bene Cheever, come succede con ogni dipendenza - anche se lui alla fine riuscì a disintossicarsi. Si comincia con un' alchimia, col lavoro duro, e si finisce quando si permette a un lato orribile e perverso di insediarsi nel nido e squarciare ogni speranza di lavoro. E' come avere un incendio nel petto: "La sorprendente coesistenza del bene e del male, la scioccante dualità di un singolo cuore". E poi c' è l' acqua. Ritorna spesso nelle opere degli scrittori alcolisti. L' acqua che è l' elemento ideale per rinascere. C' è nel Nuotatore come ritorno a se stesso, possibilità per quanto tragica di vedere il presente con lucidità. C' è per Hemingway quella voglia di buttarsi a capofitto tra le onde dal ponte della Pilar, buttarsi a capofitto nella vita. C' è l' acqua terribile dei Canti onirici di Berryman, che è quel mondo sommerso dove si è nudi, completamente soli, irraggiungibili. L' acqua di Key West dove Tennessee Williams annegava le delusioni. Ci sono i torrenti amati da Carver, con la loro musica, la loro purezza, l' eco di una nuova possibilità per lui che non credeva in Dio ma nella resurrezione, nel fatto che il recupero fosse una questione di fede: "Su questo non c' è alcun dubbio. Quando mi alzo al mattino sono felice di farlo". L' acqua che forse è la letteratura: il potere dei racconti di dare senso allo strazio e alla solitudine, e di trovare un altro mondo. Come diceva Fitzgerald, scrivere bene non è altro che nuotare sott' acqua e trattenere il respiro. 

·         La Società dei Magnaccioni...

“E MO’ CHE FAMO? ANNAMO A MAGNA’”. Jessica d'Ercole per “la Verità” l'1 agosto 2019. Nel Canto VI dell' Inferno Dante descrive una pioggia putrida che costringe i golosi a vivere come ombre nel fango, in compagnia di Cerbero latrante, per l' eternità. Fra i dannati che non resistettero a tenere a bada la ghiottoneria c' era anche Ciacco che per Dante s' era «dato del tutto al vizio della gola, era morditore e le sue usanze erano sempre co' gentili uomini e ricchi, e massimamente con quelli che splendidamente e dilicatamente mangiavano e beveano». Meglio non andò ai golosi del Purgatorio, tormentati da una fame e una sete che non potevano saziare mai. In questo girone ci finì pure papa Martino IV, passato alla storia più per la sua voracità che per l' impegno pastorale. Ingordo di anguille, simbolo del peccato originale perché somigliavano al serpente, se ne fregava dello scandalo al punto che secondo alcuni storici la causa della sua morte fu appunto la «grassezza ed indigestione di saporito pesce del lago di Bolsena cucinato e annaffiato con Vernaccia». In seguito, anche se non sarà Dante a dircelo, di mangioni in questo girone ne finiranno molti.

A cominciare da Honoré de Balzac che in un solo banchetto fu visto ingoiare cento ostriche, dodici costolette d' agnello, un' anatra, due pernici, una sogliola, il tutto seguito da dolci, frutta, caffè e liquori.

Carlo Magno (742-814) era un divoratore di carni rosse, selvaggina e di carne di maiale in quantità spropositate. Malato di gotta, a banchetti più sani preferì la morte. Jacques Duèze (1316-1334), ovvero Papa Giovanni XXII d' Avignone, il 22 novembre 1324, si fece organizzare da sua nipote un baccanale a base di otto buoi, 55 montoni, otto maiali, quattro cinghiali, 22 capponi, 690 polli, 580 pernici, 270 conigli, 37 anatre, quattro gru, due fagiani, due pavoni, 292 uccellini, un' enorme quantità di pesci, più di 3 quintali di formaggio, 3.000 uova, 2.000 frutti e ben 4.012 pani. Il tutto innaffiato da vino di Bordeaux (Il mio Papa di Giorgio Nadali).

Papa Giulio II (1443- 1513) amante dei sapori forti e d' aglio: «Grande mangiatore, ma non di cibi scelti, quali amavano i ghiottoni dei Rinascimento, sibbene andavangli a genio piatti sostanziosi, grassi, fortemente conditi d' aglio. La sua vivanda favorita erano le cipolle, che di straordinaria grossezza venivangli appositamente fornite da Gaeta». Così pure erano ben noti i «frivoli e sconvenienti scherzi, con cui condiva i suoi banchetti che mettevano non di rado in imbarazzo i suoi famigliari». In un rapporto inviato a Mantova, poco dopo la sua elezione, si legge: «Giovedì disinando gli si portarono inanzi certe polpette di vitello, le quali subito ch' egli vidde disse: "evi dentro aglio?". Rispose lo scalco: "Padre santo, no". All' hora mezo sdegnato disse: "Levate adesso, come se fosse giovane de XV anni et havesse lo stomaco di struzzo!"» (Il cuoco segreto dei Papi di Furio Luccichenti e June Di Schino).

Ernst Knam (1963), maestro del cioccolato, ha detto che se in terra non esistessero i golosi «sarei andato in Paradiso a vendere cioccolato a Dio».

Otto von Bismarck (1815-1898) per rendere energetici i suoi piatti aggiungeva sempre l' uovo fritto. A un certo punto della sua vita, però, il cancelliere prussiano cominciò a lamentare un misterioso peso allo stomaco e a comportarsi da inappetente. Così la moglie, premurosa, lo fece ingozzare di foie gras: il cancelliere ne era talmente goloso che, a cena, fissava in cagnesco tutti gli ospiti che osavano versarne un po' nel loro piatto. Voleva finirsi tutta la terrina da solo.

Winston Churchill (1874-1965) nel 1942, a Mosca, si fece conquistare da Iosif Stalin grazie a una cena informale. Al tavolo, dove sedevano con i traduttori e il ministro degli esteri Vjaeslav, Michajlovi Molotov «arrivano maialino da latte, due polli, manzo, montone, pesci e perfino, alla fine, la famosa testa di maiale, che Stalin finì con le mani» (A capotavola di Laura Grandi e Stefano Tettamanti).

Giulio Andreotti (1919-2013) una passione smodata per la cucina che lo portò a una collezione sconfinata di tutti i menu dei suoi pranzi ufficiali oggi conservata nei sotterranei dell' archivio all' Istituto Sturzo di Roma. L' oggi ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, all' epoca l' avvocato che lo difese nei processi per collusione con la mafia e per l' omicidio del giornalista Mino Pecorelli lo ricorda così: «Era goloso in una maniera sfrenata, lo vidi mangiare due cannoli siciliani dopo un' enorme pasta con melanzane». Ad Andrea Zaghi del Golosario Andreotti raccontò: «Mi ricordo che a Betlemme acquistai, sotto gli sguardi perplessi di chi mi accompagnava, delle frittelle per strada. Messe in bocca emettevano quasi una sorta di gas».

Luciano Pavarotti (1935-2007) non si definiva goloso ma incontinente: «Mangio a ruota libera e siccome ho lo stomaco di ferro, mangio il doppio, il triplo delle calorie che mi servono. Preferisco i primi piatti, la pasta, i tortellini, i maltagliati, gli gnocchi. La mia mamma, la mia nonna e le mie zie me li facevano sempre e mi davano un gran piacere». Mario Monicelli (1915-2010), goloso di prima levatura, andava matto per la pizza rustica, il polpettone al tartufo, i dolci. Giancarlo Dotto: «Il Grande vegliardo era sostenitore molto credibile del concetto che a tavola non s' invecchia, specialmente quando digerisci bene e lui digeriva tutto, tranne i panettoni, di cui era goloso fino alla perdizione».

Monicelli, secondo Paolo Villaggio, non digeriva neanche le storiche abbuffate del venerdì sera, preparate con amore, da Ugo Tognazzi: «Una volta Monicelli, alla fine della cena, prese una busta di plastica trasparente e cominciò a girare per la tavola e a riempirla degli avanzi. Tognazzi, ancora vestito da cuoco, col cappello bianco, chiese: «Mario cosa fai? Ti porti a casa gli avanzi? Ti è piaciuta così tanto?». La risposta di Monicelli: «No, li porto all' istituto italiano di criminologia. Ti voglio denunciare per tentato omicidio!»».

Marcello Mastroianni (1924-1996) diceva de La Grande Bouffe: «Uno dei film fra i più particolari mai girati, in cui il cibo entrava nelle interpretazioni di noi attori, così come le nostre interpretazioni erano strettamente legate al cibo, se non addirittura determinate da esso. Difatti Ugo Tognazzi ci sguazzava, perché per lui era un sogno che si realizzava, tutto quel cibo preparato da Fauchon. Il bello è che noi mangiavamo sul set e poi, nella pausa, andavamo anche in un ristorantino di fronte. Come se non fosse bastato quello che avevamo già mangiato».

Giosuè Carducci (1835-1907) aveva una passione sfrenata per i tordi: «I maremmani sono superiori agli altri, si nutrono di coccole di ginepro, di mortella, di olive. Le carni prendono l' amarognolo, gusto insuperabile. Roba da far risuscitare i morti!». Gabriele D' Annunzio (1863-1938) impazziva letteralmente per la cucina della sua amata cuoca Albina, che aveva ribattezzato Suor Intingola, al punto di lasciarle anche 300 lire di mancia anche per una sola frittata, un pourboire spesso accompagnato da lettere lusinghiere: «Per me non c' è al mondo nessun sapore più squisito della pernice fredda. Ho mangiato tutto ed ho leccato gli ossetti col rammarico che anche una pernice fredda abbia una fine».

Giacomo Puccini (1858-1924), tra una composizione e un capolavoro, si dilettava a creare personalmente ricette: dalla pasta con le anguille o alle aringhe coi ravanelli. Ma il massimo per lui era andare a trovare la sorella, suor Angelica, monaca in un convento di Lucca, spinto più che dall' amore fraterno dalla passione per i suoi fagioli cotti al fiasco.

Marisa Laurito (1951) che del cibo ha fatto una ragion di vita, non perdeva occasione per mettersi ai fornelli anche mentre lavorava: «In Pari e dispari giravamo a Miami, finivo sempre prima degli altri, così correvo nella roulotte di Carlo Pedersoli (Bud Spencer) per cucinare. Alle 13 Sergio Corbucci comunicava alla troupe: «Scusate, abbiamo bisogno di un' ora per studiare». Studiavamo i bombolotti alla matriciana, una cofana tanta di pasta da dividere in tre: io, Sergio e Carlo, con del buon vino, mentre Terence Hill restava fuori, non partecipava, lui era già ascetico; poi verso le 14 gli statunitensi ci bussavano alla porta per sollecitarci a tornare sul set, e Sergio rispondeva: «Stiamo provando!»; io e Carlo ridevamo, dalla roulotte usciva un profumo inconfondibile».

Sergio Leone (1929-1989) che, quando un ponte esplose anzitempo sul set di Giù la testa, al preoccupato «e mo' che famo?» della squadra, rispose «Annamo a magnà!».«Gli obesi vivono di meno, però mangiano di più» (Stanislaw J. Lec).

·         Vite da Scoponi.

Gian Paolo Serino per Il Giornale il 15 dicembre 2019. William Faulkner si riteneva un fallito, James Joyce, se non era ubriaco e si arrampicava sui lampioni, alle cene chiedeva a tutti di conversare mentre lui rispondeva solo “sì” o “no”, Henry James spesso delirava e dettava lettere che firmava “Napoleone”, Arthur Conan Doyle, inventore di Sherlock Holmes, si diede allo spiritismo e risolse anche diversi casi di delitti rimasti irrisolti anche fuori dalle pagine. Robert Louis Stevenson diede fuoco a dei boschi in California e frequentava gli ultimi degli ultimi e malgrado il successo dei suoi libri, come L’ isola del Tesoro  o Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde ,vestiva come l’ultimo dei mendicanti, Thomas Mann era “tormentato dal sesso” e dalla “ipocondria”, mentre Nabokov, oltre ad aver scritto Lolita, malgrado fosse conosciuto come un “misantropo” si apriva soltanto con le ragazzine, mentre Arthur Rimbaud era “infrequentabile” perché “non ci cambiava mai d’abito e bevendo continuamente ingiuriava sempre tutti”,  e Yukio Mishima odiava talmente il genere umano da avere avuto più volti istinti cannibaleschi. Sono queste soltanto alcune delle Vite scritte da Javier Marìas che racconta i maggiori narratori e poeti di sempre trattando “questi letterati come personaggi da romanzo, che poi probabilmente la maniera in cui tutti gli scrittori intimamente desiderano vedersi trattati, al di là della fama e dell’oblio”. E il suo intento è perfettamente riuscito in questi venti ritratti che hanno la leggibilità narrativa di racconti ma coniugata ad una ricerca bibliografica rigorosa. Più che un libro Marìas – lo scrittore autore di capolavori come Domani nella battaglia pensa a me, e dei recenti Così inizia il male e Berta Isla (tutti tradotti in Italia da Einaudi) – ci consegna una galleria che non ha nulla di voyeuristico - come spesso accade raccontando i lati più nascosti degli artisti-, non ha nulla delle agiografie che vanno oggi per la maggiore dove si incensano oltre ogni merito gli scrittori (basti pensare alle biografie di Salinger o di Philip Roth). Marìas fa ciò che il grande e purtroppo ancor misconosciuto Giovanni Baglione nel 1640 è riuscito con il suo Le Vite dei pittori, Scultori e Architetti molto più interessante del più famoso Giorgio Vasari con il suo Vite de’ più eccelenti pittori, scultori e architetti italiani dei tempi nostri (pubblicato nel 1540): perché Baglione ci fa scoprire la vera vita degli artisti mentre Vasari è più un pubblicitario, più un testimonial, come si direbbe oggi. Marìas è il Baglione della letteratura: perché questo libro è un capolavoro (anche grazie alla traduzione di Glauco Felice, uno dei più importanti ispanisti italiani del Novecento). È una raccolta che incuriosisce anche il lettore abituato ai bestseller e soprattutto ci fa venire la curiosità di (ri)leggere dei grandi classici oggi più citati che letti. Proposta in una nuova edizione da Einaudi (dopo la prima del 2004 e da anni fuori catalogo) nell’introduzione lo scrittore spagnolo ci avverte, pur con tono ironico, che “la maggior parte degli scrittori sono stati individui sventurati; e sebbene non lo fossero più di ogni altra persona di cui conosciamo la vita, il loro esempio non inviterà oltre misura a seguire il sentiero della letteratura”.  Si inizia con William Faulkner,  Premio Nobel nel 1949, che scrisse il romanzo Mentre morivo nell’arco di sei settimane “nelle più precarie delle condizioni: mentre lavorava di notte in miniera, con i fogli appoggiati sulla cariola rovesciata e facendosi luce con la flebile lanterna del suo elmetto polveroso”. Poi divenne responsabile dell’ufficio postale dell’Università del Minnesota ma fu licenziato perché “non  gradiva essere interrotto nella lettura” e scrisse ai genitori disperati dal suo precariato monetario che “non era disposto ad alzarsi di continuo per occuparsi dello sportello e mostrarsi gentile per chiunque possedesse cinque centesimi per comprare un francobollo”. Da lì nacque la sua avversione per la corrispondenza: alla sua morte furono trovate migliaia di lettere mai aperte, tranne quelle degli editori che Faulkner “scuoteva per vedere se spuntava un assegno” e malgrado la sua eleganza nel vestire, era soprannominato “Il Conte”,  dilapidava ogni soldo tra scommesse sui cavalli e alcolici. Joseph Conrad, l’autore di libri eterni come Cuore di tenebra , era “irritabile e il suo stato naturale era di un inquietudine che rasentava l’ansietà” mentre James Joyce era “un uomo sospettoso, solitario, insoddisfatto” malgrado il suo Ulisse sia entrato nella Storia della Letteratura. Era alcolizzato e un sessuomane, tanto che costringeva la moglie ad ingrassare per essere picchiato con più forza, era coprofago e per tutta la sua vita considerò “l’infelicità come il peggiore dei vizi”. Arthur Conan Doyle per anni ricevette lettere indirizzate al suo Sherlock Holmes con le richieste di indagini poliziesche che lui inventava solo sulla carta ma i lettori lo confondevano con il protagonista dei suoi libri.  In diversi casi, però, risolse misteri inquietanti e al contempo, ricco grazie alla fortuna editoriale del suo Holmes, aiutava tutti, specie i fratelli, firmando “assegni in bianco”. Robert Louis Stevenson “faceva scappare i passanti che lo prendevano per un mendicante” vista la sua non cura dell’aspetto e dell’abbigliamento. Thomas Mann, invece, era una sorta di malato immaginario, sempre timoroso che lo colpisse la dissenteria tanto che ne scriveva compulsivamente sia nelle lettere che nei saggi con l’elenco quotidiano delle condizioni del suo intestino. Nabokov è lo scrittore che meglio sintetizza le condizioni dell’artista: “Penso come un genio, scrivo come un autore raffinato e parlo come un bambino” e detestava Dostoevskij che considerava “un sensazionalista di scarso valore, inetto e volgare”. Tanti altri scrittori e scrittrici (unico punto debole del libro: le donne sembrano essere state inserite più per un obbligo editoriale da “quote rosa”) li lasciamo scoprire al lettore. Tutti raccontati con l’avvertimento che i libri che leggiamo ci risultano “più lontani e incomprensibili quando non possiamo dare un’occhiate alle teste che li hanno composti”.

Dagospia il 26 novembre 2019. Estratto dell’articolo di Annalena Benini per “il Foglio”. (…) Susan Sontag è morta ormai da quindici anni, per un cancro al sangue, e verso la fine ha detto a suo figlio David: "Sai dove sono i diari". Che aveva scritto per tutta la vita, a partire dai quindici anni (quando si è diplomata saltando tre anni di scuola). Un centinaio di quaderni a cui il figlio si è dedicato con ostinazione, e da cui non ha voluto eliminare niente. Sul sesso, sul dolore, sulla formazione individuale che l' ha portata alla maturità. Su suo figlio, anche. Questo secondo volume è totalmente immerso nell' età adulta di Susan, che diventa sempre più forte, ma anche sempre più esposta alle sofferenze d' amore: "Amare = la sensazione di vivere in una forma più intensa. Come l' ossigeno puro (diverso dall' aria)". E poiché scrive solo per se stessa, scrive con una sincerità che si infila in tutte le pieghe della vita quotidiana (…) Riflette sulla bellezza di sua madre, sulla vita con suo figlio, sull' abbandono delle sue fidanzate, sui libri, sul Vietnam, sulla letteratura, sugli inganni della sua intelligenza, sul fatto che la vera ragione per cui indossa i pantaloni è per nascondere le gambe grosse. Questo diario è fatto di frammenti, impressioni, citazioni, elenchi. "Caratteristiche che mi attraggono (la persona che amo deve possederne almeno due o tre): 1. Intelligenza 2. Bellezza; eleganza 3. Douceur 4. Glamour; celebrità 5. Forza 6. Vitalità; entusiasmo sessuale: allegria; fascino 7. Espansività affettiva, tenerezza (verbale, fisica), affettuosità. Una grande (e imbarazzante) scoperta degli ultimi anni: quanto sono sensibile alla numero 4". Nel gennaio del 1971, a trentanove anni, Susan Sontag annota: "Cosa mi fa sentire forte? Essere innamorata e lavorare. Devo lavorare". Uno dei più importanti intellettuali (uomini e donne) del Novecento era ossessionata dall' innamoramento quanto dallo studio e dalla scrittura. In tutti questi campi lei si abbandonava, consegnava se stessa. (…)

Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 15 Novembre 2019. Le donne, l'arme e l'amore sadomaso. C'è l'Ian Fleming più segreto e sessualmente estremo nelle lettere inedite che Sotheby' s metterà all' asta a inizio dicembre a Londra. Secondo le stime, c' è chi pagherà addirittura 300 mila sterline per avere queste 150 missive inviate o ricevute dal padre di James Bond, molte di esse inedite, le prime risalenti agli anni Quaranta, le altre che arrivano fino alla sua morte nel 1964, a 56 anni, per problemi cardiaci innescati da fumo e abuso di alcol. «Sono documenti rari e straordinari», dice lo studioso di letteratura e archivistica Gabriel Heaton, «anche perché Fleming non riesce a scrivere una frase che sia noiosa». La corrispondenza più interessante è tra il grande scrittore londinese e la sua amante e poi moglie favolosamente mondana Ann Charteris. Fleming inizia a flirtare con lei negli anni Trenta, quando era sposata al terzo barone O' Neill, Shane, successivamente morto in guerra nel 1944, e poi con il magnate dei giornali e secondo visconte di Rothermere, Esmond Harmsworth. Infine, il matrimonio con Fleming nel 1952. In questi anni, con carta e penna, Ian e Ann danno "sfogo", sottolinea Heathon, «a tutta la loro libido e immaginazione».  Non è un caso che proprio nell' anno del loro matrimonio, Fleming scriverà Casino Royale , il primo romanzo della saga di Bond che poi produrrà cento milioni di copie vendute, altri tredici tra romanzi e collezioni di racconti e quasi trenta film, tra cui il prossimo No time to die , "Non c' è tempo per morire". «Mi manchi e ti voglio », scrive Ann, «anche se tu mi frusti. Ma adoro che tu mi faccia male e poi mi baci subito dopo». Fleming risponde: «Mi piace frustarti e strizzarti, tirarti i capelli neri». Ancora lo scrittore: «E poi così siamo felici quando ci infiliamo le spille nei nostri corpi, così ci piacciamo, senza comportarci troppo da adulti. Ma mi raccomando, non lasciare queste mie lettere nelle tue mutande e reggiseni». Ann, allora ancora sposata con Harmsworth, fantastica: «Magari arrivasse ora una fata a dare una moglie perfetta a Esmond, con me invece nel tuo letto con una ruvida frusta di cuoio affinché tu possa comportarti bene per i prossimi quarant' anni». Ann, però, a un certo punto rimprovera Fleming: «L' unica persona con la quale non vai a letto sono io!». Non a caso, negli anni Cinquanta, la signora Fleming ha un altro amante, e cioè il leader laburista Hugh Gaitskell, in pubblico un mezzo frate, in privato scatenato ballerino. Gaitskell era uno dei frequentatori di Goldenye, non l' operazione di guerra antifranchista cui Fleming partecipò durante la Seconda guerra mondiale e neanche un romanzo da cui è poi stato tratto il film (la trama fu invece di Michael France), bensì la casa in Giamaica dove lo scrittore forgiò tutti i capolavori della serie. Gli altri ospiti abituali erano Lucian Freud, Noël Coward, Truman Capote: «Truman è qui», scrive Fleming in un' altra lettera ad Ann, «è appena arrivato da Mosca, con quel suo visino stretto sotto il cappello di un' uniforme sovietica». A un certo punto però Fleming si stufa di 007 - «sono incredibilmente stanco di questo coglione di Bond» - anche se scrive come un treno, un romanzo all' anno. Su Dalla Russia con amore, per esempio, commenta: «Ne ho scritto un terzo in un mese, un capitolo a settimana!». Queste straordinarie lettere sono però impregnate anche di dolore e tenerezza. Per esempio quando nel 1948 Ann dà alla luce prematuramente una bambina avuta con Fleming. La piccola muore soltanto otto ore dopo: «Non ho nulla da dirti per alleviarti il dolore», scrive Ian, mentre sta giocando a golf proprio con l'allora marito di lei, Esmond Harmsworth, «posso solo mandarti i miei abbracci, il mio amore e le mie preghiere». Nel 1952, poco dopo il loro matrimonio, nascerà però Caspar e Fleming per festeggiare comprò una macchina da scrivere d' oro. "D'oro" come il valore delle missive ora all' asta, ha spiegato al Telegraph il biografo di Fleming Andrew Lycett: «Sono perfette se volete davvero conoscerlo». Ma la maledizione non andò via: l' unico figlio Caspar dello scrittore si suicidò a 23 anni, nell' ottobre 1975. Mentre Ann morì nel 1981, a 68 anni. Prima però, a poche settimane di distanza dalla morte del suo amato Fleming nel 1964 (proprio nel giorno del compleanno di Caspar), Ann scrive: «Ora che l' incredibile è accaduto, non c' è niente di più importante di aver visitato la Luna», storpiando Antonio e Cleopatra di Shakespeare, «non sono mai riuscita a capire la vera differenza tra amore e amore fisico, ma adesso sì. Almeno, i nostri ultimi mesi insieme sono stati incredibilmente felici».

Camilla Tagliabue per “il Fatto quotidiano” il 31 ottobre 2019. Al di là del fiume, ma dalla parte sbagliata: non la tanto decantata Rive Gauche, ma la Rive Droite, lì dove razzolava la meglio gioventù parigina prima che la Seconda guerra mondiale sconvolgesse la Francia, sospingendo gli intellettuali a sinistra, non solo geograficamente. All' Altra metà di Parigi torna ora, con piglio erudito e sguardo malizioso, Giuseppe Scaraffia, a zonzo tra il Palais Royal e gli Champs-élysées, Montmartre e l' Opéra, il Trocadéro e il Bois de Boulogne: solo qui ci si può mettere alla ricerca di Proust e compagnia bella nel ventennio destrorso tra il 1919 e il 1939; poi i bo-bo traslocarono sulla Gauche. Il saggio si può piluccare golosamente come uno zibaldone di aneddoti, ma si può anche compulsare come una guida turistica: è articolato infatti in 12 capitoli - dal I al XIX arrondissement - più 2 sulle periferie di Neuilly-sur-Seine e Clichy, dove Céline aveva il suo ambulatorio di medico della mutua. "Scivolando nell' abisso come nel piacere", l' itinerario si dipana dal cuore della città, nelle stanze del Palais Royal, refugium peccatorum di Vita Sackeville-West e Violet Trefusis: gli appartamenti erano talmente angusti che "ci si può fare solo l' amore", diceva Colette, accasata lì vicino, ma proprietaria di un negozio di prodotti di bellezza nell' VIII arrondissement, dove spacciava "menzogne quotidiane". All' Hôtel de Beaujolais soggiornarono Zweig e Malraux con l' amante Josette; al Lotti passavano celebrità come Chanel e Picasso, mentre Orwell ci lavorava 11 ore al giorno come lavapiatti; al Thé Colombin andava, invece, Marguerite Yourcenar, in cerca di lesbiche e con la fiaschetta di cognac nascosta sotto il cappotto. Poco più in là, ai Jardin des Tuileries, Sartre e la de Beauvoir strinsero il "contratto di due anni" come coppia aperta, mentre sulle rive della Senna Anais Nin comprò una chiatta su cui lasciarsi coccolare dagli amanti, ma non da Miller che preferiva portarla a "vedere le puttane". Il bar del Ritz era meta fissa di Malaparte - spesso ebbro - e della marchesa Casati, che terrorizzava i clienti con collane di serpenti vivi e affamati, riforniti di conigli dal maître. Dopo il Ritz, Proust bazzicava l' Hôtel Marigny, "luogo di omosessuali influenti", in cui si eccitava guardando giovani masturbarsi o topi sbranarsi: una volta finì in un blitz della polizia e fu schedato come un "45enne che vive di rendita, intento a bere con tre pederasti". Intanto, al Fouquet' s Joséphine Baker cenava insieme al suo cucciolo di leopardo e a Le Voisin si attovagliavano Marinetti e Majakoskij. Dietro Notre-Dame viveva Nancy Cunard, che sedusse tutti e portò al (tentato) suicidio Louis Aragon. Cocteau, invece, abitava nell' VIII con la madre, stufa degli amanti del figlio in giro per casa: su tutti Raymond Radiguet, noto per avere "il diavolo in corpo". Nell' VIII stavano anche i Fitzgerald, e fu l' amico-nemico Hemingway a spifferare le bravate di Francis Scott: una volta si mangiò i petali di un' orchidea rigettata da una donna; un' altra guidò ubriaco per Place de la Concorde inseguito dai poliziotti in bici. I surrealisti avevano colonizzato il IX arrondissement e Joyce il X. Tentò di far maritare la figlia Lucia con Beckett, ma se la prese Jung in cura: era pazza; tra le sue sceneggiate si ricordano i tentativi di incendiare la casa e le sediate alla madre, al che il patriarca sbottava: "Basta! Qui l' artista sono io!". Ancora più decentrati erano gli esuli Marina Cvetaeva e i Nabokov: per mantenersi Vladimir traduceva persino libri sui topi, ma fu proprio a Parigi che ebbe l' intuizione di Lolita. Più lussuoso era il vicino appartamento di Irène Némirovsky e più vistoso quello di Pierre Louys, la cui "dieta" giornaliera comprendeva 6-7 bottiglie di alcolici, cocaina e 60-80 sigarette. E poi Neruda, Gide, Tzara, Picabia, Duchamp, La Rochelle tutti sparpagliati e brulicanti dal Casino al Moulin Rouge, dalle alcove ai locali per voyeur, dalle osterie ai bordelli, come lo Chabanais, frequentato dalla Dietrich travestita da uomo e da Edoardo VII , che si trastullava con le ninfette in una vasca colma di champagne. Dopodiché passavano alla stanza delle torture sadomaso.

CHIAROMONTE E CAMUS, UN'AMICIZIA TRA UOMINI D'ALTRI TEMPI. Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 19 agosto 2019. La loro amicizia nacque nella primavera del 1941, davanti al mare, in Algeria. «Ce ne andammo in bicicletta oltre Mers-el-Kebir su una spiaggia deserta - scrisse Nicola Chiaromonte, filosofo e politico, molti anni più tardi, nel 1960, ricordando Albert Camus, appena morto in un tragico incidente stradale -. Non si parlò troppo neppure allora, ma si disse molto bene del mare, come di un oggetto nel quale non c' è niente da capire, eppure è inesauribile e non stanca mai». Quel giorno Nicola e Albert non discussero di politica, letteratura o filosofia, argomenti ricorrenti nelle lettere che si scriveranno poi tra il 1945 fino al '59, ma «restarono in silenzio e la bellezza venne a loro - sottolinea Samantha Novello -. Si scambiarono l'amore per il mare». Nacque «un'amicizia così forte, così pudica», come la descrisse Camus. Un' amicizia tra uomini d' altri tempi. La Novello, professoressa di storia e filosofia in un liceo scientifico di Firenze, è diventata anche una delle maggiori specialiste di Camus, tanto che Gallimard le ha affidato l'edizione, appena pubblicata in Francia, di questa Corrispondenza, insolita e sconosciuta. Chiaromonte arrivò a Parigi nel 1934, fuggendo il fascismo, militante di Giustizia e libertà. Partirà come mitragliere nell' aviazione repubblicana organizzata in Spagna da André Malraux, ma ritornerà in Francia appena i comunisti prenderanno il sopravvento su chi combatteva Franco. Già allora Chiaromonte era un intellettuale di sinistra (influenzato dalla tradizione anarchica e dal socialismo utopistico di Pierre-Joseph Proudhon), antifascista ma contrario a un antifascismo militante «semplice negazione della negazione». Rifiutava ogni tipo di dogmatismo, comunista in particolare. Conosciuto per aver fondato più tardi con Ignazio Silone la rivista Tempo presente, a Roma, nel 1956, si ritrovò subito con uno come Camus, che prese le distanze dal comunismo da giovanissimo. Erano due libertari, sognatori, che anche nelle lettere combattevano ogni forma di nichilismo, inteso in un senso nietzschiano «come negazione assoluta di dare un senso alle cose e come risentimento che riduce in niente l' altro che la pensa diversamente da te», sottolinea la Novello. Nel 1940, con l'entrata in guerra dell' Italia e la conquista di Parigi da parte dei nazisti, Chiaromonte fuggì verso il Sud della Francia con la moglie Annie Pohl, che morì, sfinita da quell' odissea. Affranto, Nicola se ne andò in Algeria: nell' attesa di ottenere il visto per gli Usa, amici comuni gli presentarono Camus e la moglie Francine Faure, che accettarono di nasconderlo a casa loro a Orano (Chiaromonte era ormai ricercato dalla polizia collaborazionista). È lì che i due andarono insieme alla famosa spiaggia. L'italiano poi emigrerà a New York, dove fonderà con Dwight Macdonald la rivista Politics. Con Albert si rifarà vivo grazie a una prima lettera due giorni dopo il lancio della bomba atomica a Hiroshima. Nicola gli dice che la sua amicizia gli è «preziosa, perché ci vorranno molti amici in Europa, per risalire verso una vita degna». L' epistolario iniziò allora e s' interruppe solo quando Chiaromonte, con la nuova moglie, Miriam Rosenthal, ritornò a Parigi, nel 1947: ci rimase fino al 1952, quando la coppia si trasferirà a Roma. Così ricominceranno a scriversi e già in una lettera del 18 settembre, Chiaromonte sostiene Camus nella polemica scoppiata contro di lui dopo l' uscita dell' Uomo in rivolta, alimentata da Les Temps Modernes, diretto da Jean-Paul Sartre, che rigetta il rifiuto di Albert del marxismo e dello stalinismo. Nicola parla di «gangsterismo culturale» a proposito di Sartre. Nel 1952 Chiaromonte era partito da un giorno all' altro da Parigi. In una struggente missiva del 9 febbraio 1954 racconta finalmente il perché all' amico. Aveva avuto una storia con Patricia Blake, intellettuale americana, moglie del compositore russo Nicolas Nabokov. E, per salvare il suo matrimonio, aveva deciso di punto in bianco di andarsene. Si scusa con Albert per non avergliene parlato, ma lo stesso Camus aveva avuto una storia con Patricia, allora studentessa di letteratura, nel 1946, durante un viaggio a New York. Bellissime le lettere che seguono di Albert (che tradiva la sua Francine) sull' adulterio: «Solo certi esseri, privilegiati, sanno non giudicare mai. Sono una fonte di libertà, vi liberano nel senso proprio della parola ed è per questo che l' amore che si prova per loro si colora di una meravigliosa gratitudine». I due uomini iniziarono così a confidarsi anche sulla vita privata, a «parlare di donne». Senza ipocrisie, sinceri sulle proprie fragilità.

Daniele Abbiati per “il Giornale” il 20 Agosto 2019. Il motto è pesante, greve, «scorretto». Tuttavia perfetto per illustrare l' ipocrisia di chi (eufemizziamolo, deformandone un po' il contenuto) tira il sasso e nasconde la mano. Il motto dice: «son tutti bravi a fare i froci col culo degli altri». Alcuni omosessuali lo detestano, considerandolo discriminante, altri, sorvolando la metafora e atterrando sul messaggio, ne apprezzano la cruda franchezza, che naturalmente esula dalle tendenze sessuali. Ciò accade oggi, nel 2019. Ma più di un secolo fa, nonostante il motto non fosse stato ancora coniato, qualcuno, nella Francia della Belle Époque, ne fu il... vessillifero. Nella forma e nella sostanza. Si chiamava, anzi si faceva chiamare, Jean Lorrain, ma per l' anagrafe di Fécamp, dov' era nato il 9 agosto 1855, suonava Paul Alexandre Martin Duval. A ribattezzarlo, dietro specifica richiesta dell' interessato, era stata sua madre Pauline Mulat (le madri dei gay hanno spesso una marcia in più, e se non ce l' hanno, devono inventarsela, quelle sante donne), moglie dell' armatore Amable Duval. Non voleva, il buon Paul Alexandre Martin, far pesare sulla famiglia i suoi comportamenti tutt' altro che in linea con la morale e con il buonsenso. Truccarsi come una decrepita matrona, drogarsi, frequentare debosciati e malviventi, bere come una spugna e sparlare di questa e di quello a ogni angolo di strada, non erano abitudini apprezzate dall' integerrimo padre. Lui, Paul Alexandre Martin alias Jean, da parte sua non aveva apprezzato l'esperienza di qualche mese nel corpo degli Ussari, e neppure gli studi di diritto a Parigi. Così, dopo le prime esperienze poetiche (e anche altre, molto prosaiche...) sui trent' anni aveva deciso di darsi alla scrittura, influenzato dal circolo degli «Hydropathes» di Émile Goudeau, oltre che da Barbey d' Aurevilly. In breve, era diventato una sorta di gazzettiere-commentatore-interprete della scandalosa vita bohémiene nella capitale, come il suo corrispettivo femminile Marguerite Eymery, alias Rachilde. Tornando al punto da dove siamo partiti, cioè alle terga altrui, Jean Lorrain è noto, ai cultori della letteratura «alta», più che per i versi, i romanzi, i racconti, le cronache mondane, le pièce teatrali che sciorinò in circa un ventennio di febbrile attività, per aver messo nel mirino, in senso figurato, il posteriore di un suo giovane collega all' epoca ancora vergine di successi, ma destinato a fama imperitura: Marcel Proust. E forse, se vogliamo giudicare a nostra volta a posteriori (ma, si spera, non con il deretano), tutto sommato rendendogli involontariamente un favore. Il «caso» scoppia nel febbraio 1897. Il giorno 3 Le Journal pubblica, a firma Raitif de la Bretonne, una stroncatura dell' opera prima di Proust, Les Plaisirs et les Jours, una raccolta di poemi in prosa e di racconti uscita da poco. «Pesanti malinconie», «elegiache svenevolezze», «inani flirt in stile prezioso e pretenzioso» sono parole che sembrano complimenti se confrontate con l' affondo gossiparo: «Nondimeno Marcel Proust ha avuto la prefazione di Anatole France, che non ha prefatto né Marcel Schwob, né Pierre Louÿs, né Maurice Barrès; ma così vanno le cose a questo mondo e sono certo che, per il suo prossimo volume, Marcel Proust otterrà la prefazione di Alphonse Daudet, dell' intransigente Alphonse Daudet, proprio lui, che non potrà rifiutarla né a madame Lemaire (Madeleine Lemaire, l' illustratrice del libro, ndr), né a suo figlio Lucien». In cauda venenum. Poiché l' intimità fra Lucien Daudet e Marcel Proust era già sulla bocca e nelle orecchie di molti. Insomma, il non fantomatico «Raitif» che omaggiava, corrompendolo, il poligrafo libertino de la Bretonne, non soltanto lancia il sasso e nasconde la mano, ma accusa non velatamente il venticinquenne Proust di indulgere nel vizio che lui, Jean Lorrain, chi sennò, il Dagospia fin de siècle, conosce a menadito. Proust, offesissimo, prende cappello e sfida a duello Lorrain. Il redde rationem avviene tre giorni dopo, il 6 febbraio, in una mattina piovosa, nella foresta di Meudon, alle porte di Parigi. E per fortuna tutto si risolve con un paio di maldestre pistolettate a testa che causano soltanto urla isteriche e qualche danno ai malcapitati alberi circostanti. I quattro testimoni dichiarano nullo il confronto. Tutti a casa, nemici come prima, ma sani e salvi. Spostandoci dalla cronaca potenzialmente nera a ciò che qui più conta, cioè la letteratura, la recentissima uscita di Colloquio sentimentale e altre prose inedite (Via del Vento, pagg. 38, euro 4, cura e traduzione di Angela Calaprice) che comprende tre racconti di Jean Lorrain tratti dalla raccolta L'école des vieilles femmes (altra citazione, della commedia di Molière La scuola delle mogli) ci aiuta a comprendere da quale pulpito provenissero le frecciate rivolte al povero Proust, nell'inverno del 1897. Ora, se pensiamo alle meraviglie architettoniche di quella cattedrale di parole che è la Recherche, ci vien voglia di...scomunicare don Lorrain. Se invece pensiamo proprio a I piaceri e i giorni, dove Proust sta ancora costruendo la sua prosa esercitandosi sul materiale grezzo della quotidianità, del giorno per giorno, delle performance d' occasione, dove cioè non è ancora entrata in scena la vera protagonista del suo capolavoro, la Memoria, allora la prospettiva cambia, e di molto. Certo, da una parte abbiamo un esordiente e dall' altra un prepensionato (per motivi di salute) che esercita la sua caustica penna sul demi-monde della Costa Azzurra, nei primissimi anni del Novecento (L' école des vieilles femmes uscì nel 1905). Ma, pur considerando lo scarto di 23 anni fra i due autori, l' affinità dei temi e degli sguardi, più condiscendente quello di Marcel, più sarcastico quello di Jean, la sensibilità nel cogliere l' universale dal particolare, il piacere di crogiolarsi, dal proprio distaccato angolo d' osservazione, nei riflessi dei patetici sotterfugi e degli inconfessabili segreti dei personaggi, è una curiosa scoperta. La principessa Dostéwianoff che perde la testa per il precettore dei suoi figli; la marchesa de Fleurigneuse che s' incapriccia di un conte brasiliano (!) più ladro che nobile; soprattutto la signora Borrusset che, rimasta vedova una prima volta, deve fare il bis con l' affascinante ma cagionevole secondo marito, da lei visto per la prima volta il giorno in cui, vent' anni prima, da impiegato delle pompe funebri s'era occupato della salma del suo primo consorte...Queste stagionate e tormentate cougar da operetta non sfigurerebbero nel carniere del primo Marcel Proust. Ecco perché possiamo ipotizzare, omaggiando così un minore a petto di un super classico, che anche le male parole di Jean Lorrain hanno contribuito, spronandolo a scrollarsi di dosso «pesanti malinconie», «elegiache svenevolezze» e «inani flirt», a fare di un aspirante scrittore un geni.

Pierluigi Battista per Corriere della Sera il 30 settembre 2019. Che personaggio meraviglioso il Marcel Proust raccontato da Lorenza Foschini in questa «storia d' amore e di amicizia» che rende così vivo il libro ‘’Il vento attraversa le nostre anime’’, pubblicato da Mondadori. Il Proust costretto ad abbandonare il suo celebre appartamento di Boulevard Haussmann per trasferirsi in un appartamento solo un po' più piccolo, ma che descrive agli amici addirittura come «il tugurio». Il Proust che costringe, nel tratto conclusivo della sua vita, persino Reynaldo Hahn, il coprotagonista di questa storia, a chiedere notizie solo attraverso le domande annotate su un foglio e poi riferite da Céleste, la fedele governante, all' amico di una vita malato. Il Marcel Proust che dovrebbe uscire di tanto in tanto da quel «tugurio», ma per uscire, scrive a Gaston Gallimard, «bisognerebbe arrivare fino all' ascensore. Vivere non è sempre comodo». Non sono solo bizzarrie, ma le manifestazioni di un oltranzismo caratteriale che impedirà a Proust, roso dai tormenti di una gelosia patologica e prigioniero di un sentimento del possesso spinto al parossismo, di vivere il sentimento appassionato sbocciato nel 1894 tra «il giovane uomo ancora sconosciuto, di buona famiglia borghese, di rara intelligenza e raffinata cultura, e di salute malferma» e Reynaldo Hahn. Lorenza Foschini di questo amore ha dato una rappresentazione vivida, lavorando su testimonianze e carteggi che il perbenismo delle famiglie aveva voluto, se non distruggere, almeno occultare. E ne ha ricavato una narrazione, che da una parte è scandita dai rispecchiamenti letterari che Proust catturò da questa relazione per dare linfa ad alcuni passaggi essenziali della Recherche. Dall' altra per ricostruire la storia di un rapporto che segnerà per sempre il modo di stare al mondo dei due protagonisti. Reynaldo, quello più sfortunato e malinconico dei due, ha un passato da enfant prodige dotato di una voce fascinosa e piena di grazia, musicista raffinato, l' uomo che Massenet considerava il suo «allievo prediletto». Mosso da gusti raffinati e molto tradizionali, diffidava della musica tedesca e in particolare dell' opera di Richard Wagner, cui invece Proust tributava un culto quasi idolatrico. Alla fine della Prima guerra mondiale stentò a ritrovare il suo rassicurante universo culturale, sconvolto dall' irruzione di novità che non riusciva a far sue, a differenza di Marcel, rabdomanticamente pronto ad annusare qualunque profumo di novità da riversare nella sua opera. Particolare molto significativo, Reynaldo è omosessuale, ma ostenta un disprezzo profondo per quelli che chiama «invertiti». «Cosa spinge un ragazzo di diciannove anni a manifestare in modo così violento la ripugnanza contro coloro che hanno la sua stessa indole?», si chiede Lorenza Foschini. La quale rintraccia nella Recherche un passaggio in cui è descritto il disprezzo di Reynaldo: «D' altronde l' invertito, messo in presenza di un altro invertito, vede non soltanto un' immagine sgradevole di se stesso» e così via. Forse c' è il riflesso in queste parole di una grande paura, alimentata in quegli anni dalla persecuzione che aveva colpito Oscar Wilde, «lo spettro dell' infamia sociale, la minaccia del dolore che un' onta simile potrebbe arrecare», la derisione: «Senza onore se non precario, senza libertà se non provvisoria», un giorno sugli altari, il giorno dopo nella polvere. È questo sentimento di instabile e angosciosa precarietà che condiziona sia in Marcel che in Reynaldo l' atteggiamento verso l' omosessualità, mal tollerata non solo negli ambienti del perbenismo borghese, ma anche in quello culturale, apparentemente più libero nel passaggio tra i due secoli, ma in realtà condizionato da pregiudizi e avvelenato da maldicenze. Lorenza Foschini individua nella gelosia, nella possessività esasperata di Marcel, che diventa tortura, catena di rimproveri e ricatti infiniti, l' origine della rottura tra i due, anche se l' amicizia durerà molti decenni fino alla morte dell' autore della Recherche . «Nello scrivere la storia d' amore di Swann e Odette», scrive la Foschini, Proust si ricorderà di quel momento doloroso, dell'«ansia del possesso» e dei dolori della gelosia. Ma un altro elemento emerge da questa ricostruzione: e cioè l' incapacità di Reynaldo, pupillo della migliore tradizione musicale, di creare il grande capolavoro, l' opera più importante della sua carriera. Si spalanca tra i due una dissimmetria destinata a sfociare forse in rancori indicibili, in invidie mal represse. Mentre Proust mette mano alla Recherche , Reynaldo non sa fare altrettanto nel suo campo estetico. Questo dettaglio li dividerà. Anche se ciò che resta della loro vita terrestre è sepolto a poca distanza nel cimitero Père Lachaise. Riuniti, almeno nell' immaginazione.

IL TRIANGOLO NO(BEL). Massimo Novelli per il “Fatto quotidiano” l'8 agosto 2019. La grande letteratura è piena di triangoli amorosi, da Anna Karenina di Lev Tolstoj a Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. Quello presunto tra due premi Nobel come il peruviano Mario Vargas Llosa e il colombiano Gabriel García Márquez, e Patricia, cugina e moglie dell' autore di Conversazione nella cattedrale, sarebbe stato persino la causa di una rissa con cazzotti. Accadde nel 1976, a febbraio. Fu allora che Vargas Llosa prese a pugni il suo amico García Márquez. Il motivo? I giornali sostennero che avrebbe avuto come antefatto "una fuga d' amore di Vargas Llosa, che piantò moglie e figli per una pazza avventura con una ragazza svedese. A Barcellona, dove vivevano anche i García Márquez, la moglie Patricia si sfogò più volte con la coppia di amici colombiani e ne accolse i consigli e i suggerimenti". Al momento della riconciliazione con il marito, Patricia gli confidò il contenuto di quei colloqui. Qualche frase, non si sa bene quale, offese Vargas Llosa. Secondo un' altra versione, però, "Patricia avrebbe fatto credere al marito che, in sua assenza, non avrebbe perso il tempo, e sarebbe stata, tra l' altro, con il suo grande amico Gabo".

Vero o falso? Non si sa. I pettegolezzi, comunque, fecero il loro corso. Qualche anno prima Cesare Pavese all' amico Davide Lajolo, il 15 maggio del 1950, aveva scritto: "Visto che dei miei amori si parla dalle Alpi al Capo Passero, ti dirò soltanto che, come Cortez, mi sono bruciate dietro le navi". Lo scrittore parlava del naufragio del suo rapporto con l'attrice americana Constance Dowling. Non si trattava di gossip sui giornali scandalistici, che all'epoca non erano di moda, bensì di chiacchiere di amici e amiche, tra Roma e Torino. Certo è che Pavese, poco tempo dopo, il 27 agosto del 1950, si sarebbe suicidato.

Il tempo passa, le mode cambiano, e oggi anche le storie private degli scrittori solleticano la stampa rosa. Dopo l'affaire García Márquez, Vargas Llosa, 83 anni compiuti a marzo, ha nuovamente dato linfa all'interesse scandalistico per le sue passioni, oggi senili. Dicono che pure lui, come Pavese, non ami i pettegolezzi. Dei suoi amori, anzi, dell' ultimo, in ogni caso se ne è parlato e se ne parla in tutto il mondo. Se ne è dovuta occupare addirittura The Nation, la più antica rivista degli Stati Uniti, faro della cultura di sinistra. In un articolo dell'aprile scorso ha rammentato che "Vargas Llosa è diventato il foraggio dei giornali tabloid, avendo lasciato sua moglie dopo 50 anni - sua cugina Patricia Llosa - per l'ispano-filippina Isabel Preysler".

È sbocciata nel 2015 la love story fra il grande narratore peruviano e l'ex modella e conduttrice televisiva Isabel Preysler. Sessantotto anni all' anagrafe, Isabel è specializzata in matrimoni d' alto bordo, visto che ne ha ben tre alle spalle, tutti con persone del jet set: il cantante Julio Iglesias, don Carlos Falcó, marchese del Griñon, e Miguel Boyer, già ministro socialista delle Finanze, del quale è rimasta vedova. Ora ha aggiunto un premio Nobel della letteratura, arricchendo un palmarès sentimentale invidiabile. La stampa rosa e scandalistica, guidata dal periodico spagnolo ¡Hola!, non si è lasciata scappare l'occasione. Nel giugno del 2015 il settimanale ha messo in copertina Isabel e Mario con il titolo "Pranzo per due", raccontando che i due avevano intensificato il loro rapporto di conoscenza e insinuando che fosse qualcosa di più di una amicizia. Patricia, cugina e moglie dello scrittore premio Nobel, ha reagito come farebbe un esponente politico accusato di qualche traffico illecito: diffondendo un comunicato in cui manifestava sorpresa, visto che pochi giorni prima lei e Mario avevano celebrato insieme i cinquant'anni di matrimonio. Donna Patricia, del resto, se la storia con García Márquez fosse vera, non sarebbe nuova a incidenti nel matrimonio. Sulla relazione fra Mario e Isabel, dopo il colpaccio di ¡Hola!, si sono scatenati per mesi quotidiani e riviste, scrivendo di tutto: le possibili accuse di bigamia in Perù per lo scrittore, i duemila euro spesi dai due per una notte in un albergo di Marbella per festeggiare il compleanno di Isabel, fino ai dettagli della separazione dei beni fra Mario e Patricia. I due maturi innamorati, a un certo punto, hanno ammesso il loro legame, ma non è bastato per fare cessare la campagna giornalistica. "Davanti alla casa di Isabel", ha detto Vargas Llosa, "i giornalisti possono restare accampati per ventiquattro ore. Nella prima fase della nostra relazione era una cosa impressionante: si facevano portare il pranzo a mezzogiorno, organizzavano partitelle di calcio". Tanto che nel suo romanzo Cinquina, uscito in Italia nel 2016, ha messo alla berlina la stampa scandalistica, anche se ha negato di averlo fatto per gli scoop su di lui e Isabel. "Ma no", ha dichiarato in occasione della pubblicazione del libro da Einaudi, "ho cominciato a lavorare al libro molto prima che tutta questa storia cominciasse". Intanto, in attesa del matrimonio con Isabel, Vargas Losa continua a essere foraggio della stampa, quella rosa e quella no. Lo ha fatto sostenendo che "il femminismo è nemico della letteratura", e quindi dimettendosi dalla presidenza del Pen Club internazionale perché contrario a un appello in favore di due intellettuali catalani in carcere da oltre un anno per reati d' opinione: secondo lui sarebbero "golpisti". Una sua recente dichiarazione, a favore della concessione del Premio Nobel per la pace a Carola Rackete, lo riscatterà agli occhi delle donne che non frequentano il jet set?

Alessia Grossi per “il Fatto quotidiano” il 16 agosto 2019. “Cara Elsa, () vorrei veramente poterti dire qualche cosa che ti consolasse ma mi rendo conto che è impossibile, anche perché, al solito, le ragioni della tua infelicità sono oscure e oscuramente espresse. Ad ogni modo, se ho ben capito, il viaggio a Roma non ha fatto che aggravare la tua situazione. Quale sia poi il misterioso incidente che ha turbato i tuoi rapporti con L.V. non lo capisco ma immagino che, come sempre, non sia cosa irreparabile. Ahimé è difficile dire che non sembrino superficiali in questi casi, perciò ti basti sapere che ti voglio veramente tanto bene e che desidero che tu sia felice. () Arrivederci a presto ti abbraccio. Alberto”. È il 7 agosto 1950, un lento lunedì di fine estate sullo Stelvio. Lo scrittore Alberto Moravia si siede alla scrivania della sua stanza, afferra la carta intestata del Grand Hotel Solda (Bolzano) e prova a scardinare a parole l'infelicità cronica e tutta romana di Elsa Morante, inasprita - evidentemente - da "un incidente" con l'amato-amante, il regista Luchino Visconti. Non di puro triangolo si tratta, per la verità. Quella dell'autrice dell' Isola di Arturo è piuttosto una malattia. "Vorrei poter lavorare davvero, o amare davvero, e sarei felice di dare a qualcuno o a qualche cosa tutto quello che posso, purché la mia vita fosse compiuta finalmente e trovassi il riposo del cuore", confessa al marito. L'autore de La noia di certo non si tedia con sua moglie, la cui esistenza fu costellata da amori tormentati. "A difficili amori io nacqui", recita l'autrice in Avventura. “Ti prego di capire adesso che io qui non parlo davvero di amore. Prima di tutto, devo dirti con molta semplicità che, nemmeno quando ero più bella, io non sono stata mai amata da nessuno, e quindi non ho mai pensato seriamente che tu potessi amarmi”, scrive Morante in una missiva indirizzata al regista che sta per portare sul grande schermo Bellissima. E "bellissimo" lo ritenevano entrambi i coniugi. Moravia lo conosce nel 1939 e lo descrive come "un personaggio della grande pittura del Rinascimento". La "relazione" con Morante segue e al matrimonio con lo scrittore si intreccia dieci anni dopo, dal 1949 al 1952. Ma Luchino probabilmente nasce nella testa della scrittrice. Scrive Carlo Cecchi che nient' altro sarebbe che lo specchio di Menzogna e sortilegio. A influire fu, a detta dell' amico fiorentino "il fatto che Elsa venisse da quella lunga e totalizzante esperienza () che fu la scrittura (del romanzo, ndr), dove molto importante è il complesso, e in gran parte unilaterale, amore di Anna per l' ambiguo Edoardo ()". Ma unilaterale quanto? Quanto Visconti amò Morante? In una lettera chiarificatrice datata 1953 - quando cioè la storia tra i due sarebbe già conclusa - lei prova a spiegarsi. È una passione folgorante ma astratta, un'ossessione. “C' è stato un tempo in cui desideravo, se tu lo avessi voluto, essere la persona più vicina a te nella vita. Anche fuori della tua volontà, ci furono allora delle altre cause per cui io dovetti levarmi dalla mente certe speranze e pensieri. Da principio mi era difficile riuscirci, e forse, per questo, in quel periodo il mio carattere ti sarà sembrato anche peggiore del solito. () Se tu mi avessi frequentato di più, in questo periodo, avresti potuto capirlo. Io, a ogni modo, ho cercato di fartelo capire. E anzi, dopo averne sofferto, ero contenta che fra noi non ci fossero più motivi di confusione, e che tu non dovessi più sospettare di me come di una persona che desiderava di entrare nella tua vita e di limitare la tua libertà in nessun modo ()”, scrive Morante. Dunque di "ricambiare" il regista del Gattopardo non pare dare grossi segni, o sì. Questo è il lato del triangolo che - a distanza di 67 anni - ancora manca. Qui ci si addentra nel romanzo, quello che narra di una passione travolgente, altroché se corrisposta: "Scendevo dal treno, alla stazione Termini, e lo incrocio nella hall, l'avevo certamente già visto con Alberto, due o tre volte, un saluto, niente di più, fatta eccezione per quella sua particolare maniera di ridere da gatto siamese che, quella sera, alla stazione di Roma, mi ha fatto sciogliere d' amore È stato, in un fulmine, il mio idolo e lo desiderai con tutto il mio essere Abitava in via Salaria, ha fatto una deviazione per il Pincio e, pur continuando a guidare la sua grossa auto, mi ha presa, senza una parola, per il collo e ha forzato la mia testa contro la sua patta Questo fu il nostro primo incontro d'amore". Così Elsa Morante raccontò il sortilegio dell' uomo che un giorno sbadatamente aveva definito "cattivo" e volgare". Se però è menzogna non è dato saperlo. Il narratore dei fatti è Jean-Noël Schifano, anche lui scrittore, giovane e adoratore della fascinosa Elsa la quale gli avrebbe confidato quella passione mai spenta. A distanza di 30 anni, pare, Visconti continuava a chiamarla anche alle 3 di notte perché si masturbasse al telefono, mentre "Alberto dormiva o fingeva, non l'ho mai saputo". E quante altre volte ancora Moravia si finse addormentato. Finché nel 1967 la supplicò di non separarsi da lui; lei ancora in lutto per il suicidio del suo amante newyorkese Bill Morrow: “Non ho che te, te e le scrittura e adesso entrambe mi lasciate. Ma non servirà. Da qualche tempo la mia vita ha perduto come si dice il baricentro e se ne va di qua e di là come una trottola impazzita. Spero solo di poter dire in un romanzo che genere di vita è”, le scrive lui disperato. E forse quel romanzo non lo abbiamo mai letto.

VITA DA SCOPONE. DAGONEWS il 12 luglio 2019. Julio Iglesias non hai mai resistito alla tentazione di vantarsi delle sue prodezze sessuali, sottolineando di essere stato un ottimo amante e confessando di avere una “ossessione per il sesso”. «Ho molte debolezze - ha detto - Le donne, ovviamente. Non sono un santo». Ha (almeno) nove figli, l'ultimo dei quali è stato confermato da un giudice a Valencia questa settimana che ha stabilito che Iglesias, ora 75enne, è il padre di un 43enne nato dopo una relazione di una settimana con una ballerina nel 1975. Il cantante, che nella sua vita si è sposato due volte, dice che ha donne «che ha amato e rispettato» dall’età di 15 anni. Questo spiega come sia riuscito a dormire con ben 3.000 persone, un numero che in qualche occasione ha confermato per poi negare. Ma Iglesias non è l’unico che può vantare numeri da urlo. Anzi. Le sue 3mila donne impallidiscono davanti alle oltre 12mila di Warren Beatty.

Il seduttore di Hollywood Warren Beatty una volta disse che, facendo un semplice calcolo matematico, pensava di aver dormito con 12.775 donne: «non sono inclusi le sveltine di giorno, palpeggiamenti, baci rubati e così via». Una delle prime storie romantiche di Beatty è stata con Joan Collins. Sono stati insieme per due anni, ma lui non era fedele, quindi lei l'ha scaricato. «Lui e io eravamo molto compatibili, anche se aveva bisogno di fare sesso diverse volte al giorno. Doverlo gratificare era estenuante» ha ricordato Collins. Tra le sue conquiste ci sono Natalie Wood, Leslie Caron, Diane Keaton, Goldie Hawn, Madonna e Cher, mentre l'attrice britannica Julie Christie si dice che gli abbia spezzato il cuore. Beatty dice di essersi “ritirato dal mercato” dopo aver incontrato l'attrice Annette Bening, dal quale ha avuto quattro figli.

Russell Brand, 44 anni, 1.000 donne. Il comico Russell Brand è stato curato per una dipendenza da sesso in una clinica nel 2005. Ha detto di aver fatto sesso con oltre 1.000 donne e una volta ha fatto un’orgia con nove ragazze. Nella sua autobiografia “My Bookie Woo”k, ha ricordato di aver perso la verginità a 17 anni con una prostituta thailandese, mentre suo padre faceva sesso nella stessa stanza d'albergo con un’altra donna. «Mi piacciono le ragazze in un modo non sofisticato e primordiale». Ha sposato la popstar Katy Perry ma hanno divorziato dopo due anni. Sostiene di essere un uomo nuovo adesso e di essere felice con la moglie Laura.

Tony Curtis, 1.000 donne. L’attore si è sposato sei volte e ha dormito con la maggior parte delle sue coprotagoniste, tra cui Natalie Wood e Marilyn Monroe. «Inseguivo tutte le ragazze» ha raccontato. Due anni prima della sua morte nel 2010 ha rivelato la sua indole più riflessiva: «Ho un'affinità particolare con le donne. Era sempre amore, mi innamoravo ogni giorno».

Tony Blackburn, 76 anni, 500 donne. Il DJ Tony Blackburn fu devastato quando la moglie, l'attrice Tessa Wyatt con la quale ebbe un figlio, lo lasciò nel 1976. Benpresto, però, superò il dolore dandosi alla pazza gioia e finendo per dormire con quattro donne diverse a settimana. «Non sono così tante – ha detto – disse - Non ero sposato. Ero libero. Non vedo niente di sbagliato. Non me ne pento affatto. Quattro diversi partner ogni settimana erano il mio modo di allontanare la tristezza». Ha sposato la seconda moglie Debbie nel 1992, hanno una figlia, e da allora è “molto fedele".

Bill Wyman, 82 anni, 1.000 donne. L'ex Rolling Stone annotava i suoi incontri sessuali in un libro, nel quale si legge che ha avuto 278 incontri sessuali in due anni durante il periodo di massimo splendore da rockstar. Il suo conteggio finale arriva a circa 1.000 donne. «Ero dipendente dal sesso – ha raccontato – raccattavo le ragazze accampate fuori dall’hotel». In quel periodo era sposato con la sua prima moglie Diane Cory, con la quale aveva un figlio. Il musicista ha aggiunto: «Era difficile tornare a casa da mia moglie, che ovviamente sapeva cosa stava succedendo. A volte avevo tre o quattro donne a notte». Ha incontrato la seconda moglie Mandy Smith quando aveva 13 anni e lui ne aveva 47, e afferma che hanno fatto sesso la prima volta quando lei aveva 14 anni: «Era una storia che veniva dal cuore, ma lei era troppo giovane». Ha sposato la modella Suzanne Accosta nel 1993.

Bill Roache, 87 anni, 1.000 donne. Nel 2012 l'attore Bill Roache colse molti di sorpresa quando confessò di essere stato sessualmente prolifico, non riuscendo a negare, quando gli fu chiesto, di aver dormito con circa 1.000 donne. Ha detto di essersi profondamente pentito di aver tradito la sua prima moglie Anna, con la quale è stato sposato tra il 1961 e il 1974, e di aver fatto del male ai suoi figli: «Mi divertivo a Manchester dal lunedì al venerdì. L'opportunità era lì. C'erano un sacco di ragazze in giro. Non avevo alcun controllo sul mio desiderio sessuale». Dice di aver cambiato idea quando ha incontrato la sua seconda moglie, Sara, nel 1978.

Giacomo Casanova, 122 donne. Nato nel 1725 a Venezia, il giocatore d'azzardo Casanova lasciò 12 volumi di memorie che raccontavano una vita di totale libertà sessuale, affermando che «l’interesse principale della sua vita era coltivare tutto ciò che gli dava piacere ai sensi». Descrisse dettagliatamente i suoi incontri spesso sconvolgenti con le donne, tra cui il rapimento e lo stupro (con altri sette uomini) di una donna durante il Carnevale di Venezia del 1745, nel quale aggiunge che la vittima, alla fine, aveva gradito l’esperienza. Ha anche dormito con la figlia adolescente Leonilda e si dice che abbia avuto un rapporto a tre sempre con la figlia (da cui si dice che abbia avuto un figlio) e sua madre.

Fidel Castro, 35.000 donne. Il dittatore cubano aveva un appetito sessuale insaziabile e avrebbe fatto sesso con almeno due donne al giorno, a pranzo ea cena. Secondo quanto riferito, le donne provenivano dalla spiagge della capitale, L'Avana. Aveva almeno 11 figli da sette donne diverse, a cominciare da Fidelito, avuto dalla sua prima moglie Myrta e poi cinque figli dalla compagna Dalia. Nel 1956, tre bambini sono nati da tre donne diverse. Alla domanda su quanti figli avesse, ha riso e ha detto: «Beh, io non ho una tribù. Non così tanti, meno di una dozzina». È morto nel 2016.

Nick Clegg, 52 anni, “Non più di 30”. L'ex leader dei Lib Dem e vicepremier, Nick Clegg, nel 2008 rivelò alla rivista GQ di aver dormito con “non più di 30 donne”, aggiungendo di considerarsi un amante competente. Clegg è stato ampiamente ridicolizzato per l'intervista e nel 2014, dopo non aver risposto alla domanda di Harriet Harman dei Laburisti su quante donne avesse nominato in Gabinetto fin dalla costituzione della Coalizione, lei lo incalzò: «Di solito quando si fanno domande sul numero di donne è abbastanza disponibile».

·         I pavoni della penna.

I pavoni della penna. Giuseppe Scaraffia per il Venerdì-la Repubblica il 13 luglio 2019. Che gran libro sarebbe la vera storia di Ernest Hemingway, non le confessioni che scrive, ma quelle del vero Ernest. Sarebbero per un pubblico molto diverso dal suo, ma che cosa stupenda!» diceva la sua maestra, Gertrude Stein. Quando si era accorta di avere inconsapevolmente allevato uno dei più grandi narcisi dell' epoca, gli aveva chiuso la porta. Ma era troppo tardi; Hemingway era ormai lanciato. Non era certo il primo degli scrittori-personaggio.

Un secolo prima, lord Byron aveva intuito che abbinare alla propria opera un' immagine in sintonia avrebbe moltiplicato la forza del messaggio, e aveva scelto di incarnare un personaggio molto vicino agli eroi dei suoi libri: il bel tenebroso, irresistibile e fatale, estraneo alla vita comune, attratto solo dalle sfide e dal rischio.

La necessità di posare di fronte al pubblico nasceva dall' ampliamento dello strato sociale dei lettori e dalla necessità, nel declino della religione insidiata dal progresso, di crearsi dei nuovi miti. Non a caso l' elegante nero in cui si avvolgeva un altro protagonista dell' Ottocento, il dandy satanista Charles Baudelaire, aveva un che di clericale: l' arte, in fondo, era un' altra forma di sacerdozio.

Ancora più lucido, Oscar Wilde aveva intuito che stava tramontando l' epoca in cui bisognava posare per l' aristocrazia o per la bohème: il vero pubblico erano le masse che la rivoluzione industriale stava portando alla ribalta. Un pubblico insensibile alle eccessive raffinatezze, ma avido di eccentricità e di scandali, a cui Wilde sacrificò persino la sua libertà, immolandosi a una condanna per omosessualità a cui avrebbe potuto facilmente sottrarsi.

Ma il più grande esempio di scrittore personaggio è senza dubbio Gabriele d' Annunzio. Ben più di Wilde, d' Annunzio aveva messo il suo ingegno nelle sue opere e il suo genio nella vita. E la vita per lui, come per il grande pubblico, che seguiva avidamente le sue varie avventure amorose e tentava goffamente di imitarlo, era la realizzazione dei sogni delle masse: un'esistenza lussuosa, farcita di erotismo, illuminata da una fama inarrestabile. Nessuno dei molteplici amori l'aveva mai travolto, il seduttore doveva rimanere non solo il protagonista, ma anche il regista della propria vita. Piccolo e bruttino, non poteva, a differenza dei suoi predecessori, contare su un aspetto attraente, ma aveva risolto il problema creandosi un corpo artificiale grazie a un immenso guardaroba e a una voce suadente. Ma soprattutto D' Annunzio fu il primo, tra gli autori-personaggio, a ricalcare le orme di Byron che era morto combattendo per la libertà della Grecia, atteggiandosi a eroe per l' eternità. Combattè valorosamente nella Prima guerra mondiale e nella straordinaria, paradossale impresa di Fiume, prima di chiudersi a Gardone, nel mausoleo che si era preparato.

«Non preoccuparti, cara, vedrai che riuscirò a diventare Gabriele d' Annunzio», avrebbe detto alla moglie André Malraux, detenuto in Cambogia per il tentato furto di antiche statue khmer. Dandy, romanziere, avventuriero, prima rivoluzionario e poi ministro gollista, Malraux aveva ben chiaro il suo obiettivo.

Lo stesso non si può dire per T. E.Lawrence, più noto come Lawrence d' Arabia, che, al comando di alcune tribù nomadi, aveva tenuto in scacco il temuto esercito turco nella prima guerra mondiale. Certo, aveva fatto clamore presentandosi alla Conferenza sul Medio Oriente del 1919 in costume arabo, spiegando: «Quando un uomo serve due padroni ed è costretto a scontentare uno dei due, tanto vale che offenda il più potente». Ma poi aveva fatto perdere le sue tracce, anche se la sua morte in motocicletta, forse per mano dei servizi segreti inglesi, avrebbe suggellato la sua leggenda.

Molto più lieve, in questo scontro tra titani, è la leggenda di Jean Cocteau che, visto irrimediabilmente occupato da Proust il ruolo del grande artista, aveva scelto un campo solo in apparenza più facile, quello della frivolezza. Sfuggendo agli schemi, a costo di farsi accusare di superficialità, fu scrittore, poeta, ceramista, disegnatore, pittore, scultore, regista, mondano e molto altro. Cocteau soffriva di essere sottovalutato per la volubilità della sua ispirazione, ma non sottovalutava il valore di una cattiva fama.

«M'hanno creato questa fama di avventuriero. Che motivo ci sarebbe di non profittarne? Tutte le sere, prima di coricarmi, su questa fama ci fo pipì, ché la mattina possa ritrovarla più rigogliosa», scherzava Malaparte, che invece l' aveva accuratamente coltivata. Viaggiatore, inviato, dandy e voltagabbana, sapeva che la fama di seduttore era preziosa, ma le donne non gli interessavano davvero e si concedeva malvolentieri solo una volta la settimana.

L' ultimo, esangue esemplare di questi pavoni letterari è Bruce Chatwin, lo scrittore viaggiatore per eccellenza che, malgrado lo zaino su misura, adibiva vari portatori al trasporto dei bagagli. Non voleva infatti rinunciare ai libri preferiti, né agli indispensabili pigiami di seta.

Memorabile resta però il match Hemingway-Malraux al Ritz liberato di fresco dai tedeschi. Hemingway, appena arrivato, è scalzo e sporco. Malraux, pallido e teso, ha un' uniforme impeccabile e stivali splendenti. «Quanti uomini hai comandato, Ernest?», «Forse duecento». «Io, duemila». «Peccato» ritorce Hemingway, «che non abbiamo potuto contare su di te quando abbiamo preso quella cittadina di Parigi».

·         Il Successo da una botta e via…

IL SUCCESSO DA UNA BOTTA E VIA. Crocifisso Dentello per il “Fatto quotidiano” il 23 luglio 2019. Famosi per una sola stagione. Non parliamo di meteore musicali ma di fantasmi di carta: scrittori di casa nostra premiati dalle classifiche e poi ripiombati più o meno nell' anonimato. Ci sono anche penne che conservano il favore del pubblico ma che indovinato un bestseller da primato non sono più riusciti con i titoli successivi anche solo a eguagliarlo.

ANDREA DE CARLO. L'occasione per questa disamina ce la fornisce una doppia ricorrenza. Proprio trent' anni fa, nel 1989, uscivano Due di due di Andrea De Carlo e Volevo i pantaloni di Lara Cardella. De Carlo è autore sempre popolare ma Due di due, con il suo milione di copie vendute, guarda da una vetta irraggiungibile tutti gli altri suoi romanzi successivi.

LARA CARDELLA. Lara Cardella, oggi insegnante a Bergamo, resta forse il caso più emblematico di una fortuna effimera. Il suo romanzo di rivendicazione femminile contro il bigottismo della provincia siciliana fu allora la lettura più gettonata sotto l' ombrellone. Dopo due milioni di copie in Italia e all' estero, è calata implacabile la saracinesca.

CARMEN COVITO. Qualche anno più tardi, nel 1992, scala le classifiche la storia di una quarantenne milanese alle prese con le sue disavventure di donna non proprio avvenente: La bruttina stagionata. L'autrice Carmen Covito , dopo altri due libri, è scomparsa dai radar e ora si dedica a studi orientali.

MELISSA P. Andando avanti e indietro in questi trent' anni di bestseller, come non ricordare le peripezie erotiche di Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire? Nel 2003 per la giovanissima Melissa P fu una marcia trionfale: ospitate in tv, immortalata da Oliviero Toscani in pose da lolita, dispute sociologiche sui giornali. Dopo la cifra monstrum di due milioni di copie vendute, i lettori le hanno voltato le spalle. I suoi romanzi successivi sono precipitati a poche migliaia di copie.

ENRICO BRIZZI. Ecco, questa è una sorte che accomuna parecchi esordienti di successo. A ogni nuovo libro dopo il debutto i lettori si assottigliano sempre di più, in taluni casi fino all' irrilevanza. Enrico Brizzi è arrivato al ventesimo libro ma la sua fama resta inchiodata ai turbamenti adolescenziali sui colli bolognesi di Jack Frusciante è uscito dal gruppo.

PAOLO GIORDANO. Così come Paolo Giordano , il più giovane vincitore del premio Strega nel 2008 con La solitudine dei numeri primi, non è mai più tornato al vertice delle classifiche dopo avere conquistato due milioni di lettori acquirenti. Destino ancora più amaro per Silvia Avallone che due anni dopo sfonda le 500mila copie con Acciaio, storia di due adolescenti nella periferia industriale di Piombino e che con le due opere seguenti porta in dote al suo editore flop brucianti.

FEDERICO MOCCIA. Forse la parabola più clamorosa di ascesa e caduta è quella di Federico Moccia . Dopo avere aumentato gli introiti dei ferramenta con i lucchetti a Ponte Milvio e superato il milione di copie vendute con un esordio ormai di culto come Tre metri sopra il cielo, non solo non ha fatto il bis ma le ultime sue pubblicazioni apparse in libreria sono state ignorate persino dai suoi fans più irriducibili.

SUSANNA TAMARO. Una regola forse la possiamo trarre: se imbrocchi un megaseller capace di macinare milioni di copie è assicurato che non sarai più in grado di rinnovare il miracolo. Due casi clamorosi da antologia sono Susanna Tamaro e Giorgio Faletti . La prima, con Va' dove ti porta il cuore ha dominato le classifiche per tre anni di fila e a oggi si annoverano 15 milioni di copie tra l' Italia e il resto del mondo, ma pur proseguendo la sua carriera letteraria la Tamaro è rimasta lontanissima dai fasti degli anni 90.

GIORGIO FALETTI. Così come il nome di Faletti resta legato solo al thriller Io uccido del 2002: secondo le dichiarazioni dell' editore siamo addirittura a 4 milioni di copie smerciate. Caso a sé ma rivelatore della fedeltà a intermittenza dei lettori sono quegli autori sempre sulla cresta dell' onda ma che non riescono a replicare la fortuna del titolo che li ha resi ricchi e celebri. Il record di vendite resta come pietra di paragone e ridimensiona le fatiche prossime in performance appena rispettabili.

Pensiamo, tra gli altri, a Roberto Saviano (passato nel volgere di dieci anni dal trionfo targato 2006 di Gomorra con due milioni di copie alle 300mila per La paranza dei bambini nel 2016), Alessandro Baricco (Seta del 1996 ha superato il milione di copie ma il fondatore della Holden non ha più ricevuto diritti d' autore di quella portata), Michela Murgia (dopo il boom di Accabadora i numeri si sono considerevolmente ridotti), Alessandro Piperno (nemmeno il traino dello Strega vinto nel 2012 è riuscito a riportarlo alle 250mila copie del suo acclamato esordio Con le peggiori intenzioni), Niccolò Ammaniti (nulla di paragonabile nella sua bibliografia al record di un milione e mezzo di copie per Io non ho paura del 2001). Forse a ciascun autore, almeno dentro i nostri confini, spetta un unico biglietto vincente della lotteria. Comunque sempre meglio azzeccare anche un solo grande bestseller che essere eternamente candidati alle presse da macero.

·         Prima la Fama e poi la Fame.

PRIMA LA FAMA E POI LA FAME: SOLO 25 ITALIANI BENEFICIANO DELLA LEGGE BACCHELLI CHE GARANTISCE UN SUSSIDIO A CHI HA ONORATO LA PATRIA. Crocifisso Dentello per il “Fatto quotidiano” il 31 luglio 2019. Prima la fama e poi la fame. Sono tante le celebrità di ieri e di oggi finite sul lastrico. Il copione si ripete più o meno uguale per tutti: il tenore di vita precipita fino a uno stato di indigenza pressoché assoluta con gas e luce tagliati per morosità, il frigo vuoto e nei casi più estremi un alloggio da mendicare dopo lo sfratto. Fino alla metà degli anni Ottanta la solidarietà per i personaggi illustri caduti in disgrazia era subordinata al buon cuore di amici e conoscenti. Poi è arrivato il soccorso pubblico. L' occasione fu determinata dalle condizioni precarie di Riccardo Bacchelli, minato da una lunga e costosa degenza ospedaliera. L' autore del monumentale Il mulino del Po non riuscì a beneficiare della legge che porta il suo nome perché morì, per un tragico scherzo del destino, due mesi dopo l' approvazione del fondo che dall' agosto 1985 è destinato a sostenere gli italiani che hanno illustrato la patria. In 34 anni si contano a decine i protagonisti del mondo della cultura, dell' arte, dello spettacolo e dello sport che hanno usufruito del vitalizio. La prima a riceverlo fu la scrittrice Anna Maria Ortese, grazie a una campagna in suo favore sollecitata dal poeta Dario Bellezza, anch' egli bisognoso qualche anno più tardi della Bacchelli, ma concessagli fatalmente in punto di morte. L' elenco è nutrito e annovera, tra gli altri, l'attrice icona del cinema anni Cinquanta Alida Valli, il cantante Umberto Bindi discriminato per la sua omosessualità, l' attore Franco Citti protagonista di Accattone di Pasolini, Fulvia Colombo prima annunciatrice Rai, Tina Lattanzi storica doppiatrice delle dive di Hollywood. Destino sempre amaro per i poeti. Da ricordare Alda Merini, la "voce" dei Navigli sommersa dai debiti, Valentino Zeichen confinato in una baracca sulla Flaminia a Roma e Pierluigi Cappello, paralizzato su una sedia a rotelle. L' età avanzata apre voragini anche nelle vite degli sportivi, costretti in tarda età a "gareggiare" con pensioni minime. Tra gli atleti sovvenzionati il pugile Duilio Loi, il campione di sci Zeno Colò, il pilota automobilistico Gigi Villoresi. Le procedure per ottenere fino a duemila euro esentasse al mese non sono facilissime e la decisione spetta al governo sentito il parere, formalmente consultivo ma di fatto decisivo, di una commissione preposta (oggi formata dall' ex ministro Luigi Berlinguer, l' amministratore delegato dell' Istituto Luce Roberto Cicutto e la scrittrice Dacia Maraini). Al netto delle personalità frattanto decedute, sono venticinque i viventi che percepiscono il vitalizio. Il più noto è Daniele Del Giudice. Scoperto da Italo Calvino, vincitore di numerosi premi e non più presente a se stesso per colpa dell'Alzheimer, lo scrittore è ora ristampato nella più prestigiosa collana dei classici Einaudi. Un altro autore di primo piano è il sardo Gavino Ledda che con il suo Padre padrone scosse l' Italia negli anni Settanta (la versione cinematografica dei Taviani vinse la Palma d' oro a Cannes). Il novero dei poeti contempla i nomi di Giovanni Cagnone , Carlo Villa , Anna Maria Cascella, Livia Livi. Ignoti al grande pubblico, sebbene la legge prescriva tra i requisiti "chiara fama", ma certo con una storia personale di riconoscimenti. Più singolare il caso dell' ottantenne friulano Arduino Della Pietra . Per anni bagnino a Lignano Sabbiadoro con la passione dei versi, fu bersagliato nel 2006 da polemiche politiche e letterarie perché "non presente in nessuna antologia di rilievo". Se con la poesia non si campa, non se la passano altrettanto bene i professionisti che hanno animato i teatri d' opera. Vivono con il sussidio il regista lirico Giuseppe Giuliano e la soprano Maria Parazzini. Il mondo delle canzonette è ugualmente spietato nel trasformare il successo in rovina. Gianni Pettenati , che cantava Bandiera gialla negli anni Sessanta, gode del sostegno economico in virtù dei suoi numerosi testi sulla storia della musica leggera italiana. Raccontano un'Italia vintage e troppo colpevolmente dimenticata altri due cittadini vinti dalle avversità: Tommaso Di Ciaula, classe 1941, poeta-operaio che alla fine degli anni Settanta pubblicò con prefazione di Paolo Volponi il volume Tuta blu. Ire, ricordi e sogni di un operaio del Sud e Francesco Trincale , cantastorie siciliano che per decenni ha intonato le sue ballate davanti alle fabbriche, nei filobus e nelle piazze di Milano. Ma forse la parabola più edificante - che riserviamo come ultima illustrazione della legge Bacchelli - è quella del cardiochirurgo Lionello Ferrari. Dopo una vita spesa a operare bambini in Africa e contributi Inps non sempre regolari, si è ritrovato in gravi difficoltà. Qui forse c'è tutto il senso di gratitudine di una collettività che restituisce un premio a coloro che si sono dedicati al benessere fisico e spirituale del prossimo.

·         Le lettere inedite. Da Sorrentino a Pirandello.

Chi va al "Mulino sulla Floss" s'infarina di morale pubblica. Due secoli fa nasceva George Eliot, la scrittrice più virile nel combattere il conformismo. Daniele Abbiati, Venerdì 22/11/2019, su Il Giornale. Il 18 gennaio 1858, Charles Dickens le (anzi, gli) si rivolge per lettera così, dopo averne letto l'esordio letterario: «Nell'esprimere gratitudine, al creatore delle disavventure del signor Amos Barton, e della triste storia d'amore del signor Gilfil, sono (presumo) destinato ad adottare il nome che piace a quell'eccellente scrittore assumere. Non posso suggerire di meglio; ma sarei stato fortemente disposto, se fosse dipeso da me, a rivolgermi allo scrittore come a una donna. Ho osservato quelli che mi sembrano tocchi così femminili, in quelle commoventi finzioni, che quanto assicurato dal frontespizio è insufficiente a soddisfarmi, ancora adesso. Se hanno avuto origine senza donna, credo che nessun uomo abbia mai posseduto l'arte di farsi, mentalmente, così donna, da quando il mondo ha avuto inizio». Tutti i grandi scrittori sono anche grandi psicologi, e Dickens qui lo conferma, smascherando la signorina Mary Anne «Marian» Evans. Sì, per la legge ancora signorina, nonostante la scandalosa convivenza more uxorio con il filosofo e critico letterario George Henry Lewes, in rotta con la moglie, imbastita qualche anno prima. Dietro il nome e il cognome di «George Eliot» che firma quelle Scene di vita clericale, lascia intendere l'attento lettore e catalogatore di anime, non c'è un uomo, o, quantomeno, non può esserci soltanto un uomo...Nata femmina il 22 novembre 1819, giusto due secoli fa, Mary Ann nacque la seconda volta come «George Eliot» a 37 anni. Volle infatti presentarsi al mondo quale autore maschio per tagliare la testa al proverbiale toro, e soprattutto alle chiacchiere che sono più pericolose di un toro infuriato, se eccitate dal rosso di una passione e di una condotta di vita vietata dal comune senso del pudore. Detto che nel maggio 1880, sette mesi prima di morire, Mary Ann divenne finalmente «signora», dando l'ultimo colpo di maglio al castello di carte dei benpensanti, sposando un broker scozzese con vent'anni meno di lei, occorre passare dalla forma alla sostanza. Cioè dai costumi ai corpi nudi. Per farlo, cade a fagiolo la nuova traduzione di Il mulino sulla Floss, condotta da Alessandro Fabrizi sul testo curato da Antonia Susan Byatt per l'edizione Penguin del 1979 (Neri Pozza, pagg. 766, euro 24, da oggi in libreria). Uscito nel 1860, il fluviale romanzo adagiato sulle rive dell'immaginaria Floss, appunto, sviluppa il tema già sotteso alle Scene di vita clericale e, come abbiamo accennato, alla stessa biografia dell'autrice: noi non possiamo mai essere esattamente come siamo, perché dobbiamo portare sulle spalle il peso di come gli altri ci vedono e ci vogliono. I fatti che narro, ci dice Mary Ann, iniziano una trentina d'anni fa. «Erano tempi - scrive - in cui l'ignoranza si portava molto più comodamente di oggi ed era ricevuta con tutti gli onori nella buona società senza doversi ornare di una elaborata parvenza di cultura; non esistevano ancora i periodici a buon mercato, e i medici di campagna non ci pensavano nemmeno a chiedere alle loro pazienti se amavano leggere - davano semplicemente per scontato che preferissero spettegolare; era quello il tempo in cui le signore portavano ricche vesti di seta con grandi tasche, dove tenevano un osso di montone per proteggersi dai crampi». Come a dire, con il tono ironico che smentisce quanto afferma: mica era come oggi, nella società evoluta dei nostri giorni... La parola chiave è «ignoranza», e abbraccia un bel po' di registri: la superstizione, il conformismo, la cristallizzazione dei censi e dei ruoli, l'impermeabilità rispetto al nuovo, l'ottusa paura del diverso. Nel primo, meraviglioso e brevissimo capitolo in cui Mary Ann scivola dalla descrizione di un paesaggio idillico alla propria stessa rappresentazione di autrice che diventa spettatrice dello scenario con il corpo, oltre che con la mente, scorgiamo in lontananza una graziosa figurina di bimba, in compagnia di un buffo cagnolino. E capiamo subito che sarà lei l'eroina, la piccola Giovanna d'Arco stordita dalle voci incalzanti di chi le sussurra o le urla senza tregua che cosa fare e che cosa non fare. Il mulino sulla Floss in principio appartiene al signor Tulliver, padre di lei, «la piccola» Maggie, e di Tom, l'erede a un trono instabile che si sfarina rapidamente quando il capofamiglia perde una causa incautamente intentata contro un tale che rivendica diritti sull'uso delle acque del fiume. In breve, tutto va a rotoli. Il sogno borghese diventa un incubo sottoproletario, con la beffa che si aggiunge al danno visto che, per sopravvivere, i Tulliver sommersi dai debiti diventano di fatto dipendenti dell'avvocato di parte avversa, Wakem. Il signor Tulliver va letteralmente fuori di testa, la sua signora piagnucola esponendosi al ludibrio delle sue sorelle meglio maritate, Tom si rimbocca le maniche come può. E Maggie, la quale prometteva benissimo, nei panni di adolescente emancipata dalle buone letture e dal buon cuore, deve chinare il capo e sottomettersi al ruolo di sorella con la funzione di angelo del focolare. Due amori impossibili, con il figlio gobbo di Wakem e con il corteggiatore ufficiale della cugina ochetta Lucy, ne sfiancheranno la resistenza, morale e fisica. Fino al simbolico epilogo di una storia che, scaturita dalle acque, nelle acque annega. La cosa non turba l'opinione pubblica che, secondo Mary Ann, «è sempre di genere femminile: non il mondo, ma la moglie del mondo». E l'accusa di misoginia, in questo caso non regge.

Quando un 21enne Sorrentino pregava Troisi di farlo lavorare: ecco la lettera inedita. Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Natalia Distefano su Corriere.it. « Ho ventuno anni e sono nato a Napoli, abito al Vomero. Ho fatto il liceo classico e studio Economia e Commercio» ma «sono un appassionato di cinema» e «l’anno scorso ho frequentato un corso di sceneggiatura». Schietto ed essenziale. Così, con poche righe di presentazione, inizia la lettera che uno sconosciuto Paolo Sorrentino spedì all’inizio degli anni Novanta a un attore, regista e concittadino ben più noto, e certamente amato, cui sentì di poter confidare delusioni – «ho lavorato in qualità di “assistente alla regia” sul set del film “Ladri di futuro” di Enzo Decaro. Ero andato a Roma con molto entusiasmo, ma poi sono rimasto abbastanza sconcertato per il clima di freddezza e di non-umanità che c’era sul set» – ma soprattutto speranze: «Mi piacerebbe, però, ritentare», «le chiedo di poter lavorare nel suo prossimo film” e “mi auguro di poter fare cinema piuttosto che lavorare in qualsiasi altro campo con la mia futura laurea in Economia e Commercio”. Quell’attore era Massimo Troisi. E questa lettera è, senza dubbio, uno dei documenti più sorprendenti tra i molti esposti fino al 30 giugno a Roma, al Teatro dei Dioscuri al Quirinale, nell’ambito della mostra “Troisi poeta Massimo” a cura di Nevio De Pascalis e Marco Dionisi con la supervisione di Stefano Veneruso, promossa e organizzata da Istituto Luce-Cinecittà con 30 Miles Film in collaborazione con Archivio Enrico Appetito, Rai Teche, Cinecittà si Mostra. Una lettera finora rimasta inedita, recuperata dall’archivio personale di Troisi e già rimbalzata sui social, che svela alcuni insospettabili caratteri di Sorrentino. Come la “riservatezza e la mia timidezza” che lo spinsero a tornare a Napoli dopo l’esperienza romana. Amara come il ritratto che della Capitale confezionò vent’anni dopo ne “La grande bellezza”, portandosi a casa un Oscar e – verrebbe da pensare – anche una piccola rivincita. Non è chiaro se la missiva abbia mai ricevuto risposta. Quel che è certo è che i due non lavorarono mai insieme. Forse non ce ne fu neanche il tempo: Troisi sarebbe morto appena un paio di anni dopo. La mostra lo racconta con un percorso multimediale in oltre 80 scatti privati e immagini d’archivio, locandine, documenti e carteggi privati, installazioni audiovisive e testimonianze di colleghi e amici del genio napoletano raccolte per l’occasione: Anna Pavignano, Gianni Minà, Carlo Verdone, Massimo Bonetti, Gaetano Daniele, Renato Scarpa, Massimo Wertmüller, Marco Risi, Enzo Decaro. Seguendo il filo conduttore della poesia. “Massimo è stato un poeta senza definirsi tale, ha scritto poesie già in tenera età per ritagliarsi spazi d’intimità negati da una famiglia numerosissima – hanno commentato i curatori - e ha chiuso il cerchio con “Il Postino”, film in cui la poesia non è solo testo, ma anche e soprattutto un modo di vivere, di vivere poeticamente”. In cinque sale si snoda, con sequenza cronologica, il percorso umano e artistico di Troisi. Dall’infanzia a San Giorgio a Cremano fino alla folgorante ascesa teatrale, dal trio La Smorfia con Lello Arena e Decaro alla fama in tv e infine il cinema, con l’ultimo spazio dell’esposizione dedicato alla proiezione di filmati inediti girati nel backstage de “Il postino”: il film premio Oscar a cui Sorrentino in quella lettera, senza saperlo, chiedeva di lavorare.

Pirandello mai visto, nuove lettere sull’amore con Marta Abba. Pubblicato martedì, 16 aprile 2019 da Paolo Fallai su Corriere.it. Gabriele D’Annunzio scrive a Luigi Pirandello (Agrigento 1867-Roma 1936) per chiedere una raccomandazione per far entrare una fanciulla in una scuola femminile; lui stesso scrive all’amico Massimo Bontempelli il 15 aprile 1910 preoccupato che gli avessero «messo purtroppo il bollo del novellaro», lettere inedite di Marta Abba sulla loro vicenda amorosa insieme con una straordinaria quantità di fotografie che l’attrice ha raccolto. E questi sono solo alcuni gioielli del «Pirandello mai visto», mostra documentaria e iconografica inaugurata presso la Sala Mostre della Biblioteca nazionale centrale di Roma (Viale Castro Pretorio, 105) dove rimarrà aperta al pubblico fino al 28 giugno 2019. La mostra è stata curata da Annamaria Andreoli, Presidente dell’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo, e Andrea De Pasquale, direttore della Biblioteca nazionale centrale di Roma. I materiali esposti sono il frutto di una stretta e proficua collaborazione: in parte appartengono alle collezioni dell’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo, altri fanno parte dello sterminato patrimonio della Biblioteca nazionale centrale. Il catalogo è pubblicato da De Luca Editori d’Arte. Nel corso degli ultimi mesi, donazioni e lasciti all’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo hanno arricchito di nuovi testimoni l’opera e la vicenda umana di Luigi Pirandello. Finora sconosciuti, la mostra offre manoscritti di opere narrative, teatrali e saggistiche insieme con un numero considerevole di documenti privati, a cominciare dal carteggio con Marta Abba (Milano 1900-1987), attrice amatissima, al fianco del grande scrittore durante un decennio decisivo per la carriera di entrambi. Pirandello la nominerà erede di un sesto del suo patrimonio e di alcune commedie, lascito che provocherà un contenzioso giudiziario ventennale tra l’attrice e la famiglia dello scrittore, vinto alla fine da Marta Abba. Luigi Pirandello è uno dei protagonisti del museo letterario «Spazi900» della Biblioteca nazionale centrale di Roma. Allo scrittore siciliano è dedicata una sezione all’interno della prima Galleria degli scrittori, dove è possibile vedere il «Taccuino segreto», senza dubbio il più prezioso documento pirandelliano conservato dall’Istituto, il manoscritto delle «Elegie renane» e le prime edizioni delle sue opere più note. Tuttavia tra le collezioni letterarie della Biblioteca erano presenti altri rilevanti documenti pirandelliani «mai visti» in un percorso espositivo. È infatti relativamente recente l’acquisizione della Raccolta pirandelliana, entrata a far parte del patrimonio della Biblioteca nel 2011 e costituita da autografi, lettere, fotografie e opere a stampa. Il percorso, documentario e iconografico, propone un’esposizione utile tanto alla ricostruzione biografica dell’autore, quanto al ragionamento e allo studio della sua poetica. Conosciuta in ogni parte del mondo, la vastissima opera di Luigi Pirandello ha dato voce a una folla di personaggi narrativi e drammatici che interpretano la crisi sulla quale si affaccia il Novecento. È l’immane malattia del nuovo secolo privo di certezze, che lo scrittore esplora e denuncia con gli strumenti della scienza psicologica ormai addentrata nei territori dell’inconscio e delle nevrosi. La mostra, formata da cinque sezioni, offre al pubblico manoscritti di opere che attestano le modalità di composizione e chiariscono il sistema creativo di laboratorio, tra le quali «La patente», «‘A Giarra» e dattiloscritti come «La tartaruga» e «Effetti di un sogno interrotto». Rilevanti sono i documenti utili alla biografia come le lettere inedite di Gabriele d’Annunzio, di Benito Mussolini e dello stesso Pirandello ai figli. Un’intera sezione, la terza, è dedicata a Marta Abba, musa amatissima di Pirandello, interprete ideale del suo teatro d’avanguardia. Dopo una sezione dove sono esposti alcuni quadri, concludono il percorso le carte pirandelliane “mai viste” presenti nelle collezioni letterarie della Biblioteca nazionale centrale di Roma. La mostra, arricchita da rari video e dai costumi di Nanà Cecchi, realizzati dalla sartoria D’Inzillo, per il recente spettacolo Enrico IV, rende così omaggio a quel continuo impegno nella scrittura che ha portato Pirandello a ricevere il premio Nobel per la Letteratura nel 1934. 

·         Massimo Troisi. Un poeta fragile e imperfetto riscoperto anche dai giovani.

Massimo Troisi, l'anarchico malinconico del cinema italiano. Ricordo dell'attore e regista, scomparso 25 anni fa. Dal cabaret con la Smorfia alle commedie, da 'Ricomincio da tre' a 'Non ci resta che piangere' con Benigni, fino al 'Postino' per cui ebbe una candidatura postuma agli Oscar. Roberto Nepoti il 03 giugno 2019 su La Repubblica. Qualcuno ha detto che ogni vero napoletano ricorda dove fosse e cosa stesse facendo il giorno in cui arrivò la notizia della morte di Massimo Troisi, il 4 giugno 1994. Ma l'osservazione si può estendere ben oltre i nati sotto il Vesuvio: in pochi anni di attività, cinematografica e televisiva, Troisi si era conquistato una popolarità che permise, presto, di paragonarlo a giganti partenopei dello spettacolo come Eduardo e Totò.

Massimo Troisi tra teatro e cabaret. Se si esclude il "debutto" precocissimo (da neonato fu scelto come testimonial per una pubblicità del latte in polvere Mellin), il futuro attore mosse i primi passi sul palcoscenico a quindici anni, nel teatrino della parrocchia; poi fece il Pulcinella per spettacoli domenicali. Più tardi diede forma, con gli amici Lello Arena (che sarebbe stato la sua "spalla" favorita sullo schermo) e Enzo Decaro, al gruppo cabarettistico La Smorfia: col quale, vestito di una semplice calzamaglia nera, metteva in scena sketch satirici basati sull'attualità, la religione (memorabile L'annunciazione), le tematiche sociali.

La Smorfia in tv 'L'annunciazione'. Col gruppo approdò in televisione, anche in programmi di prima serata che ne allargarono il successo a dimensioni nazionali. Si cominciò a capire allora che la "napoletanità" di Massimo, fieramente rivendicata, non avrebbe rappresentato un limite al gradimento del pubblico; anzi, sarebbe stata una delle caratteristiche salienti della sua popolarità.

Troisi e il cinema: 'Ricomincio da tre'. Come dimostrò ampiamente, all'inizio degli anni Ottanta, il debutto nel cinema. Il produttore Mauro Berardi, che voleva assolutamente lavorare con lui, gli diede carta bianca per un film da scrivere, dirigere, interpretare. Ricomincio da tre, uscito nel 1981, sorprese tutti: ma non tutti per gli stessi motivi. Ci fu chi lamentò il livello elementare della regia, quasi esclusivamente di inquadrature fisse; chi giudicò troppo bizzarro l'eloquio dell'attore, smozzicato e ritmato come un grammelot in stretto dialetto partenopeo; chi lo trovò più affine al cabaret che al cinema. Altri, invece, apprezzarono le note di modernità che entravano per la prima volta nel panorama ormai sclerotizzato della produzione italiana. In particolare un nuovo personaggio di giovane indeciso a tutto, refrattario ai vecchi cliché dell'immigrato napoletano, innamorato ma terrorizzato dall'emancipazione che le donne andavano conquistandosi nella società. Fu questo "carattere" a conquistare le platee, decretando la fortuna del film ai botteghini. Poi arrivò anche la critica, con una pletora di candidature e vittorie ai David di Donatello, ai Nastri d'Argento e ai Globi d'Oro. Gli imitatori fiorirono subito, dando origine al nuovo filone dei "malincomici": ispirati, con varie declinazioni vernacolari, al personaggio di Gaetano. Da allora Troisi si sarebbe dedicato completamente al cinema. Nel fondo, però, era un anarchico, che faceva film solo quando ne aveva voglia e si sentiva pronto. Anziché spremere il successo del debutto, cominciò a collaborare con lavori di altri (la farsa No grazie, il caffè mi rende nervoso di Ludovico Gasparini); e fece attendere due anni il suo secondo film, dall'esplicito titolo Scusate il ritardo, dove interpretava Vincenzo, un Gaetano ancor più timido e indeciso. Solo nel 1987 avrebbe diretto il terzo, Le vie del Signore sono finite, dalle soluzioni tecniche e dal linguaggio decisamente più evoluti rispetto ai precedenti.

Troisi e Benigni: 'Non ci resta che piangere'. Nel 1984 Massimo condivise la regia con un altro comico di grande popolarità: Roberto Benigni. Farsa su canovaccio in cui i due vengono rispediti dal presente nel 1492, Non ci resta che piangere salì al vertice degli incassi, superando concorrenti come Ghostbusters e Indiana Jones. Nel 1986 accettò un piccolo ruolo nel film di Cinzia Torrini Hotel Colonial, girato in Colombia; mentre i problemi cardiaci che lo tormentavano fin da bambino gli impedirono di essere il Pulcinella di Strawinskij in uno spettacolo teatrale di Roberto De Simone. Però Troisi recuperò, impersonando sullo schermo l'amata maschera napoletana nel Viaggio di Capitan Fracassa di Ettore Scola, regista per il quale, l'anno precedente, aveva interpretato altri due film: Splendor e Che ora è?, quest'ultimo sui rapporti conflittuali tra un figlio e un padre (Marcello Mastroianni, con cui Troisi condivise la Coppa Volpi per il miglior attore a Venezia).

L'ultimo Troisi: 'Il postino'. Immaginare quanto altro avrebbe potuto ancora dare al cinema italiano e mondiale Troisi, deceduto a 41 anni poche ore dopo la fine delle riprese del Postino, è esercizio frustrante quanto irresistibile, ma che ciascuno può svolgere a modo proprio. Il suo ultimo film da regista, sceneggiatore e protagonista (una concentrazione di ruoli che, dopo di lui e non sempre con risultati felici, dilagò poi nelle commedie italiane) fu Pensavo fosse amore... invece era un calesse, altra divagazione sui sentimenti e sulla difficoltà di portare avanti un rapporto di coppia. L'apoteosi internazionale di Massimo, però, arrivò con Il postino, diretto dal britannico Michael Radford ma voluto da Troisi (che aveva acquisito i diritti del romanzo di Antonio Skàrmeta Il postino di Neruda), nonché da lui co-sceneggiato e interpretato nella parte del titolo. Parte per la quale, nel 1996, ebbe una candidatura postuma agli Oscar come miglior attore.

Massimo Troisi. Un poeta fragile e imperfetto riscoperto anche dai giovani. Una mostra al Quirinale, tra scatti e spezzoni di film, per ricordare l'attore scomparso venticinque anni fa, scrive Pedro Armocida, Giovedì 18/04/2019, su Il Giornale. «Al mio cuore malandato/Almeno a lui ho messo le ali.../Io, padrone di un bel niente/Neppure di me stesso». Il 4 giugno 1994 moriva, a soli 41 anni, Massimo Troisi per un attacco di cuore (due volte operato a Houston: Abbiamo un problema!) che la poesia Al mio cuore, scritta nei primi anni Settanta «mentre la situazione/politica italiana/Andrebbe seguita/con molta più attenzione, aveva messo in conto perché «non è così importante/che muoia qualcosa dentro/Io cedo qualche sogno/e un po' di libertà». E la moltitudine dei suoi ammiratori ringrazia. Ancora. Perché la sua forza artistica è, come all'epoca, trasversale. E oggi, grazie soprattutto a Youtube, sono tanti i giovani che la (ri)scoprono. Ma ricordare Troisi, anche come persona oltre che come personaggio (ma c'è davvero una differenza quando parliamo di lui?), è fondamentale, così a 25 anni della morte arriva la mostra fotografica e multimediale «TROISI poeta MASSIMO», fino al 30 giugno a ingresso gratuito al Teatro dei Dioscuri al Quirinale di Roma, curata da Nevio De Pascalis e Marco Dionisi con la supervisione di Stefano Veneruso, nipote dell'attore-regista, e prodotta da Istituto Luce-Cinecittà con 30 Miles Film. Attraverso i cinque ambienti che portano alla sala del Teatro dei Dioscuri (dove ogni sera, fino al 28 aprile, la mostra verrà messa in scena in uno spettacolo omonimo con accompagnamento musicale) viene ripercorsa tutta la fulminante carriera di Troisi nato a San Giorgio a Cremano, il 19 febbraio 1953, in una casa divisa con i genitori (il padre ferroviere), i cinque fratelli, i nonni, gli zii e via elencando: «Sono nato in una casa dove vivevano sedici persone. Ecco perché quando ci sono meno di quindici persone mi prendono dei violenti attacchi di solitudine», ricorda la sorella Annamaria in una delle testimonianze che concludono il prezioso catalogo di Edizioni Sabinae. Certo la prima sala è quella più epifanica, perché ci racconta un Troisi meno conosciuto, dall'infanzia - quando già componeva poesie - alla gioventù, dal campetto di calcio che dovrà lasciare per la comparsa dei problemi al cuore fino alla foto accanto a Maradona per una partita di beneficenza al San Paolo di Napoli nel 1989. E si inizia con il naso all'insù perché la grande volta, è interamente ricoperta da un patchwork di immagini di Troisi realizzato da Marco innocenti. Un omaggio al suo essere un artista totale, un Pulcinella senza maschera, come è stato definito, erede della tradizione partenopea ma capace di attualizzarla in maniera originale. In questo senso la mostra si sofferma sull'esperienza fondamentale del Centro Teatro Spazio, un garage a San Giorgio a Cremano adattato a teatrino dove Troisi all'inizio del 1970 si cimenta nelle prime farse con la compagnia Rh Negativo (con, tra gli altri, Pino Calabrese e Lello Arena) su donne, politica, aborto, religione e Chiesa (bellissima l'immagine di Troisi sulla croce). Tutti temi che torneranno, come la mitica calzamaglia nera, negli spettacoli del gruppo formato con Enzo Decaro e Lello Arena, La Smorfia. Ed eccoci alla tappa fondamentale, quella televisiva, che lancia Troisi nell'olimpo dei comici. Correva l'anno 1978 e Enzo Trapani ideava Non Stop, fucina dei futuri campioni d'incasso del cinema italiano, Carlo Verdone, I Gatti di Vicolo Miracoli, I Giancattivi, e La Smorfia o, meglio, Massimo Troisi: «Rimasi molto colpito dai tempi di recitazione di quello che era il fulcro del trio. Rimasi incantato, ma talmente incantato che dissi: Ma questo è talmente grande ndo vado io con i personaggi miei?». Parola di Carlo Verdone per il quale Troisi «aveva l'arte di nascondere l'arte, era sempre naturale, proletario ed elegante allo stesso tempo». Come nei suoi film di grandissimo successo che decise di dirigere già dal primo, Ricomincio da tre del 1981 fino a Pensavo fosse amore e invece era un calesse del 1991, l'anno in cui Paolo Sorrentino, ventunenne studente di Economia e Commercio, gli inviava una lettera dattiloscritta chiedendo di prenderlo come aiuto regista. Cosa che non è accaduta. Certo Troisi ha sempre riconosciuto i suoi limiti di regista: «Io di Ricomincio da tre salverei solo un quarto d'ora, degli altri magari venti minuti. Ma è naturale vedersi e criticarsi, a meno che uno non sia un genio. Io non lo sono, non impazzirò mai per me stesso come regista». Perché «il cinema che faccio è un prodotto artigianale, un po' storto, imperfetto, come i vasi di ceramica fatti in casa». Ecco il vero Massimo Troisi che questa bella mostra ci racconta, quello che vediamo nelle inedite riprese del backstage sul set del suo ultimo film, Il postino di Michael Radford (l'attore è morto due giorni prima della fine delle riprese), quando deve baciare Maria Grazia Cucinotta e scoppia in ripetute risate. Con quel suo tipico sguardo, d'ingenuo imbarazzo, non moralistico ma morale. Di altri tempi.

MASSIMO, RICOMINCIO DA TE. LELLO ARENA RICORDA TROISI A 25 ANNI DALLA SUA SCOMPARSA. Simonetta Fiori per “la Repubblica” il 4 giugno 2019. Periferia di San Giorgio a Cremano, un colpo di citofono nel pomeriggio di un Ferragosto lontano. «Era Massimo che mi chiedeva se poteva salire. Il mio grande rimpianto è di non essere tornato io a bussare da lui, quando era all' apice del successo: celebrato ma forse solo». Lello Arena è l' amico d' una vita. Da venticinque anni viene chiamato per ricordare Massimo Troisi nell' anniversario della scomparsa. Ma davanti alle immagini dell' attore che scorrono sullo schermo - la inconfondibile gestualità, il silenzio interrotto dalla parola smozzicata - non sorride mai. Forse perché il lungo sodalizio artistico - insieme nella Smorfia con Enzo Decaro, e insieme in molti film di successo - è solo una parte della storia, quella più raccontata.

Il primo ricordo di Troisi.

«Un minuscolo teatro nella parrocchia di Sant' Anna. Io militavo nell' Azione Cattolica e mi divertivo a mettere in scena pezzi della tradizione napoletana. Un giorno s' ammalò l' attore che doveva fare il salumaio in una farsa di Petito. Una particina in due battute. E chiamammo questo ragazzo che era conosciuto a San Giorgio per un fatto: faceva ridere qualsiasi cosa dicesse, mentre lui voleva essere preso sul serio».

Una comicità involontaria?

«No, una disperazione. Massimo era portatore di una diversità che se non si fosse riversata nel teatro sarebbe diventata follia o sperdimento».

Come si manifestò?

«In scena doveva elencare i salumi contenuti nella gerla. Ma lui cominciò a chiedere in quale ordine preciso andavano detti: se prima la soppressata e poi il mozzariello , o viceversa. Ma fai come ti viene, gli dicevo. Invece lui insisteva con quel suo perfezionismo ossessivo che sarebbe diventato proverbiale. Già durante le prove la gente moriva dalle risate. E lui restava incredulo. Ma non aggio capito , chist' è teatro ?Presto avrebbe capito: il palcoscenico era il posto per lui».

Che cos' era la sua straordinarietà?

«La diversità dei geni. Penso ai bambini "indaco", quelli che esprimono energia e creatività nei modi più imprevedibili. Io da maestro elementare sapevo riconoscerli. E sapevo che il talento richiede uno sfogo, perché altrimenti diventa pazzia o infelicità».

Era malinconico Troisi?

«No. Per Massimo la vita era un gioco. Un gioco da fare con una serietà che sfiorava l' esasperazione, ma restava divertimento. Per un periodo abbiamo anche vissuto insieme, con l' amico produttore Gaetano Daniele. Il quotidiano era un' invenzione continua, imprevedibile. Essere amico di Massimo ti cambiava la vita».

Non parlava mai dei suoi problemi al cuore?

«Poco. E, a parte il ticchettio della valvola di titanio, in lui niente evocava malattia. Lo accompagnai a Houston per un controllo dopo il primo intervento al cuore. Io ero la persona meno adatta a quel genere di assistenza, ma forse proprio per quello m' aveva scelto. " Stateve accuorte che mo' chisto sviene ", diceva con l' aria di parlare inglese al medico accorso al suo capezzale per un sanguinamento. Poi io lo spronavo a muoversi per la prova dell' holter: fai le scale, muoviti. "Ma la vita mia non è accussì . Io voglio fare la vita mia, seduto a un tavolo, fermo". Anche nei momenti drammatici, eravamo una coppia comica».

La comicità era un modo per stare nella realtà o per sfuggirla?

«Era un modo per rileggere la realtà, rovesciando come un pedalino tutti i luoghi comuni. Lui era capace di punti di vista straordinari, come di chi è spostato in un altro pianeta e da lì vede cose invisibili a noi comuni mortali. La risata scattava in quel momento: quando ci rivelava aspetti della vita e dei sentimenti fino quel momento ignoti».

All' epoca della Smorfia, in scena improvvisavate?

«In realtà c' era dietro un faticoso lavoro di scrittura. L' improvvisazione era ammessa quando il pezzo prendeva corpo nelle prove. Ma, una volta scritto il copione, nessuno di noi tre era autorizzato a farlo».

Quando avete smesso di divertirvi?

«Mai. Non abbiamo chiuso la Smorfia perché non ci divertivamo. Abbiamo chiuso perché il meccanismo creativo si stava esaurendo. E Massimo, che era in assoluto il più bravo, era anche quello più intransigente sulla qualità delle scelte. Temeva la mediocrità».

Poi sarebbe arrivato il grande successo di "Ricomincio da tre". La sua compagna dell' epoca, Anna Pavignano, in un bel libro pubblicato da e/o ne ha restituito lo smarrimento. Come se la popolarità l' avesse travolto.

«Massimo veniva chiamato dai più grandi maestri, ma lui aveva quella delicatezza che ho raccontato: la delicatezza di chi ti viene a citofonare a Ferragosto per non disturbarti quando hai da fare. La dimensione di Massimo era quel pianeta che ho raccontato. Dopo è stato costretto dal suo talento e dalla sua genialità a cambiare registro, senza capire che la ricchezza era già a bordo».

Percepiva un suo disagio?

«Percepivo una sua fragilità. Poteva dire di no a Scola o a Mastroianni? Certo che non poteva. Ma Massimo era anche una persona delicata. E quando si è sensibili, si può stare anche sotto i migliori riflettori del mondo ma continuare a sentirsi soli».

Perché dice questo?

«Se sei in un pianeta dove gli altri non arrivano, rimani solo. Puoi pure parlare con qualcuno, ma quando rientri lassù, in quel posto bellissimo dove vedi le cose che gli altri non vedono, sei molto solo. Penso che la dimensione del lavoro di gruppo, come è stata la Smorfia, l' abbia aiutato a scendere da questo paradiso di solitudine, facendolo maturare anche come solista».

Poi che cosa è successo?

«Credo che abbia sperimentato la felice consapevolezza di essere Massimo Troisi - un gigantesco concentrato di poesia, comicità, bellezza - una consapevolezza però accompagnata da una sofferenza. E qualche volta mi rimprovero di averlo lasciarlo da solo. Sarei dovuto essere più prepotente e suonare al suo citofono, come tanti anni prima aveva fatto lui: ma sei veramente felice? Io ci sono, ti voglio bene. E vaffa..., io ti faccio compagnia anche se non la vuoi».

Pensava che lui non la volesse?

«Ma era una cosa mia. L' errore è credere che il successo non contempli il diritto d' amore e di amicizia. E poi uno s' immagina sempre dei finali felici, mentre la vita ti mette davanti a epiloghi tragici».

Non si aspettava la sua fine?

«No, credevo che la sua malattia fosse più controllabile. Negli ultimi tempi non ci sentivamo più, anche se io ero informato di tutto. Ci eravamo allontanati per quei garbi che poi, nel consuntivo finale, si sono rivelati inutili sgarbi. Sono cose strane, che hanno a che fare con l' idea di gioco di cui parlavo prima. Massimo amava giocare e vincere. E l' idea che fosse circondato da persone con cui non aveva più le risorse per giocare né vincere mi metteva tristezza».

I medici gli avevano detto che le sue condizioni richiedevano un trapianto, ma lui preferì girare "Il Postino", il film che l' ha consacrato.

«Credo che abbia a che fare ancora con la sua idea della vita come gioco.

E che gli piacesse chiuderla con una vittoria. Fu un set molto doloroso, e alla fine deve aver realizzato che sarebbe stato impossibile tornare alle condizioni di prima, quando poteva giocare e vincere. Probabilmente quello è il momento in cui uno fa il pensiero: forse vale la pena di andare a giocare da un' altra parte».

Lo sogna mai?

«Sì, sogno lui che si dispera dalle risate vedendomi in difficoltà, una situazione che nella vita quotidiana accadeva molto spesso».

Cosa le manca oggi?

«Massimo con i capelli bianchi. E magari un Troisi junior da incoraggiare per le strade del mondo.

Da ragazzi ci immaginavamo decrepiti in sedia a rotelle a recitare monologhi. E poi mi manca il suo punto di vista, sempre imprevedibile. È stato uno dei pochi a rimanere coerente».

Non faceva comicità sulla politica, ma resta indimenticabile il suo Bossi che si fa la barba cantando "Tu si 'na malatia" di Peppino di Capri.

«E i leghisti oggi cosa fanno, o meglio fingono di fare? Massimo anticipava le cose, come solo i geni sanno fare».

Massimo Troisi a 25 anni dalla morte: quanto avremmo bisogno della sua ironia per combattere i mali di Napoli. Pubblicato martedì, 04 giugno 2019 su Corriere.it. «A Napoli non conviene neppure tornare bambini. No, perché con la mortalità infantile che ci sta sapete come succede? Al bambino, invece di dire “tu tieni tutta ‘na vita annanze”, dirai “tu tieni tutta ‘na morte annanze”...». Una risata e un graffio per distruggere un clichè e per denunciare che a Napoli si può restare impantanati nel fango del male, fermi, immobili, paralizzati perché il male ti può rubare il futuro e il futuro sono i bambini. Quante Noemi Massimo Troisi, di cui piangiamo oggi i 25 anni dalla scomparsa, aveva visto per raccontare così? E quanti anni sono passati? L’agguato di Piazza Nazionale dove una bimba è rimasta ferita poche settimane fa è una cosa già vista. E gli operai della whirpool che perdono il lavoro a ridosso della festa della Repubblica? E le storie sconosciute di tanti altri che nella vita si sono rimboccati le maniche e sono rimasti senza stringere nulla? «A Napoli c’è il problema dei disoccupati ma hanno detto che lo risolveranno con gli investimenti. La volontà ce l’hanno messa ma poi con un camion quanti disoccupati possono investire? A questo punto la politica dovrebbe fare camion più grandi...». La comicità di Troisi era un’arma che dovremmo tornare ad usare. Contro chi dice che è tutto cambiato e finge di non vedere che non è sempre così, contro chi racconta solo la bellezza di questa città e anche contro chi vorrebbe rappresentarla come un inferno senza scampo, contro chi non ne comprende la complessità, contro chi se ne approfitta, contro chi la vuole in perpetua emergenza. Un’arma per la verità, per prendere a schiaffi il potere e le passerelle: «A noi ci chiamano mezzogiorno d’Italia per essere sicuri che a qualunque ora scendevano al Sud se trovavano sempre in orario pe’ ce mangia ‘a coppa». Un arma contro noi stessi e contro una napoletanità che avvelena, quella che è sempre in attesa, quella che delega al masaniello di turno, quella schiava del fatalismo che ancora si affida a San Gennaro come nello sketch in cui Massimo e Lello Arena chiedono i numeri al lotto. Un arma contro la camorra, perché la raccontava deridendo i boss e i loro atteggiamenti intimidatori sbriciolando la loro forza, offuscando qualsiasi possibile idea di fascinazione. Anche quando il guappo don Tonino Parsifallo (Arena), riproposto lunedì su Rai2 da Giorio Verdelli in “Unici”, per una sciocchezza, uccide la madre innocente del suo rivale (Troisi). «Addirittura?» - dice sgomento Enzo De Caro - «Eh ma io so fetente», spiega il boss rivendicando e ribadendo il suo ruolo inutilmente feroce. Una risata può fare molto male. E Napoli ne ha ancora bisogno. Ne ha bisogno per quei figli che la vogliono cambiare, che esistono, combattono e qualche volta si arrendono perché spesso sono messi ai margini o vengono condannati. Sì proprio come lo era stato lo stesso Troisi braccato dall’assassino maniaco “funiculì funiculà” in “no grazie il caffè mi rende nervoso” mentre cercava di proporre una musica nuova di una nuova Napoli che però il maniaco non voleva che fosse cambiata, che doveva restare non fedele o salda nelle tradizioni ma imprigionata. Oltre la retorica e le commemorazioni, Napoli dell’eredità di Troisi dovrebbe sentire lo spirito reazionario e rivoluzionario, per non consentire più saccheggi e per vincere l’anestesia collettiva e scavalcare tutti i luoghi comuni, proprio come faceva lui: «vabbe’, però il napoletano ride, canta, balla, tiene ‘a musica dinto ‘e vene. E per forza: voi il sangue ve lo siete succhiato tutto quanto...».

·         Perché siamo complottisti? 

Perché siamo complottisti? «La Lettura» indaga il mistero. Pubblicato venerdì, 26 aprile 2019 Bozzi su Corriere.it. I complotti sono sempre esistiti. Ma i «falsi complotti» sono un prodotto più recente: il fenomeno nasce a fine Settecento e oggi pare più diffuso che mai. Teorie di (false) cospirazioni, ipotesi assurde di congiure politico-economiche «ad alto livello», fioriscono e prendono piede. Spesso anzi sono create e utilizzate per scopi di propaganda: sebbene siano dei falsi fabbricati ad arte, sono dure da estirpare. Tanto che sul «cospirazionismo» esistono anche studi psicologici. La copertina è di Sergio Sarri (Torino, 1938)Con un ampio intervento dello storico Marcello Flores sul «falso complotto» e sul suo fascino pericoloso, si apre «la Lettura» #387, in edicola fino a sabato 4 maggio. Flores distingue tra le congiure vere — ad esempio quella contro Cesare nel 44 avanti Cristo — e quelle finte, dal Sette-Ottocento in poi: una delle prime teorie cospirazioniste sosteneva che dietro la Rivoluzione francese ci fosse la massoneria. Ce ne sono state tante altre, e lo storico traccia una storia di quelle più celebri e dannose. Nell’intervista di Michela Valente alla docente di Princeton Francesca Trivellato si ripercorre la storia di un pregiudizio che ha nutrito le peggiori tendenze antisemite: la leggenda che fossero i mercanti ebrei ad aver inventato le cambiali, nate invece dall’evolversi dell’economia. E sull’irrazionalità umana che spinge a credere ai complotti, e sulla «caccia alle streghe» che resta la tentazione di fondo, Vincenzo Pinto intervista il filosofo ed economista Matteo Motterlini dell’Università San Raffaele. Altri temi del numero: un affascinante caso letterario è quello sul quale riflette Alessandro Piperno. L’occasione è la riproposta del monumentale L’idiota della famiglia, saggio biografico su Gustave Flaubert scritto da Jean-Paul Sartre e riedito dal Saggiatore: nell’ampio intervento, Piperno si addentra nella «fissazione» del filosofo esistenzialista per lo scrittore borghese per eccellenza. E racconta in questo modo la parabola di entrambi gli autori francesi. Due scrittori europei chiudono il numero del supplemento: per il percorso Parole d’Europa, a raccontare il loro Paese in una parola sono questa settimana il polacco Jarosław Mikołajewski, che sceglie smascheramento, e la scrittrice danese Siri Ranva Hjelm Jacobsen, che spiega che cosa sono le facce da tulipano. Tra gli altri contenuti de «la Lettura» #387: nella sezione Orizzonti, l’analisi dell’antropologo Adriano Favole su un luogo di commercio che non tramonta, il mercato di piazza. Negli Sguardi, l’intervista di Stefano Bucci al curatore della 58ª Biennale di Venezia, Ralph Rugoff. E negli Universi, i biologi Manuela Monti e Carlo Alberto Redi analizzano la scoperta dei ricercatori di Yale, che hanno ottenuto nel cervello di animali morti una ripresa di attività cellulare.

·         Quei "simboli del male" che durano un giorno.

Quei "simboli del male" che durano un giorno. Gabriele Barberis, Sabato 11/05/2019, su Il Giornale. Cerchi nelle agenzie, butti l'occhio sui social, ma niente, zero risultati. A nessuno interessa ancora Roberto Garofoli, peccato. Roberto chi? Ma come, Roberto Garofoli, l'ex capo di gabinetto di Tria al ministero dell'Economia, uno dei «pezzi di m...» additato dal portavoce M5s Casalino come un nemico del popolo. Eppure soltanto a settembre si parlò per settimane di questo grand commis di Stato tra accuse di boicottaggio al reddito di cittadinanza e false voci di manipolazioni di decreti. Una farsa a 5 Stelle che tanto appassionò, ma di cui non cui resta neppure un granello di polvere dorata. È tipico dell'era gialloverde vedere assurgere al ruolo di capri espiatori o di simboli del male figure di secondo piano che finiscono per monopolizzare e spaccare l'opinione pubblica. Sembra già un cold case quello di Armando Siri, il sottosegretario dimissionario che per una ventina di giorni è stato il fulcro dell'agenda politica italiana. Siri l'uomo di sottogoverno da cacciare subito, Siri il casus belli per tornare al voto, Siri l'emblema della politica condizionata da forze oscure, Siri il tallone di Achille di Salvini. Come ha ricordato signorilmente Luigi Di Maio, l'Armando non finirà tra i disoccupati grazie allo stipendio senatoriale da 13mila euro al mese. Ma per i tribunali mediatici del popolo è una figura che ha già dato a una platea volubile che fagocita con un solo boccone i suoi nuovi miti. Avanti il prossimo. Ormai suscita solo indifferenza e sbadigli la figura di Simone Pillon, altro simbolo effimero della caccia alle streghe di giornata. Solo a fine marzo è stato per un paio di settimane il bersaglio di anticlericali, pseudolibertari e bestemmiatori ossessionati dal congresso delle famiglie di Verona. Pillon il retrogrado medievale, Pillon il sessuofobo, Pillon il leghista pericoloso con il cranio lucido e il papillon. Spenti i riflettori, ciao ciao anche a un eroe non pastorizzato già scaduto sugli scaffali dei supermarket della politica. Sui giornali di sinistra era addirittura «la vergogna chiamata Pillon», mentre oggi langue in una pagina semideserta su Facebook. Appena 29 miseri like per il suo grido «ottimo lavoro Matteo!» a commento della performance del capo negli studi di Lilli Gruber. Non ci resta che aspettare la conclusione del Salone del Libro di Torino per vedersi offuscare la stella di Francesco Polacchi, assurto al rango di cavaliere nero dell'editoria italiana per aver pubblicato il libro su Salvini scritto da Chiara Giannini. E tra sussulti antifascisti e miseri calcoli elettorali di una sinistra con gli specchietti retrovisori, anche il patron di una minuscola casa editrice di estrema destra ha sforato abbondantemente il quarto d'ora di celebrità garantito a ogni essere umano. E sarà così fino al prossimo protagonista a breve conservazione che il circo mediatico preleverà da un dignitoso anonimato per proiettarlo sotto le luci della ribalta. Ma il copione comincia a essere un po' logoro: bisogna fermare quel tizio, no va difeso, non scherziamo è pericoloso, ma cosa dite è un perseguitato. In attesa di nuovi grandi leader, carismatici e duraturi, dovremo accontentarci di tante figurine destinate a tramontare all'alba. E’ tornato il mitico

·         Oscurare i graffiti su tv e giornali.

La proposta: oscurare i graffiti su tv e giornali. Per umiliare i writers. Mentre l’Europa si sveglia ferita e impoverita per i danni inflitti da un incendio alla cattedrale di Notre-Dame di Parigi, luogo simbolo della Cristianità, torna prepotentemente alla ribalta sulle prime pagine dei quotidiani il tema della tutela dei beni culturali, che rappresentano i principali custodi e guardiani della memoria di ogni civiltà, scrive il 17 aprile 2019 Cristiano Puglisi su Il Giornale. Così, se Notre-Dame ci ha ricordato che il rischio di vedere il patrimonio collettivo danneggiato o sfregiato non è una remota possibilità neppure per i principali monumenti e ha scaldato la sensibilità di mecenati e politici noti in tutto il mondo (da Pinault ad Arnault, da Trump a Putin) viceversa c’è chi, quotidianamente, si impegna invece, in cambio della notorietà interna solo a ben circoscritte cerchie criminali, a rovinare e insultare non solo i luoghi della memoria, ma, più in generale, gli spazi della collettività. Si tratta dei graffitari che, con le loro scritte, imbrattano indistintamente monumenti, palazzi, chiese, cestini dell’immondizia, treni e scuole. Così come la battaglia per la tutela del patrimonio storico e artistico ha un significato quasi metapolitico, lo stesso dunque si può dire della lotta a questa oscena forma di controcultura vandalica. Chi qui vi scrive ha colto l’occasione per parlarne con Gugliemo Duccoli, giornalista e saggista, direttore di diverse riviste di divulgazione storica, che, in materia, ha elaborato una sua interessante e particolare prospettiva.

“Sono fin troppe – spiega – le amministrazioni comunali che si sono rotte le corna affrontando il problema a testa bassa. Il fenomeno dei graffiti è talmente radicato ed è stato così a lungo legittimato che non si può pensare di ridurlo a una mera questione di vigilanza e di sanzioni. L’Italia è uno dei Paesi più colpiti: è diventato addirittura la meta ideale per gruppi di writer stranieri, che affluiscono nelle nostre città per fare ciò che sarebbe più difficile o pericoloso fare altrove. Le ragioni che hanno condotto a questa situazione sono sia di ordine culturale che amministrativo. Meritano di essere indagate anche perché proprio lì si cela parte della soluzione al problema. Le campagne condotte contro i graffiti in molte città d’America e d’Europa hanno dimostrato che è possibile praticare efficaci politiche di contrasto, purché queste non si riducano alla mera minaccia sanzionatoria: la guerra ai graffiti non può, o meglio non deve essere combattuta con le sole armi della repressione e della vigilanza”.

Ma con quali armi si può contrastare questo fenomeno?

“Anzitutto – prosegue Duccoli – è indispensabile condividere nel modo più largo i criteri della lotta e stabilire i limiti della sua azione. I collegamenti tra street-art e graffitismo sono palesi, così com’è ovvio che gli autori di murali e graffiti provengono dagli stessi ranghi e dal medesimo contesto socioculturale. Proprio per questo, scagliarsi contro tutti coloro che usano la bomboletta sui muri è inutile, anzi è controproducente in quanto divisivo. La prima cosa da fare è quella di circoscrivere il fenomeno fino a delimitare l’area del vandalismo in modo inequivocabile e condivisibile dall’intera comunità civile. Tutti sono disposti a censurare chi fa scarabocchi su un monumento, ma sarebbero in molti a sollevare obiezioni se il graffito venisse tracciato sul muro di una vecchia fabbrica in periferia o se un caseggiato del centro fosse colorato con una pittura murale. Accontentiamoci di circoscrivere l’area a ciò che appare inequivocabilmente deturpante e che risulta ingiustificabile per chiunque, a destra come a sinistra”.

Tuttavia, se della circoscrizione del fenomeno entro gli ambiti legali della street-art si è già parlato, innovativo è la proposta di un coinvolgimento, con un ruolo attivo, del mondo dell’editoria, dei media e della cultura.

“Non si tratta – prosegue infatti Duccoli – di un raggio d’azione troppo corto: i centri storici delle città e i monumenti sono imbrattati in un modo così pervasivo da risultare odioso per tutti. Si tratta anche, non dimentichiamolo, di una piaga che succhia denaro dalle già magre casse comunali e che deprime le aree coinvolte e chi le abita. Per venirne a capo serve prima di tutto una definizione precisa dell’inaccettabile, in modo che non vi siano equivoci o incertezze. Definite queste basi, pretendiamo dalla politica, dalla cultura, dall’informazione e anche dall’arte di fare la loro parte. Non si tratta soltanto di stigmatizzare ciò che è sicuramente impossibile confondere con l’arte di strada, ma anche di attenersi a un codice di salvaguardia attivo, che altrove ha dato ottimi risultati. Per esempio, noi giornalisti dobbiamo impegnarci a non mostrare mai una tag in modo riconoscibile, perché proprio questo genere di visibilità consolida l’affermazione del suo autore: foto e servizi televisivi non devono mostrare le firme, mai, in nessun caso. Così si toglie al vandalo l’ossigeno della riconoscibilità, che è uno dei motori principali della sua azione. Si tratta di stilare semplici protocolli e rispettarli. I frutti si vedranno presto.”

“Tutto questo – conclude – va accompagnato da politiche di confronto con chi opera nell’universo della street-art: autori, critici, mercanti. Dobbiamo chiedere a tutti una presa di posizione precisa e una vigilanza attiva intorno a un minimo comun denominatore condiviso. Parallelamente, l’impegno deve estendersi al mondo della scuola e dell’educazione, ma secondo criteri pedagogici che squalifichino il graffito vandalico. Anche qui bisogna fare molta attenzione: gli adolescenti che si riuniscono in gruppi (crew) per andare a sporcare i muri sono mossi da uno spirito romantico, del tutto comprensibile per l’età. Ma, proprio per questo, esistono gli strumenti psicologici e sociologici adatti a dirottare il loro interesse, a intaccare l’aura eroica che circonda il gesto del vandalo rendendola banale, insulsa, vecchia, vigliacca e squalificante ai loro stessi occhi. Anche il vocabolario deve diventare terreno di contesa, così come la natura delle sanzioni, che dà i frutti migliori quando richiede misure redentive anziché pene pecuniarie (che non riescono quasi mai a essere esatte e che comunque risultano inefficaci). Su queste basi abbiamo stilato un piano d’azione moderato e ragionevole, ma anche ambizioso e articolato, che fa tesoro delle esperienze internazionali più significative. Senza pregiudizi o rancori, con l’unico scopo di migliorare la qualità della vita per tutti”.

·         Le lenzuola e la manifestazione del pensiero.

Il pensiero ed il dissenso prima si manifestava con i cortei in piazza. Spesso i contestatori erano coloro i quali votavano gli stessi contestati, loro rappresentanti in Parlamento.

Allora che cazzo di rappresentanza era?

Oggi la protesta si è evoluta. E’ diventata pantofolaia, ma rimane cattiva.

Se l'Università di Milano minaccia di morte Salvini. Panorama il 10 maggio 2019. "Sparate a Salvini, Salvini a testa in giù" recitava uno striscione appeso alla Statale e firmato dagli studenti. "Salvini muori, Salvini crepa, Salvini infame, sparate a Salvini, Salvini a testa in giù". A leggere questo striscione comparso ieri a Milano (in seguito a quest'ultima moda della protesta con il lenzuolo) in realtà non c'è nulla di nuovo, di già letto o che spaventi per il suo contenuto. Di minacce di morte il leader della Lega ne riceve diverse, ogni giorno. Quello che stupisce è la firma ed il luogo dove lo striscione è stato creato ed esposto. Non stiamo infatti parlando di un centro sociale o la sede di qualche partito antagonista, no no. Lo striscione è firmato "Gli Studenti e Le Studentesse dell'Università Statale di Milano" ed è stato esposto dalla sede storica e simbolica dell'ateneo in Via Festa del Perdono. E questa è una cosa grave. In casa propria, sul balcone o sulla finestra, ognuno ha il diritto di esporre lo striscione che vuole. Ma se la cosa viene fatta sulle mura di uno dei più prestigiosi luoghi di Milano dedicati alla cultura, al pensiero, ai giovani allora la cosa diventa davvero grave. Siamo arrivati al punto che nelle aule dove si insegna la letteratura, la filosofia, la storia, dove si formano i professori e gli insegnanti di domani venga preparato ed esposto un cartello con una ripetuta minaccia di morte (e poco, anzi niente, importa a chi sia stata diretta). Arriviamo da una settimana in cui la vicenda della prof sospesa a Palermo per un video in cui ragazzi di 14 anni paragonano le leggi razziali del 1938 al Decreto Sicurezza del Governo Conte. Oggi questo (e sarebbe bello sapere cosa ne pensi il Rettore di quanto successo). Questa campagna elettorale, trasformata in una caccia all'uomo, rischia di essere la peggiore di sempre senza contenuti ma piena di odio e paura. Nelle piazze, in tv, e nelle università. Per fortuna tra 5 giorni è tutto finito.

L'opposizione delle lenzuola dall'hotel a 7 stelle. Francesco Maria Del Vigo. Domenica 19/05/2019, su Il Giornale. È caduto il velo, pardon il lenzuolo: l'opposizione a Salvini non la fa più la sinistra, la fanno i balconi. Con striscioni annessi. Un lenzuolo ben scritto fa più rumore del fantasma del Pd. Da giorni in qualunque città arrivi Salvini, fuori dalle finestre e dai terrazzi, compaiono centinaia di teli che lo spernacchiano. La stessa cosa è successa ieri a Milano, dove un'infinita distesa di striscioni ha decorato balconi e finestre. È il tormentone della campagna elettorale delle prossime elezioni europee del 26 maggio. Una gara a chi la spara più grossa ed il risultato in alcuni casi è esilarante, in altri vagamente bilioso e in altri ancora di pessimo gusto. È l'ultimo tic di una sinistra in crisi di identità, che prova a dimostrare a se stessa di esistere ma soprattutto di resistere. Ovviamente al neofascismo di Matteo Salvini. Il lenzuolo è la più recente manifestazione di una gauche sempre più stanca e a corto di idee. Dopo i girotondi, i bavagli e l'ostensione dei post it ora siamo nell'era degli striscioni. Che, se ci pensate, sono comodissimi. Non serve nemmeno uscire di casa, puoi restare in vestaglia e pantofole, comodamente seduto nel salotto di casa tua, a pittare un lenzuolo e sentire di avere fatto un gesto rivoluzionario. Di avere assolto al proprio dovere civico di manifestare dissenso contro il barbaro leghista. A costo zero. Non serve nemmeno metterci la faccia, basta metterci la finestra. Il massimo del rischio è che la moglie del rivoluzionario s'incazzi perché si trova con un copriletto e due federe spaiate. L'eroismo dei Che Guevara da tinello. Sia chiaro: scrivere «Salvini vattene», «Bacioni da sucate» o «Portatela lunga la scala perché sono al quinto piano» è legittimo e fa anche ridere. La moda di fare questi tazebao sui generis è un po' patetica, ma quella di rimuoverli è ridicola. È un uso improprio delle forze dell'ordine, che hanno cose ben più serie delle quali occuparsi. A patto che non ci siano minacce e offese. E una certa sinistra ci mette un attimo a precipitare nel vocabolario squadrista. «Salvini muori» o «Salvini amico dei mafiosi» (chi l'ha scritto ora è indagato) è da cretini. E fare rimuovere insulti e minacce non è censura fascista, ma rispetto delle regole elementari del dibattito democratico. Intanto, nell'era dei social, dei post e delle campagne elettorali minuziosamente e sartorialmente tarate sugli algoritmi di Facebook, la scrittura su stoffa - roba da amanuensi - vive una nuova giovinezza. I più provocatori rimbalzano per giorni su social network e giornali. Nel vuoto pneumatico delle proposte del Partito democratico, la sinistra ha delegato l'opposizione alle iniziative dei lenzuolisti privati. Ed è un barometro, più efficace di qualsiasi sondaggio, sull'aria che tira da quelle parti. Siamo alla retromarcia della protesta, alla massima contrazione del dissenso, che si chiude dietro le tapparelle di casa a lievitare odio nei confronti di un Paese e di una piazza che non riesce a comprendere. E, guarda un po', spesso i manifesti di protesta vengono esposti da edifici sontuosi e alquanto borghesi. Non case popolari. Ieri la dimostrazione plastica: poco prima del comizio di Salvini, da un palazzo in piazza Duomo, viene calato uno striscione di almeno quattro metri con la seguente scritta: «Restiamo umani». Pochi minuti dopo lo striscione scompare e al suo posto si materializza un uomo travestito da Zorro. Difficile che un operaio abiti in piazza del Duomo. Difficile, se non impossibile, che qualcuno abbia la propria residenza in piazza del Duomo. Infatti Zorro è Riccardo Germani, sindacalista dell'Usb non nuovo a blitz di questo tipo, e il lenzuolo è stato esposto da una finestra del Townhouse Duomo, hotel di lusso che si affaccia sul cuore di Milano. E a farlo rimuovere è stata la direzione della stessa guesthouse. Ironia della sorte: non ha cinque stelle, ma sette. Di Maio può dormire sonni tranquilli. Un albergo da almeno 500 euro a notte, per intenderci. Ed è un po' il simbolo di tutto questo lenzuolismo dilagante. La gente in piazza e la sinistra chiusa a doppia mandata in casa, o magari in una suite. Un cortocircuito che manda al manicomio il mondo radical chic.

Il segno di Zorro sulla piazza di Salvini…E’ un sindacalista l’uomo che ha esposto lo striscione – poi rimosso – mentre parlava il leader leghista. Il Dubbio il 19 Maggio 2019. E’ un sindacalista dell’Unione sindacale di base l’uomo che questo pomeriggio a Milano si è travestito da Zorro e ha srotolato uno striscione a Milano con la scritta “Restiamo Umani” proprio durante la manifestazione sovranista voluta da Matteo Salvini. Riccardo Germani non è nuovo a queste iniziative: qualche anno fa per protestare alla prima della Scala riuscì a superare i posti di blocco arrivando in limousine. Lo striscione, considerato “provocatorio” è stato poi rimosso e gli organizzatori della fantasiosa protesta sono stati identificati dalla polizia locale. La finestra dalla quale si è affacciato per lanciare il suo messaggio appartiene ad un lussuoso hotel del centro ma è contigua ad alcuni uffici comunali; è stato lo stesso direttore dell’albergo a salire nella stanza e rimuovere il lenzuolo appeso, quindi a chiamare i vigili. Per presentarsi alla piazza di Matteo Salvini e dei sovranisti europei travestito da Zorro, Riccardo Germani ha pagato la normale quota di soggiorno dell’albergo da cui si è affacciato per srotolare lo striscione con la scritta “Restiamo umani”. Salvini “nel suo libro racconta che gli hanno rubato il pupazzetto di Zorro da bambino e oggi glielo abbiamo riportato in piazza”, ha scherzato Germani, ma questa azione, precisa, “non ha nessun cappello politico nè sindacale e non è solo mia. E’ stata un’azione collettiva e condivisa di “Non una ci meno” e della rete “Milano antifascista antirazzista meticcia e solidale”, che ieri ha organizzato la manifestazione anti-Salvini “Gran Gala del Futuro”. “Zorro eravamo tutti”, ha aggiunto Germani. “Abbiamo lanciato un messaggio positivo e non di odio come quello che era sul palco” di Salvini. “Oggi ha vinto la nostra piazza”. “Credo che togliere un messaggio come ‘restiamo umani’ sia un po’ ridicolo – ha detto Germani – credo si stia andando oltre al buonsenso”. “Non so che fine ha fatto lo striscione, lo hanno tolto, forse sequestrato. Non ne ho idea”, ha spiegato il sindacalista mascherato. “Ci aspettavamo che sarebbe arrivata” la polizia, “pensavamo addirittura arrivassero prima ma l’ingresso dell’hotel non era sulla piazza” e “ci hanno messo un po’ per trovarci”, ha raccontato ancora Germani.

·         QI: Il Quoziente intellettuale. Quei geni che (non) ti aspetti.

Claudio Borghi: «Il mio QI? Più di 140». Da Einstein a Sharon Stone, quei geni che (non) ti aspetti. L’economista della Lega Claudio Borghi dichiara di avere un quoziente intellettivo sopra la soglia della genialità «grazie alla Settimana enigmistica». Dai presidenti degli Stati Uniti ai divi di Hollywood, da Madonna a Cindy Crawford ecco il QI di alcuni personaggi famosi. Il Corriere della Sera, Redazione Scuola, il 13 settembre 2019.

Claudio Borghi. «Onorevole, può rivelarci il suo QI (quoziente intellettivo, ndr)?», gli ha chiesto un suo fan su Twitter. E lui, modestamente: «Boh, avevo fatto il test da ragazzo e mi pareva fosse 140 e qualcosa ma non ci credo troppo perché sono bravino a fare i test solo perché sono cresciuto in una casa piena di Settimana Enigmistica. Ho pure vinto un milione come miglior solutore del test d’ingresso in Cattolica». Inevitabile che il tweet di Claudio Borghi, l’economista della Lega nemico giurato dell’euro, scatenasse qualche ironia: soprattutto per collegamento fatto dal presidente della Commissione Bilancio della Camera fra un punteggio così lusinghiero - 140 è la soglia al di sopra della quale si è considerati «tecnicamente» dei geni - e il fatto che in casa sua ci fossero non tanti libri ma tante settimane enigmistiche.

Da G.W. Bush a Trump In America - dove il test è molto comune durante l'età scolare - sono uscite decine di classifiche del QI dei presidenti americani. Nessuna attendibile. Di Bill Clinton si favoleggia che abbia un QI altissimo (superato di poco dalla moglie Hillary, però), di George W. Bush, a seconda di chi scrive, che ce l'abbia bassissimo o altissimo. L'unico presidente ad essersi autodefinito un genio è Donald Trump che già nel 2013 a un fan che gli aveva scritto su Twitter: «You're a F---ing genius», aveva risposto: «IQ tests confirm», senza specificare il punteggio ma sostenendo che «è molto più alto» di quello di Obama.

Tara Sharif. Ha undici anni ed è di origine iraniana. Ma soprattutto ha superato nel test di intelligenza sia Einstein che Stephen Hawking. E’ successo a Oxford, dove Tara Sharif ha partecipato all'IQ test dell’associazione Mensa, che da decenni raccoglie tutti i talenti con un quoziente di intelligenza elevato: il suo risultato è stato 162 punti.

Stephen Hawking. Il fisico e cosmologo britannico famoso per la sua teoria dei buchi neri ha un QI di 160. Un punteggio comunemente attribuito anche ad Albert Einstein benché l’autore della teoria della relatività non si sia mai sottoposto al test.

Sharon Stone. In America è un giochino diffuso quello di stilare delle liste di celebrities con un QI sorprendente. Uno dei casi più noti è quello di Sharon Stone. L’indimenticabile interprete di Basic Instinct, che accavallando sapientemente le gambe - pare in assenza di slip - riuscì a inchiodare allo schermo milioni di spettatori in tutto il mondo (un genio solo per questo!), ha un quoziente di 154.

Cindy Crawford. Ancora più alto è il punteggio raggiunto dalla modella Cindy Crawford, che prima di diventare una top model frequentò per qualche tempo la facoltà di Ingegneria chimica alla Northwestern University: 156.

Madonna. Anche Madonna Louise Veronica Ciccone , in Sarte Madonna, ha un QI molto alto: 140.

Arnold Schwarzenegger. Punteggio «muscolare» anche per l’ex body builder austriaco Arnold Schwarzenegger. L’interprete di Conan il Barbaro, Terminator e True Lies, dopo la carriera a Hollywood è stato governatore della California per due mandati dal 2003 al 2011): non sorprendentemente ha un QI pari a 132.

Quentin Tarantino. Il regista di Pulp Fiction, innamorato degli Spaghetti Western e di Barbara Bouchet, ha un QI di 160.

Geena Davis. La Thelma del mitico road movie femminista «Thelma & Louise» (Louise era Susan Sarandon) ha un QI 140.

Dolph Lundgren. Anche il mitico rivale di Sylvester Stallone in Rocky IV, il pugile sovietico che prometteva di metterlo KO («Io ti spiezzo», nel doppiaggio italiano), ha un QI altissimo: 160.

Shakira. Anche la popstar colombiana - prima e ultima cantante sudamericana ad aver raggiunto il primo posto in classifica in America, Uk e Australia - ha un QI di 140.

·         Leonardo: il genio che voleva misurarsi con Dio.

Leonardo era davvero un genio? La provocazione nel 500esimo anniversario. Pubblicato giovedì, 16 maggio 2019 da Corriere.it. Ma Leonardo da Vinci era davvero un genio supremo? Si può paragonare a Michelangelo e Raffaello? La domanda, che per noi italiani risulta dissacrante, ma resta scientificamente corretta viene ovviamente dal mondo anglosassone e con più precisione è apparsa in un lungo articolo dedicato alle celebrazioni del 550esimo anniversario della morte di Leonardo in tutto il mondo, pubblicato dall’economist del 20 aprile. Scrive l’autore: «Anche la sua opera artistica, sebbene sublime, è minuscola. Meno di 20 lavori finiti sono generalmente attribuiti a Leonardo. Non è riuscito a completare alcuni dei lavori più importanti che gli erano stati commissionati, come l’Adorazione dei Magi, la fallimentare sperimentazione dei materiali ne ha rovinati altri, inclusa l’Ultima cena». Sarebbe proprio questa la causa della numero limitato - o meglio delle dimensioni molto piccole - delle mostre dedicate all’artista in questo anniversario. Non che il settimanale britannico non riconosca meriti soprattutto nello studio della fisica, botanica, anatomia e tecniche pittoriche. Niente da dire sui numeri poi: la Mona Lisa è il dipinto più popolare al mondo e l’Uomo vitruviano il disegno più noto. Ma basta questo si chiede l’Economist a farne il più grande artista del mondo occidentale? La risposta implicita è ovviamente no, perché secondo la tesi sostenuta nell’articolo, l’accostamento a Michelangelo e Raffaello è relativamente recente: «Secondo la tesi dello storico Donald Sassoon, sono stati gli storici francesi anticlericali che spinsero il “culto di Leonardo”, considerandolo un alleato nella battaglia contro l’oscurantismo religioso». Insomma, fu apprezzato per fini politici più che artistici. Non di meno, conclude il settimanale forse Leonardo risponde più all’artista contemporaneo e proprio per questo finisce per piacerci: fuori dagli schemi, originale anche nello stile di vita, criptico nei lavori.. e persino vegetariano.

Nella mente di Leonardo. Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 su Corriere.it da Renato Franco. «Io, Leonardo», dal 2 ottobre nei cinema il film omaggio al genio vinciano di cui si celebrano i 500 anni dalla morte. «I miei studi sono figli dell’esperienza, io sono un discepolo dell’esperienza»: si descriveva così Leonardo da Vinci, il genio che sognava l’impossibile, il maestro (anche) dell’incompiuto alla ricerca perenne della perfezione, la meta tensiva sempre puntata sulla ragione nascosta delle cose. Nell’anno in cui si celebrano i 500 anni dalla morte (2 maggio 1519), arriva al cinema «Io, Leonardo» con Luca Argentero che indossa i panni rinascimentali dell’artista che si perdeva dietro studi infiniti perché non si accontentava di fermarsi alla superficie delle cose. Protagonista del film è la mente di Leonardo, un luogo infinito e fisico, astratto ma tangibile, dove il suo genio prende vita; un labirinto di riflessioni e spunti, di osservazioni e idee, che accompagna lo spettatore nella rievocazione dei momenti più significativi della sua vita. Nello spazio della sua mente Leonardo incontra artisti, uomini di potere, allievi della sua bottega ma soprattutto si confronta con sé stesso. «È Leonardo che parla da dentro il cervello di Leonardo — spiega Argentero —; è una ricostruzione fedele delle sue riflessioni perché le parole che uso sono una trascrizione precisa dei suoi scritti, in certi casi attualizzati per renderlo facilmente comprensibile». Osservatore maniacale, autore di indagini senza fine, il suo occhio cercava la spiegazione di tutto. Il film non è reticente sulla sua omosessualità, che rappresenta l’occasione per capire la profondità del suo pensiero. Quando fu accusato di sodomia, Leonardo si mise a studiare perfino la ragione scientifica dei meccanismi del desiderio, perché voleva scoprire i segreti della sensualità. «Era un uomo che si analizzava fino in fondo — riflette l’attore —. Io stesso ho imparato a conoscerlo meglio e penso che sia questo quello che può incuriosire lo spettatore: quando osservava qualcosa Leonardo ne era talmente attratto da volerla sviscerare fino in fondo; capirla era la prerogativa del suo sguardo. Infatti l’occhio rappresentava per lui un fascino unico, sia come specchio dell’anima — l’occhio fa vedere chi sei, come stai, se sei felice o triste — sia come strumento attraverso il quale osserviamo la realtà; per lui l’osservazione era la prima parte dello studio». Il viaggio di «Io, Leonardo» porta a scoprire come nacquero i suoi capolavori, La Vergine delle rocce e La dama con l’ermellino, Il Cenacolo e La battaglia di Anghiari, La Gioconda e il San Giovanni Battista, il cui volto ha le sembianze del suo allievo prediletto, quel Salaì il cui viso androgino è rappresentato anche in soggetti femminili. «Il film è un’esplosione visiva — riprende Argentero —, un modo per scoprire un’immagine inedita di Leonardo e per vedere le sue opere prendere forma. Lo spettatore è immerso in una visione fantastica». Grazie all’uso di animazioni, proiezioni e tecniche digitali, il film mostra le sue visioni, le scintille del suo sapere, le sue opere, le sue teorie scientifiche. Alcune delle invenzioni mai realizzate si concretizzano e si animano mettendosi in funzione. Prodotto da Sky con Progetto Immagine e distribuito al cinema dal 2 ottobre da Lucky Red, regia di Jesus Garces Lambert, il film si avvale anche della consulenza scientifica di Pietro Marani, professore ordinario di Storia dell’Arte Moderna e Museologia al Politecnico di Milano. La narrazione aiuta a comprendere lo sviluppo intellettuale ed emotivo di Leonardo, la sua anima e il suo pensiero, l’aspetto umano è parte centrale di un film che aiuta a «capire che uomo era, a prescindere dall’incredibile artista. La bellezza di questo progetto è che si racconta chi è Leonardo e perché è diventato quello che è diventato. Anche se poi la formula è sempre la stessa; l’amore, la famiglia, l’ambiente in cui cresci: è l’affetto che ti circonda che decide che strada prenderai».

Il genio senza fine di Leonardo nei 17 anni milanesi che rivoluzionarono il mondo. Carmen Mora il 12 luglio 2019 su Il Dubbio. Dalla cripta di San Sepolcro, al codice atlantico, al cenacolo rivisitato da Warhol. Nove mesi di mostre, iniziative, visite, convegni per celebrare i 500 anni dalla morte dell’uomo che disegnava e dipingeva capolavori. Il genio senza fine. In occasione del quinto centenario dalla morte di Leonardo da Vinci, la città di Milano e le principali istituzioni museali della Lombardia, hanno deciso di promuovere un programma denso di iniziative per celebrare la personalità del genio più complesso ed eclettico della storia.

Numerose iniziative. La ricorrenza prevede un palinsesto di iniziative lungo nove mesi, da maggio 2019 a gennaio 2020 e da una ricca serie di importanti appuntamenti di preparazione e approfondimento orientati a dimostrare l’innegabile influenza di Leonardo sugli artisti contemporanei e sottolineare come egli sia stato, e sia tuttora, fonte di ispirazione per artisti emergenti di diversa tradizione culturale. Un anniversario davvero importante per una città legata a doppio filo alla figura di Leonardo. Egli rimase alla corte di Ludovico il Moro per ben 17 anni, quasi un terzo della sua vita, ed è alla città di Milano che lasciò gli esiti più significativi della sua ricerca nell’ambito dell’ingegneria, della meccanica, dell’idraulica e le opere migliori della sua straordinaria produzione pittorica. Non è difficile immaginare come l’ambiente fiorentino e la bottega artistica di Andrea Verrocchio, dove giunse dal piccolo borgo di Vinci, in breve tempo cominciarono a stare stretti al giovane Leonardo caratterizzato da una precocità artistica e una curiosità senza pari.

L’influenza di Milano. Fu letteralmente sedotto da Milano, una delle poche città in Europa a superare i centomila abitanti, al centro di una regione popolosa e produttiva, dotata di infrastrutture moderne rispetto ad ogni altra città italiana e dunque congeniale allo sviluppo di novità tecnologiche, cognizioni scientifiche e discipline artistiche da cui era risolutamente attratto. Leonardo intravide l’enorme potenziale di modernità della città e il suo saper diffondersi oltre le mura senza rimanere concentrata, in modo insano, come le città medievali. Quello milanese fu decisamente il periodo più fecondo di opere compiutamente realizzate e di altre riprese in seguito da parte del genio toscano.

“Omo senza lettere”. Leonardo si autodefiniva, con espressione severa, “omo sanza lettere’, dall’ortografia approssimativa, la tremenda scrittura mancina e la forte impronta vernacolare toscana in una scelta sintattica semplificata e rivolta alla piena sostanza del pensato. La parola, per il maestro toscano, non contava nulla senza la verità dell’esperienza e nutriva forte biasimo nei confronti del nozionismo letterario degli eruditi dell’epoca che, a suo dire, si facevano vanto di un’arte non propria, creata da altri. Acuta intelligenza, curioso fervore e instancabile osservazione dei fenomeni naturali lo resero capace di inventare e costruire congegni bellici, progettare opere architettoniche, fondere in bronzo e scolpire, dipingere, decorare, allestire apparati per feste sontuose, eseguire opere di bonifica, realizzare sistemi di irrigazione, suonare la lira, studiare anatomia, spiegare il concetto di attrazione gravitazionale, giustificare scientificamente la presenza di fossili marini in montagna, determinare l’età delle piante dagli anelli concentrici dei tronchi, decidere di diventare vegetariano non per gusto ma per scelta etica, scrivere al contrario secondo il modello di scrittura speculare per rendere indecifrabili i suoi scritti, vestirsi in modo eccentrico in età avanzata, portare barba e capelli lunghi, non convenzionali per i suoi contemporanei e disorientare i posteri, tramite dichiarazioni, lasciti e iniziative ingegnose, nella determinazione del suo orientamento sessuale, ancora oggi incerto ed avvolto nel mistero.

La cripta di San Sepolcro. Uno dei luoghi molto cari a Leonardo è la Cripta di San Sepolcro, la più antica chiesa sotterranea della città, indicata sulla mappa a volo d’uccello, come il vero “mezzo” di Milano, il centro, dove cardo e decumano s’incrociavano. Un luogo magico e quasi leggendario per la simbologia legata al culto del Santo Sepolcro di Gerusalemme e dunque alla storia delle Crociate. Appassionante è scoprire, proprio dai disegni di Leonardo, che la cripta è rimasta, per più di un millennio di storia, praticamente intatta e inalterata con resti di affreschi ancora visibili e antichissime lastre di marmo appartenenti all’adiacente Foro Romano.

La Pinacoteca Ambrosiana. Presso la Pinacoteca Ambrosiana è conservato il vero tesoro leonardiano, il Codice Atlantico. La più ampia raccolta esistente di scritti, disegni e annotazioni del maestro, in grado di testimoniare interamente la sua carriera, dai giovanili anni fiorentini fino all’ultimo periodo trascorso in Francia al servizio di Francesco I. Le pagine autografe di Leonardo avevano forme e dimensioni diverse e i fogli più grandi, normalmente utilizzati per fare gli atlanti, ne determinarono prosaicamente il nome. Ma è nell’arte della pittura che Leonardo rivela il suo grande e geniale valore. Per sua stessa ammissione egli dava spesso ‘ opra forte ad la geometria” ma era “impacientissimo al pennello" ed è a Milano che vanno ricercate le innumerevoli suggestioni e le eredità immateriali racchiuse nelle sue opere pittoriche più significative.

Geometria geniale. La foresta di alberi che proietta sull’intonaco del soffitto a volta intrecci vegetali, rami e fogliame è l’incantevole elemento decorativo della Sala delle Asse, al primo piano di un torrione del Castello Sforzesco, commissionata in onore delle nozze di Gian Galeazzo Sforza con Isabella d’Aragona e restituita al pubblico dopo sei anni di attento restauro. E poi gli splendidi ritratti dei Duchi di Milano e dei loro figli, la Dama con l’ermellino o la doppia versione della Vergine delle rocce, fino al progetto di abbellimento del convento e della Chiesa di Santa Maria delle Grazie che generò il Cenacolo, oggetto esclusivo degli studi del maestro per molti anni ed oggi uno dei maggiori vanti della città. L’affresco, patrimonio dell’Unesco e capolavoro assoluto della storia dell’arte, oltre ad essere l’opera rinascimentale più famosa al mondo, rappresenta il vero apice professionale in cui Leonardo raggiunge la sintesi perfetta tra ricerca estetica ed espressività. Non è un caso che proprio sul Cenacolo avviene l’aggancio con Andy Warhol il quale, nel 1987, portò a Milano una grande mostra tutta dedicata all’affresco leonardiano, con alcune grandi varianti sul capolavoro. Una di queste varianti è presente a Milano, l’unica rimasta in Italia e attualmente a disposizione dei visitatori all’interno della suggestiva Cripta di San Sepolcro. Quella milanese fu l’ultima mostra di Warhol che un mese dopo l’inaugurazione si spense a New York. Ciò che unisce Leonardo a Warhol è la straordinaria potenza iconica dei rispettivi lavori. Entrambi sono creatori di icone globali e testimoni di un atteggiamento indipendente da ogni autorità politica, filosofica o religiosa in grado di superare qualsiasi barriera geografica e culturale.

Leonardo ed i suoi libri. Una mostra raccoglie i 200 libri della biblioteca di Leonardo Da Vinci. Ecco cosa leggeva il genio. Panorama il 18 giugno 2019. Da dove nascono le prospettive, i fondi rocciosi e sfumati dei dipinti di Leonardo Da Vinci? Delle giovanili Annunciazione e Adorazione dei Magi degli Uffizi o della Vergine delle rocce del Louvre o di altri capolavori come la Gioconda? Adesso lo sappiamo. Dal suo animo di scienziato, certo, ma soprattutto dagli studi di prospettiva e matematica trovati nei trattati di Leon Battista Alberti, come il De Pictura, che fondava la pittura su principi matematici. O nei trattati di Archimede, di Francesco di Giorgio Martini o ancora negli scritti matematici di Luca Pacioli, di cui era amico. Basta guardare il reticolato geometrico che sta alla base dell’Adorazione dei Magi per capire come la matematica gli servisse e quanto il genio di Vinci disprezzasse Botticelli per la sua pittura di superficie (per noi visionaria e altrettanto bella). Leonardo diceva con orgoglio di essere un uomo «sanza lettere», ma di «sperientia». Non sapeva il latino, non aveva alle spalle studi umanistici, ma la sua intelligenza e curiosità del mondo lo avrebbero portato a essere un lettore appassionato e uno degli uomini più colti del Rinascimento. Tanto che Benvenuto Cellini lo ricorderà, dopo la scomparsa, come «un grandissimo filosofo». Il latino Leonardo lo imparerà a 40 anni, ma forse questo complesso sarà la molla che lo spingerà in tutti i campi del sapere, rifornendosi di libri sino a diventare un accanito collezionista. Opere di autori antichi, medievali e cinquecenteschi, che gli servivano per la sua multiforme attività di artista ingegnere, architetto, pittore e soprattutto scienziato e inventore. Riuscirà a formare nell’arco della vita una grande e fornita biblioteca di oltre 200 volumi (ora visibile, per la prima volta, in una mostra a Firenze): un numero eccezionale per i tempi, quando le collezioni librarie delle famiglie non arrivavano alla trentina. Libri in volgare e in latino, inizialmente manoscritti, poi nel corso del Cinquecento a stampa. Leonardo li teneva con cura in scaffali o li riponeva in casse quando viaggiava, annotando i nomi degli autori in lunghe liste nei suoi vari Codici (Codice Atlantico, Codice di Madrid II), cioè nelle circa 5 mila carte che ci ha lasciato. Liste vergate con la strana scrittura da destra a sinistra, che si è scoperto essere anche destrorsa, come ricorda Marco Cursi, che ha trovato una sessantina di testimonianze, tra la giovinezza e il 1510, nel Codice Atlantico e nella collezione dei disegni del Castello di Windsor. Forse l’artista non era neppure mancino, ma usava anche la «destra mano». Della biblioteca «perduta» è giunto fisicamente sino a noi un solo libro, con dodici postille di mano di Leonardo: il Trattato di architettura e ingegneria di Francesco di Giorgio Martini del 1478-81, conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Ma che libri leggeva e quanto hanno influito sulla sua personalità, cultura, opera? Libri letterari e scientifici, grammatiche, trattati di ingegneria, architettura, anatomia, medicina, tattica militare. Tra i primi, raccolti a Firenze sin dai tardi anni Settanta del Quattrocento, dopo la formazione nella bottega del Verrocchio e l’inserimento nell’ambiente mediceo, ci sono Le Metamorfosi di Ovidio, da cui Leonardo trascrive nel Codice Atlantico (195r) alcuni brani dei libri XIII e XV. Da Ovidio, citato nel volgarizzamento trecentesco di Arrigo de’ Simintendi da Prato, l’artista trae una miriade di nozioni che alimenteranno la sua fantasia; tra tutti resta fondamentale il concetto del «tempo consumatore delle cose» e della natura incalzata da una perenne trasformazione. Ecco i volti scavati dei vecchi dell’Adorazione dei Magi, del San Gerolamo della Pinacoteca Vaticana, le espressioni grottesche e lacerate delle figure dei disegni, in contrasto con la bellezza di angeli e madonne. Altro testo fondamentale per il genio è la Storia Naturale di Plinio il Vecchio nella versione volgare di Cristoforo Landino, edito nel 1476. Leonardo lo consulterà sempre, dagli anni fiorentini a quelli milanesi, quando, nel 1498, annoterà nelle sue carte «Allega Plinio». Lo scrittore latino gli fornirà elementi utili nelle scienze, dalla cosmologia alla geologia, dalla botanica alla mineralogia, e gli confermerà il concetto della transitorietà dell’ingegno umano e della perdita inesorabile dei capolavori antichi, come la Venere scolpita da Prassitele. «Cosa bella mortal passa e non dura» scrive nel 1493 (Codice Forster III, f. 72 r) riportando un verso di Petrarca sotto uno schizzo di una vecchia raggrinzita. Petrarca con Dante e Boccaccio sono letture costanti sin dall’inizio. Del Petrarca, che cita in una lista di libri del periodo sforzesco ma che conosceva già prima, più che i temi amorosi gli interessano le meditazioni filosofiche a soggetto naturalistico. Dal Trionfo del tempo trascrive nel 1493, in un foglio ora nella Royal Collection del Castello di Windsor, il verso 112: «Passano nostri triunfi, nostre pompe» ancora sul tema della caducità delle cose umane. La Commedia di Dante contribuisce a irrobustire il suo immaginario e a fornire contenuti dottrinali e scientifici, mentre il Decameron di Boccaccio è citato in un foglio di favole e facezie. A Firenze a imporsi come basilari nella formazione sono anche i libri di abaco, aritmetica, arti meccaniche. Il già citato Trattato di architettura e ingegneria del senese Francesco di Giorgio Martini, i Trattati di Archimede utili per la ricerca di fondamenti matematici della prospettiva e della pittura. Altrettanto importante l’Ex ludis rerum mathematicarum di Leon Battista Alberti, schedato da Leonardo nel Codice di Madrid II come «libro di misura», che gli serviva per gli studi di meccanica, idraulica, ingegneria, navigazione. E, dello stesso autore, il De pictura, la fonte maggiore per gli scritti leonardeschi su pittura e prospettiva. Studi che proseguirono nel periodo milanese con altri «altori moderni», gli «autori», raccolti a decine, in parallelo agli interessi sempre più vasti dell’artista-scienziato. La svolta con la lingua e con il latino avviene però a Milano, dal 1482, quando Leonardo decide di diventare anche scrittore. Comincia a cercare libri a stampa in quantità, importanti per i contenuti, ma anche per l’acquisizione di vocaboli ed espressioni tecniche, come il De re militari del 1483 dell’umanista Roberto Valturio o il Fasciculo de medicina dello stesso autore. O come la Cosmographia di Claudio Tolomeo nell’edizione del 1486, corredata da tavole cartografiche che Leonardo userà come modello per le sue di anatomia. Per ampliare il suo vocabolario niente di meglio del Vocabolista di Luigi Pulci, un piccolo prontuario mitologico accompagnato da un elenco di parole dotte, trascritte nel Codice Trivulziano che rivela, a distanza di secoli, l’attività e le letture milanesi di Leonardo tra il 1488 e il 1490. Leggendo le parole di altri grandi, ha così trovato anche le proprie.

IL SEGRETO DELLA MENTE DI DA VINCI.  Viola Rita per  Wired il 25 maggio 2019. Nel 2019 ricorre il 500° anniversario della scomparsa di Leonardo da Vincie in questa particolare occasione la figura del genio fiorentino è al centro non solo di numerosi eventi culturali, come mostre e festival in tutta Italia, ma anche di vari studi scientifici che indagano sulla sua opera e sul personaggio, incluse alcune sue caratteristiche anatomiche. Oggi, ad esempio, un nuovo lavoro, pubblicato su Brain, ha esaminato il modo di disegnare e ideare nuovi progetti da parte dell’inventore, arrivando alla conclusione che è possibile che Leonardo da Vinci avesse l’Adhd – il disturbo da deficit di attenzione/iperattività – all’epoca ovviamente sconosciuto. L’ipotesi sarebbe sostenuta da alcune attitudini e comportamenti di Leonardo, come la difficoltà a concludere le sue opere. L’analisi è stata realizzata dall’italiano Marco Catani, ricercatore dell’Istituto di psichiatria, psicologia e neuroscienze del King’s College London. L’Adhd è un disturbo del neurosviluppo che appare durante l’infanzia e che globalmente colpisce circa il 5% dei bambini. Questa condizione è caratterizzata da sintomi come disattenzione, iperattività e impulsivitàche non sono adeguati all’età del bambino o del ragazzo. I dati storici pervenuti dalle cronache e dalle biografie ci descrivono un Leonardo che fin dall’infanzia era in continuo movimento, dato che saltava da un compito ad un altro ed era difficile per lui portarli a compimento. Inoltre, già da giovane dormiva poco e lavorava anche di notte, alternando il lavoro e brevi pisolini. L’abitudine a rimandare i compiti, ad iniziare contemporaneamente diverse opere e a non concludere sono gli elementi che spiegherebbero la presenza dell’Adhd, secondo l’idea spiegata su Brain da Marco Catani. “Sebbene sia impossibile effettuare una diagnosi post-mortem per qualcuno scomparso 500 anni fa – sottolinea Catani – sono sicuro che l’Adhd è l’ipotesi maggiormente convincente e più plausibile dal punto di vista scientifico. Le testimonianze storiche mostrano che Leonardo trascorreva troppo tempo a pianificare nuovi progetti ma mancava di perseveranza. L’Adhd potrebbe spiegare questi aspetti del suo temperamento e il suo particolare genio mutevole”. Il secondo cardine su cui si basa l’ipotesi di Catani, infatti, è proprio la curiosità vorace di Leonardo da Vinci, che aveva sempre nuove idee per invenzioni e progetti e che era sempre alla ricerca di nuovi stimoli. Basti pensare che vi sono numerosissimi fogli con tentativi di studi di ingegneria, ottica, meccanica e operazioni matematiche, un impegno costante, per altro da autodidatta. Anche il cervello di Leonardo da Vinci era particolare, come racconta il ricercatore: era mancino (o ambidestro secondo un recente studio, ndr), probabilmente dislessico e il linguaggio prevaleva nell’emisfero destro, sottolinea Catani, tutte caratteristiche frequenti in chi ha l’Adhd. Inoltre, alcuni tratti del suo carattere e della sua opera, come la creatività geniale sarebbero in linea con la presenza di Adhd. “L’idea che l’Adhd sia un problema del comportamento nei bambini con un’intelligenza sotto la media e con una vita inquieta è un luogo comune errato”, chiarisce l’autore. “Al contrario, la maggior parte degli adulti che seguo professionalmente sono stati dei bambini brillanti e intuitivi, ma che successivamente nel corso della loro vita hanno sviluppato sintomi di ansia e depressione per non essere riusciti a esprimere il loro potenziale”. E anche Leonardo da Vinci, racconta il ricercatore del King’s College, considerava se stesso come qualcuno che ha fallito e non è riuscito a raggiungere i suoi obiettivi, “un fatto incredibile”, commenta l’autore, anche considerando l’opera sterminata, la cultura smisurata, le innovazioni tecniche, le invenzioni geniali, riscoperte poi secoli dopo – come le macchine per volare con dettagli tecnici ripresi poi nell’800. Ma se l’ipotesi di Catani, cioè che Leonardo aveva l’Adhd, fosse confermata, questo porterebbe anche a eliminare parte dello stigma che aleggia intorno a questa condizione. “Spero che il caso di Leonardo dia finalmente prova che l’Adhd non è collegato ad un basso quoziente intellettivo o a una minore creatività”, conclude Catani “quanto piuttosto alla difficoltà di sfruttare al meglio il proprio talento naturale. Spero che l’eredità di Leonardo possa aiutarci a cambiare e eliminare questo stigma intorno all’Adhd”.

VENI, VIDI, DA VINCI. Nino Materi per "Il Giornale" il 30 aprile 2019. Dopo aver letto l' appassionante libro di Carlo Vanoni, «A piedi nudi nell' arte», appena edito da Solferino, ci siamo convinti che l' arte diventa ancora più appagante se qualcuno - possibilmente dotato di competenza e bella scrittura - riesce a spiegarci la trama dei capolavori attraverso i fili di un romanzo. Salvo poi scoprire che, a volte, le vicende dei quadri famosi sono imbevute di realtà ben più colorate di qualsiasi tavolozza immaginaria. La conferma viene dalla fantastica vicenda della «scoperta dei capelli di Leonardo da Vinci»: una specie di detective story a sfondo «biologico»; sì, perché nella genesi di questo «evento eccezionale» (nel mondo dell' arte l' aggettivo «eccezionale» è come il nero nell' universo della moda, sta bene su tutto) c' entra anche il Dna, roba di natura cromosomica che apparentemente non sembra avere troppa attinenza con pennelli, tele e olio di lino. Ma quando si parla del nostro più grande genio rinascimentale, nulla è escluso, figuriamoci la scienza. «Abbiamo recuperato oltreoceano un cimelio eccezionale: la ciocca di capelli di Leonardo da Vinci, una straordinaria reliquia che permetterà di procedere nella ricerca del suo Dna», è stato ieri il solenne annuncio dello studioso Alessandro Vezzosi, direttore del «Museo ideale Leonardo da Vinci», e della storica Agnese Sabato, presidente della «Leonardo da Vinci Heritage». Saranno loro ad illustrare dopodomani alle 11 presso la Biblioteca Leonardiana di Vinci (Firenze) i nuovi, affascinanti, segreti tricologici di Leonardo, uno che, in fatto di misteri nella sua vita non si è fatto mai mancare nulla. E, soprattutto, non ha mai fatto mancare nulla ai suoi ammiratori planetari che ogni giorno, a migliaia, si bloccano, come gechi al sole, dinanzi al «sorriso enigmatico» (e basta col ritornello del «sorriso enigmatico»!) della Gioconda. La data scelta dai due esperti leonardisti per la presentazione de «Les Cheveux de Leonardo da Vinci» non è casuale, considerato che il 2 maggio è il giorno del quinto centenario della morte del mito barbuto più celebre d' Italia (dopo Salvini, s' intende). La coppia Vezzosi-Sabato, nel 2016, rese nota «l' esistenza dei discendenti ancora viventi di Leonardo (ovvero di suo padre Ser Piero e del fratello Domenico), tra cui ci sarebbe il regista Franco Zeffirelli». A dimostrazione di ciò che dicevamo all' inizio: nell' arte, a volte, la realtà supera il romanzo. «Il reperto storico della ciocca di capelli - spiega il professor Vezzosi - che fino a questo momento era rimasto nel segreto di una collezione americana, verrà esposto in anteprima mondiale, insieme a documenti che ne dimostrano l' antica provenienza francese». «È l' elemento che mancava per dare ulteriore concretezza scientifica alle nostre ricerche storiche - aggiunge la dottoressa Sabato -. Grazie alle analisi genetiche su questo reperto, che saranno incrociate con gli esami sul Dna dei discendenti viventi e delle sepolture che abbiamo individuato negli ultimi anni, è ora possibile fare verifiche per la ricerca del Dna del genio, anche in rapporto alla tomba di Leonardo ad Amboise». Infine - come se tutto ciò non bastasse -, oltre a «Les Cheveux de Leonardo da Vinci» i due esperti daranno conto di un' altra scoperta riguarda la cosiddetta «Gioconda nuda» del Museo Ideale, ovvero una copia della Monna Vanna conservata nel castello di Chantilly a nord di Parigi e datata attorno al 1503, stesso anno in cui Leonardo cominciò a lavorare alla più celebre Gioconda. Quella del «sorriso enigmatico». Così, giusto per chiudere in bruttezza.

Da Ansa il 6 maggio 2019. A paralizzare la mano destra di Leonardo da Vinci è stata una lesione nervosa, non un ictus come si è creduto finora. Lo indica lo studio italiano pubblicato sul Journal of the Royal Society of Medicine e condotto da Davide Lazzeri, chirurgo plastico della Clinica Villa Salaria di Roma, da tempo impegnato nello studio della medicina nell'arte, e dal neurologo Carlo Rossi. La diagnosi di ictus risale a circa dieci anni fa, sulla base dell'analisi del ritratto di un busto di marmo che rappresentava Leonardo anziano, con la mano destra sostenuta da una fasciatura e le dita con una posizione insolita. Del busto non si hanno notizie, mentre il disegno è attribuito a un artista lombardo del XVI secolo, Giovan Ambrogio Figino, ed è conservato, ma non esposto, nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia. Lo stesso disegno è stato adesso analizzato da Lazzeri e Rossi, che si sono soffermati sul particolare della mano fasciata e sulla posizione delle dita. "Piuttosto che il ritratto di una tipica mano deformata dalla spasticità muscolare successiva a un ictus ischemico, la diagnosi alternativa di paralisi del nervo ulnare sembra essere più verosimile", rilevano i due studiosi. A causare la paralisi della mano destra di Leonardo, osserva Lazzeri, sarebbe quindi stato un trauma del braccio destro che ha portato alla paralisi del nervo ulnare, ossia del nervo che dalla spalla arriva alla mano e che gestisce i muscoli che controllano alcuni movimenti della mano. A sostenere questa ipotesi, secondo lo studioso, è il fatto che "l'infermità alla mano destra non era associata a deterioramento cognitivo o ad altre disturbi motori", tanto che anche dopo la paralisi Leonardo ha continuato a insegnare e a disegnare con la mano sinistra. Se da un lato Leonardo non perse mai la capacità di disegnare con la mano sinistra, i due studiosi rilevano che la paralisi della mano destra potrebbe avergli impedito di tenere in mano un pennello per ritoccare o concludere importanti dipinti che aveva portato con sé in Francia negli ultimi anni della sua vita, come Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino, un San Giovanni Battista giovane e due ritratti, uno dei quali è la Gioconda.

"Leonardo non ebbe un ictus, fu la lesione di un nervo a paralizzargli la mano". A sostenerlo uno nuovo studio italiano che ha analizzato un disegno del XVI secolo. Valeria Pini il 4 maggio 2019 su La Repubblica. La Paralisi di una mano rallentò il lavoro di Leonardo da Vinci negli ultimi anni della sua vita. Tanto che la Gioconda sarebbe rimasta incompiuta per questo motivo. Diversi studi scientifici avevano già parlato di questa menomazione, ma ora una nuova ricerca italiano ribalta le tesi su quello che accadde all'artista. Sarebbe stata la lesione di un nervo e non un ictus, come creduto fino ad oggi, a far ammalare Leonardo. A sostenerlo l'analisi attenta di un disegno del XVI secolo, conservato a Venezia, da parte di due medici italiani.

Difficoltà nel disegnare. Sulla paralisi che colpì Leonardo alla fine della sua vita, non ci sono dubbi. Emerge in diverse testimonianze scritte dell'epoca. "Anche se da lui per essergli venuta certa paralisi su la destra non ci si può più aspettare cosa buona. Ha ben formato un creato milanese che lavora assai bene. E benché il predetto messer Leonardo non possa colorare con quella dolcezza solita, pure può fare disegni ed insegnare ad altri", scriveva Antonio de’ Beatis, segretario del Cardinale Luigi D’Aragona, quando, entrambi nel 1517 fecero visita a Leonardo all’epoca ospite del re di Francia ad Amboise, in Francia. Spiegava così quanto il maestro fosse in difficoltà e quanto lo aiutassero gli allievi.

I primi studi. Dieci anni fa alcuni studiosi, fra i quali Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale di Leonardo a Vinci, suggerirono che la causa dell’infermità della mano destra del Maestro era un ictus, conseguenza della sua alimentazione vegetariana. Questa ipotesi trovava conferma, secondo gli stessi autori, nel fatto che Leonardo morì due anni dopo, nel 1519 per un "parossismo", un episodio di una malattia non ben definita che oggi definiremmo come una patologia del cuore o del cervello che si era aggravata anche per la vecchiaia del maestro.

L'ipotesi: "Non fu un ictus". Ma l’analisi più dettagliata fatta oggi di un disegno a ematite (o a sanguigna) attribuito a Giovan Ambrogio Figino, artista Lombardo del XVI secolo, che ha portato alla diagnosi di paralisi post ictus, farebbe emergere un'altra interpretazione della malattia. Ed è questo quello che concludono Davide Lazzeri, specialista in Chirurgia plastica e ricostruttiva, e il neurologo Carlo Rossi, che sulla mano di Leonardo hanno appena pubblicato uno studio su Pubmed. Il ritratto che cambia le carte in tavola è conservato (e non esposto al pubblico) nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Da alcuni documenti gli autori hanno ricostruito che il disegno è la riproduzione di un busto di marmo con l'effige di Leonardo, un'opera andata perduta. Nell'immagine, appare Leonardo vecchio e sofferente con la mano destra sostenuta da una fasciatura. "Piuttosto che il ritratto di una tipica mano deformata dalla spasticità muscolare successiva a un ictus ischemico, - spiega Lazzeri - pensiamo che la diagnosi alternativa sia quella di paralisi del nervo ulnare, con un atteggiamento tipico della mano che sembra essere più verosimile”.

Cosa accadde veramente. Ma cosa può essere accaduto al genio fiorentino alla fine della sua vita, tanto da rallentarlo nel suo lavoro? "Probabilmente una sincope o uno svenimento potrebbero aver causato un trauma all’arto superiore destro di Leonardo, culminando in una paralisi del nervo ulnare. Nervo che dalla spalla arriva fino alla mano e che gestisce i muscoli determinanti in alcuni movimenti della mano", spiega ancora Lazzeri. L’ipotesi sarebbe avvalorata dal fatto che l’infermità alla mano destra non era associata a deterioramento cognitivo o ad altre disturbi motori. In quel periodo Leonardo ha continuato a insegnare e a disegnare con la mano sinistra, attività che non sarebbe riuscito a portare a termine nel 1517 in caso di un ictus ischemico non trattato con terapia antiaggregante e in assenza di un controllo serrato dei fattori di rischio cardiovascolari. Sintomi o segni che in ogni caso De’ Beatis avrebbe annotato sul proprio diario.

Le opere incompiute per la menomazione. Se da un lato Leonardo non perse mai l’abilità del disegno eseguito con la mano sinistra e istruì i suoi allievi fino alla sua morte, i due studiosi concludono sottolineando come la paralisi della mano destra potrebbe aver impedito a Leonardo di tenere in mano un pennello per ritoccare o concludere importanti opere pittoriche che aveva portato con sé in Francia e citate da De’ Beatis come: Sant'Anna, la Vergine e il Bambino con l'agnellino, un San Giovanni Battista giovane e soprattutto la Gioconda.

“LA GIOCONDA ERA UNA GRAN PUTTANONA E LEONARDO DA VINCI UN GENIO FANNULLONE”. Da L'Inkiesta il 4 maggio 2019.  «Leonardo da Vinci? Un fannullone di talento. Aspetti che devo andare a pagare due spremute d’arancia. Ma tu sei della Lega? Insomma è andata bene a Caltanissetta. Ah no, sei dei 5 Stelle, ma tra quanto si vota?». Esiste solo una cosa più difficile dell'intervistare Vittorio Sgarbi: dargli un’etichetta. Perché questo critico d’arte, ex sindaco, conduttore televisivo, divulgatore, saggista, opinionista, attore, professore, politico e intellettuale sfugge a qualsiasi definizione. Riesce a fare tutto, un po' come Leonardo. Tra una votazione in Parlamento, una battuta con i colleghi nel Transatlantico e una chiacchierata con gli altri deputati alla bouvette, Sgarbi riesce a spiegarci perché è importante ricordare da Vinci a 500 anni dalla morte avvenuta il 2 maggio del 1519. «È ancora in linea? Allora le dicevo: Leonardo è un genio, ma queste celebrazioni sono iettatorie».

Perché?

«Perché sia questo che quello di Raffaello nel 2020 e Dante nel 2021 celebrano la morte dell'artista. E invece Leonardo non è morto, ma vivo. La sua vita è stato un continuo e incessante dubbio per capire le ragioni del mondo, della natura e di Dio. Si celebra Leonardo perché rispetto ad altri personaggi famosi del Rinascimento come Michelangelo è il più attuale, per la sua ansia di conoscenza. E poi le celebrazioni prescindono dall'importanza oggettiva di un personaggio. Possiamo festeggiare sempre Leonardo da Vinci anche senza centenari o cinquecentenari».

Qual è il più grande equivoco che abbiamo su Leonardo?

«L'equivoco è che sia stato un grande artista. È stato il genio dell'imperfezione ma un grande dilettante. Non c'è un'architettura, non c'è una scultura, non c'è un'invenzione riuscita. Ci sono dei quadri, pochi e dipinti in modo anche talvolta incerto. Ma in lui c'è una intuizione assoluta di Dio nell'uomo. La pittura è cosa mentale, poi non importa farla materialmente. Quello che è importante di Leonardo è l'ansia. È stato un personaggio capace di interpretare quella che oggi si chiama arte concettuale. Prendi la Gioconda: non è il ritratto di una persona, è proprio una persona viva. La Gioconda vive, parla. Questa è la sua forza: aver creato una dimensione divina».

Qual è l’opera più sottovalutata?

«La dama con l’ermellino perché non ha avuto la fama della Gioconda, benché sia forse persino più bella. E invece è da riscoprire: è un'opera di profonda sottigliezza. Indica la devozione amorosa come esclusività. La dama non guarda negli occhi noi che siamo davanti al quadro. Guarda qualcuno al di fuori».

Chi?

«L’uomo che ama. È la dimostrazione di una dedizione amorosa unica. Non c’è un altro ritratto prima nella storia dell'arte dove una donna guarda da un’altra parte. Questo fa intendere che Ludovico il Moro, di cui la dama con l'ermellino è innamorata, è in realtà dentro di lei. Mentre la Gioconda è la donna di tutti, è una grande puttanona».

Addirittura.

«Sì, appartiene e assomiglia a tutti. Lei e la dama con l’ermellino sono due mondi opposti. La Gioconda è un'opera nella quale si vede il tentativo di uscire dal quadro stesso. Tanto è vero che conosci la Gioconda, o almeno la sua idea, avendo visto prima la fotografia del quadro. Quando vai al Louvre non riesci a vederlo per quanta gente c'è davanti. Ma la conosci da una cartolina vista a cinque anni, da una fotografia su un libro o dalla una riproduzione nello studio di un dentista. È un'opera di una potenza inarrivabile dal punto di vista della sua identità emblematica. Di Maio assomiglia a Leonardo da Vinci perché entrambi non hanno mai fatto nulla in vita loro. Da Vinci cercava il reddito di cittadinanza, era un fannullone. Entrambi avevano l’idea di fare successo senza faticare. Salvini avrebbe potuto fare al massimo il capomastro del Maestro per eseguire i suoi progetti».

E qual è l’opera di Leonardo più sopravvalutata?

«L’ultima cena, ma non perché non sia un capolavoro, anzi. Ma è dipinto oggettivamente male. Invece di essere un affresco fu dipinto a secco quindi nell'arco di cinquanta anni si è disperso. È rimasto un fantasma. Una specie di Sindone di quello che è stato. Non ha la forza di un affresco che resiste al tempo. Il restauro lo ha un po' rimesso a nuovo ma è oggettivamente dipinto male. Non è sopravvalutato rispetto alla concezione di Leonardo, anche lì straordinaria in questo meraviglioso disegno di stati d'animo. Però se guardi le figure non c'è più niente: è un dipinto logorato».

Ci dica la sua opera preferita di Leonardo.

«La Madonna Benois che si trova al museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. Mi piace perché introduce un elemento assolutamente nuovo: l'emozione e la tenerezza di essere madre. Nessun volto ha quella dolcezza che mai altro artista prima di lui ha espresso. Leonardo è stato capace di restituire la dimensione ineffabile della felicità dell'essere madre».

Cosa ne pensa della supposta unica scultura di Leonardo esibita a Palazzo Strozzi?

«Penso sia una bufala del calabrese Cagliotti che conosce Leonardo come io il Tibet, dove non sono mai stato. Non si conoscono le sculture di Leonardo e quella è troppo solitaria per poter essere una prova della sua autenticità. È impossibile che Leonardo abbia fatto una scultura. Si tratta di una speranza, un desiderio, un’ansia. Come uno che sogna Naomi Campbell e si masturba davanti a una fotografia. Ora però devo tornare a votare alla Camera».

A proposito di politica, se lei fosse presidente del Consiglio, in che ministero metterebbe Leonardo?

«All’istruzione, senza dubbio. Perché la sua parabola insegna quello che l'uomo dovrebbe sapere o almeno ciò che dovrebbe inseguire: la conoscenza. Sarebbe più difficile mettere i politici di oggi nel Rinascimento perché sarebbero dimenticati dalla storia. Anche se Di Maio assomiglia a Leonardo».

Cosa li accomuna?

«Leonardo non ha mai fatto nulla in vita sua, cercava il reddito di cittadinanza, era un fannullone. Entrambi avevano l’idea di fare successo senza faticare. Salvini avrebbe potuto fare al massimo il capomastro di Da Vinci per eseguire i suoi progetti. Nulla di più».

Pittura, ingegneria, anatomia e... grottesche caricature 500 anni fa moriva Leonardo. Pubblicato giovedì, 2 maggio 2019 da Corriere.it. Il primo dipinto in cui s’è vista la mano di Leonardo è il Battesimo di Cristo (oggi agli Uffizi di Firenze) eseguito da Andrea Verrocchio (1435-1488) intorno al 1475 per la chiesa di San Salvi. Era stato l’antiquario Francesco Albertini a rivelare, ai primi del Cinquecento, che l’angelo di profilo (sotto) era, appunto, di Leonardo. Vasari riprese la fonte, aggiungendo che l’allievo «benché fosse giovanetto» dipinse un angelo così meraviglioso da superare le figure del maestro, «il che fu cagione ch’Andrea mai più non volle toccar colori, sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse più di lui». Nella bottega del Verrocchio Leonardo avrebbe iniziato a sperimentare la pittura a olio, ma finora la conferma che l’angelo fosse suo era data dal confronto con le altre figure della tavola: più ardito lo scorcio del volto, più morbido il disegno dei lineamenti, più smorzati i contrasti tonali. Oggi le radiografie hanno però accertato che Leonardo rifinì a olio non solo l’angelo, ma anche l’incarnato di Cristo e alcune parti del paesaggio. (Lauretta Colonnelli)

L'espressione della Gioconda? Quel sorriso misterioso (e forzato) cela un nuovo enigma. Una nuova analisi di tre neuroscienziati italiani, pubblicata sulla rivista Cortex, dimostra che si tratta di un sorriso ''finto'', per nulla spontaneo, forse voluto dal Maestro. Claudio Cucciatti il 2 maggio 2019 su La Repubblica. A cinquecento anni dalla morte di Leonardo Da Vinci, oltre alle invenzioni del genio toscano, sono i misteri nascosti dietro la sua opera più famosa, la Gioconda, ad aver stimolato nei secoli storici dell’arte, scienziati, psicologi, filosofi, scrittori, registi. Teorie, studi, esperimenti, ricerche d’archivio (e qualche bufala, va detto) alimentano l’enigma del quadro conservato al Louvre in cui è ritratta Lisa Gherardini, “Monna Lisa”. Ma che si tratti della moglie di Francesco del Giocondo, perfino su questo, non c’è l’assoluta certezza. Tra i dettagli che più affascinano, oltre all’ormai celebre "Monna Lisa Effect", lo sguardo ipnotico che colpisce i visitatori che giungono a migliaia ogni giorno a Parigi per guardare l’opera dal vivo, c’è il sorriso della donna. Uno studio dell’Università di Friburgo aveva di recente stabilito che quella della Gioconda fosse un’espressione di felicità. Secondo un’analisi di tre neuroscienziati italiani, pubblicata sulla rivista Cortex, però, si tratterebbe di un sorriso “finto”, forzato, non spontaneo. Nel loro lavoro Lucia Ricciardi della St. George University di Londra, Luca Marsili della University of Cincinnati e Matteo Bologna della Sapienza di Roma hanno applicato i principi della neuroscienza partendo dalla “scomposizione” della bocca della Monna Lisa. Sono state realizzate due foto chimeriche: nella prima la parte sinistra della bocca con il corrispettivo emivolto, nella seconda lo stesso procedimento è stato seguito per il lato destro.

L'esperimento. Messe di fronte a 42 persone, tutte hanno concordato che la parte sinistra fosse più espressiva e felice, mentre la destra è stata descritta come “seria”, “disgustata” e “triste”. Da un confronto si vede che il sorriso della Monna Lisa sia asimmetrico. Secondo alcuni studiosi si sarebbe trattato di una paresi del soggetto dipinto, per altri la conseguenza di un dente mancante. Ma i tre ricercatori italiani optano per la volontarietà dell’artista di Vinci nell’inserire un altro aspetto enigmatico. “Con la tecnica pittorica dello sfumato Leonardo, nella parte sinistra, ha alzato leggermente il labbro della donna, quasi a voler dipingere un ghigno. La neuroscienza – spiega Ricciardi – ha dimostrato come i sorrisi spontanei siano simmetrici, mentre quelli forzati no. Restando pur sempre nel campo delle ipotesi, pensiamo che Leonardo, grande conoscitore del corpo umano, sapesse che ridendo l’incurvatura delle labbra e le pieghe vicino agli occhi fossero simmetriche, prima ancora della teorizzazione di Duchenne nell’Ottocento”.

Non va dimenticato che un soggetto in posa per molte ore tiene un’espressione forzata, ma i risultati di questo studio portano i neuroscienziati a pensare che Leonardo abbia aggiunto questo particolare innaturale di proposito per comunicare qualcosa. “Cercando delle risposte abbiamo aggiunto un’altra domanda al mistero – conclude Ricciardi – ma pensiamo che quella espressione abbia un significato preciso e non sia frutto solo di un’imperfezione fisica”. Un nuovo enigma si va ad aggiungere alla Gioconda, secoli e secoli dopo la scomparsa del genio che la dipinse.

Chi è la Gioconda? Molti documenti ritrovati, testimonianze dirette e indirette e tanti studi concordano che la Gioconda sia Lisa Gherardini, moglie di Francesco di Giocondo. Secondo alcuni studiosi potrebbe trattarsi invece di Caterina Sforza. Altri sono convinti che si tratti di Isabella d’Aragona e c’è chi pensa perfino che sia la madre del pittore, Caterina Buti del Vacca. Nel dipinto, c’è addirittura chi ritiene che ci sia più di una Gioconda: secondo lo scienziato francese Pascal Cotte sotto il dipinto ci sarebbe il disegno di un’altra donna.

Lo sfondo. Si è ancora alla ricerca di prove che dicano dove sia stata dipinta la Gioconda, in quale parte d’Italia si trovi il paesaggio alle sue spalle. Tra le ipotesi più accreditate c’è la zona di zona di Ponte a Buriano, in provincia di Arezzo. Ma secondo uno studio recente molti elementi sarebbero riconducibili alla valle di Bobbio.

Il progetto di Leonardo da Vinci per il Duomo di Milano: pagato 40 lire e poi ritirato. Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 su Corriere.it. Il «malato domo» ha bisogno di un «medico architetto» che lo curi. Un tal Leonardo attorno al 1487 si fa avanti per guarire il Duomo di Milano, che si trova in una fase critica dei lavori. Propone un’idea, si fa pure pagare dalla Veneranda Fabbrica 40 lire e 16 soldi, realizza e consegna un modellino ma poi lo ritira, fa un passo indietro. Pensa di non aver trovato la giusta soluzione e anche i committenti non sono soddisfatti. Succede, anche se ti chiami Leonardo da Vinci. Ma la struttura abbozzata dal Genio su alcuni fogli di appunti avrebbe retto? È la domanda a cui la Veneranda Fabbrica proverà a rispondere lunedì, nel pomeriggio di studi su «Il Duomo al tempo di Leonardo» che si terrà in Cattedrale, nella cappella feriale. È uno degli appuntamenti del palinsesto per i 500 anni dalla morte del Genio. «E il primo di una serie di tre eventi che dedicheremo a Leonardo» anticipa monsignor Gianantonio Borgonovo, arciprete del Duomo. Maddalena Peschiera, archivista all’ombra delle guglie, ci aiuta a ricostruire il contesto. «A fine 1400 il cantiere è in stallo — racconta —, bisogna chiudere la volta che unisce le navate al transetto, realizzare un tiburio», ovvero la struttura oggi sormontata dalla guglia con la Madonnina. Vengono coinvolti con un concorso i migliori architetti e ingegneri dell’epoca e pure Leonardo, che si trova a Milano, partecipa spontaneamente. Sono arrivati fino a noi gli schizzi alla base della sua proposta. È su questi fogli che si trova anche la minuta di una lettera destinata ma forse mai recapitata ai deputati della Veneranda. Leonardo si rivolge agli amministratori della Fabbrica proponendosi come «medico architetto» che conosce bene le regole del costruire e deciso a guarire il «malato domo». Fa realizzare un modellino in legno, a cui mette mano più volte. Non è cosa semplice, per l’epoca, creare un tiburio di quelle dimensioni, su un edificio pensato e fatto da altri e oltretutto dovendo mantenere gli archi acuti tipici del gotico. Leonardo decide infine di ritirare il modellino, promettendo di ripresentarlo. Non manterrà la parola e lascerà che altri guariscano il «male» della Cattedrale. 

«Nel 1490 al Castello si valutano i progetti presentati — continua a raccontare Peschiera —, i lavori vengono affidati agli architetti Amadeo e Dolcebuono, con la partecipazione di Francesco di Giorgio». La sua soluzione è quella visibile oggi, con un arco a tutto sesto «mascherato» da uno acuto sottostante. E Leonardo? Della sua partecipazione rimane traccia nei registri della Veneranda, con il pagamento a lui e al falegname che l’ha aiutato, oltre che nei disegni del Codice Atlantico e nel Codice Trivulziano. Non è arrivato a noi il modello, ma al pomeriggio di studi si proverà a ricostruirlo. «A partire da quegli schizzi ci siamo divertiti a capire cosa sarebbe successo portando avanti l’idea del Genio» dice Francesco Canali, direttore dei cantieri della Fabbrica. Un’operazione non solo per topi da biblioteca. «Il Duomo è un edificio pensato per attraversare i secoli, carpirne i segreti permette di mantenere alta la qualità della cura». Il tutto è stato possibile grazie al Politecnico, che ha fatto i rilievi sul tiburio attuale e sta collaborando al suo restauro. In virtù di questa sinergia, Canali e il professor Stefano Della Torre hanno organizzato per venerdì 3 maggio alle 19.30 un incontro per valutare la fattibilità dell’idea di Leonardo. A Francesco Repishti, docente di Storia dell’architettura, il compito di inquadrare il problema del tiburio, mentre Lorenzo Finocchi Ghersi dell’università Iulm si è incaricato di parlare della Milano del 1400 e Daniele Filippi di Franchino Gaffurio, maestro di cappella in quegli anni. Subito esauriti i posti in Cattedrale per l’incontro, in diretta streaming (sul canale Youtube del Duomo) e su Chiesa Tv.

«Ecco i capelli di Leonardo da Vinci». 5 secoli dopo la morte trovata ciocca intatta. Pubblicato giovedì, 2 maggio 2019 da Jacopo Storni su Corriere.it. Lui è quello che provò a dotare l’uomo di ali, provando a volare sopra le colline di Firenze dal monte Ceceri. Lui è quello che incise la bellezza incantata della Gioconda. Lui è quello che disegnò la perfezione euclidea dell’uomo vitruviano. Lui è stato tutto: pittore, scultore, scenografo, scrittore, scienziato, inventore, anatomista. Un genio. Anzi, il Genio. Lui è Leonardo da Vinci e oggi, a distanza di 500 anni dalla sua morte, siamo di fronte a una scoperta che potrebbe avere dell’incredibile. «Abbiamo recuperato una ciocca di capelli che è stata storicamente denominata “Les Cheveux de Leonardo da Vinci”». Leonardo che rivive, cinque secoli dopo, grazie a quelli che probabilmente sono i suoi capelli, rimasti intatti. L’annuncio è arrivato dai curatori della mostra “Leonardo vive”, il leonardista Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale Leonardo Da Vinci, e la storica Agnese Sabato, presidente della Leonardo Da Vinci Heritage, che nel 2016 hanno reso nota l’esistenza dei discendenti viventi di Leonardo (ovvero di suo padre Ser Piero e del fratello Domenico). E oggi, mercoledì 2 maggio, di fronte ai media accorsi da tutto il mondo, quella ciocca di circa venti capelli biondi è stata svelata al pubblico. «Il reperto storico della ciocca di capelli - spiega Vezzosi- che fino a questo momento era rimasto nel segreto di una collezione americana, è stato esposto in anteprima mondiale, insieme a documenti che ne dimostrano l’antica provenienza francese». Ma come si è arrivati a questa scoperta? Il passaggio è complesso: “La storia della preziosa reliquia – ha detto Vezzosi– inizia nel 1863 quando Arsène Houssaye, scrittore e ispettore generale dei musei di provincia francese, amico di Delacroix e Baudelaire, venne incaricato da una commissione imperiale di ricercare la tomba di Leonardo tra le rovine del castello di Amboise, dove Leonardo era stato inumato il 12 agosto 1519. Egli ritrovò i resti di quelle che individuò come le ossa e il cranio dell’artista-scienziato, grazie anche ad alcuni frammenti lapidei di un’iscrizione riconducibile al nome di “Leonardus Vinci”; poi furono ricomposti nella tomba della Cappella di Saint Hubert del Castello Reale di Amboise. I documenti da oggi esposti a Vinci attestano che Houssaye trattenne per sé due reliquie. Infatti, nel 1925, Harold K. Shigley, colto e appassionato collezionista americano di cimeli, acquistò a Parigi dal pronipote di Houssaye, «una ciocca di capelli di Leonardo e un anello di bronzo trovato sul dito del Da Vinci». Nel 1985 questi due reperti sono passati nelle mani di un altro collezionista americano che, nel 2016, avendo saputo delle nostre ricerche sulla genealogia di Leonardo, ci ha contattati. Dopo tre anni di lavoro, siamo riusciti a riportare in Italia questi reperti, che oggi possiamo finalmente mostrare nel Museo Ideale di Vinci. La reliquia dei capelli non è solo un documento storico, né un semplice cimelio, bensì uno strumento straordinario di conoscenza». Poi la precisazione: «Non abbiamo la certezza assoluta della veridicità del documento di antica provenienza francese, tuttavia ci stimola a battere la strada per affrontare un tema affascinante», ha affermato Vezzosi. Nel concreto il Dna ricavato dai capelli sarà confrontato coi «discendenti viventi di Leonardo da Vinci, che abbiamo individuato qui in Toscana, e inoltre con alcune sepolture, anche all’estero».«È comunque l’elemento che mancava per dare ulteriore concretezza scientifica alle nostre ricerche storiche - aggiunge la studiosa Agnese Sabato – Grazie alle analisi genetiche su questo reperto, che saranno incrociate con gli esami sul Dna dei discendenti viventi e delle sepolture che abbiamo individuato negli ultimi anni, è ora possibile fare verifiche per la ricerca del Dna del genio, anche in rapporto alla tomba di Leonardo ad Amboise». Per svelare la notizia è stata scelta una data simbolica, il 2 maggio. Nel giorno del quinto centenario della morte di Leonardo, la mostra “Leonardo vive” prende avvio a Vinci, anche in occasione della riapertura del “Museo Ideale Leonardo Da Vinci” e dell’inaugurazione del nuovo “Museo Leonardo e il Rinascimento del vino”.

Mostrata per la prima volta la ciocca di capelli di Leonardo da Vinci. Il direttore degli Uffizi: "Una sciocchezza". Il reperto esposto in anteprima mondiale nella città natale del genio toscano nell'ambito della mostra "Leonardo vive". Eike Schmidt: "Tradizione di collezionare ciocche di famosi personaggi risale al Romanticismo. Sarebbe stato fuori epoca" Elisabetta Berti il 2 maggio 2019 su La Repubblica. "Questa faccenda della ciocca di Leonardo da Vinci è una cosa sciocca, nessuno specialista ci crede". Non lascia spazio a interpretazioni Eike Schmidt, direttore delle Gallerie degli Uffizi, riguardo all'annuncio del ritrovamento di una ciocca di capelli del genio di Vinci, denominata "Les Cheveux de Leonardo da Vinci", che insieme a un altro cimelio è stata presentata alla Biblioteca Leonardiana di Vinci oggi, nel giorno del quinto centenario della morte del maestro del Rinascimento. Secondo quanto spiegato due giorni fa da Alessandro Vezzosi, direttore del Museo Ideale Leonardo Da Vinci, il reperto storico della ciocca di capelli, da oggi esposto in anteprima mondiale nella città toscana, fino a questo momento era rimasto nel segreto di una collezione americana. "La tradizione di collezionare delle ciocche di famosi personaggi oppure dei propri cari risale al Romanticismo, quindi all'Ottocento - prosegue Schmidt - sarebbe stato un gesto completamente fuori epoca nel Rinascimento, quando qualcosa di simile accadeva solo per i santi, di cui si tenevano parti del corpo, ma sicuramente non nel caso di grandi scienziati e artisti". Il direttore Schmidt dunque raffredda in questo modo gli entusiasmi di Vezzosi e della storica Agnese Sabato, presidente della Leonardo Da Vinci Heritage, i quali nel 2016 avevano reso nota l'esistenza dei discendenti viventi di Leonardo, e che due giorni fa riguardo alla ciocca di Leonardo avevano detto: "Questa straordinaria reliquia permetterà di procedere nella ricerca del suo Dna". Ma Schmidt è di tutt'altro avviso: "Non lasciamoci prendere troppo dall'entusiasmo per Leonardo da Vinci. Questa della ciocca è una cosa che non vale nemmeno la pena di essere analizzata".

Il commento di Schmidt è arrivato in occasione della presentazione all'auditorium Vasari dei francobolli dedicati dal ministero dello Sviluppo Economico a Leonardo da Vinci per i 500 anni dalla sua scomparsa, e del primo giorno di emissione dei francobolli in dotazione all'ufficio postale interno alla Galleria degli Uffizi: "Noi siamo il luogo giusto per questo annullo speciale, non solo perché abbiamo tre dei quadri di Leonardo e molti dei suoi disegni, ma anche perché siamo l'unico museo che ha al suo interno un ufficio postale, una cosa che risale ai tempi del sovrintendente Antonio Paolucci che voleva un ufficio interno al museo per permettere ai visitatori di spedire le cartoline a tutto il mondo. Adesso l'ufficio postale ha cambiato le funzioni e serve per comprare i francobolli speciali, ambasciatori nel mondo". Nella serie realizzata per questo centenario leonardesco è protagonista l'Adorazione dei Magi, conservato proprio agli Uffizi. Intanto questa mattina, a Vinci, la ciocca di capelli è stata messa in mostra per la prima volta insieme e un anello proveniente dalla stessa collezione privata di colui che ritrovò i resti considerati del genio toscano tra le rovine del castello di Amboise. "La storia della preziosa reliquia - ha spiegato Alessandro Vezzosi - inizia nel 1863 quando Arsène Houssaye, scrittore e ispettore generale dei musei di provincia francese, amico di Delacroix e Baudelaire, venne incaricato da una commissione imperiale di ricercare la tomba di Leonardo tra le rovine del castello di Amboise, dove era stato inumato il 12 agosto 1519. Egli ritrovò i resti di quelle che individuò come le ossa e il cranio dell'artista-scienziato, grazie anche ad alcuni frammenti lapidei di un'iscrizione riconducibile al nome di "Leonardus Vinci"; poi furono ricomposti nella tomba della Cappella di Saint Hubert del Castello Reale di Amboise". I documenti da oggi esposti a Vinci riportano che Houssaye trattenne per sé due reliquie. Nel 1925, Harold K. Shigley, colto e appassionato collezionista americano di cimeli, acquistò a Parigi dal pronipote di Houssaye, "una ciocca di capelli di Leonardo e un anello di bronzo trovato sul dito del Da Vinci". Nel 1985 questi due reperti - ha aggiunto Vezzosi - sono passati nelle mani di un altro collezionista americano che, nel 2016, avendo saputo delle nostre ricerche sulla genealogia di Leonardo, ci ha contattati. Dopo tre anni di lavoro, siamo riusciti a riportare in Italia questi reperti, che oggi possiamo finalmente mostrare nel museo Ideale di Vinci. La reliquia dei capelli non è solo un documento storico, né un semplice cimelio, bensì uno strumento straordinario di conoscenza". Ha ribadito Agnese Sabato, co-curatrice della mostra: "Grazie al confronto con i risultati degli esami scientifici del Dna dei discendenti viventi del fratello di Leonardo, Domenico, e di alcune sepolture della stessa famiglia Da Vinci, che abbiamo individuato con lunghe ricerche e presentato nel 2016, si potranno fare fondamentali verifiche. Se i capelli sono compatibili con il Dna dei discendenti si potrà sequenziare il Dna di Leonardo. E si farà comunque chiarezza sui resti contenuti nella tomba di Leonardo ad Amboise".

Se il Genio di Vinci viene snobbato in Italia e "adottato" dalla Francia. Ad Amboise celebrazioni per i 500 anni dalla morte. Da noi pochi eventi. Chi sono i fessi? Alessandro Sallusti, Venerdì 03/05/2019, su Il Giornale. È vero che Leonardo è morto ad Amboise, duecento chilometri a sud di Parigi, dove si era ritirato gli ultimi anni della sua vita sotto la protezione di un Re illuminato, Francesco I. Ed è altrettanto vero che il legame tra il genio di Vinci e lo stabile regno d'oltralpe era da tempo solido anche per via delle turbolenze politiche e militari dei fragili staterelli italiani dell'epoca. Ma detto questo aver consegnato chiavi in mano ai francesi le commemorazioni per i cinquecento anni della morte (2 maggio 1519) dell'Italiano più famoso al mondo fa un certo effetto. A uno speaker della tv di Parigi ieri gli è scappato detto in diretta che «Leonardo è francese»; la mostra del cinquecentenario che raccoglie vita e opere del Maestro, pensate e fatte nel suo girovagare in Italia, l'abbiamo regalata al Louvre; ieri il presidente Mattarella era in visita da Macron che celebrava in pompa magna l'anniversario. In compenso in Italia ci si è mossi in ordine sparso, con minutaglie di eventi senza filo logico e, ciliegina sulla torta, il Cenacolo di Santa Maria delle Grazie a Milano (che in quanto affresco non potevamo prestarlo, almeno quello, ai francesi) chiuso il primo maggio per mancanza di custodi nonostante migliaia di prenotazioni da tutto il mondo per visitarlo. Penso che tra «Leonardo ad Amboise» e «Leonardo da Amboise» ci sia una differenza che va ben oltre l'inversione di due lettere. Leonardo è e deve restare «da Vinci», cioè italiano a tutti gli effetti anche se patrimonio dell'umanità, sia da vivo che da morto (con tutto quello che di formale e sostanziale ne consegue). Certo, se abbiamo un ceto politico il cui massimo slancio è litigare su un avviso di garanzia a un sottosegretario, se l'unico esercizio dei nostri intellettuali è di menarla con l'antifascismo permanente, se permettiamo che twitter sostituisca i libri di storia e Facebook i giornali, se non comprendiamo che cinquant'anni fa un americano è stato il primo uomo a mettere piede sulla luna perché cinquecento anni fa un italiano, Leonardo appunto, pose le basi della moderna scienza (e un altro Italiano, Cristoforo Colombo, scoprì il continente che diede poi i natali a Neil Amstrong), se purtroppo tutto questo è vero è la dimostrazione di quanto sia vuoto e senza radici questo strano tempo di sovranismo imperante incapace di tutelare la propria storia con gli onori che essa merita. Ai francesi il governo sovranista voleva rifilare gli immigrati e quelli invece si sono presi solo l'immigrato Leonardo da Vinci. Ditemi voi chi sono i fessi e chi i furbi.

La gaffe della tv France 2: «Leonardo è francese». Storia di un equivoco che si ripete. Pubblicato giovedì, 2 maggio 2019 da roberta scorranese su Corriere.it. Leonardo da Vinci non può nemmeno rivoltarsi nella tomba, perché quella che ogni anno attira migliaia di pellegrini (nella cappella che si trova davanti al castello di Amboise) non è la sua vera tomba e anche le spoglie che contiene, con ogni probabilità, non appartengono tutte all’artista morto cinquecento anni fa. E così, ad arrabbiarsi per la gaffe di France 2 che ieri, al telegiornale, ha definito «francese» l’artista nato vicino a Vinci, in Toscana, nel 1452, sono stati altri. Il Tg2, per esempio, sensibile a questi temi di stampo «nazionalista». Il cronista italiano, nel servizio, ha commentato: «Non si capisce se trattasi di sbadataggine o della bizzarra versione di uno ius soli che assegna la cittadinanza non alla nascita bensì alla morte, in effetti Leonardo morì in Francia il 2 maggio di 500 anni fa, oppure l’apertura del fronte artistico nell’espansionismo esagonale d’Oltralpe». Insomma, apriti cielo. E così, nel giorno in cui il capo dello Stato (italiano) Sergio Mattarella e il presidente (francese) Emmanuel Macron hanno reso omaggio all’artista deponendo fiori sulla tomba che ne ricorda la morte in Francia — anche se il monumento è una ricostruzione ottocentesca e le spoglie andarono disperse nelle lotte religiose tra cattolici e ugonotti —, è tornato prepotente il tema dell’appartenenza di Leonardo da Vinci, che visse alla corte del re di Francia solo gli ultimi tre anni della sua vita, dopo aver lasciato tracce molto importanti in tutta Italia, da Milano a Vigevano a Firenze. Il punto è che in quel viaggio compiuto a dorso di mulo nel 1516, quando aveva 64 anni e una gran voglia di fare cose nuove, Leonardo portava con sé tutti i suoi averi. Dipinti inclusi. La Gioconda, per dire, ma anche il San Giovanni Battista. E, in maniera del tutto lecita, oggi questi capolavori si trovano al museo del Louvre. Non a caso, in questo 2019 nel quale ricorre il cinquecentenario della sua scomparsa, le mostre più importanti sono a Parigi. Ma basta questo a giustificare, sia pure in forma di gaffe, la definizione di «Leonardo francese»?

Naturalmente no. Però fa riflettere. Ad Amboise, luogo dove Leonardo morì il 2 maggio del 1519, tutto parla di lui. Ci sono gadget con la sua faccia, manifesti della Gioconda, a lui sono intitolati parchi e giardini, persino magneti da frigo. Anche se di lui non resta alcuna traccia tangibile: persino il castello dove visse gli ultimi anni non è più quello originario. Però le sue opere sono in Francia. E in Francia c’è il dipinto più famoso, quella Gioconda la cui riproduzione fece il giro del mondo nel 1911, quando venne rubata da un imbianchino italiano che — ignorando la vita del Maestro — pretendeva di riportare in Italia quel che italiano non era. E allora, forse, il fatto è che la vita di Leonardo è sublimata nelle sue opere e lui, ancora oggi, cinquecento anni dalla sua morte, continua a parlarci tramite il sorriso di Monna Lisa, il dito di San Giovanni Battista, la composizione armoniosa della Vergine che si stringe a Sant’Anna. Come avviene sempre quando l’arte è autentica: sovrasta le note biografiche, fa invecchiare ogni dettaglio anagrafico e diventa essa stessa verità. Così la gaffe della tv francese fa il paio con la battuta di Salvini di qualche tempo fa, quando scherzando disse: «Andiamo a riprenderci la Gioconda». Scherzava, certo. Ma in quanti farebbero volentieri una gita al Louvre per riprendersi quel sorriso?

Per il Tg1 Leonardo Da Vinci è un genio “italo-francese”. E la rete insorge. Cristina Gauri 2 Maggio 2019 su Il Primato Nazionale. “Ad Amboise sono conservate le spoglie del genio italo-francese Leonardo Da Vinci”. Lo hanno detto veramente, al Tg1 per la precisione, riportando la notizia del viaggio di Mattarella, ora in Francia per le celebrazioni del 500esimo anniversario della morte di Leonardo da Vinci. Il presidente della Repubblica, che è arrivato poco fa a Notre-Dame per una visita alla cattedrale devastata dall’incendio del 15 aprile scorso, dovrebbe raggiungere tra poche ore la valle della Loira per commemorare la morte del nostro genio. Insomma dopo averci rubato la Gioconda, pure mezza nazionalità. In America c’è un termine preciso per chi si presta ad essere prono alle angherie, bramoso dell’approvazione altrui tanto da scendere ai più tristi compromessi e da mettere in discussione valori e ideali: cuck. Una gaffe (sempre che non fosse voluta) davvero imperdonabile quella del Tg1, che non ha mancato di suscitare lo sdegno di chi se n’è accorto. «Non per niente al Louvre c’è un’immensa sala dedicata al “ratto” delle opere italiane…dovremmo chiederlo ai “franzosi” come ci sono arrivate queste opere, tralasciando qualche reale regalo…», scrive un utente Twitter. Un altro aggiunge: «vai a dire ai francesi che Napoleone Pierre Cardin Yves Montand era anche italiani e vedi come ti conciano…», o anche: «Sono tante le cosine italiane che sarebbero piaciute a certi “francesi”…», mentre qualcuno chiosa senza peli sulla lingua: «per dire certe puttanate bisogna essere certamente degli italo-imbecilli!».

Il genio che lasciò opere imperfette perché voleva misurarsi con Dio. Capolavori ed esperimenti restano quasi tutti incompiuti: l'insoddisfazione era la sua spinta, scrive Vittorio Sgarbi, Lunedì 15/04/2019, su Il Giornale. In quanti ci applicheremo a scrivere di Leonardo in pompa (funebre), per celebrare il cinquecentesimo anno della sua morte? E in quanti saremo costretti a ripetere le stesse cose sul genio universale di un uomo che da toscano si è fatto lombardo, trovando a Milano la sua gloria, alla corte di Ludovico il Moro? E proprio questo aspetto anomalo di artista che diventa celebre fuori di Firenze quando Firenze era il centro del mondo, la capitale del Rinascimento, mi incuriosisce, mi fa rimpiangere che qui a parlarne (chissà se lo avrà fatto nella sua sterminata produzione letteraria e critica) non ci sia Giovanni Testori, che all'arte lombarda dedicò intelligenza e passione. A partire da un grande creato padano di Leonardo: Gaudenzio Ferrari. In realtà i grandi padani Leonardeschi furono due, ma il secondo era emiliano: Correggio. Gaudenzio e Correggio. Nessun artista, neanche Michelangelo, Raffaello, ha avuto due allievi così grandi, anzi, più grandi di lui. Perché Leonardo era un pittore non convinto, decisamente insufficiente per quantità di produzione e qualità. Grandissimo disegnatore, a dipingere doveva annoiarsi e molte cose non portò a compimento, e altre dipinse con tecniche sbagliate. Come il Cenacolo di Santa Maria delle Grazie. Ne ha perfetta consapevolezza Giorgio Vasari che nella prima edizione delle sue Vite, edita nel 1550, a trent'anni dalla morte di Leonardo, ma con una ancora vivida conoscenza del suo temperamento e della sua leggenda (già in vita: e non dimentichiamo che quando Leonardo morì Vasari aveva 8 anni; poteva perfino averlo visto): «Trovasi che Lionardo per l'intelligenza dell'arte cominciò molte cose e nessuna mai ne finì, parendoli che la mano aggiungete non potesse alla perfezione de l'arte ne le cose, che egli si immaginava, con ciò sia che si formava nella idea alcune difficultà tanto maravigliose, che con le mani, ancora che elle fussero eccellentissime, non si sarebbero espresse mai». Dunque, così come la sua opera ci dice, Leonardo era un creatore di prototipi, per i quali era fondamentale la sua straordinaria felicità di disegnatore («nondimeno benché egli a si varie cose attendesse, non lasciò mai il disegnare e il fare di rilievo, come cose che gli andavano a fantasia più d'alcun'altra...»). Sperimentatore formidabile, uomo furioso, filosofo della natura, nella quale cerca il mistero di Dio. Prima di Spinoza: deus sive natura («e massime nella erudizione e principii delle lettere, nelle quali egli avrebbe fatto profitto grande, se egli non fusse stato tanto vario et instabile. Perciocchè egli si mise a imparare molte cose e, cominciate, poi le abbandonava»). Questi principi, questa continua insoddisfazione, sono nella sua natura. Ogni opera, nella quale pure metteva impegno, poteva avere inizio e mai fine. Non era il prodotto di una committenza ma di un laboratorio di sperimentazione. Impensabile per esempio che non conoscesse la tecnica dell'affresco, intensivamente praticata a Firenze e da lui studiata non solo nella bottega del Verrocchio ma nel dialogo con i grandi pittori fiorentini, e con la lezione viva di Cennino Cennini che aveva addirittura scritto un trattato sulla pittura. Ma la più grande impresa di Leonardo, l'unica per impegno e dimensioni che l'avesse posto nel rapporto tradizionale con il committente (lui che, primo artista moderno, dipingeva per sé), non era per lui un lavoro ma un campo di sperimentazione, filosofica, teologica, religiosa e anche tecnica. Immagino i dialoghi con l'ingenuo e preparato pittore che gli stava di fronte, al Cenacolo. Abile, esperto per formazione familiare in una famiglia di pittori, Giovanni Donato Montorfano, che, quando Leonardo entra nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, sta dipingendo la sua monumentale Crocifissione. Siamo nel 1495, e Donato conosce come nessuno il «buon fresco». Sa cioè che, per consolidata tradizione e per miglior durata, i colori si distendono sull'intonaco fresco con velocità, perché possano amalgamarsi con la malta, in una consistente penetrazione. Tant'è che, sulla parete, il pittore procede per giornate. A conti fatti, per gli affreschi di quelle dimensioni, con un lavoro costante e continuo, si possono calcolare al massimo 60 giorni. Il muro comanda. Leonardo non ne voleva sentir parlare: la testa del pittore comanda e, come egli sosteneva, «la pittura è cosa mentale». Occorre dunque poter dipingere senza ansia e senza fretta, meditando, correggendo, variando, e per questo l'unica soluzione è dipingere su un muro secco, contro tradizione e logica. Montorfano non ci voleva credere; ma la prova è nei fatti. E Leonardo a cantiere aperto lavorò per quasi 5 anni con frenesia (in taluni momenti) e con lunghissime pause di riflessione, andando e venendo a suo piacimento, con una festa grande per la città e la leggenda del suo Cenacolo, con relative visite, anche mentre era in preparazione. Con lo stupore e l'ammirazione dei suoi compagni. Ce ne parla Matteo Maria Bandello che, a 12 anni andando a trovare lo zio Vincenzo, priore di Santa Maria delle Grazie, vide Leonardo in azione nel 1497. Ne riportò un'impressione e una emozione straordinaria. Bandello ci dice dei gentiluomini che «nel refettorio cheti se ne stavano a contemplare il miracoloso e famosissimo cenacolo di Christo con i suoi Discepoli ,che allora l'eccellente pittore Leonardo Vinci fiorentino dipingeva: il quale haveva molto caro che ciascuno, veggendo le sue pitture, liberamente dicesse sovra quelle il suo parere». Cantiere aperto dunque, anche ai ragazzini, cui era già affidato, come agli allievi di Leonardo, di salvare il mondo. E Leonardo godeva della fiducia assoluta di Ludovico il Moro che «talmente si innamorò delle sue virtù,che era cosa incredibile». Ed eccolo, allora, appena entrato nel refettorio vedere il Montorfano affaticarsi nella sua impresa secondo i tradizionali schemi quattrocenteschi: la città di Gerusalemme sul fondo e il popolo sotto le croci. Scenografica composizione, ispirata al Foppa da Butinone e Zenale. Montorfano era più giovane di Leonardo, ma risulta malato e non più in grado di lavorare già nel 1497. Il confronto è difficile, e di certo Montorfano non gode dell'amicizia del Duca. A testimonianza dell'impari confronto con il pittore fiorentino, un lettera del 1497 scritta da Ludovico il Moro è stata interpretata come un invito a demolire l'opera dell'artista, finita da appena due anni, per sostituirla con un altro dipinto fatto realizzare a Da Vinci. In realtà è piuttosto improbabile che il duca potesse far demolire un grande affresco già pagato da altri e appena terminato, tuttavia avendo lasciato il Montorfano due zone vuote nella parte inferiore della composizione, con tracciate solo sommariamente le figure del duca Ludovico con il figlio Cesare a sinistra, e di Beatrice d'Este con il figlio Massimiliano a destra. È possibile che le istruzioni si riferissero al rifacimento di tali ritratti. Essi sono infatti eseguiti con mano leggera e beffarda sul muro secco, da Leonardo. Dovettero apparire mirabili, mortificare un pittore malato costretto a subire l'intervento di Leonardo che gli spiegava la bontà della pittura a secco; e, infatti, sono spariti come, d'altra parte, il Cenacolo di Leonardo che, nella sostanza pittorica, non esiste, è un meraviglioso disegno di straordinario dinamismo, in cui si vedono fantasmi muoversi reagendo alla provocazione di Cristo («Lionardo si immaginò e riuscigli di esprimere quel sospetto che era entrato negli apostoli di voler sapere chi tradiva il loro maestro... per il che si vede nel viso di tutti loro l'amore, la paura e lo sdegno, ovvero il dolore di non poter intendere lo animo di Cristo»). Tutto questo oggi si intravede, dopo il lungo restauro di Pinin Brambilla Barcilon, in una sapiente ricucitura. Abbiamo di fronte l'equivalente di una sindone, un'ombra, rispetto a corpo del dipinto che fu, certamente magnifico prima di iniziare a decomporsi. Scomparse le vesti, i cibi sulla tavola, le decorazioni sulla tovaglia, i variopinti arazzi fiamminghi lungo le pareti della sala, rimangono sfocati e rarefatti i volti. Leonardo lo dipinse deliberatamente male, sperimentando tecniche e colori che non potevano competere con l'antica e sapiente arte dell'affresco. La leggenda ha fatto il resto, ma Leonardo non voleva limiti, di tempo e di fantasia; voleva intervenire in qualunque momento e non nei tempi dovuti delle giornate. Il testimone diretto, il giovane Bandello, ce lo dice,tra stupore e paradosso, con un racconto impressionistico che pare più di un documentario, e in tempo reale. Bandello è lì, per giorni, e lo vede, lo osserva, lo studia, colmo di (in)descrivibile ammirazione: «Soleva anco spesso, te io più volte l'ho veduto è considerato, andare la matina a buon hora a montar su l ponte, perché il cenacolo è alquanto da terrà alto: soleva (dico) dal nascente sole sino all'imbrunita sera non levarsi ma il pennello di mano, ma scordato si il mangiare e il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi state dui, tre e quattro dì, che non v'averebbe messo mano, che tuttavia dimorava talhora una o due al giorno e solamente contemplava, considerava et esaminando tra sé, le figure giudicava. L'ho anche veduto (secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava) partirsi da mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da Corte vecchia ove quel stupendo Cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Gratie: et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate dar ad una di quelle figure e di subito partirsene ed andare altrove».

Per l'imprevisto sforzo, Leonardo decise di lasciare Milano, ma non i suoi allievi che portò con sé; e di tornare a Firenze, assumendo il lieve impegno della tavola per la chiesa della Santissima Annunziata, dove rubò l'incarico a Filippino Lippi. Originale e carico di gloria, fornì ai committenti, i frati dei Servi, soltanto un disegno. Ma era il mirabile Cartone di Sant'anna. D'altra parte aveva mille curiosità, e il suo pensiero costante era misurarsi con il creatore,al limite dell'eresia: «e tanti furono i suoi capricci che, filosofando delle cose naturali, attese a intendere le proprietà delle erbe, continuando e osservando il moto del cielo, il corso della Luna e gli andamenti del Sole. Per il che fece ne l'animo un concetto si eretico, che e' non si accostava a qualsivoglia religione». Ed è per questo che ne interpretò bene lo spirito Leone X, ammiratore di Michelangelo, antagonista di Leonardo: «oimè costui non è per far nulla, da che comincia a pensare alla fine innanzi al principio dell'opera». Il suo impegno a Firenze è soprattutto per rendere mirabile la Sala del Gran Consiglio di Palazzo vecchio, su richiesta del gonfaloniere di giustizia Piero Soderini. Purtroppo non ce ne resta che una bellissima memoria di Rubens, e il vano sforzo di ricerca del sindaco Matteo Renzi: la Battaglia di Anghiari. Ed ecco il teorema finale, l'opera della vita, i Promessi sposi di Leonardo: la Gioconda. Ad essa congiura per rappresentare non il ritratto della moglie di Francesco del Giocondo, ma l'idea stessa della perfezione femminile. Nessun mistero: la Gioconda ci guarda, all'opposto della Dama con l'Ermellino che cerca con gli occhi un uomo solo cui è totalmente devota, perché essa appartiene ad ognuno di noi; anzi essa è ognuno di noi. Diversamente da ogni altra opera, la Gioconda è vista prima in riproduzione, in una fotografia di un libro, su una parete dell'ambulatorio di un dentista. La sua riproduzione la anticipa; e poi faremo l'atto notarile di andare al Louvre per vederla, disturbati dalle nuche di centinaia di giapponesi; e così vedremo la riproduzione dell'immagine che già conoscevamo. Questa sua immaterialità, questa sua universalità a priori la identifica come l'eterno femminino. La Gioconda esiste per noi come una persona vera,come una creatura divina ed esprime il compiacimento, la consapevolezza della sua perfezione rispetto alla natura. Davanti agli elementi, l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco. Per questo sorride, per stare sopra di tutto. Superiore e distante. E l'espediente è toglierle quella postura di chi è in posa, per renderla mobile e viva: «usovi ancora quest'arte, che essendo Monna Lisa bellissima, teneva, mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facissino stare allegra, per levare via quel malinconico che suol spesso dare la pittura ai ritratti che si fanno. Et in questo di Lionardo v'era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo». E la sua perfezione è nell'essere anch'essa, ancora una volta, incompiuta: «e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto».Sta ancora dipingendola per noi.

Dario Pappalardo per la Repubblica il 3 ottobre 2019. D' accordo, il sorriso non è proprio lo stesso e il pallore dell' incarnato forse non si addice alle riproduzioni sui gadget. Ma la posa è quella, così come il paesaggio sullo sfondo, e persino le misure. A Roma c' è una Gioconda. Il mistero, però, è capire perché sia stata nascosta al pubblico, dimenticata tra le sale della Camera dei deputati. Dal 1925, l' anno in cui fu lasciata in deposito dalla Galleria nazionale d' arte antica di Palazzo Barberini, se ne erano perse le tracce. Ora Monna Lisa romana torna restaurata per la mostra Leonardo a Roma. Influenze ed eredità all' Accademia dei Lincei (4 ottobre - 12 gennaio 2020), realizzata sotto l' alto patronato del presidente della Repubblica, a cura di Roberto Antonelli e Antonio Forcellino. Qui, nella Villa Farnesina affrescata da Raffaello, si cercherà di approfondire il passaggio del genio di Vinci nella città dei papi, che avviene tra il 1513 e il 1517, prima dell' ultimo, definitivo trasloco in Francia, dove l' artista muore 500 anni fa. «Tutto fa pensare che la Gioconda di Roma sia uscita dallo stesso atelier di Leonardo», dice Cinzia Pasquali, la restauratrice ufficiale dei capolavori leonardeschi del Louvre, che la scorsa estate ha lavorato anche su questo quadro mai visto. «L' opera, molto tempo dopo la sua esecuzione, è stata trasportata dal legno, su cui Leonardo lavorava, alla tela e questo per noi è un elemento importante. La resa resta impressionante, nonostante l' impoverimento e i danni subiti. Il materiale con cui è stata eseguita e le dimensioni sono compatibili con il dipinto del Louvre: sembra del XVI secolo. Non solo: la superficie inferiore abrasa mostra pentimenti abbastanza simili all' esemplare di Parigi». Guardando le riflettografie, i ripensamenti sulla posizione delle dita della mano sinistra sono gli stessi. «È un oggetto molto bello, ma non è Leonardo. Però può aiutarci a capire qualcosa di più su di lui», puntualizza Pasquali. Riavvolgiamo il nastro della storia, allora. Leonardo, tra il 1513 e il '17 è a Roma con la Gioconda numero 1: continua a modificarla e con lui un allievo non identificato della bottega allestita al Belvedere, in Vaticano, la copia e la aggiorna seguendo il maestro. Proprio come accade con un' altra Monna Lisa, quella del Prado di Madrid, restaurata nel 2010 e attribuita di volta in volta a Francesco Melzi o al Salaì, eredi del genio rinascimentale. Di certo, sin dal principio, quello della Gioconda non è un ritratto come tanti, se l' artista lascia che si replichi quasi "in diretta" e finisca poi per portarlo con sé in Francia, senza consegnarlo mai a un ipotetico committente. Ma qual è l' origine della Gioconda romana? A recuperarla per la mostra dei Lincei è stato il curatore Antonio Forcellino. «Se ne erano dimenticati tutti - spiega - Si trovava nella sala del questore della Camera, dentro una cornice ottocentesca. Era considerata una crosta, evidentemente. Eppure, nel commento all' edizione delle Vite di Vasari stampato da Felice Lemmonier nel 1851, si fa riferimento a questa come a un' eccellente copia ». In quel momento, a metà Ottocento, il quadro è nella collezione Torlonia; la famiglia lo dona allo Stato italiano nel 1892. Ma, risalendo all' indietro nel tempo, l' inglese Jonathan Richardson, già nel 1721, descrive una Gioconda nel romano Palazzo Dal Pozzo, addirittura come opera dello stesso Leonardo. Sul telaio c' è ancora incollato un foglio scritto in francese in grafia settecentesca che fa riferimento al trasporto della pittura dalla tavola alla tela. «Oggi la Gioconda Torlonia ci permette di leggere meglio quella del Louvre che è intoccabile - dice Forcellino - Vale soprattutto per il paesaggio. Se in quella del Prado appare semplificato, in questo caso è sovrapponibile al tipo di Parigi. E il restauro chiarisce che nella parte sinistra quello che al Louvre sembra un sentiero polveroso è in realtà un fiume che innaffia un terreno arido. La Gioconda, nata come un ritratto, alla fine diventa una grande allegoria della fertilità, è un' icona simbolo della natura». Forcellino si spinge a dire che la mano del maestro possa essere intervenuta anche sull' esemplare romano: «La tecnica pittorica con cui è realizzato l' incarnato è impalpabile. Non vedi le pennellate - continua - Non si conoscono altri pittori a cui possiamo attribuire una resa dello sfumato così. Sul fatto che l' abbia toccata Leonardo si può discutere.

Questo è un quadro pubblico, non dove essere venduto sul mercato». Il 29 e il 30 novembre gli studiosi leonardiani di tutto il mondo arriveranno ai Lincei per confrontarsi sull' argomento. Ma anche sul capitolo ancora tutto da scrivere degli anni romani di Leonardo, dove le influenze reciproche con Raffaello e Michelangelo sono da approfondire. Secondo lo storico dell' arte tedesco Frank Zöllner, è qui che il maestro avrebbe concepito l' idea del San Giovanni e del Bacco del Louvre e di quel Salvator Mundi, il cui esemplare più noto e controverso è sparito lo scorso anno, dopo essere stato acquistato dal principe saudita Mohammed Bin Salman come l' opera più costosa del mondo: 450,3 milioni di dollari. Dove c' è un Leonardo c' è un mistero. Il sorriso di Monna Lisa conferma. Adesso anche dal Lungotevere.

·         I Simpson trent’anni dopo: più politicamente corretti

I Simpson trent’anni dopo: più politicamente corretti. Pubblicato mercoledì, 24 aprile 2019 da Renato Franco su Corriere.it. Nasci incendiario, muori pompiere. La parabola di molti ribelli che diventati adulti finiscono remissivi e integrati al sistema rischia di diventare la traiettoria creativa dei Simpson, schiacciati dal politicamente corretto e dal conformismo neopuritano che riduce tutto a un pensiero unico che inaridisce la libertà espressiva. I Simpson festeggiano i 30 anni — su Fox+1 dal 25 aprile un canale dedicato ai migliori episodi; su Italia 1 in autunno la 30ª stagione — ma forse c’è poco da celebrare perché anche la più prospera spinta propulsiva alla fine sfiorisce in una recessione creativa. Creati a immagine e somiglianza della sua stessa famiglia da Matt Groening («dare a Bart il mio nome sarebbe stato troppo ovvio»), i Simpson sono la rappresentazione deformata e dunque ancora più reale della famiglia media americana: nel paradosso dei singoli caratteri si coglie l’essenza (bassa) dell’animo umano. Anarchica, dissacrante, politicamente scorretta, corrosiva: è sempre stata questa la forza della serie, non fare sconti a nessuno, a partire dal capobranco wasp Homer — inetto come pochi — che era il lasciapassare per ironizzare su tutto e tutti, per fare sarcasmo su stereotipi razziali, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale, senza essere accusati di pregiudizi. Ma anni di politicamente corretto hanno lavorato sotto traccia, così nella società dell’indignazione a misura di social si sono rimosse le parole «sbagliate», si sono messi all’indice termini «scorretti» e gli stereotipi sono diventati degni di caccia alle streghe. Sono lontani i tempi in cui Matt Groening poteva andare fiero di rivendicare che «ogni puntata fa arrabbiare qualcuno e questo mi rende felice». Ora non più, colpa del tempo che passa e della società che cambia. I Simpson sono rimasti ancorati a un tempo che non c’è più, prototipo di una famiglia in via di estinzione: i rapporti sentimentali sono sempre più liquidi, ma la famiglia Simpson resiste graniticamente unita, al di là del fatto che in un episodio si sia celebrato il divorzio tra Marge e Homer («il matrimonio è una bara e ogni figlio è un chiodo in più»). Altre crepe sono ben più profonde. Il caso Apu è emblematico, fatto secco da un colpo ben assestato di politicamente corretto. Il gestore indiano del Jet Market di Springfield aperto h 24, una moglie frutto di un matrimonio combinato e 8 gemelli, la tendenza ad alterare le date di scadenza dei prodotti, un marcato accento che tradisce le sue origini, cavalcava i luoghi comuni. E per questo è finito sotto accusa. Sull’onda della polemica montante, Groening ha provato a difendersi: «Qualcosa che quando iniziò decenni fa era apprezzato e considerato non offensivo, ora è ritenuto politicamente scorretto. Cosa ci possiamo fare?». Alla fine la risposta è stata una sconfitta, perché Apu rimarrà vivo solo nell’empireo dei ricordi indù. Anche Michael Jackson è stato bruciato sull’altare della correttezza a ogni costo. Dopo l’uscita del documentario Leaving Neverland sui presunti abusi sessuali della popstar, l’episodio (era nella terza stagione...) in cui il cantante era protagonista è stato cancellato. Uno dei produttori, James L. Brooks, ha dato una spiegazione che non convince fino in fondo: «Sono contro i roghi di libri di qualsiasi tipo, ma trattandosi di un nostro libro abbiamo il permesso di tirar fuori un capitolo». Dimenticando la legge base della satira: un comico, tanto più un cartone animato, non deve mai essere preso sul serio e non deve diventare autorevole. Se lo diventa il problema è di chi guarda.

Trent'anni fa i Simpson cambiavano per sempre la cultura pop. La serie debuttò in tv nel dicembre 1989. Ha sdoganato, con la caricatura dell’uomo comune, la risata scorretta. E marchiato per sempre un'epoca. Andrea Muni il 29 novembre 2019 su L'Espresso. Lisa, sei troppo intelligente per essere felice!... Questa celebre frase che Homer lascia cadere sulla testa della povera figlia Lisa potrebbe risuonare oggi quasi come un autoironico testamento spirituale. Nonostante gli omini gialli più famosi d’America e il loro papà, Matt Groening, siano ancora vivi e vegeti, i Simpson sono ormai considerati un oggetto del passato. D’altronde è innegabile che blogger, vlogger, gamer e youtuber abbiano negli ultimi anni trasformato la fisionomia dell’intrattenimento giovanile, come le serie tv hanno completamente ricodificato quello adulto. I Simpson che diventano trentenni hanno l’agrodolce sapore di uno Spettro del Natale Passato, capace di scatenare in chi non ha mai smesso di amarli una splendida e pericolosa nostalgia. Quella per un’epoca in fondo appena trascorsa, in cui un’intera generazione al ritorno da scuola, prima dei compiti, guardava ancora i cartoni solo in tv e solo a una certa ora, un’epoca in cui non esistevano i canali tematici né Internet (almeno non come lo conosciamo oggi). La nostalgia per un tempo recente che ha cessato di essere il nostro, e di cui urge cominciare a fare la storia, per evitare che si tramuti di colpo in una terra di nessuno, in un punto cieco che ci impedisce di raccordare presente e memoria. Per chi è stato giovane a cavallo del millennio, i Simpson hanno rappresentato un anti-modello, uno spontaneo argomento di conversazione, una vera e propria koiné. Avremmo qualche difficoltà a trovare oggi un loro equivalente altrettanto popolare. Certo non mancano programmi divertenti e di successo, ma forse gli odierni show mainstream, anche quando fanno effettivamente ridere, lo fanno in maniera diversa. Perché quello che ci fa ridere nei Simpson è proprio il fatto che tutti, a tratti, siamo la gioiosa sbadataggine e il fiero qualunquismo di Homer, lo sprezzante anarchismo di Bart, l’anima bella e incompresa di Lisa, la cupidigia di Burns, la magnanimità di Marge, la ebete solitudine del Nonno. I personaggi dei Simpson sono una miriade di micro-modelli, di mini-stereotipi in cui ci riconosciamo e di cui siamo al contempo indotti a ridere. Come i personaggi della Commedia dell’arte, anche quelli dei Simpson ci invitano a diffidare, tra le risate, di un’identificazione troppo rigida coi nostri modelli e con le nostre maschere. Ci chiamano a ridere di un riso che non è scherno né abisso, ma un soffio d’aria fresca tra ciò che ammiriamo e noi stessi, tra ciò che odiamo e l’istinto di distruggerlo. Una risata emancipatoria, che perdona buoni e cattivi delle proprie rispettive infermità, in cui la storia della nostra cultura - dalla commedia greca a Shakespeare e fino a pensatori contemporanei del calibro di Nietzsche e Bataille, non ha mai smesso di riscoprire un profondo significato politico. Il diritto, il coraggio, di ridere dei padroni, reali o interiori che siano. Come nella profetica puntata del Duemila, in cui la neo-Presidente Lisa, in un ipotetico 2020, eredita da Trump dei conti in rosso che non le permettono di attuare il suo illuminato programma di iper-scolarizzazione e ripopolamento degli oceani, trovandosi così amaramente costretta ad annaspare tra i pesanti flutti della Real Politik. La “simpatia” degli autori dei Simpson per il tycoon al beta-carotene non si è mai esaurita: sembra infatti che ultimamente Groening&CO stiano facendo carte false per avere il vero Trump come doppiatore di se stesso in una puntata dello show. Devono aver capito, col solito acume, che non ci sarebbe niente di più comico e politicamente vincente che far recitare a The Donald, anche nel micro-mondo Simpson, la parte in cui (suo malgrado) è maestro: la parodia di se stesso. Questo spiazzante gusto per il paradosso e la caricatura non è solo l’inesauribile forza della comicità dei Simpson: è anche qualcosa che stiamo pericolosamente perdendo. L’arte e la cultura “impegnate” di oggi sembrano a volte snobbare questa raffinata strategia, questa antica forma di seduzione, preferendole modalità di comunicazione decisamente più dirette: una canzone sul cambiamento climatico per dire che bisogna salvare il pianeta, un film sulle mostruose condizioni di vita dei migranti per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla loro tragica condizione. Non è in discussione la meritorietà di questo tipo di iniziative, quanto piuttosto il fatto che simili operazioni culturali - proprio perché così esplicite - raramente riescono ad accattivare l’interesse dei tanti che oggi la pensano diversamente. Proprio per questa ragione “strategica” è oggi più che mai urgente riscoprire una qualche lateralità, una sensibilità diversa e persino un nuovo spirito nazional-popolare capace di fare breccia nelle vite e nelle emozioni dei tanti che negli ultimi anni si sono lasciati sedurre dalla retorica populista. Un modo di far ridere e pensare in grado di essere inclusivo, che sappia persino, in maniera intelligente e tutt’altro che rinunciataria, tendere una mano (una trappola?) al proprio “altro”. Un’arte del ridicolo che sappia reinventare dei punti di contatto, un nuovo linguaggio comune tra noi e i tanti che oggi non si riconoscono nei nostri stessi valori. Dei bei tentavi in questa direzione sono stati fatti recentemente in Italia da giovani comici che non fanno mistero di essere cresciuti a pane e Simpson, come i The Pills o Maccio Capatonda, mentre a livello internazionale ha fatto scuola la mini-saga animata ispirata agli altri omini gialli più famosi del pianeta, Lego Movie. I Simpson sono stati il primo cartone animato a sdoganare la risata politicamente scorretta a fin di bene, il capostipite di questa sottile forma di comicità. Sono stati loro i primi a far sbellicare milioni di ragazzi con l’insensata cattiveria gratuita del bullo Nelson, mentre “segretamente” li educavano a comprendere le ragioni per cui un ragazzo con problemi familiari e bisognoso di attenzioni può tramutarsi in un violento. Con la loro irriverente comicità sono riusciti a far sentire liberi milioni di ragazzi oggi pluritrentenni di ridere grassamente dei più beceri stereotipi etnico-religiosi (Apu che vende cibo avariato e lascia in India la sua promessa sposa-bambina, il mafioso italiano Toni Ciccione che scioglie la gente nell’acido, lo scaltro e bilioso clown di origini ebraiche Krusty), mentre “surrettiziamente” gli insegnavano che dietro a ogni stereotipo si nasconde una persona in carne e ossa, con i propri affetti, la propria storia e il suo peculiare destino. Forse non è un caso che Groening abbia elaborato questo sottile doppio gioco, questa ambigua anti-pedagogia proprio in un periodo storico in cui l’opinione pubblica americana era totalmente infatuata del repubblicano Ronald Reagan e del suo successore George Bush Sr. Deve essere stato in quegli anni di grande sconforto politico che Groening ha concepito il personaggio di Homer: la profetica caricatura dell’uomo qualunque del terzo millennio, uno dei tanti “sonnambuli” che quotidianamente, nel bene e (spesso) nel male, fanno la storia a propria insaputa. La caricatura benevola di un uomo senza importanza, in cui si sovrappongono le due facce della stupidità: quella malvagia e pericolosa, che abbiamo imparato fin troppo bene a riconoscere e stigmatizzare, ma anche quella buona e gioconda, di cui abbiamo forse colpevolmente perso le tracce. La buona “stupidità” che ci spinge a ridere della nostra impotenza, mostrandoci la strada di un’insospettabile complicità nel fallimento. La stessa sana “stupidità” che ci consente, quando siamo forti e in salute, di indebolire con una risata il peso dei sensi di colpa, e quello dei torti subiti. Ecco che quella sciocca frase che Homer indirizza alla povera Lisa («Sei troppo intelligente per essere felice») si colora di una profondità inaspettata. Una profondità, sospesa tra affetto e scherno, che sembra quasi fare eco al gioco di parole con cui lo psicoanalista francese Jacques Lacan, nei paraggi del Sessantotto, amava ricordare ai propri allievi più politicamente impegnati che «i non-stupidi sbagliano». Una sibillina provocazione che ci spinge a diffidare della fin troppo intelligente convinzione che per far cambiare idea a qualcuno sia sufficiente “dirgli la verità”. Una saggia stupida battuta che ci invita piuttosto a rovistare con pazienza nella sconfinata discarica del nostro passato recente, alla ricerca di piccoli gesti e strategie che abbiamo cestinato con troppa leggerezza e di cui, forse, non avevamo ancora compreso il profondo valore strategico. Tra questi “reperti”, quasi senza bisogno di scavare, troveremmo in ottimo stato proprio i Simpson e la loro antipedagogia, a ricordarci che il miglior risultato politico delle nostre satire, delle nostre critiche, è proprio quello di riuscire a far ridere bonariamente di sé chi ne è il bersaglio. Questa è la saggia, stupida risposta dei Simpson alla fondamentale domanda politica che non possiamo smettere di porci - «Come faccio a far cambiare idea a chi non la pensa come me?». Perché ogni volta che riusciamo a far ridere qualcuno delle proprie brutture e delle proprie paure otteniamo un risultato politico infinitamente migliore (a livello strettamente pratico) di quello che otterremmo facendolo semplicemente vergognare. La vergogna infatti è un sentimento sano solo se si accompagna al perdono del riso, mentre senza di esso non fa che acuire l’odio per noi stessi e nei confronti di chi ci ha smascherati. Il nostro speciale regalo di compleanno per la famiglia Simpson potrebbe essere allora proprio quello di immaginare per un attimo le nostre vite quotidiane catapultate nel loro micromondo. Immaginarci costretti a inventare un modo sempre nuovo di far sorridere bonariamente i nostri genitori della loro ipocondria che sta virando in razzismo, il nostro fidanzato plurilaureato del suo “congenito” maschilismo, il nostro collega ambizioso e spione della sua esasperata competitività, o nostra figlia preadolescente della sua smania di diventare una celebre gamer. Potremmo davvero provare a dedicare un po’ del nostro tempo a far sorridere teneramente di se stesse e dei propri automatismi le persone a cui vogliamo bene. E se non ci riusciamo, se il nostro doppio gioco fallisce, niente paura: possiamo sempre accontentarci di farli ridere affettuosamente di noi, del nostro maldestro tentativo di “raggirarli” e persino di questo desiderio, appena un po’ superbo, di fare con loro quello che spesso non riusciamo a fare con noi stessi.

·         Il progetto dei comunisti: quello di sconvolgere la morale borghese.

Il doppiopesismo dei progressisti. Dino Cofrancesco su NicolaPorro.it il 27 luglio 2019. Una giornalista ora in pensione, passata dalla redazione del Manifesto a quella di un grande quotidiano “borghese” del Nord-Ovest, tempo fa, ha scritto che lo spettacolo delle ragazze in costume che baciano e offrono fiori al vincitore di una tappa ciclistica è qualcosa di indecente, di umiliante per la donna, che le leggi non possono più a lungo tollerare. La stessa articolista, in un pubblico dibattito, ha difeso con toni aggressivi i suoi amici gay che, sulla scia di Nichi Vendola, si erano recati in California per “affittare” l’utero di una emigrata messicana che non aveva altro modo per guadagnarsi da vivere. Una persona ragionevole sarebbe sconcertata da questo doppiopesismo: indipendentemente dalla liceità dell’agire e dai giudizi morali che se ne possono dare, non si riesce a capire perché mostrare le gambe e lasciar intravedere i seni equivalga a un bieco sfruttamento del corpo delle donne, mentre portare in grembo, dietro modesto compenso, un figlio che non è il proprio debba essere considerato un diritto assoluto di libertà. In realtà, non ci troviamo di fronte ad alcuna contraddizione, giacché le due fattispecie (oggettivamente molto diverse) sono unite da un comune progetto: quello di sconvolgere la morale borghese, di azzerare quel mondo sempre meno vittoriano sul quale si era riversata la rabbia dei giovani sessantottini “di buona famiglia”. Per il papà che assiste all’arrivo della tappa del Giro, lo spettacolo di quelle belle figliole (che peraltro nessuno ha costretto ad esibirsi in pubblico) è esteticamente gratificante, mentre è “disgustato” dal pensiero che per nove mesi una poveraccia, per dare da mangiare ai propri figli, debba ospitare dentro di sé un estraneo (al quale, peraltro, si consiglia di non affezionarsi dovendo, per contratto, abortire qualora presentasse delle malformazioni: si paga, infatti, per avere un prodotto sano – automobile o neonato che sia – non per averne uno difettoso). È a quel papà che bisogna sbattere in faccia l’insostenibilità dei suoi “pregiudizi”, far capire che il suo habitat mentale e spirituale era falso e putrescente, che i diritti degli individui valgono più di ogni codice etico e religioso ereditato dal passato.

In realtà la giornalista citata appartiene a una political culture che ha capito cose che sfuggivano al vecchio Marx, a causa del suo “materialismo” di matrice illuministica. Ha capito, in poche parole, che non è del tutto vero che il tallone d’Achille della borghesia sia la proprietà (“gli uomini dimenticano piuttosto la morte del padre, che la perdita del patrimonio”, scriveva non del tutto a ragione Machiavelli nel Principe): se la proprietà privata, infatti, è strumento di privilegio, quella pubblica può esserlo altrettanto, dal momento che non conta la titolarità del bene quanto il suo effettivo controllo. No, il vecchio Adamo si smantella distruggendone l’anima e lasciandone sopravvivere (anche agiatamente) il corpo. La grande vittoria del ’68 non è consistita nel cambiare la politica ma nella conversione dei genitori, nel loro dubitare delle “vecchie certezze” e talora nell’adozione patetica degli abiti di comportamento – e persino dei vestiti, a cominciare dall’eskimo – dei figli. L’accelerazione che si è data al cammino di certe riforme civili che l’opinione pubblica riteneva ormai mature – a cominciare dal divorzio, al quale diede un contributo notevole il film del grande Pietro Germi, “Divorzio all’italiana” (1961) – è stata pagata col nichilismo dei “Pugni in tasca” di Marco Bellocchio (1965).

“La virtù all’ordine del giorno”: il momento totalitario del lungo maggio caldo, consiste nel disegno di cambiare la società tradizionale con le leggi. Queste ultime hanno senso e significato solo se cambiano i costumi, come sono autorizzate a fare dal momento che sono un prodotto della “ragione” – uguale in ogni tempo e in ogni luogo, sotto ogni latitudine e longitudine – e non dell’arbitrio e dell’insensatezza della storia e della tradizione. Il capolavoro della mens totalitaria è l’imposizione alle “scienze umane” di una concezione della “normalità” che le scienze esatte hanno da tempo messo in crisi. Ad esempio, è ormai vietato seguire Sigmund Freud nella sua spiegazione della omosessualità giacché per il padre della psicanalisi si trattava di “deviazione”. Così è diventato contraddittorio e profondamente riprovevole ritenere che gli omosessuali non debbano essere discriminati in alcun modo (come, d’altronde, è giustissimo) e, nel contempo, pensare che la “normalità” sia altra cosa. La legge deve punire severamente quanti nutrono pregiudizi antichi e se ancora latita, sarà la political culture dominante a confinare quanti non condividono certe Weltanschauungen in un lebbrosario morale, isolandoli dai centri di benessere (morale) in cui vivono gli altri.

Esprimere la propria contrarietà allo ius soli o al matrimonio gay con diritto di adozione è diventato non solo moralmente deplorevole ma contrario a scienza e a ragione, assimilabile alla tesi che il sistema tolemaico è vero e quello copernicano è falso. Solo che ora si chiede al Codice penale la condanna del tolemaico (destinato, invece, nella vecchia URSS al manicomio criminale).

È il virus letale che guasta dalle fondamenta la democrazia in Europa che Tocqueville distingueva bene dalla democrazia in America. Lo Stato non può limitarsi a prendere atto dei costumi, delle credenze, delle opinioni, dei pregiudizi di un paese aspettando, pazientemente, che evolvano nella direzione di una sempre maggiore tolleranza e libertà, ma deve sollecitare i cambiamenti, prepararli, facendo della società civile un’immensa aula scolastica in cui “educare i cittadini”. Le potenzialità totalitarie di questa missione pedagogica (cara, peraltro, a tutte le sinistre, da quella mazziniana a quella comunista, passando per il fascismo, a suo modo un regime di sinistra, in quanto mezzo nazionale e mezzo socialista) non sono minimamente percepite.

Vincenzo Cuoco che sta al liberalismo italiano come Giovanni Battista al Vangelo, aveva forse capito tutto. Parlando del diritto di proprietà, nel “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799”(1801), confutava le tesi di quanti ricorrono alla natura (e alla ragione che, per gli illuministi era quasi un sinonimo di natura) come a un’autorità infallibile. “Voler ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler distruggere la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non diventa proprietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica imperiosamente non richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma, perché gli uomini, dopo i loro bisogni, nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro maggiori. Se si riforma ciò che non è necessario riformare, la rivoluzione avrà molti nemici e pochissimi amici”.

C’è da preoccuparsi. Le leggi che fanno violenza ai costumi ne bloccano l’evoluzione naturale e li irrigidiscono in una difesa dell’esistente e di tutto ciò che in esso permane di negativo. La reazione al nuovo che avanza spiana la strada alla tirannide del passato, in fondo alla quale attende il Lager. Il programma illuministico rivela oggi tutte le sue potenzialità totalitarie: per disfarsi, in nome della ragion egualitaria, dell’“uomo vecchio” non esita a sacrificare l’uomo tout court. Gli ingegneri delle anime, atei e razionalisti, si rifiutano di prendere atto che la dialettica tra il vecchio e nuovo, tra il passato e l’avvenire non può essere affidata alla sfera pubblica ma deve fermentare dal basso, liberamente, trovando ricomposizioni sempre nuove e mutevoli: in fondo alla loro strada, attende il Gulag. I successi elettorali dei Trump e dei Salvini non sono certo casuali. Dino Cofrancesco, 24 luglio 2019 su Atlantico Quotidiano

·         Il Politicamente Corretto Ideologico.

La sinistra e l'abolizione della realtà. Ci fu il Comunismo ed il sogno di un mondo nuovo; poi il '68. Ora è tutto all'insegna del "politically correct". Panorama il 5 dicembre 2019.  Ma chi è il nemico principale della sinistra? Voi direte Salvini o il centauro Salvini-Meloni. Vi sbagliate. E andando a ritroso avreste risposto Berlusconi, o prima ancora Craxi, Fanfani o Almirante. O al tempo dell’anticapitalismo, i «padroni». Anche in quei casi sareste stati approssimativi, avendo ragione sul piano superficiale e contingente. Il vero nemico storico, ontologico, assoluto della sinistra - sia in versione comunista che radicale e progressista - è la realtà. E questo spiega gli appelli infruttuosi che lanciano i suoi leader e i suoi chierici a ritrovare il rapporto con la gente, a rifarsi un’anima, un popolo e una passione sociale, o viceversa a spiegare, senza mai spiegarselo, come mai avviene il travaso di consensi in territori e quartieri proletari, da sinistra ai sovranisti. La sinistra è contro la realtà. Rifiuta la realtà, la natura, l’esperienza, il senso comune e il sentire popolare. Qualche giorno fa, in tv, Corrado Augias ha detto un’apparente sciocchezza. Ha detto che essere di destra è molto più facile che essere di sinistra. Di primo acchito sobbalzerete: sapete bene, e io lo so benissimo per esperienza diretta, quanto è difficile essere di destra anche quando la destra è maggioritaria. Perché c’è una sottile riprovazione, se non una palese intimidazione e censura verso chi è di destra; hai la vita difficile nel lavoro, hai difficoltà a esprimere le tue opinioni, si configurano perfino reati se dici cosa pensi e traducono in fobia ogni amore verso la famiglia, la patria, la tradizione, la civiltà, la religione. Altro che facile. Però Augias voleva dire forse qualcos’altro. Essere di sinistra è più difficile perché vai controsenso, cioè contro il corso naturale della realtà. In principio fu il comunismo e la sua essenza malefica fu l’abolizione della realtà: «Il comunismo abolisce lo stato di cose presenti» proclamano Marx ed Engels. È il sogno di un mondo nuovo, di una società perfetta, contrapposta al mondo reale e alla società imperfetta in cui da sempre viviamo e che dovremmo sacrificare in nome di quella migliore che verrà. Il Sessantotto fu la versione aggiornata dell’irrealismo: il rifiuto della realtà nel nome dell’immaginazione, della natura nel nome del desiderio, della tradizione nel nome dell’emancipazione, dell’autorità nel nome della libertà assoluta, dei meriti nel nome dei diritti. Ma anche oggi la sinistra più sofisticata adotta una visione correttiva della realtà che viene chiamata non a caso politically correct, e che avversa la natura, l’esperienza, la storia, la tradizione, il senso comune, nel nome di un moralismo ideologico e lessicale che produce da un verso ipocrisia e dall’altro intolleranza. Ipocrisia perché non puoi chiamare le cose col loro nome, non puoi indicare la realtà per quello che è e per come l’hai davvero conosciuta nell’esperienza personale e tramandata. Ma se ti ostini a farlo, se non ti adegui e non ti correggi, incorri nelle sanzioni dell’intolleranza. La sinistra non accetta la natura, non accetta i limiti e i confini imposti dalla vita; respinge gli assetti consolidati nel tempo; disconosce o colpevolizza le molle naturali dell’umanità, da quelle economiche a quelle affettive, dalla legittima aspirazione al riconoscimento dei propri meriti e delle proprie capacità, alla motivazione personale del profitto e del miglioramento economico-sociale; dalla preferenza in amore e solidarietà verso i famigliari, gli amici, i connazionali, alla tutela delle proprie identità. Rovescia la realtà, ribalta l’ordine della carità e della vita, spezza il legame tra diritti e doveri, tra azioni e responsabilità, tra libertà e suoi limiti. Qui si manifesta quell’indole che Roger Scruton definisce oicofobia, l’odio per tutto ciò che è nostrano e la preferenza per tutto ciò che viene da fuori, dall’esterno, da lontano. Si potrebbe anzi compilare un elenco delle fobie serpeggianti oppure ostentate che sono agli antipodi di quelle - come la xenofobia, l’islamofobia, l’omofobia - verso cui viene sancita condanna e riprovazione: l’italofobia, ossia il rigetto del senso di appartenenza e di preferenza nazionale, la cristofobia, ossia la rimozione dei simboli della civiltà e della tradizione religiosa, la familofobia, ovvero il rigetto di tutto quanto riguarda la famiglia naturale, la paternità e la maternità, i legami di sangue, la casa. Prevale il razzismo etico in base al quale tutto ciò che proviene dalla realtà, dalla natura, dalla civiltà e della tradizione deve essere condannato e capovolto. Certo, la natura lasciata a se stessa è solo basic istinct, la realtà allo stato spontaneo è rozzezza, egoismo; l’identità non è inerzia, la tradizione non è ripetizione. Ma un conto è educare, formare secondo il precetto antico «Divieni ciò che sei»; un altro è liberarsi, disfarsi, divenire ciò che non sei, ma ciò che vorresti che fosse. Un conto è il realismo selettivo, un altro è l’utopia contro la realtà. Da questa scelta culturale di fondo discende sul piano pratico e politico quel continuo schierarsi contro il sentire comune, contro il buon senso, gli interessi e le preoccupazioni della gente. Trascurando la richiesta di sicurezza e di identità, la paura dell’ignoto e dell’oscurità, o viceversa lo spaesamento, la perdita dei confini, la piramide capovolta dei rapporti di cittadinanza, la preferenza a tutto ciò che viene da fuori e da lontano. Poi ogni tanto, nella terapia di gruppo si chiedono: ma dove abbiamo sbagliato, perché il popolo ci è contrario? Perché hanno dichiarato guerra alla realtà. Per carità, sempre nel nome della pace... Odiano, ma a fin di bene.

DAGONEWS il 16 dicembre 2019. Instagram introduce una nuova funzione che avvisa gli utenti quando stanno caricando un post che presenta nella didascalia un linguaggio potenzialmente offensivo. La società di proprietà di Facebook ha dichiarato che sta usando l'intelligenza artificiale per individuare le parole o le frasi e offre agli utenti la possibilità di modificare la didascalia prima di condividerla: si viene avvertiti che quelle parole sono state precedentemente segnalate e si offre all’utente la possibilità di cambiarlo o di condividerlo comunque. Si tratta di una funzione simile a quella già introdotta per dare la possibilità agli utenti di ripensare alle parole usate in un commento su un altro profilo. «È nostra responsabilità creare un ambiente sicuro su Instagram - ha dichiarato Adam Mosseri in un post sul blog - Questa è la una priorità da un po' di tempo e stiamo continuando a investire per una maggiore consapevolezza e affrontare questo problema».

Roberto Mallò per davidemaggio.it il 16 dicembre 2019. Un bacio omosessuale in tv, Oltreoceano fa ancora discutere. Hallmark Channel, canale americano di NBC Universal, è al centro di una controversia con  Zola, sito di organizzazione di matrimoni. A fronte di diverse polemiche rivolte dai telespettatori, la rete ha infatti deciso di rimuovere dal suo palinsesto uno spot che raffigurava due sposine intente a baciarsi. Entrando nella specifico della querelle, è giusto sottolineare il fatto che Zola abbia preparato una serie di spot raffiguranti diversi tipi d’amore, da quello eterosessuale a quello omosessuale (rappresentato nella fattispecie da due spose). L’intento dell’azienda era quello di celebrare il sentimento che spinge due persone a passare il resto della vita insieme, senza fare alcuna distinzione di genere. Hallmark Channel, allarmato dal sorgere di proteste da parte di alcuni telespettatori, ha deciso però di rimuovere la pubblicità Lgbt. In primis la petizione dei conservatori di One Million Moms, divisione dell’American Family Association il cui scopo è “lottare contro l’indecenza“, che, insistendo sulla vocazione familiare del canale, ha dichiarato: “L’intrattenimento per famiglie non è lo sbocco in cui essere politicamente corretti forzando la tolleranza e l’accettazione dell’omosessualità, uno stile di vita peccaminoso che le Scritture chiaramente considerano sbagliate”. La petizione ha raccolto sinora oltre 28.000 adesioni. La reazione di Zola, alla decisione di Hallmark, è stata quella di eliminare tutti gli spot previsti sul canale Usa. Mike Chi, Chief Marketing Officer di Zola, ha commentato a The Hollywood Reporter la decisione di non distribuire più i suoi sponsor sulla rete: “L’unica differenza tra gli spot che sono stati segnalati e quelli che sono stati approvati è che i primi non soddisfacevano gli standard di Hallmark, tra cui un bacio di una coppia lesbica. Hallmark ha approvato soltanto lo spot in cui si baciava una coppia eterosessuale. Tutti i baci, le coppie e i matrimoni sono celebrazioni uguali dell’amore, e non faremo più pubblicità su Hallmark“. Dal canto suo, anche Hallmark ha tentato di difendersi dalle accuse, risultando davvero poco convincente: “Il dibattito che accendeva la trasmissione di questi spot distraeva dallo scopo della nostra rete, che è quello di intrattenere“. Insomma, i filmati controversi non verranno trasmessi perché non intrattengono abbastanza, bensì infastidiscono. Segno del fatto che la comunità Lgbt deve ancora lottare per farsi valere. Non solo in Italia, come spesso si sottolinea, ma in tutto il resto del mondo. Nel frattempo è partito l’hashtag #BoycottHallmarkChannel. A schierarsi pubblicamente contro il canale anche la star lesbica Ellen Degeneres.

Tre scimmie contro il razzismo, è polemica sull'ultima iniziativa della Lega Serie A. Fa discutere l'opera dell'artista Fugazzotto raffigurante tre primati commissionata dai vertici della A per sensibilizzare sulla discriminazione negli stadi. "Dipingo solo scimmie, come metafore dell’essere umano". La Repubblica il 16 dicembre 2019. E’ polemica sull’ultima iniziativa della Lega di Serie A per combattere il razzismo. L’opera dell’artista Simone Fugazzotto, commissionata per sensibilizzare sulla discriminazione negli stadi, raffigurante tre scimmie, è stata considerata da molti di cattivo gusto. I tre quadri avrebbero come obiettivo quello di diffondere valori come l’integrazione, la fratellanza e la multiculturalità e saranno esposti permanentemente nella sala assemblea della Lega di Serie A.

La polemica e la riposta di Fugazzotto. A scatenare l’ilarità e la rabbia del web è stata la decisione dell’artista di associare la lotta al razzismo con la scimmia. Fugazzotto, dopo le numerose polemiche sui social, ha voluto dare una spiegazione alla propria opera. “Dipingo solo scimmie, come metafore dell’essere umano. La teoria evolutiva dice questo. Da qui parte tutto. La scimmia come scintilla per insegnare a tutti che non c’è differenza. Perché non smettere di censurare la parola scimmia nel calcio, ma rigirare il concetto e affermare invece che alla fine siamo tutti scimmie? Perché se siamo essere umani, scimmie, anime reincarnate, energia o alieni chissenefrega, l’importante è sentire un concetto di eguaglianza e fratellanza”.

L’artista del quadro con le scimmie contro il razzismo: «È un inno alla tolleranza, siamo tutti uguali». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 da Corriere.it. Simone Fugazzotto, l’artista autore del dipinto scelto dalla Lega di A contro il razzismo e che sta facendo discutere per il soggetto (tre scimmie) non si dà pace: «Non capisco perché queste polemiche siano nate proprio adesso: questo trittico io l’ho dipinto nel maggio scorso, in diretta, durante la finale di Coppa Italia, allo stadio Olimpico. Io ero in una stanza con vista sul campo, dipingevo e ogni tanto la Rai veniva lì con le telecamere per mostrare il mio lavoro. È anche uscita una pagina intera sulla Gazzetta dello Sport e nessuno ha detto niente. Presentiamo il quadro in conferenza stampa e viene giù il finimondo. Non capisco davvero».

Certo, il soggetto — le scimmie — si presta a fraintendimenti.

«Ma è questo il punto: io dipingo soltanto scimmie. Sono la mia cifra stilistica, le trovate dappertutto nella mia produzione. In questo caso il messaggio voleva essere proprio il contrario del razzismo».

Lo spieghi bene.

«Ho dipinto tre scimmie con caratteristiche diverse, una ha gli occhi azzurri, una a mandorla e così via. Proprio perché voglio dire che siamo tutti uguali, siamo tutti scimmie, siamo tutti uomini e donne. Il senso del quadro è: caro tifoso razzista, sei così ignorante da prendere in giro un calciatore per il colore della pelle? Eccoti qua, sei una scimmia anche tu, come lo sono io e come lo siamo tutti».

Lei ha dipinto anche una madonna sotto forma di scimmia...

«Esatto, l’ho pubblicata sul mio Instagram (dove Fugazzotto è seguito da 42mila persone, ndr) e nessuno ha detto nulla. Anche qui il senso è che non dobbiamo avere paura della fisionomia delle scimmie, perché sono animali e non devono diventare dei simboli di odioso razzismo. Il problema comincia quando togliamo a uomini ed animali la loro umanità e ne facciamo dei vergognosi strumenti di odio».

Come si spiega lei l’ondata di polemiche che ha accompagnato la presentazione del quadro?

«Io penso che oggi molti vogliano solo far polemica, alzare la voce e farsi sentire, cercando scuse pretestuose sul nulla. È un grande problema, per i rapporti, umani sociali e anche economici perché si fanno danni incalcolabili. Ma quello che mi fa davvero sorridere è che in passato ho realizzato opere anche più forti, per esempio per Paolo Bonolis, che è un amico, ho fatto le illustrazioni per Ciao Darwin».

Forse quest’opera andava spiegata meglio?

«Per carità, ci possono essere lacune nella comunicazione, però non credo di aver fatto passare un messaggio poco chiaro: tre scimmie con le caratteristiche umane da ogni latitudine dipinte su un quadro non è un messaggio di uguaglianza?»

"Foto con Hitler? Non c'è odio razziale". Il gip non sequestra il profilo Fb. Lo ha disposto il gip del tribunale di Siena, Roberta Malavasi. Castrucci si è appellato alla libertà di opinioni espresse fuori dall'attività didattica". Gabriele Laganà, Giovedì 12/12/2019 su Il Giornale. Nel tweet postato dal professore di filosofia dell’Università di Siena, Emanuele Castrucci, non ci sarebbero gli estremi del reato di propaganda e istigazione all'odio razziale. Il gip del tribunale di Siena, Roberta Malavasi, ha motivato così il rigetto dell'ordinanza di sequestro del profilo Twitter del docente indagato dalla procura. È quanto rende noto "La Nazione". Il professore nei giorni scorsi aveva pubblicato sul social una foto di Adolf Hitler e del suo cane accompagnata da un messaggio: "Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo". Il post aveva scatenato un mare di polemiche e l’indignazione unanime. Il docente, che poi aveva cancellato il messaggio, si era difendo facendo appello alla "libertà di pensiero", spiegando che quanto scritto su Twitter sono "opinioni del tutto personali", espresse "fuori dall'attività di insegnamento". Castrucci era stato sospeso dagli esami all’Università in attesa che il consiglio di disciplina dell’ateneo prendesse una decisione sul licenziamento proposto dallo stesso rettore e dal Senato accademico. La procura di Siena, su disposizione del procuratore capo Salvatore Vitello, aveva ordinato il sequestro preventivo del profilo Twitter del professore. Il procuratore Vitello aveva anche aperto un fascicolo di indagine ipotizzando il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, aggravata da negazionismo. Invece per il gip di Siena non vi sarebbero elementi concreti, solo una rilettura storica e apologetica della figura di Hitler che così sembra smontare il nucleo della richiesta della procura." Pur rispettando la decisione del gip - è la replica del procuratore di Siena intervistato da La Nazione - noi dissentiamo da questa interpretazione. Ritenendo che ci sia istigazione all'odio razziale, con la foto di Hitler che è un'ulteriore prova a sostegno. Quel tweet è stato poi rimosso dal professore. Per questo presenteremo ricorso al tribunale del Riesame chiedendo il sequestro del profilo". Proprio la richiesta di sequestro è uno dei tasselli dell'indagine. Il rettore dell’Università di Siena, Francesco Frati, ha presentato un esposto, appellandosi alla legge Fiano che prevede il reato di negazionismo di genocidi e crimini di guerra. Inoltre, ha nominato un nuovo consiglio di disciplina dell'ateneo per discutere del caso e dei provvedimenti da adottare. Lo stesso rettore ha proposto la destituzione del professore. Da parte sua, Castrucci ha replicato via mail ai giornalisti ribadendo la sua linea di "libertà di opinioni espresse fuori dall'attività didattica". Il docente ha sottolineato di "non aver mai negato l'Olocausto, né esaltato il nazismo".

Trieste, manifesti di Casapound contro la commemorazione di cinque antifascisti fucilati nel 1941. L'Anpi: "Atto gravissimo, quel movimento di estrema destra va sciolto". La Repubblica il 14 dicembre 2019. Alcuni manifesti di CasaPound sono comparsi questa mattina a Opicina, sul Carso triestino, nel Parco della Pace - l'ex poligono di tiro gestito dall'Anpi locale - dove domani verranno commemorati i cinque antifascisti fucilati nel 1941, sulla base di una sentenza emessa da un Tribunale speciale. Nei manifesti, firmati dal movimento di estrema destra, i 5 fucilati vengono definiti "terroristi, né vittime, né martiri". La scoperta è stata fatta dagli agenti della Digos di Trieste da un controllo effettuato alla vigilia della cerimonia. "Quando, circa tre settimane fa, il Comune di Trieste ha deciso di affidare la gestione di questo spazio all'Associazione nazionale Partigiani d'Italia di Trieste. abbiamo espresso tutte le nostre perplessità, ricordando che chi ogni anno viene commemorato a Opicina non è né una vittima né un martire ma solo un terrorista", spiega in una nota Francesco Clun, responsabile provinciale di CasaPound Italia.  L'unica cosa di cui non aveva bisogno questa città è un'altra meta di pellegrinaggio per i nostalgici titini". „A rispondere a Clun è stata la senatrice del Partito democratico, Tatjana Rojc. "C'è parecchia amarezza verso quello che sta succedendo perché si è fatto tanto per la pacificazione del confine orientale, in ragione di una convivenza e per riparare le ferite che la Storia ha provocato da una e dall'altra parte. Aprire queste ferite in maniera così inutile, mi sembra che porti alla volontà di qualcuno di farci fare dei passi indietro". In merito alla decisione del Tribunale Speciale, la senatrice ha voluto puntualizzare come "quel tribunale era fascista, non c'erano dei giudici ma dei fascisti in camicia nera e le condanne sono state sempre sommarie".  "I manifesti affissi illegittimamente questa notte, sul carso triestino ad Opicina, da parte di CasaPound Trieste, rappresentano un atto gravissimo, che riteniamo possa configurarsi come apologia del fascismo". Lo scrive in una nota l'Anpi di Trieste che, insieme con l'Anpi nazionale, è tornata a chiedere lo scioglimento del movimento di estrema destra "in quanto organizzazione fascista". L'Anpi fa riferimento ai manifesti in cui i 'Fascisti del Terzo millennio' definiscono 5 vittime antifasciste "terroristi".

Vignetta su Auschwitz, Raggi revoca l’incarico  a Marione. Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 da Corriere.it. Aveva rappresentato in una sua vignetta l’Unione europea come Auschwitz e l’Inghilterra come un bimbo in fuga da un campo di concentramento. Ora a Marione, Mario Improta, vignettista, la sindaca Raggi ha revocato l’incarico. Dopo le polemiche che il suo fumetto avevano sollevato infatti, la prima cittadina aveva subito preso le distanze: «Quella vignetta non ha nulla a che vedere con l’amministrazione», aveva detto. Oggi la telefonata per chiedere di interrompere immediatamente la collaborazione a titolo gratuito con Roma Capitale. Il fumetto aveva subito sollevato il sentimento di sdegno del Pd: «La sindaca Raggi apprezza ancora la satira del suo vignettista di fiducia? Ritiene ancora di doversi avvalere dell’ausilio di un personaggio del genere? È opportuno che la campagna in corso nelle scuole a firma del cosiddetto “Marione” sia ancora mantenuta?», si domandava soltanto ieri il Pd. «Quanto accaduto è vergognoso, offende i romani, gli italiani e gli europei, è inaccettabile che il signor Improta si faccia pubblicità sotto l’egida di Roma - concludeva la nota -. La sindaca Raggi prenda le distanze da questo inqualificabile personaggio, chieda scusa e ritiri la campagna e il materiale diffuso con la firma di questo ignobile suo collaboratore». «Quella vignetta non ha nulla a che vedere con l’amministrazione ma ci tengo a dire che non rappresenta il mio pensiero e contrasta con la mia sensibilità su temi che mi hanno sempre vista impegnata in prima persona - aveva replicato la sindaca di Roma, Virginia Raggi -. Bisogna fare molta attenzione quando si toccano tematiche come i campi di sterminio e le persecuzioni naziste».

S.Can. per “il Messaggero” il 16 dicembre 2019. Ancora polemica su Marione, il fumettista che da qualche settimana cura la campagna di comunicazione di Virginia Raggi a suon di vignette che ritraggono la sindaca come l'eroina di un manga giapponese (300mila copie, diffuse in 850 scuole della Capitale, per 50mila euro di spesa). Ieri Marione ha pubblicato sul suo profilo Facebook una vignetta sulla Brexit: si vede un festante Boris Johnson che esce saltellando, con la bandiera inglese in mano, dal campo di sterminio di Auschwitz. Il Pd attacca: «Questo vignettista offende la città di Roma e l'olocausto, Raggi gli ritiri la collaborazione con il Comune». Virginia Raggi si dissocia. «Quella vignetta non ha nulla a che vedere con l'amministrazione», dice la sindaca, «ma ci tengo a dire che non rappresenta il mio pensiero e contrasta con la mia sensibilità su temi che mi hanno sempre vista impegnata in prima persona. Bisogna fare molta attenzione quando si toccano tematiche come i campi di sterminio e le persecuzioni naziste». Ma la deboli scuse non sembrano placare la polemica. E c'è chi, come il dem Filippo Sensi, chiede che venga subito interrotto il rapporto tra il Campidoglio e Improta. «No, non mi basta per niente la presa di distanza di virginiaraggi sulla vignetta di #Marione. Mi sa di pesce in barile. La sindaca gli ha affidato la cura di suo materiale di propaganda, volantinato a pacchi nei licei romani. Chieda scusa, risolva questa collaborazione. Subito», scrive Sensi in un tweet allegando foto della «tournée di Virginia Raggi nelle scuole». Con chi? Proprio con Marione.

Alessandro Barbano, vice-direttore del ''Corriere dello Sport'' il 16 dicembre 2019. Caro Direttore, mi chiedo e ti chiedo che cosa stia accadendo attorno a noi. Due società, Roma e Milan, cacciano i nostri cronisti dai loro centri sportivi, invitando gli altri club a fare altrettanto. Organizzano una campagna d’odio nei confronti del Corriere dello Sport-Stadio, prendendo a pretesto un titolo, «Black Friday», criticabile come tutto ciò che facciamo, ma certamente non razzista, come dimostra il coro generale di solidarietà che da ogni pulpito civile e istituzionale si alza a nostra difesa. Si coprono di ridicolo, loro che il razzismo per anni l’hanno ignorato, lanciandosi in una fatwa contro un giornale che solo negli ultimi tre mesi ha scritto su questo tema in prima pagina sette editoriali, deplorando ora l’orrore dei cori, ora la vergogna delle orecchie tappate di allenatori, dirigenti e giudice sportivo, ora le gaffe di presidenti e vertici istituzionali. Poi, sabato, un’altra società, l’Inter, annulla una conferenza stampa, perché - spiega in una nota - «dal Corriere dello Sport è stata pubblicata una lettera offensiva nei confronti del nostro allenatore, giustificando l’aggressione nel commento». Potrei, caro Direttore, darmi la spiegazione più semplice. E dire che un certo potere non tollera critiche. Soprattutto quando maschera, dietro la falsa emancipazione del denaro, le logiche arcaiche di una classe dirigente fatta ancora per metà di improbabili patriarchi e per metà di mediocri cortigiani. Avrei buoni motivi per considerare queste gesta una rappresaglia contro chi ha osato denudare il re. La Roma, il Milan e l’Inter sono state in questi mesi oggetto di critiche severe da parte nostra. Non abbiamo fatto sconti alla disastrosa campagna acquisti dell’era Monchi e alla pessima gestione dei casi Totti e De Rossi, non abbiamo mancato di segnalare l’assenza di James Pallotta, l’incerta sorte dei suoi interessi speculativi, il valzer di manager, senza né portafoglio né delega, che si avvicendavano a corte. Allo stesso modo abbiamo mostrato la maldestra mano con cui Maldini e Boban hanno bruciato in un solo giorno due allenatori: quando, dopo aver esonerato «de facto» Giampaolo, hanno visto evaporare l’arrivo di Spalletti, ripiegando poi su Pioli con gli incerti risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Ma i giudizi più severi sono stati proprio per la dirigenza nerazzurra. La proscrizione di Mauro Icardi, «regalato» al Paris Saint-Germain dove sta facendo sfracelli, ci è parsa da subito uno spreco inaudito. Non ci hanno convinto le parole del presidente Zhang: «È un grande giocatore, una brava persona e ha aiutato il club con molti gol: troveremo una buona soluzione per lui». Se il giudizio era così lusinghiero, perché sacrificare l’attaccante in nome dello strisciante sessismo di chi non tollerava l’esuberanza della moglie Wanda? Anche questo abbiamo scritto. Noi che sappiamo quanto le discriminazioni più subdole si nascondano dietro le migliori intenzioni.

Da leggo.it l'11 dicembre 2019. L'Inter cede in casa alle seconde linee del Barcellona e deve dire addio alla Champions League anche quest'anno. La delusione dei tifosi si riversa soprattutto sui giocatori che ieri hanno reso meno, come Cristiano Biraghi. Il terzino sinistro, cresciuto proprio nel club nerazzurro e tornato quest'anno dalla Fiorentina, è però finito nella bufera non solo per la prestazione in campo. Toccato duro, nel primo tempo, da Moussa Vagué, Cristiano Biraghi era uscito dal campo per qualche istante e si è tolto uno dei parastinchi. Una scena che non è passata inosservata, per via di una vistosa grafica e del motto stampato su di essi: una frase in latino, tra le tante utilizzate in passato (e non solo) dalla retorica fascista, che fa il paio con lo scudo tricolore e l'elmo di un legionario. L'episodio è stato subito notato da tanti utenti, che sui social, e su Twitter in particolare, si sono accaniti duramente contro Cristiano Biraghi. I parastinchi “fascisti” non sono stati affatto graditi e le critiche si sono sprecate. C'è chi infatti scrive: «Non bastava la prestazione in campo, ha fatto una pessima figura anche coi parastinchi». Altri, senza pietà, commentano così: «Tanto scarso quanto fascista». Molti altri usano delle battute ad effetto, come «calcio balilla» o «stinco di fascio». L'episodio, comunque, ha diviso parecchio gli utenti sul web. C'è chi invita gli altri a concentrarsi su altri aspetti: «Il problema non sono i parastinchi, ma che non abbia azzeccato un solo cross in tutta la partita». Altri utenti, invece, difendono Biraghi: «Non sono parastinchi che inneggiano al fascismo, a forza di accusare chiunque di essere fascista, state perdendo di vista i veri fascisti». I tifosi della Fiorentina (in estate con l'Inter c'è stato lo scambio di prestiti tra terzini Biraghi-Dalbert), però, non hanno dubbi: «Potete anche regalarlo all'Inter, non lo vogliamo più vedere a Firenze».

La follia dei parastinchi fascisti di Biraghi. Esplode sui social la polemica per l'immagine di un elmo spartano e la scritta "Vae Victis" sui parastinchi del calciatore dell'Inter accusato di essere fascista. Panorama il 10 dicembre 2019. Dopo Checco Zalone, accusato di razzismo e sessismo per il video del suo ultimo brano ("Immigrato") ecco la nuova follia creata dagli amici del "clima d'odio". A finire nel mirino del "politically correct" c'è Cristiano Biraghi, il giocatore dell'INter finito nella bufera per i suoi parastinchi, o meglio, per l'immagine stampata su di essi.

Durante Inter-Barcellona l'esterno sinistro viene colpito alla gamba da un avversario. Finisce a terra dolorante; si abbassa le calze e toglie il parastinco per permettere ai medici di intervenire sull'arto colpito. Sul parasticno c'è un elmo spartano ed una scritta: "Vae Victis", Guai ai vinti. Tanto basta perché molte persone vedano in tutto questo un chiaro segnale fascista e scatta l'insulto social. Di pensieri come questi sono pieni twitter e facebook. La polemica monta al punto che il giocatore e l'Inter sono costretti oggi a smentire qualsiasi riferimento politico. "La scritta Vae Victis - hanno chiarito i nerazzurri - è per il giocatore un chiaro incitamento alla vittoria, a non accettare la sconfitta". Niente di politico, solo sport. Ma ormai, in questo clima non di odio ma di follia pura, tutto è politica: un parastinco, la canzone di un comico, la Nutella. Non ci resta che aspettare la follia di domani. Arriverà, tranquilli, arriverà. Ma il problema ovviamente è sempre e solo Salvini...

Polemica sul Merry XMas. Pure il Natale è "fascista". Ecco cosa è successo a La Spezia. Francesco Maria Del Vigo, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Immaginate la scena: Davide Calabria, vicesindaco di Sesta Godano, nello Spezzino, entra col passo veloce dello zelante antifascista in un outlet della zona. Probabilmente stordito da mesi di interminabili discussioni sull'imminente ritorno di fasci, squadracce, salti nei cerchi infuocati e marcette militari, alza la testa verso una luminaria: Xmas. È dicembre, nel centro commerciale ci sono Babbi Natale appesi in ogniddove: cosa vorrà dire Xmas? Ovviamente Christmas, cioè Natale in inglese. Eh no, Calabria è furbo e non si fa mica fregare dalla propaganda del regime: Xmas vuol dire Decima Mas. È ovvio. La temibile flottiglia di Junio Valerio Borghese. D'altronde a Natale chi non festeggia con saluti romani ed eia, eia alalà? Chi non scrive la letterina al Duce chiedendo libri e moschetti? Calabria avverte l'urgenza di difendere la democrazia e, in una frazione di secondo, si trasforma in partigiano, si infila nella trincea di Facebook e inizia a mitragliare con la tastiera, impavido: «Io leggo Xmas. Costava tanto fare una luminaria meno fraintendibile?». Coperto dal ridicolo, poco dopo, cancella il post. Ma scommettiamo che a breve proporrà di festeggiare il 25 dicembre come festa della liberazione dal camerata Babbo Natale, cacciato a colpi di torrone.

Usa, incendiò la bandiera Lgbt: condannato a 16 anni di carcere. "Crimine d'odio". E' accaduto ad Ames, in Iowa. Dopo l'arresto Adolfo Martinez aveva detto alla stampa: "È stato un onore farlo. È una benedizione del Signore". Le dichiarazioni usate contro di lui al processo. Giovannoi Gagliardi il 19 dicembre 2019 su La Repubblica. Un giudice americano ha condannato a 16 anni di carcere un uomo, colpevole di aver dato alle fiamme una bandiera arcobaleno simbolo della comunità Lgbt. Adolfo Martinez, 30 anni, secondo il tribunale è reo di molestie per crimini d'odio, uso sconsiderato del fuoco e offesa abituale. L'incidente è avvenuto intorno a mezzanotte dell'11 giugno nel centro di Ames, in Iowa, nel Midwest degli Stati Uniti. La polizia ha riferito di essere stata avvertita che in uno strip club locale un uomo, Adolfo Martinez, stava infastidendo e minacciando i presenti. Ma all'arrivo degli agenti, l'uomo era già stato buttato fuori dal personale del locale. Dopo aver lasciato il club, Martinez si era recato davanti alla United Church of Christ e lì aveva strappato la bandiera. Quindi era tornato davanti allo strip club, e aveva dato fuoco al vessillo in strada, minacciando anche di bruciare il bar. A quel punto era stato arrestato. Più tardi, dalla prigione parlando con la stampa, si era detto colpevole dei fatti di cui era accusato. "È stato un onore farlo. È una benedizione del Signore", aveva detto, spiegando che lo aveva fatto per la sua avversione "all'omosessualità". "Ho bruciato il loro orgoglio, chiaro e semplice", aveva detto a KCCI-TV. L'intervista era stata poi inserita nel processo come prova contro di lui. Il pastore della United Church of Christ, Eileen Gebbie, una donna gay, ha detto di essere d'accordo sul fatto che le azioni di Martinez siano state motivate dall'odio. "Ho spesso sperimentato che Ames non è così progressista come molte persone credono che sia e c'è ancora una grande comunità 'queer' nascosta qui", ha detto il pastore alla stampa. "Ma 12 persone (la giuria ndr) che non conosco, che non hanno relazioni dirette con me o con questa congregazione - ha poi aggiunto la religiosa - hanno riconosciuto che quest'uomo ha commesso un crimine e che è stato un crimine a causa del bigottismo e dell'odio". Il procuratore Jessica Reynolds ha sottolineato che Martinez è stato il primo, nella storia della contea, ad essere condannato per un crimine d'odio. "La dura realtà è che ci sono persone che prendono di mira altre persone e commettono crimini contro di loro per motivi di razza, genere, orientamento sessuale", ha spiegato alla stampa. "E quando ciò accade - ha concluso - è importante che come società ci alziamo in piedi e che i colpevoli abbiano gravi conseguenze per le azioni che hanno commesso".

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 19 dicembre 2019. Tre ore di lezione, una cascata di formule e algoritmi. Un quadro inquietante - o esaltante?- del moltissimo che c' è ancora da mettere a fuoco in Analisi dei dati, una disciplina giovane, nata solo nel 1901. Poi, quasi all' improvviso sbuca nella landa desolata dei sondaggi: «Nel 2018 tutti pensavano che Forza Italia avrebbe preso più voti della Lega e invece è andata in un altro modo, nello stupore generale. Ma non c'è da meravigliarsi - incalza Luca Ricolfi rivolgendosi ai ragazzi - quella sul voto è una domanda imbarazzante e molti rispondono senza dire la verità». Cosi il professore, sempre ironico e tagliente, introduce la categoria della desiderabilità sociale e dopo mille distinguo sempre più sofisticati arriva a una conclusione tranchant. Come nemmeno un boscaiolo che abbatta i tronchi colossali del pregiudizio: «I sondaggi, tutti i sondaggi in Occidente, fanno schifo. I campioni non sono mai veramente rappresentativi e poi molto dipende dalle modalità con cui si raccolgono i pareri. L' intervista face to face, o telefonica, è molto meno affidabile di quella impersonale, via internet». Un sorriso impertinente, poi bastano poche parole intinte nella sobrietà subalpina per far scendere il sipario su una lunga carriera accademica: «C'è molto lavoro da fare, buon lavoro». L'ultima lezione sulla soglia dei settant' anni finisce con un lungo applauso e le strette di mano dei colleghi del corso di laurea in Psicologia, venuti ad ascoltare quel lungo e suggestivo excursus sul futuro dell' analisi dei dati. Ma Luca Ricolfi, studioso sempre controcorrente, noto al grande pubblico per via dei suoi saggi fuori dal coro - l' ultimo è La società signorile di massa, pubblicato da La nave di Teseo - e le apparizioni televisive non va in panchina. Ci sono troppi stereotipi, troppi luoghi comuni, troppi tabù in circolazione. Specialmente a sinistra, la sua casa dove però si è sempre trovato scomodo. Tanto da diventare un' icona dall' altra parte dell' emiciclo per le sue analisi spietate: per esempio sul rapporto fra efficienze e sprechi nelle regioni virtuose del Nord, tartassate dal fisco per aiutare le regioni più arretrate e spendaccione del Sud; o sul legame, coperto dall' ipocrisia del politicamente corretto, fra immigrazione e criminalità. Lui va avanti per la sua strada, senza la paura di scandalizzare o di scontentare un po' tutti. Cosi, un minuto dopo la campanella, sferra un paio di rasoiate. Al sistema scolastico: «Nel corso che ho tenuto quest' anno ho svolto esattamente la metà del programma di venticinque anni fa. Gli studenti non sono allenati e più di tanto non possono recepire perché la scuola superiore è quella che è. Sulla carta i programmi sarebbero anche buoni, ma poi c'è libertà di non studio e ci ferma». Lui però no: «In pensione mi dedicherò alla produttività, il grande dramma dell' Italia da vent'anni a questa parte. Siamo immobili e continuiamo a perdere punti rispetto agli altri paesi europei. È una malattia che i governi non hanno saputo affrontare. Quello gialloverde ha fatto solo una politica assistenziale e il Conte 2 è esattamente sulla stessa linea». Ma che cosa servirebbe a questa Italia imballata e in decadenza ? «Io credo - è la risposta fulminante - che la causa più importante sia l'eccesso legislativo. L'Europa ci complica la vita con mille norme e noi ce la ricomplichiamo con un ulteriore diluvio di commi, paragrafi, adempimenti e procedure. Ma, naturalmente, prima di emettere la mia sentenza devo studiare». Un primo verdetto potrebbe arrivare già nei prossimi mesi: «Ho in mente sei o sette libri da scrivere, ma penso che il prossimo sarà un saggio sul politicamente corretto. Pochi giorni fa Federico Rampini ha definito l'America una collezione di minoranze suscettibili. Ecco, siamo alla paralisi della comunicazione: che si parli dei gay o del clima tutti ripetono lo stesso blabla e se esci dal solco si alzano grida e strepiti. Siamo alla censura delle critiche, naturalmente nel nome della libertà». Un cortocircuito che Ricolfi intende denunciare: il professore saluta, il fustigatore promette di non abbandonarci.

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2019. Che culo. Proprio mentre Concita De Gregorio mi dava l'ennesima lezione televisiva su come si devono rispettare le donne, mi sono imbattuto su internet nella pubblicità con la quale pochi anni fa la signora promuoveva il quotidiano che dirigeva e che portò alle soglie del disastro. Un bel fondoschiena femminile, giovane e sodo, con tanto di copia dell' Unità infilata in tasca e aggettivi allusivi tra i quali indomabile, bella, generosa, libera, mini. Che dire, così fan tutti Chissà cosa avrebbe pensato, se fosse stata in vita, l' austera Nilde Iotti, che andò a vivere con Togliatti solo per il piacere di poter parlare con lui di comunismo anche alle due del mattino, dell' iniziativa sessista presa dalla prima, e ultima, direttrice donna del suo giornale di partito. Molti compagni ai tempi non gradirono, ma furono messi a tacere, nello stile della casa. Noi invece difendemmo la foto, ritenendo che non ci fosse modo migliore per diffondere carta da c…Non chiedemmo all' ordine dei giornalisti di radiare la testata, come qualche vecchio tifoso dell' Unità ha fatto ieri in tv con Libero. Aspettammo che lo facessero i lettori. Forse qualcuno se ne andò proprio quando si accorse di come la sinistra, anziché difenderle, prende per il culo le donne e, se si tratta di attizzare le menti dei possibili compratori, non disdegna di puntare sul loro lato B, che in certi perbenisti ipocriti non differisce poi tanto dal lato A. Chissà se qualche compagno non si è sentito svilito intellettualmente dalla pubblicità in questione, che colpiva alle spalle le femministe e mirava alle palle dei maschietti. Non vorremmo mai che la De Gregorio, per quella copertina, venisse messa all' indice oggi dalla sua conventicola che ci ha criticato così tanto per aver scritto che la Iotti, oltre a essere una bravissima presidente della Camera, era pure bella, simpatica e grande in cucina e a letto. Siamo convinti che la collega non rischi molto, visto che la coerenza, oltre a lei, non appartiene ai dem in generale, i quali altrimenti non avrebbero cambiato cinque volte nome e dieci volte segretario negli ultimi vent' anni. Da quelle parti si ritengono da sempre più uguali degli altri. Tuttavia sappia Concita che, se qualcuno la criticherà, avrà tutta la nostra solidarietà. Immaginiamo a quali compromessi terribili con i suoi princìpi sia dovuta scendere in nome degli affari per sbattere questo ritratto di donna sfruttata in prima pagina. Vorrei approfittare per chiarire definitivamente una cosa: della Iotti non ci importa nulla, tantomeno della sua vita sessuale e del suo amore per Togliatti, che, è storia, scandalizzò molti nel Pci quando la sinistra era una cosa seria. La frase che ha indignato tanti perbenisti si trovava nella recensione a una fiction, non in un ritratto della signora. Però non riteniamo onesto che chi per anni è entrato nella camera da letto di Berlusconi oggi si indigni per un inciso in un pezzo, sostenendo che sesso e politica vadano sempre scissi. Se si può indagare la dimensione sessuale di un parlamentare, lo si può fare anche con quella di una parlamentare, e chi si batte per la parità deve accettarlo. Per un uomo non di sinistra, grande a letto, anche se riferito a una donna, non è un insulto; tutt' altro. E questo ce lo hanno insegnato proprio i progressisti, dei quali abbiamo sempre apprezzato la libertà sessuale che propugnavano, prima di andare in cortocircuito morale e uterino. Al liceo, il 50% di quelli che si dicevano di sinistra in realtà lo faceva solo per aver maggior fortuna con le donne. Ora però l' outing politico pro Pd equivale a un voto monacale, sempre che non si decida di farlo in modo strano; anzi, moderno. Forse immemore della pubblicità sulla quale ha messo il suo lato A, la mia amica concitata, con la classe di cui sopra, ieri in tv si chiedeva se io abbia qualche figlia femmina; il sottinteso era: poveraccia, nel caso ne abbia una. Tirare in ballo i minori, uomini o donne, non è il massimo. Temo che i suoi amici che fanno gli assistenti sociali a Bibbiano, nella rossa Emilia dove è così bello essere bambini, decidano, ascoltandola, di togliermi la prole.

L'inno più dissacrante dell'Italia cialtrona ma sul tetto del mondo. Paolo Giordano, Mercoledì 04/09/2019, su Il Giornale. In fondo che cos'è un tormentone? È la foto più vera e crudele di una parte di noi. C'è qualcosa di più vero di Siamo una squadra fortissimi? Quello di Checco Zalone è un tormentone «prêt-à-porter», nel senso che è stato pubblicato nel 2006 ma sarebbe stato perfetto anche 30 anni prima o 30 anni dopo, tanto noi siamo (anche) quella roba lì, visionari e cialtroni, modaioli ma tradizionalisti e perfetti conoscitori dello sport più praticato del mondo, quello del quale ciascuno stabilisce le regole che vuole. Da quando sono nati, all'inizio degli anni Sessanta, i tormentoni hanno intercettato l'evoluzione degli italiani e dell'italianità, dal sapore di sale di chi iniziava a conoscere le vacanze al mare fino al Vespino dei Lùnapop sul quale sono salite due generazioni di liceali. Un processo graduale, inevitabile ma imprevedibile anno dopo anno, decennio dopo decennio. Invece Siamo una squadra fortissimi è implacabile. È la declinazione musicale dei film di Alberto Sordi mescolati con la commedia all'italiana, della furbizia di Amici miei con Il Processo del Lunedì e dei film di Totò con l'eterno neorealismo di Monicelli. «Siamo una squadra fortissimi, fatta di gente fantastici e nun potimm' perde e fa figur' e mmerd', perché noi siamo bravissimi e super quotatissimi e, se finiamo nel balatro, la colpa è solo dell'albitro». Checco Zalone, che non era ancora il salvatore del cinema italiano ma si capiva che lo sarebbe diventato, si è inventato questo brano che è partito come sigla radiofonica del programma «Deejay Football Club - Speciale Mondiali» che Ivan Zazzaroni conduceva su Radio Deejay. Pubblicato come singolo, è stato al primo posto della classifica dal 14 luglio fino al 17 agosto. D'accordo, l'Italia aveva vinto i Mondiali di calcio a Berlino battendo in finale la Francia ai rigori e, quindi, senza saperlo Siamo una squadra fortissimi è diventato un inno persino più del globale popopopo mutuato da un brano rock dei White Stripes che i Mondiali manco sapevano cosa fossero. Checco Zalone ha messo in note il dizionario di un'Italia fanfarona e irresistibile e ci ha regalato la possibilità di riconoscerla in ogni campo, mica solo quello del pallone. «Stoppi la palla al volo, come ti ha imparato tanto tempo fa quando giocavi invece di andare a scuola, quanti sgridi ti prendevi da papà» è una caporetto grammaticale che parodizza tanti aspetti della vita pubblica italiana. Una volta a parlare così erano soprattutto i calciatori al 90esimo Minuto di Paolo Valenti, magari dopo aver segnato il primo gol in A dopo una carriera nata in qualche paesino sperduto. Adesso, ahimè, questi strafalcioni sono anche ai piani alti, o altissimi, magari anche a Palazzo Chigi. Dopotutto, ci sono ministri o senatori, da Razzi a DiMaio, che parlano uno «zalonese» stretto nonostante debbano confrontarsi con problemi di gravità planetaria. Ed è difficile non trovare tracce dell'enfasi di Checco Zalone in quel «il 2019 sarà un anno bellissimo» che l'ex e quasi neo premier Giuseppe Conte ha pronunciato pochi mesi fa. E chissenefrega se il 2019 è stato finora tutt'altro che bellissimo e l'Italia stia affrontando la crisi di governo più pazza della propria storia repubblicana: conta il messaggio, lo slogan, «l'impatto» dell'annuncio. «Cornuti siamo vittimi dell'albitrarità a noi contraria, ecco che noi cerchiamo di difenderci da queste inequità così palese» canta Zalone ma al suo posto ci potrebbero essere tanti altri. Come conferma anche Cetto Laqualunque, ossia la feroce maschera del politico italiano creata da Antonio Albanese, l'importante è parlare, annunciare, rivendicare. Anche per questo, il pezzo di Checco Zalone è diventato il vero tormentone dell'estate 2006, nonostante tanti altri brani si fossero candidati al ruolo più ambito dal pop estivo. Siamo una squadra fortissimi parla alla parte inconfessabile dell'italianità eppure percepita da tutti, anche da chi non la pratica. D'altronde, il momento era quello giusto. C'era il tormento di un'epoca che non sapeva dove andare. Saddam Hussein ha appena detto di preferire la fucilazione all'impiccagione. Osama bin Laden continua a minacciare l'Occidente. Bush parla spesso con la Merkel, l'unico primo ministro sopravvissuto fino a oggi di quel tempo politico. Berlusconi fa un discorso al Congresso degli Stati Uniti riunito in seduta plenaria e, subito dopo le elezioni di aprile, viene arrestato Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza. A maggio inizia «Calciopoli» che costerà due scudetti alla Juventus e la credibilità a tutto il calcio italiano, esattamente come avvenne nel 1982, quando gli azzurri di Bearzot vinsero il Mundial pochi mesi dopo gli arresti (addirittura negli stadi a partite in corso) degli scommettitori più scatenati. Dire «Calciopoli» nell'immaginario collettivo significa dire Moggi. «Grande Luciano Moggi, dacci tanti orologgi agli albitri internazionali, si no co' 'O cazz' che vinciamo i Mondiali» canta Zalone con la libertà che soltanto un comico, in Italia, può permettersi. Si elegge Giorgio Napolitano al posto di Ciampi, e il muro di Berlino cade anche al Quirinale. Benedetto XVI fa arrabbiare molto i musulmani con il discorso di Ratisbona e L'urlo di Munch viene ritrovato dopo due anni dal furto. Insomma, il 2006 è un «anno incubatrice». Contiene i germi del populismo che stava fiorendo sottopelle, per lo più incompreso dalla classe politica. Non a caso, il «Vaffa Day» di Beppe Grillo del 2007 era ancora considerato un evento folcloristico destinato a non lasciare traccia nella vita politica italiana. E invece. Oggi, 12 anni dopo, gli urlatori più stentorei di quei «vaffa day» si stanno giocando il governo italiano per la seconda volta consecutiva a dimostrazione che molto spesso il pop e i commedianti arrivano prima dei migliori analisti politici o economici. In quel 2006 Checco Zalone, ossia il pugliese Luca Medici, era ancora uno dei talenti più cristallini di Zelig, quello più capace di mettere in pratica la lezione della grande comicità italiana: parlare di ciò che siamo e ridere di ciò che vorremmo essere. Siamo una squadra fortissimi è la conferma che si può cristallizzare un tipo italiano e scommettere che si riproporrà identico nel futuro. I versi di questo brano ce l'hanno fatta e, fateci caso, saranno attuali anche tra dieci o cento anni.

Giuliano Cazzola per huffingtonpost.it il 7 dicembre 2019. Mentre mi recavo, in taxi, nella sede di Mediaset della mia città per partecipare a ‘’Stasera Italia’’ (il talk show condotto da Barbara Palombelli su Rete 4) mi ha incuriosito una canzone - che proveniva dalla radio dell’auto – il cui ritornello ripeteva la parola “immigrato” mentre le strofe raccontavano, con un velo d’ironia, la “persecuzione quotidiana” che i cittadini subiscono da parte degli immigrati ai semafori, nei supermercati e a ogni angolo di strada. Addirittura all’italiano protagonista/vittima della canzone l’immigrato insidia, con successo e reciproca soddisfazione, anche la moglie. Ho chiesto subito al tassista se conoscesse quella canzone. Anche lui l’aveva sentita per la prima volta. Essendo la radio emittente al di sopra di ogni sospetto (per un momento avevo temuto che si trattasse di Radio Padania, ammesso che esista ancora), mi ero tranquillizzato, ripromettendomi di approfondire l’argomento. Arrivato in trasmissione ho scoperto l’arcano. Ad un certo punto, Palombelli ha mostrato un promo – divenuto virale sui social - del prossimo film di Checco Zalone. E così ho potuto sapere, anche attraverso le immagini del video, da dove veniva quella canzoncina. La conduttrice si è rivolta agli ospiti per conoscere la loro opinione. Tutti si sono sperticati in apprezzamenti per la canzonetta, trovandola divertente, dissacrante, capace di esorcizzare con la vis comica il senso di un fenomeno sociale. Il sottoscritto, invece, si è infilato – con sorpresa e disapprovazione dei presenti – su un’altra pista, ricordando, che nella Germania di Weimar si cantava nei cabaret di Berlino (pare che la vita notturna fosse molto intensa) una canzone a sfondo umoristico dedicata agli ebrei. Lo ammetto: io vivo nella convinzione (e nell’angoscia) che l’Italia si appresti a conoscere – ovviamente mutatis mutandis perché un secolo non è trascorso del tutto invano - l’esperienza della Repubblica di Weimar. Così, rincasato, sono risalito alla fonte nel saggio di Siegmund Ginzberg, "Sindrome 1993"’ (Feltrinelli 2019). Ecco qualche brano della canzone che avevo ricordato in trasmissione: ’’Se piove e se fa freddo/ se il telefono è occupato/ se la vasca da bagno perde/ se ti sbagliano la dichiarazione dei redditi/ se il principe di Galles è un finocchio/ è proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei. E via di questo tono. Il fatto è che a cantarla non erano le SA di Ernst Rohm a passo di marcia, ma dei normali attori durante uno spettacolo di satira politica andato in scena in un cabaret (il Tingel-Tangel) di Berlino nel 1931. L’aria del ritornello (è proprio tutta, ma tutta colpa degli ebrei) rievocava l’habanera della Carmen. La musica era dell’autore (Felix Hollaender) delle canzoni di Marlene Dietrich nell’Angelo azzurro. Come si vede siamo ben oltre il livello delle note (ispirate ad Adriano Celentano) di Checco Zalone. Certo, il grande comico italiano non è razzista, come non erano antisemiti gli autori e degli attori della satira tedesca del 1931. Si sono limitati, ora ed allora, a cogliere un sentimento diffuso, sperando di demolirlo con l’ironia. Del resto, non possiamo restare prigionieri del "politicamente corretto" – ammesso che l’antirazzismo possa ancora ritenersi tale, visti i dati del Censis – ma sarebbe meglio non dimenticare le parole di Primo Levi: ciò che è stato può ritornare.

TESTO IMMIGRATO

All’uscita del supermercato

Ti ho incontrato

(“il carrello lo porto io”)

Al distributore di benzina

(“metto io, metto io”)

Monetina

Al semaforo sul parabrezza

C’è una mano nera con la pezza

E ritrovo quel tuo sguardo malandrino che mi dici

“C’ha due euro per panino!”

Immigrato

Quanti spiccioli ti avrò già dato

Immigrato

Mi prosciughi tutto il fatturato

Poi la sera la sorpresa a casa

Al mio ritorno

Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno

Ma mia moglie non è spaventata

Anzi

Sembra molto rilassata

E ritrovo quel suo sguardo malandrino

Che faceva quando…

Quella roba lì

La faceva…

Immigrato

Sembra proprio che ti sei integrato

Immigrato

Favorisci pure l’altro lato

Immigrato

Ora dimmi perché mi hai puntato

Potevi andar dal mio vicino pakistano

O a quel rumeno in subaffitto al terzo piano

Ma hai scelto me

Il mio deretano

Dimmi perché

Perché, perché perché perché?

Prima l’italiano!

Immigrato

Chi ha lasciato il porto spalancato?

Immigrato

Ma non ti avevano rimpatriato?

Immigrato

Immigrato

Marco Giusti per Dagospia il 7 dicembre 2019. Ci siamo. Ha già diviso tutti. L’ha fatto apposta. Ci sta. E’ bastato un video, che devo dire fa molto ridere, “L’immigrato”, una scatenata totocutugnata che parte con “il porto spalancato” e chiude con gag finale che spiega perché gli immigrati dopo averti tormentato tutti i giorni arrivano anche a trombarti la moglie, “prima l’italiano”, per portare Checco Zalone in quella zona pericolosa dei social che va dall’Inferno al Paradiso. Visto da destra, visto da sinistra, visto da destra pensando che sia si destra, visto da sinistra pensando che sia di sinistra e visto da da destra pensando che sia di sinistra e visto da sinistra pensando che sia di destra. Che mal di capoccia… e va subito in tendenza assieme alla Nutella e a Salvini. Per il centro Baobab è “spazzatura” (ma perché?), per altri partono gli insulti: “schifoso comunista cesso zeccone”, “anfame sinistroide e perlo più [scritto così…] milionario”. Aiuto! Poi partone le cattiverie nemmeno fosse Polanski. “Se a Zalone piacciono tanti i migranti, spero che gli regali a tutti il biglietto per vedere il suo nuovo film. Spero che sia il suo solo pubblico. Per me ha chiuso. #boicottaZalone”. Ecco c’è pure il movimento contro. Nemmeno fosse Polanski. Poi arriva chi lo difende. “Compagni a sto giro avete toppato di brutto, forse non la conoscete la comicità di Zalonem prende per il culo l’italiota da sempre”. Non a caso chiude il video con l’immagine di lui ducetto al balcone in bianco e nero, pronto a diventare leghista. No? E poi lo ha già detto. “Non è più irriverente prendere per il culo Salvini e Di Maio perché lo fanno già da soli”. E poi: “Se date del razzista a Checco Zalone non avete capito proprio un cazzo”, “buonisti contro Checco Zalone. Ma sono loro a fare piangere..#NONAVETECAPITOUNCAZZO”. Magari voleva davvero questo per lanciare il suo film il 1 gennaio. Dividere il pubblico per provocare interesse. Ovviamente c’è riuscito. Come Salvini con la Nutella. Ma che vai a romperci il cazzo con la Nutella come se fossi un hater di Nanni Moretti? Eddai… Non puoi limitarti a odiare la Juventus, che so, Chiara Ferragni… No. Attacchi la Nutella. Zalone non vuole fare della satira alla Albanese o alla Dandini, vuole prendere per il culo proprio gli italiani che cascano nel suo gioco di odio/amore, vuole andare oltre il politicamente corretto/politicamente scorretto. Mentre Ficarra e Picone, morto il cinepanettone,  fanno il grande film comico di Natale per tutti, mentre Marco D’Amore risorto come Cristo in L’immortale sta facendo il pieno al cinema, 1,2 milione di incasso in due giorni, mentre Garrone e Benigni provano il fantasy dark con la rilettura di Pinocchio, Zalone non può che sparigliare facendo Letto a tre piazze con l’immigrato e la moglie nelle scene finali del suo video. Deve farci ridere provocandoci. Ci trombano le mogli… Che sarà mai? Ma quale razzista… Sardine a parte, mi sembra l’unico che non nominandolo mai possa trattare Salvini per quello che è, perché affronta direttamente la confusione ideologica degli italiani. Il film farà il botto. Lo sapete già…  

L'immigrato di Zalone divide il web, Valsecchi: «È satira». Ben 2 mln di visualizzazioni in 48 ore per il singolo del re degli incassi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 7 Dicembre 2019. La giornata di un italiano alle prese con un «immigrato», tra la «mano nera» che tenta di lavare il parabrezza e quegli spiccioli che rischiano via via di "prosciugare il fatturato», passando per la «sorpresa» finale: "Al mio ritorno/ Ti ritrovo senza permesso nel soggiorno/ Ma mia moglie non è spaventata/ Anzi/ Sembra molto rilassata...». Checco Zalone ha scelto di lanciare in un modo tutto suo, irriverente e politicamente scorretto, il suo nuovo, attesissimo, film, Tolo Tolo, in uscita il primo gennaio: un singolo, intitolato appunto 'Immigrato', che mescolando echi di Celentano e Toto Cutugno tocca un nervo scoperto in una società in cui va montando - come ha appena certificato il Censis - una deriva verso l’odio, il razzismo e l’intolleranza nei confronti delle minoranze. Il videoclip di Immigrato ha fatto immediatamente il giro del web, raccogliendo in 48 ore quasi 2 milioni di visualizzazioni e incassando commenti entusiastici ma anche critiche feroci al re degli incassi del cinema italiano. «Il video 'Immigratò di #CheccoZalone è terribile e non fa ridere. C'è poco altro da commentare, nessun bisogno di addentrarsi in analisi di chissà quali sfumature: banale spazzatura per il mercato delle festività», scrive l’associazione di volontariato Baobab. «Non ho capito se la canzone di Zalone «Immigrato» è fascista e razzista oppure prende in giro chi lo è. O è entrambe le cose, se possibile. Secondo voi? #CheccoZalone», si legge in un altro tweet. «Forse #CheccoZalone voleva far ridere. Non c'è riuscito, si è solo adeguato ai tempi #immigrato #blob», riflette un altro utente. Ma c'è anche chi parla di «capolavoro» e chi, come Antonello Piroso, chiosa sempre su Twitter: «Iscrivere d’ufficio #Zalone a un partito/movimento è un esercizio sterile e pure offesivo(per lui). In un colpo solo, irride sovranisti e cultori del #politicamenteCorretto,#Salvini e #Saviano. Non è di dx nè sin.E' #oltre». «Sono molto stupito di queste poche, per fortuna, reazioni al videoclip di Checco Zalone 'Immigratò, da noi prodotto», commenta Pietro Valsecchi, patron della Taodue. «Per me - e credo di interpretare anche il pensiero di Luca - e quindi per noi, la diversità è sempre stata un valore a tutti i livelli: di pensiero, di origine sociale, di provenienza geografica. La satira vuole prendersi gioco di tutte le certezze, qualunque esse siano, e chi non la capisce, forse non vuole neanche provare a mettersi in discussione. E quando graffia, graffia. Vi aspetto tutti il primo gennaio in sala: evviva Tolo Tolo», conclude. Né il testo né le immagini del video - girato in diverse zone di Roma tra le quali il quartiere Bologna, nel caseggiato popolare che è stato set del film di Ettore Scola “Una giornata particolare” con Marcello Mastroianni e Sofia Loren - sono tratte dal film sul quale vige ancora il massimo riserbo. L'unica sinossi ufficiale recita: «Non compreso da madre patria, Checco trova accoglienza in Africa. Ma una guerra lo costringerà a far ritorno percorrendo la tortuosa rotta dei migranti. Lui, Tolo Tolo, granello di sale in un mondo di cacao».

Lettera di Alessandra Mammì a Dagospia l'8 dicembre 2019. Caro Dago, in effetti Zalone è divisivo, persino in famiglia. E per non rovinarmi la domenica a discutere con il mio Giusti marito preferisco intervenire nel “dibbbattitto”  per dirti che  a mio parere quello spot “Immigrato” non è per niente politicamente scorretto. Correttissimo invece basta spostare il punto di vista e  registrare il plauso e l’applauso che arriva da i salviniani cronisti e opinionisti del “Secolo d’Italia” del “Giornale” e della “Verità” tutti pronti a sbeffeggiare il perbenismo di benpensanti e radical chic di sinistra, tipo me. Gente ancora ancorata a desueti principi di rispetto per l'altro , la quale pensa che è inutile girarci intorno, e citare filosofi in difesa della satira: il canto di Zalone sgorga dai petti della destra italiana e non c’è nessuna ambiguità, né umoristico sarcasmo. Il video è quello che vedi. Un immigrato pulcinella che cerca di vivere a sbafo e un italiano di classe media impoverita costretto alla convivenza forzata che non riesce a difendersi. Ma quel che mi ha più irritato confesso, non il legittimo sospetto di vedere un spot razzista ma la certezza di essere di fronte a un messaggio sessista di cui non parla nessuno. Ma l’avete vista la moglie ( bianca traditrice) che occhieggia alla virile prestanza del nero? E l’equazione attenti a questi che rubano il soldo, il divano e poi la moglie? Fa ridere, dice il marito (mio). Beh a me non fa per niente ridere il fatto che siamo ancora lì a parlar di mogli e di divani che si possono occupare o rubare. Questa non è satira, ma brutale maschilismo  tanto duro a morire che nel “dibbbattitto” tra tante voci ( maschili)  nessuno ha spezzato una lancia nei confronti di quella povera donna. Per cui poco importa se tra il primo gennaio e la Befana, grazie al divisivo spot, il nuovo film di Zalone farà 40, 50, 60 milioni di euro, i miei 7 o 8 di sicuro non le avrà.  Finché almeno non mi chiede scusa, a nome di tutte le donne. Bianche e nere.

Dagospia l'8 dicembre 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Camilla Nesbitt, produttrice di Checco Zalone con la sua Taodue e moglie di Pietro Valsecchi: Ho letto con stupore e raccapriccio la lettera che Alessandra Mammì ha scritto a Dagospia a proposito dello spot di Checco Zalone. Stupore perché credevo che Alessandra Mammì sapesse distinguere la satira, la farsa dalla realtà. Applicare all’ironia categorie del “politicamente corretto”, che già tanti danni ha fatto alla nostra cultura, è una pratica di rara scorrettezza intellettuale. E non da lei, che si ritiene una «radica chic di sinistra». Dov’era la Mammì, quando il suo giornale, l’Espresso, per anni ha riempito le copertine di donne scollacciate per attrarre lettori maschilisti? Ma quelle copertine, ovviamente, erano «ambigue, piene di «umoristico sarcasmo» e non «sgorgavano dai petti della destra italiana». L’Espresso sì, Zalone no. La solita doppia morale della sinistra. Raccapriccio perché avremmo voluto leggere tanta indignazione e tanto risentimento alla pubblicazione del libro di suo marito Marco Giusti “Dizionario stracult della commedia sexy”. Certo qui i film «hard softizzati e soft hardizzati», i pornonazi, i pornoesotici, i pornopecorecci ecc, sono guardati con l’occhio del cinefilo maniaco, e dunque giustificati, studiati, ammirati, mentre Checco Zalone è un povero ignorantone, «un italiano di classe media impoverita», legato a una cultura arcaica. Nei grandi proclami, nelle lotte sociali, nelle battaglie contro il maschilismo noi donne ci mostriamo come ci conviene mostrarci; è nelle faccenduole che ci mostriamo come siamo, piccole donne.

I buonisti contro Checco Zalone. Ma sono loro a fare piangere. Massimiliano Parente, Sabato 07/12/2019, su Il Giornale. Caro Checco Zalone, volevo farti i miei complimenti. Perché con la tua canzone che lancia il tuo prossimo film Immigrato hai fatto venire fuori l'imbecillità del politicamente corretto. Voglio dire: fai una splendida parodia di Celentano, ci metti dentro tutti gli stereotipi sugli immigrati, dove alla fine l'immigrato te lo prendi perfino a letto perché tua moglie si innamora di lui, un immigrato rappresentato in modo quanto di più simpatico ci sia (stupendo quando dici «perché proprio a me?», e lui risponde «prima l'italiano!»), e tu un protagonista con un giubbotto salviniano, molto divertente. Insomma una sana operazione comica, ironica, una satira contro la retorica razzista, e cosa succede? Che saltano fuori i soliti indignati per accusarti di razzismo. Gente serissima, noiosissima, che capisce fischi per fiaschi, che non è capace di ridere, e dunque anche di poca cultura. Tipo questi dell'associazione di volontariato Baobab: «Il video Immigrato di Checco Zalone è terribile e non fa ridere. Banale spazzatura per il mercato delle festività». Arriva pure un certo professore universitario Luciano Giustini per twittare: «Poi uno dice da dove arriva il razzismo». Ha capito tutto, un genio. Tra poco, stai tranquillo, si accoderanno tutti gli altri, mi stupisco che Saviano non si sia ancora pronunciato dall'alto della sua tonitruante savianaggine. A parte che, da meridionale quale sei, in numerosi film hai preso in giro i meridionali, che è quello che deve fare la satira, anche quella nazionalpopolare che fai tu, ma mi domando cosa direbbero questi scandalizzati se vedessero i grandi comici anglosassoni, da George Carlin a Ricky Gervais a Louis C. K., i quali hanno ironizzato su tutto, dagli omosessuali alle donne agli obesi agli handicappati ai vecchi, e in realtà proprio usando la satira hanno contribuito a abbattere muri di pregiudizi. Come Woody Allen lo ha fatto nei confronti degli ebrei, e nessuno lo ha mai accusato di nazismo, anzi sono stati gli ebrei i primi a sganasciarsi. Ti dicono che non fai ridere, il problema è che questi qui fanno proprio piangere, per non dire altro. Di certo i Baobab o come cavolo si chiamano (senza offesa per loro, avranno altri meriti, di certo non quelli di capire la comicità), mi hanno messo una tale tristezza da avermi convinto a venire a vedere il tuo film di corsa. Dando prima un euro al mio amico immigrato che trovo sempre lungo la strada del cinema, per carità.

Il produttore Valsecchi: «Con Zalone pescai il jolly. Ma che paura il messaggio di Riina». Pubblicato sabato, 27 aprile 2019 da Corriere.it. «Io non sono italiano, sono bergamasco. I bergamaschi si ritengono una razza a parte, superiore». Il produttore Pietro Valsecchi esordisce con tono provocatorio. «Provocatorio? No! È la verità».

E per quale motivo voi bergamaschi vi sentite superiori? A cosa?

«È un fatto culturale di comportamento. A Bergamo, per fare un accordo, basta stringersi la mano e guardarsi negli occhi, cosa che in Italia non esiste più».

Va bene, ma lei è nato a Crema e non a Bergamo.

«Sì ma le mie origini familiari sono bergamasche, i miei nonni facevano i contadini e avevano delle terre da quelle parti. Poi, avendo fatto pessimi affari, sono emigrati in Francia. Forse per questo ho una grande passione per i francesi».

Insomma, lei si sente bergamasco e un po’ francese, però come produttore ha fatto fortuna in Italia.

«È vero e nella vita professionale ho sempre raccontato storie italiane vere e mi sono trovato spesso a conoscere i personaggi che volevo rappresentare oppure coloro che li avevano conosciuti».

Tra quelli più impegnativi?

«Papa Wojtyla, di lui ho un ricordo tra i più vividi. Quando lo incontrai, era già malato e non parlava più. Però era molto ben informato e sapeva che stavo realizzando una serie sulla sua vita. Dopo avergli esposto il progetto, mi strinse forte la mano e mi lanciò uno sguardo che non dimenticherò mai. Mi voleva dire: “Non sbagliare!”». 

Poi toccò a Papa Francesco...

«Fu molto commovente la prima proiezione del film in Aula Nervi. Il Papa aveva deciso che dovessero assistere 7 mila poveri di Roma e non i soliti invitati scelti dal protocollo. L’applauso commosso di queste persone ha lasciato in tutti noi, che avevamo lavorato al tv-movie, un segno indelebile».

Non solo Papi, però...

«Il set più preoccupante fu quello del Capo dei Capi, su Totò Riina. Ebbene: nonostante fosse al 41 bis, il signor Riina sapeva che nella storia avevamo inserito un episodio relativo a sua moglie, Ninetta Bagarella, che lui riteneva non veritiero e ce lo mandò a dire! Confesso che fu un momento davvero difficile: ci allarmammo non poco».

Le storie che non è riuscito a rappresentare?

«Quella di Mohamed Yunus, il banchiere dei poveri: avevo letto il suo libro ed ero conquistato dalla sua visione rivoluzionaria. Avevo proposto il progetto a Oliver Stone, figlio di un banchiere, che declinò l’invito. Ne parlai con Gianni Amelio e il film doveva essere prodotto da Vittorio Cecchi Gori e, per definire i dettagli, fui invitato su un mega yacht attraccato davanti al porto di Cannes durante il festival del cinema. Me ne andai alla chetichella...».

Perché?

«Per parlare di povertà, mi trovavo nel lusso sfrenato di una festa scatenata, non era il posto giusto. Un’altra storia che non ho mai girato è quella della principessa di Monaco, Grace Kelly. Dopo un lungo lavoro diplomatico, riuscii ad avere un appuntamento con il principe Alberto: molto emozionato, entrai nella residenza dei Ranieri e finalmente iniziai a esporre il progetto, ma ben presto mi resi conto che il Principe probabilmente soffriva di narcolessia, durante l’incontro ogni tanto si addormentava, per poi risvegliarsi. Fu cortese, ma capii che non avrebbe mai appoggiato l’operazione. Stessa cosa successe con gli Agnelli».

Anche loro!

«Avevo scritto un bel copione dedicato alla vita dell’Avvocato, scomparso da poco. Chiesi di incontrare i familiari, John, Lapo Elkann ecc... ognuno mi indirizzava a un altro. Era meglio abbandonare l’idea, non avrei mai potuto raccontare questa storia nel modo gradito ai parenti. Un incontro importante, però, l’ho avuto con Francesco Cossiga, durante la stesura della miniserie su Aldo Moro: venne spesso nel mio ufficio per descrivermi i giorni del rapimento, uno dei grandi misteri italiani. L’ex presidente mi forniva solo il suo punto di vista, lasciando in ombra altri aspetti che credo non riusciremo mai a conoscere fino in fondo».

E pensare che voleva fare l’attore in palcoscenico... 

«I primi passi al Teatro Zero della mia città: era uno spazio militante negli anni caldi del movimento studentesco. Portavamo gli spettacoli nelle fabbriche occupate. Brecht era l’autore che rappresentavamo più spesso, per sollecitare domande scomode: in teatro si entra uniti e si esce divisi».

Un attore impegnato, dunque.

«Certo! Sono orgoglioso di essere figlio di un uomo, antifascista, deportato a Mauthausen».

La militanza teatrale si sposta poi a Roma.

«Il mio esordio nella Capitale avvenne una sera davanti a due sole spettatrici: Dacia Maraini e Sofia Scandurra. Apprezzarono la mia recitazione, tanto che mi proposero di interpretare un ruolo nel film Io sono mia: un set femminile e femminista, caotico, un’esperienza straordinaria a fianco di Stefania Sandrelli e Maria Schneider... però il teatro restava il mio unico amore».

E riparte dall’impegno politico con Terroristi di Mario Moretti.

«Il mio primo ruolo da protagonista: un’indimenticabile avventura, grandi elogi dalla critica, mi convincevo che era il mio mestiere, però a 28 anni ho deciso di voltare pagina: non più attore, né in teatro né al cinema».

Perché? 

«Ai miei amici dell’epoca, Michele Placido, Alessandro Haber, Fabrizio Bentivoglio, venivano proposti spettacoli o film importanti, a me solo piccoli ruoli. Avevo bisogno di lavorare e guadagnare e mi resi conto che come attore non avrei mai sfondato. Andai in crisi, ma non mi persi d’animo. Cominciai a leggere testi, copioni, libri... e li suggerivo agli amici primi attori».

Così nasce il produttore Valsecchi.

«Mi definisco un portatore sano di idee. Il primo grosso impegno produttivo fu con La condanna di Marco Bellocchio, con cui arrivammo all’Orso d’argento di Berlino».

Ma è l’incontro Camilla Nesbitt a cambiare le carte in tavola.

«La conoscevo perché anche lei faceva la produttrice, mi piaceva e avevo iniziato a corteggiarla, ma non mi filava. Finalmente in aereo, mentre andavamo al Premio Solinas, lei mi degna di uno sguardo e dice: Valsecchi siediti qui, vicino a me. Da quel posto non mi sono più alzato, siamo uniti da 27 anni».

Uniti nella vita e nel lavoro. 

«Insieme abbiamo capito che la tv era il futuro, non c’era più lo spazio per raccontare la realtà come aveva fatto il grande cinema civile dei Rosi, Petri, Bertolucci, Olmi... Era impensabile rifare quei film, che raccontavano un’Italia diversa. Noi volevamo rappresentare quella attuale e per farlo era necessario cambiare il mezzo: il piccolo schermo. Abbiamo unito le forze, creando la Taodue. In tutti questi anni abbiamo prodotto oltre mille ore televisive, tra tv-movie e fiction».

Un impegno costante, tanti i titoli famosi.

«E pure un allenamento quotidiano alla logica spietata dello share che ti fa crescere l’ansia: quel numerino, alle 10 di mattina, decreta implacabilmente se tutto il lavoro di mesi, a volte anni, è stato apprezzato. Uno stress terribile che mi ha causato fibrillazioni continue, fino a condurmi in ospedale e a dovermi operare: un’ablazione cardiaca. Per fortuna sto molto meglio». 

La fortuna al botteghino arriva con Checcho Zalone.

«Quando ho venduto la Taodue a Mediaset, mi davano per morto, finito. E invece ho tirato fuori dal cilindro un jolly: tutti mi sconsigliavano di fare un film con lui come protagonista e adesso, dopo quattro successi che hanno incassato in totale 200 milioni di euro, stiamo girando il suo nuovo lavoro dove firma anche la regia. È girato in Africa e si intitola Tolo Tolo, dall’espressione usata da un bimbo africano quando, nel film, incontra per la prima volta Zalone. Ma sto già pensando a una fiction su Ilaria Cucchi». 

Lo sbaglio madornale che ha compiuto sia in privato, sia nella professione?

«In privato, l’aver trascurato i miei figli, essendo troppo concentrato sul lavoro, credo di non essere un ottimo padre. Forse dipende dal fatto che i miei genitori sono morti troppo presto e non ho avuto figure con cui relazionarmi sotto questo profilo. Per fortuna ho due ragazzi, Virginia e Filippo, che si stanno costruendo la propria carriera in maniera autonoma: lei muove primi passi nella produzione, lui fa il cantautore. Nella professione? Non aver vinto un Oscar».

Un suo difetto insopportabile?

«Dire in faccia alle persone ciò che penso senza rendermi conto delle conseguenze. Un difetto che non ho è l’invidia, diffusissima in Italia: chi non sa fare semina zizzania».

A proposito di invidia, tra due anni finisce l’esclusiva con Mediaset: cosa farà?

«Tranquillizzo tutti: non so a chi dare i resti. L’unica cosa che mi manca, forse, è tornare alle origini. Mi piacerebbe produrre progetti teatrali, magari prendere in gestione un vecchio cinema nel cuore di Roma e trasformarlo in un luogo d’arte e intrattenimento: spettacoli, ma anche mostre, libri, incontri con personaggi importanti... Insomma, dentro la cultura e fuori i barbari.

Luca Bottura per “la Repubblica” il 9 dicembre 2019. Nell'era dell'indignazione che prescinde dal motivo della stessa, persino Checco Zalone è scivolato giù dal crinale. Colpa di una canzone - Immigrato , tra Cutugno e Celentano - con cui ha inteso lanciare il suo nuovo film, sulla falsariga delle sue precedenti avventure, cioè sfruttando il cosiddetto "Teorema albertosordi" sulla moltiplicazione del pubblico, che quivi vado a spiegare: prendi per il culo l'italiano medio ed egli ti sarà grato, essendosi riconosciuto e credendo di essere esaltato, ma riceverai anche il plauso dei progressisti che ricevono la satira sul popolino e ne godono, facendo tintinnare il Martini. Risultato: botteghini assaltati. Nel video, esilarante, il comico giochicchia con tutti i peggiori luoghi comuni sugli stranieri e ne trae una canzone che sembra scritta da Salvini. A 'sto giro, però, persino i sovranisti si sono accorti della satira su di loro, e non plaudono, mentre i famosi radical chic, forse storditi dall'essere al governo con quelli che stavano con la Lega, hanno alzato lai altissimi contro il presunto razzismo. Questo, almeno sui social. Al cinema, vedremo. Io sono già lì.

Dagospia l'11 dicembre 2019.: Se cercavate una prova sul razzismo becero e sessismo qualunquista della canzone “Immigrato”, siete accontentati – Invece di fare il solito paraculo, il pugliese Zalone poteva permettersi una capatina dalle sue parti dove è devastante il fenomeno del “caporalato” che vede gli immigrati sfruttati nei campi e sottopagati e costretti a vivere in pessime condizioni sanitarie (altro che lavavetri che si scopano le mogli degli italiani).

Heather Parisi critica Checco Zalone: "L'ironia è altro". Ma il web non ci sta. In un tweet lanciato nelle ultime ore, Heather Parisi ha destinato parole dure a Checco Zalone sul nuovo film in arrivo, Tolo Tolo, che uscirà nelle sale cinematografiche il prossimo 1° gennaio. Serena Granato, Sabato 14/12/2019, su Il Giornale. Checco Zalone è tornato al centro dell'attenzione mediatica, per via del suo imminente ritorno al cinema. Attore, comico, cabarettista e conduttore televisivo, Zalone sta facendo discutere sul suo conto, dopo la divulgazione in rete del trailer del suo atteso nuovo film, Tolo Tolo, la cui uscita al cinema è prevista per il 1° gennaio dell'anno alle porte. Nel video che anticipa l'uscita dell'attesa pellicola cinematografica, un extracomunitario viene presentato -con tono satirico- come "onnipresente". Un dettaglio quest'ultimo che, chiaramente, rispecchia la condizione che molti italiani sentono di vivere all'ordine del giorno. Nel trailer di Tolo Tolo, l'immigrato chiede spiccioli, pulisce i vetri e alla fine arriva persino a rubare la moglie a Zalone, intrufolandosi nel letto della coppia. All'uscita del promo del film in arrivo -il cui video è in poco tempo diventato virale nel web- è seguita la reazione di Heather Parisi, che ha destinato a Zalone un tweet al veleno. “L’immigrato di Checco Zalone è un concentrato di luoghi comuni - si legge nel messaggio che la Parisi ha scritto sul nuovo film di Zalone, alludendo in particolare al brano Immigrato presente nella nuova pellicola del comico-, che non ha nulla di ironico". "Perché l’ironia è altro -aggiunge, poi, Heather su quanto emerso nel trailer di Tolo tolo-, l’ironia consiste nel mostrare che è il suo contrario ad essere più credibile del luogo comune. #razzismo #immigrato #racism”.

I fan di Checco Zalone rispondono a Heather Parisi. Le ultime parole critiche, spese dall'ex showgirl di Fantastico, non sono state mandate giù da molti utenti. Sotto il tweet al veleno, lanciato da Heather Parisi circa l'attesa commedia - di cui Zalone è sia regista che attore protagonista- sono giunti, infatti, diversi messaggi di contestazione, da parte di chi proprio non condivide l'opinione espressa dalla ballerina."Non toccate #checcozalone, se non lo capite non lo guardate, punto", ha scritto un utente, alludendo, in generale, a chiunque abbia ad oggi criticato la comicità dell'artista nato a Bari e classe 1977. "Infatti, secondo me non è ironia, ma satira -si legge, poi, in un altro commento di contestazione rivolto alla Parisi-. Sì, Checco Zalone - anche se non sembra - è abbastanza intelligente per fare satira". Un altro utente scrive ad Heather, con tono ironico: "Checco Zalone razzista è la barzelletta di Natale". Infine, si legge ancora, contro la Parisi: "Stavolta, mi sa proprio che non hai capito, può non piacere per carità, ma di razzista non c'è niente... Se si conosce #CheccoZalone".

Da “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2019. Giorgia Meloni si schiera con Checco Zalone investito da molte critiche dopo la diffusione del trailer del suo film «Tolo Tolo», in uscita nelle prossime settimane. «Se diventa politicamente corretta anche la satira, sparisce. Quella di voler controllare la satira di Checco Zalone è una cosa che pretende solo la sinistra», ha affermato la presidente di Fratelli d' Italia intervenendo sulla vicenda nel corso della trasmissione di Retequattro «Fuori dal coro». Secondo la Meloni, invece, «la canzone "Immigrato" è divertente» In effetti, a indignare, soprattutto a sinistra, era stata proprio la canzone che accompagna il video di presentazione del film e che, sulle note de «L' italiano» di Toto Cutugno, racconta le disavventure di un connazionale alle prese con un immigrato che, prima gli chiede soldi in ogni circostanza, e poi gli seduce pure la moglie. Il video, insomma, affronta il delicato problema dell' immigrazione, probabilmente secondo quello che è il punto di vista di molti italiani e, magari, anche con l' intento di ironizzare su tanti luoghi comuni che accompagnano gli stranieri in Italia. Sta di fatto che l' associazione Baobab, tra le più attive a Roma nell' assistenza agli immigrati, ha attaccato il comico a testa bassa: Il video Immigrato di Checco Zalone, preso così, è a uso e consumo di populisti, perché servono gli strumenti per interpretarlo e ci vuole molta fatica per convincersi che il messaggio sia opposto e che sia l' uomo bianco quello preso in giro o stereotipato». La polemica poi si era trasferita in televisione con una furibonda lite a «Quarta Repubblica», il programma condotto da Nicola Porro, dove l' economista Giuliano Cazzola e lo scrittore Giulio Cavalli avevano attaccato il comico dicendo che «fare ironia su certi argomenti è pericoloso» e che «la satira si rivolge ai potenti, non ai poveracci»; mentre il giornalista Daniele Capezzone lo aveva difeso ribattendo: «Ma se faccio una battuta sulla Fornero devo essere accusato di femminicidio? Quelli di Baobab hanno rotto». Polemiche che si erano già avute in occasione dei precedenti film e avevano portato assai bene a Zalone. Alla fine, a giudicare saranno gli italiani nelle sale cinematografiche.

Checco Zalone, il trailer del nuovo film indigna la Onlus dei rifugiati: "Istigazione al razzismo". Tolo Tolo uscirà nelle sale il primo gennaio. Nel video che lo anticipa, un extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente. Per il costituzionalista Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, oggi presidente del Cir, il Consiglio italiano rifugiati, non si tratta di una provocazione. "Satira? Quella si fa contro i potenti non nei confronti dei deboli". Goffredo De Marchis il 12 dicembre 2019 su la Repubblica. Ben più pesante delle polemiche social (immancabili), dei dubbi di alcuni, della difesa di Enrico Vanzina, arriva il giudizio del Consiglio italiano dei rifugiati. "Il trailer di Checco Zalone per il nuovo film? Quella non è una provocazione. E' una giustificazione del razzismo, direi quasi un'istigazione al razzismo". Sono parole di Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, costituzionalista, più volte parlamentare del Pd, oggi presidente del Cir Consiglio italiano dei rifugiati), nel cui board, come direttore, siede anche il prefetto Mario Morcone, già capo di gabinetto di Marco Minniti al Viminale, uno dei massimi esperti italiani d'immigrazione. Fare il nome di Checco Zalone è un modo sicuro per avere un po' di pubblicità. Basta parlarne, nel bene o nel male. Il suo ultimo film "Quo Vado?" è uscito tre anni fa, il primo gennaio del 2016. Sono andati fisicamente a vederlo nei cinema 9,5 milioni di persone per un incasso record di 66 milioni. Zalone, con il suo talento e la sua comicità politicamente scorretta, è l'unica gallina d'oro del cinema italiano e di quello che gli ruota intorno: sale, distribuzione, maestranze. Il resto è un disastro, tanto che nel 2018 sono stati staccati più biglietti per il teatro che per il grande schermo. Ma quando un film di Zalone esce traina anche le altre produzioni italiane e tutti sono più felici. "Il grande successo mi sembra un'aggravante, purtroppo", commenta Zaccaria. Il presidente del Cir ha visto sui siti e in tv il trailer del nuovo film di Zalone, "Tolo Tolo", che esce il primo gennaio. Della trama si sa ben poco. Si parla certamente di immigrazione, è stato girato anche in Africa, c'è una particina persino per il politicamente correttissimo Nichi Vendola, bersaglio di una straordinaria imitazione di Zalone. Ma da qualche giorno, sul web e in tv, gira il promo del film: una canzone in stile Celentano che si intitola "Immigrato". E' già supercliccata. Spicca nella homepage di Youtube. L'extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente nelle nostre vite: chiede spiccioli, pulisce i vetri e non ci lascia mai in pace. Alla fine ruba la moglie a Zalone infilandosi nel loro letto. Zaccaria ne deve aver parlato in giro, indignato, anche con gente dello spettacolo visto che la sua compagna è Monica Guerritore. L'ex presidente della Rai è rimasto colpito in particolare dalla scenetta finale, con lo straniero coricato insieme alla consorte del comico. "Continuano a ripetermi: ma guarda che è satira, è un ribaltamento dei luoghi comuni. Io non credo proprio". Per il capo del Cir "la satira è un'altra cosa, si rivolge contro i potenti e il potere in generale, non contro i soggetti più deboli". E aspettare di guardare il film prima di giudicare, presidente? "Certo, andrò al cinema. Vediamo se la morale è diversa dal trailer. Ma sa una cosa? Sono convinto che rideranno molto di più coloro che pensano che l'immigrazione sia un grave problema, che condannano l'invasione rispetto a chi sostiene una forma regolare di accoglienza". Solo la visione della pellicola o un intervento dello stesso Zalone può smentire l'impressione del presidente del Consiglio rifugiati. Una onlus che lavora da anni con gli Sprar soprattutto a Catania, in Puglia, a Roma, in Veneto e a Badolato, lo storico punto di accoglienza dei curdi. Ha sportelli per l'assistenza legale in tutta Italia. Un ufficio a Tripoli dal 2008 e uno in Tunisia, le basi di partenza dell'immigrazione verso l'Italia. "Ho letto su Huffington post una ricostruzione di Giuliano Cazzola - dice Zaccaria - che ricordava come nei cabaret della Germania di Weimar si suonavano canzoncine ironiche sugli ebrei. Poi sappiamo come è finita. Ecco, il momento storico non mi sembra il più adatto per fare comicità su rifugiati e stranieri".

Quel razzista di Checco Zalone. Nella follia del giorno d'oggi anche "Immigrato" la canzone del nuovo film del comico viene tacciata di razzismo. Redazione di Panorama il 10 dicembre 2019. Checco Zalone è un razzista. "Immigrato", la canzone con cui sta lanciando il suo attesissimo film è razzista, attacca ed offende gli extracomunitari. Andiamo con ordine. La prima cosa da fare è guardarsi il video ed ascoltarsi la canzone. Adesso che l'avete visto e smesso di sorridere bisogna fare un esercizio mentale molto faticoso e cercare di capire come mai ci siano non poche persone, decine, centinaia se non migliaia, tra cui noti e note intellettuali e persone anche vicine alla politica secondo cui questa sia una cosa razzista. E Checco Zalone un sovranista. I migliori addirittura ne hanno letto un inno al Salvinismo. Ma non è mancato chi ha detto che questa canzone sia sessista, contro le donne...Povero noi, povera Italia. Ormai è evidente che la guerra a Salvini ha prodotto risultati forse irreparabili; il nemico è dappertutto: in una frase, in una proposta di legge, in un post sulla Nutella, in un rosario, ora persino in una canzone di un comico.  Se lo ricordi chi parla di clima d'odio. 

Da ilmessaggero.it l'11 dicembre 2019. Grandi polemiche sul film di Checco Zalone, Tolo tolo, ancora prima della sua uscita: nell'occhio del ciclone la canzone che anticipa il film, "Immigrato". Ecco cosa è successo a Quarta Repubblica. Dopo aver mandato in onda il video della nuova canzone, colonna sonora del film in uscita, si è scatenato il dibattito in studio. Giuliano Cazzola, economista: «Su certi argomenti fare dell'ironia può essere pericoloso. In questa clip, la critica vera è l'offesa nei confronti degli stranieri in Italia: 5 milioni, di cui 3,8 extracomunitari. Molti mandano avanti settori importanti del paese. Il film non l'ho visto e forse neanche lo vedrò. Però rappresentare il problema degli immigrati con una caricatura è sbagliato». Dopo l'intervento dell'economista, tocca al giornalista Daniele Capezzone difendere la comicità di Zalone: «Ma se faccio una battuta sulla Fornero devo essere accusato di femminicidio? A quelli di Baobab dico... c'avete rotto i coglioni, lasciateci sorridere». Parla infine a Giulio Cavalli, giornalista e scrittore, dire la sua: «La satira storicamente attacca i potenti. Dal 1500 avviene questo. Attaccare i difesi, i poveracci, gli immigrati ma anche agli omosessuali. Può piacere o non piacere, si può rivendicare il diritto di non apprezzare Checco Zalone. L'operazione di marketing ha funzionato... Non so quanto faccia ridere il mafioso con la coppola e la lupara. La questione è che chi ha il potere di fare la satira dovrebbe usarla per attaccare i prepotenti e i pregiudizi».

Antonello Piroso per “la Verità” il 10 dicembre 2019. Sono solo canzonette. Ma anche no. Da venerdì 6 dicembre Immigrato, cioè il video-colonna sonora dell'ultimo film di Checco Zalone, Tolo Tolo, ha totalizzato oltre due milioni e mezzo di visualizzazioni su Youtube. Merito anche delle polemiche intorno al significato "metapolitico" da appioppare al testo, su cui si è già intrattenuto su queste colonne Francesco Borgonovo sabato scorso. Tutto grasso che cola, in vista dell'arrivo in sala il prossimo primo gennaio, per l'attore-regista pugliese e quell'altra faina incanutita che è il suo produttore Pietro Valsecchi. Come se ciò non bastasse, a fare ulteriore pubblicità all'ultimo manufatto zaloniano è anche il confronto a distanza tra Alessandra Mammì, firma dell'Espresso, e Camilla Nesbitt, moglie di Valsecchi.

Motivo della singolar tenzone? Il ruolo della donna nella canzone di cui sopra. Ussignur, mi verrebbe da dire: siamo ancora qui a disquisire dell'uso dell'immagine femminile, Il corpo della ragassa volendo citare il titolo di un romanzo di Gianni Brera del 1969, da cui 10 anni dopo il regista Pasquale Festa Campanile ricavò l'omonimo film con una ultrasexy Lilli Carati? Quasi all'alba del terzo decennio del terzo millennio, in cui le donne rivendicano pubblicamente la libertà della propria fisicità, financo sessuale, perfino come pornostar?

A dar fuoco alle polveri è stata Mammì, scrivendo a Dagospia per annunciare che non andrà a vedere il film nonostante l'entusiasmo del marito Marco Giusti (critico cinematografico che sempre per il sito aveva sfornato una recensione tutt'altro che negativa: "Zalone è l'unico in grado di affrontare la confusione ideologica degli italiani"): "Quel che mi ha più irritato non è il legittimo sospetto di vedere uno spot razzista (nientemeno, nda) ma la certezza di essere di fronte a un messaggio sessista". Cioè? "Ma l'avete vista la moglie -bianca traditrice- che occhieggia alla virile prestanza del nero? Fa ridere, dice il marito (mio). Questa non è satira, ma brutale maschilismo". Eh, la peppa. Su due piedi, a me sarebbe venuto da replicare: "Signora, ma lei ha mai sentito Zalone quando intona Uomini sessuali sui gay? Oppure La Taranta del Centrodestra, maramaldeggiando con le rime baciate dedicate a Mara Carfagna a Mariastella Gelmini? A voler essere un gendarme del politicamente corretto, anche lì sì ci sarebbero stati gli estremi dell'omofobia e del sessismo, ma non ricordo alcuno a sinistra inalberarsi per quel perculamento molto più che abrasivo".

Nesbitt è invece intervenuta sul serio, con un incipit che non lascia spazio a dubbi: "Ho letto con stupore e raccapriccio la lettera di Mammì...". Raccapriccio perchè -scrive lady Valsecchi- avremmo voluto leggere cotanto risentimento quando il di lei marito Giusti ha pubblicato il Dizionario stracult della commedia sexy, ovvero un viaggio di 528 pagine sui film "a luci rosse" degli anni 70 (nel presentare la sua fatica, Giusti peraltro ha messo in mezzo un altro esponente della sinistra massmediologica: "Ricordo perfettamente il lancio che Carlo Freccero, allora responsabile dei film di Canale 5, fece di quelle pellicole con Edwige Fenech e Gloria Guida"). Stupore perchè "dov'era Mammì quando il suo giornale, l'Espresso, ha riempito per anni la copertine di donne scollacciate? L'Espresso sì, Zalone no. La solita doppia morale della sinistra". Diamo per scontato che la controindignazione di Nesbitt sia sincera e non faccia parte di un'abile strategia di marketing, cui l'intemerata di Mammì ha offerto un'occasione d'oro per battere il ferro promozionale. Sia come sia, sulle cover dell'Espresso a Nesbitt piace vincere facile.

Chi scrive ha iniziato a far (male) questo mestiere scrivendo per Panorama diretto da Claudio Rinaldi, chiamato affettuosamente dalla truppa "la mente criminale". Che sapeva benissimo che se voleva recuperare un po' di copie vendute rispetto a un numero "moscio", doveva schiaffare in copertina una bonazza per recuperare un buon 15% di vendite, e stiamo parlando di 75 mila copie su 500 mila vendute, non esattamente bruscolini. Difficile dire chi avesse cominciato: Panorama per adeguarsi all'Espresso (cui si accodavano volentieri -ma con tirature più basse- Epoca e Europeo)? O viceversa? Di certo, c'è che lasciando il primo per passare al secondo, Rinaldi non mutò approccio. E se l'Espresso di Livio Zanetti (direttore dal 1970 al 1984) nel 1975 aveva provocato con una copertina-scandalo sull'aborto, una vera donna incinta fintamente crocifissa, da lì in poi ogni pretesto fu buono per impaginare, con titoli grondanti sapienti doppisensi, donne giovani e micro (o affatto) vestite.

Non si rimane delusi: si va da "Vita da single" a "Un tuffo nella crisi", da "Anni d'oro" a "In vacanza con lo spread", da "Voglio una vita leggera" (e quindi senza vestiti) a "Vincere le allergie", da "Rinascere nel 1995" (con Claudia Koll desnuda) a "Malati di test" (con un paio di chiappe in primo piano, certo: con gli elettrodi), da "Nudo anch'io" (in cui il protagonista era Vittorio Sgarbi bello "biotto", in risposta alla copertina di Panorama che riproponeva un manifesto pubblicitario di Luciano Benetton nudo);

da "Povera Rai, poveri noi" (con signorina piegata in doggy style) a "Diario del Viagra" (dove uno s'immaginerebbe di trovare un uomo, come dire?, felice di essere vivo, e invece no: c'è una donna nuda a cavallo della pillolina blu), da "A tutta coca" (dove c'è sì una narice imbiancata, ma la prima cosa che si nota sono le labbra turgide e dischiuse) all'autoreferenziale e autopromozionale "Nudi in copertina: si può? Non si può?";

fino a, e qui siamo davvero al capolavoro, "Tutti da Ciampi sabato sera" (sottotitolo: "Da Castelporziano a Capalbio-Indagine sulle spiagge dei potenti", e quindi con quale scatto corredare l'inchiesta? Ma è ovvio: una ragazza che con una mano si copre il seno, e con l'altra ammicca all'abbassamento delle mutandine con il pollice a tirare l'elastico...). Serve aggiungere altro?

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 10 dicembre 2019. È chiarissimo che la geniale canzone di Checco Zalone non fa satira sugli immigrati. Fa satira su di noi. L' immigrato all' inizio pare una seccatura e alla fine si rivela una fregatura. Esattamente le paure inconsce - ma anche esplicite - degli italiani. Con tanto di presa in giro degli slogan leghisti - «prima l' italiano!» - e finale a petto in fuori sul balcone. (E con il rovesciamento dello schema di Cetto La Qualunque: non è più il marito a portare l' amante straniera a letto con la moglie, ma la moglie a portare l' immigrato a letto con il marito). Da qui la domanda: ma quelli che hanno dato del razzista a Checco sono gli stessi che non riescono a capire quello che leggono, o in questo caso vedono? Forse la vera risposta è un' altra. Sui social tutti parlano, molti insultano, calunniano, minacciano, e quasi nessuno ascolta. Per farsi sentire si avverte la necessità di alzare la voce. A costo di dire palesi sciocchezze. Forse dovremmo tutti prendere i social, e pure noi stessi, meno sul serio. Rinunciare a considerarli specchio della realtà, e ridurli a quello che sono: specchio del narcisismo di massa.

Cazzullo e Zalone. Augusto Bassi il 10 dicembre 2019. su Il Giornale. Per quanto io possa lavorare di cirage nello sforzo di tirare a lucido la mia retorica, nulla è più eloquente degli atti mancati così caratteristici della psicopatologia mainstream. Ieri Aldo Cazzullo ce ne ha offerto un buffissimo esempio. Commentando il trailer dell’ultimo film di Checco Zalone, scrive Cazzullo: «E’ chiarissimo che la geniale canzone di Checco Zalone non fa satira sugli immigrati. Fa satira su di noi. L’immigrato all’inizio pare una seccatura e alla fine si rivela una fregatura. Esattamente le paure inconsce – ma anche esplicite – degli italiani. Con tanto di presa in giro degli slogan leghisti – “«prima l’italiano!» – e finale a petto in fuori sul balcone. (E con il rovesciamento dello schema di Cetto La Qualunque: non è più il marito a portare l’amante straniera a letto con la moglie, ma la moglie a portare l’immigrato a letto con il marito). Da qui la domanda: ma quelli che hanno dato del razzista a Checco sono gli stessi che non riescono a capire quello che leggono, o in questo caso vedono? Forse la vera risposta è un’altra. Sui social tutti parlano, molti insultano, calunniano, minacciano, e quasi nessuno ascolta. Per farsi sentire si avverte la necessità di alzare la voce. A costo di dire palesi sciocchezze. Forse dovremmo tutti prendere i social, e pure noi stessi, meno sul serio. Rinunciare a considerarli specchio della realtà, e ridurli a quello che sono: specchio del narcisismo di massa». Sublime esempio di dum excusare credis, accusas. Mentre Cazzullo pensa di uscirne come quello progredito che non discrimina, in realtà rende evidente il proprio doppio metro da lacchè del padrone: se la satira sfotte l’immigrato è da censurare, se invece sfotte noi italiani va benissimo. Quindi mettiamo le mani avanti, chiariamoci: Zalone sfotte noi patetici coglioni, razzisti e fascisti! Noi patetici coglioni ancora convinti che gli immigrati siano una seccatura e alla fine possano rivelarsi una fregatura. Pensa che coglioni siamo! E chi legge diversamente il messaggio di Zalone… poverino, non capisce. Eccola la pruderie perbenino, rivelatrice del narcisismo servo degli influencer di dominio. Dove si specchiano le paure inconsce di chi non vuol contraddire il pensiero certificato – quello dietro cui soffia il capitale degli editori – perché sa di poter essere invitato a cena solo come suo cameriere. Le paure inconsce di chi arriverebbe a farsi coprire la moglie da un nordafricano pur di non perdere la livrea da valletto dell’ideologia regnante.

Fulvio Abbate per Dagospia il 9 dicembre 2019. Checco Zalone mi deve una cena, o forse basterà un cordiale. Intanto per la solidarietà che gli sto manifestando a proposito delle critiche davvero esagerate appena ricevute fin dal promo musicale del suo nuovo film, “Tolo Tolo”. Secondo alcuni, infatti, il video musicale dove si fa il verso a Celentano nostro sarebbe implicitamente, se non direttamente, “razzista”. A me non sembra così per nulla, e nel dire questo rimando tutti all’interrogativo capitale che, in giorni di semplificazione subculturale, quasi quotidianamente pongo ininterrottamente a me stesso. Eccolo, l’interrogativo: devo forse pensare che Roland Barthes sia giunto, un tempo, su questa terra del tutto inutilmente? Barthes, per chi non lo dovesse conoscere, è stato uno studioso di scienze umane che, fra molto altro, ha provato a spiegare l’ambivalenza del linguaggio: un semiologo. Proviamo con gli esempi: esiste, proprio per esempio, una figura retorica, detta “antifrasi”, che funziona così: ti do, metti, del “cornuto”, o dell’ “arruso”, o del “negro” per intendere altro dal significato apparente, anzi, per indicare il suo opposto, meglio, ribalto l’accezione negativa attraverso sarcasmo e ironia, depotenziando il negativo sia del significante sia del significato sia del referente. E’ troppo difficile da comprendere? Senza bisogno di arrivare allo strutturalismo e alla linguistica di Saussure, assodato che perfino la semplice parola “cane” morde, come spiegano, appunto, i linguisti alla loro prima lezione, in questo video di Zalone c’è ribaltamento attraverso la candeggina dell’ironia, ribaltamento di un sentimento di astio verso gli immigrati, e ciò avviene segnatamente con un’antifrasi. Va’ però un po’ a spiegarlo a chi mostri uno standard mentale oscillante tra Veltroni e Salvini. Zalone ha fatto un’operazione, come dire, perdonate se parlo da laureato in filosofia, da “radical chic”, perdonate anche se penso che questa cosa qui non la capirebbero neppure, temo, ripeto, né Salvini né Veltroni, Zalone ha fatto un’operazione manieristica, sì è messo nei panni del razzista medio, modello-base, ne ha riprodotto le ossessioni, le pulsioni ordinarie, ossia: il “negro” arriva qui da noi per un ennesimo ratto delle Sabine, forse anche delle Sabrine, per citare una Venere nostra del cinema. E adesso spiego perché Checco Zalone mi devi un vermut, chiamandomi in causa direttamente come scrittore: tra i miei libri ce n’è uno sui sentimenti - “LOve. Discorso generale sull’amore” (La nave di Teseo) - nel quale vive un capitolo che, temo, potrebbe non essere sfuggito agli sceneggiatori di Zalone. Dimenticavo: tratto da una storia vera. Lui, il “negro” impostore, si chiama Edison. Anzi, sai che ti dico? Ti incollo qui il racconto così com’è, ok? Leggi e poi capirai perché sto con Zalone. “Il pensiero più gretto che il razzista nostrano medio possa donare a se stesso, ogniqualvolta la televisione mostra le immagini dei migranti africani illuminati in viso e sulle braccia dall’arancione dei giubbotti salvagente, evoca l’immagine del ratto, nel senso del predatore. “Questi qui, i negri, vengono da noi per rubarci il lavoro, ma anche per scopare le nostre donne, le nostre femmine; infami, merde!” Segue un moto di sofferenza interiore al pensiero che tali soggetti possano avere perfino seguito nei sogni femminili del primo continente, se non altro per le risapute ampie dimensioni dei loro peni. D’altronde, come ha fatto visivamente notare una carta sinottica delle grandezze genitali maschili, l’Africa nera e i Caraibi brillano in cima al palmarès fallico. L’immagine successiva dell’invasione e della minaccia assodata mostra un ragazzo sempre di colore, il viso presidiato dai dread, ormai integrato nella vita serale cittadina, ora in veste di bartender ora di buttadentro. E qui il pensiero sostanzialmente non muta, il razzista medio concede soltanto che si tratti ormai di una gara tra maschi: “Vuoi vedere che questo negro stasera si porterà a casa quella che piace a me, scommettiamo, eh?” (…) In un angolo, su di una pedana, con la musica del duo Azucar Moreno, Devorame otra vez, pura salsa sensual, un ragazzone nero balla con una bottiglia in pugno, balla ammirandosi, perfino con talento, balla e sembra dire sempre a se stesso: “Cono, ce l’ho fatta!” Proprio lui, Edison, è l’attrazione del locale, sempre di lui si favoleggia ogni bene, ogni meraviglia.   Ma adesso occorre un passo indietro, fino a inquadrare Gaspare e Marina a spasso per L’Avana, Cuba. E’ lì che i nostri amici hanno incontrato Edison, è lì che lui è entrato per la prima volta nel loro campo visivo: un ragazzo con una maglietta del Benfica. (…) Per l’intera durata del soggiorno Gaspare, Marina e Edison sono rimasti inseparabili: lui li ha accompagnati ovunque, compreso al Museo de la Revolucion, dove vivono tarlate le memorie dell’avventura castrista che Gaspare ha guardato con emozione mentre Edison si informava con Marina circa la posizione dei capocannonieri del campionato italiano principale e perfino cadetto; Edison gli ha poi parlato della santeria, portandoli infine a cercare cio che Gaspare assolutamente desiderava dal tempo in cui militava in Avanguardia Operaia, cioè un ritratto del terzo cardine della trinità rivoluzionaria, Camilo Cienfuegos, dove gli altri due sono Fidel e Ernesto Che Guevara. Dovevate vedere che gioia negli occhi di Gaspare quando Edison, uscendo da un antro, si e presentato con il volto di Camilo impresso a fuoco su una tavoletta di legno! Infine, in serata, tutti a ballare, o magari ad ascoltare Edison e il suo pezzo forte, Piel Canela, un classico melodico d’America Latina: “Que se quede el infinito sin estrellas, / O que pierda el ancho mar su inmensidad / Pero el negro de tus ojos que no muera...” (“Lascia che l’infinito rimanga senza stelle / e il vasto mare perda la sua immensita / Ma il nero dei tuoi occhi non morirà.) Cosi fino a quando Edison, una sera, ha fatto deflagrare una bomba di lacrime, confessando a chiare lettere di non resistere più a vivere a Cuba. Il distacco tra Gaspare, Marina e Edison, alla fine, e stato molto duro, al punto che poco prima di partire per fare ritorno a casa, Gaspare ha promesso a se stesso che avrebbe fatto di tutto per far venire Edison in Italia. Ci sono volute giornate e giornate a sollecitare i funzionari dell’ambasciata di Cuba all’Aventino, ma alla fine ce l’hanno fatta. Così un bel giorno Edison è planato a Roma a spese degli amici italiani, chitarra in spalla, e già lì all’aeroporto ha preso a suonare la canzone della loro amicizia, Que se quede el infinito sin estrellas...Di lì a poco il lavoro a El Tendero. Inutile dire che Edison piace molto agli avventori del locale, lo ammirano perché effettivamente è un bel ragazzo, i tratti regolari, le gambe lunghe, un sorriso da conquistatore invidiabile. Edison, lo si è detto, piace anche a Gaspare e Marina, gli hanno approntato una piccola camera nella loro casa nel quartiere di San Giovanni, inizialmente destinata, almeno nel tempo analogico, a camera oscura per lo sviluppo e la stampa delle foto; così finalmente Edison è contento, e non c’è piacere maggiore per chi gli vuol bene. Certo, il clima di piazza Re di Roma non è lo stesso de la Isla de la Juventud, però, pazienza. A breve tuttavia dovrà pazientare anche Gaspare. Già, pazienterà a casa dei suoi, perché nel frattempo Edison e Marina hanno scoperto anche loro di stare bene insieme, molto bene, ancora meglio senza la presenza di Gaspare. Così un pomeriggio hanno detto all’uomo di troppo, anzi, all’intestatario del contratto di locazione: “Siediti un attimino, io e Edison ti dobbiamo parlare.” Il ritratto di Camilo Cienfuegos di lì a poco è finito contro uno spigolo, spaccato in due, Cienf e Uegos. E tornato a vivere a casa dei genitori, ritrovando la sua camera da studente dell’istituto professionale, i vecchi amici delle palazzine li intorno anche questi sono tornati a farsi vivi con lui, a dargli pacche di incoraggiamento. Anche Aroldo, un suo vecchio amico d’infanzia, tecnico di lavatrici convertitosi ai computer, che abita ancora lì nel quartiere. Gaspare lo ascolta in silenzio, a capo chino, senza neppure ribattere un “eh eh”.” Non credo sia doveroso aggiungere altro. Zalone e i suoi produttori, Camilla Snebitt e Pietro Valsecchi, mi devono davvero un cordiale, spero sia chiaro a tutti.   

Goffredo De Marchis per repubblica.it il 13 dicembre 2019. Ben più pesante delle polemiche social (immancabili), dei dubbi di alcuni, della difesa di Enrico Vanzina, arriva il giudizio del Consiglio italiano dei rifugiati. "Il trailer di Checco Zalone per il nuovo film? Quella non è una provocazione. E' una giustificazione del razzismo, direi quasi un'istigazione al razzismo". Sono parole di Roberto Zaccaria, ex numero uno della Rai, costituzionalista, più volte parlamentare del Pd, oggi presidente del Cir Consiglio italiano dei rifugiati), nel cui board, come direttore, siede anche il prefetto Mario Morcone, già capo di gabinetto di Marco Minniti al Viminale, uno dei massimi esperti italiani d'immigrazione. Fare il nome di Checco Zalone è un modo sicuro per avere un po' di pubblicità. Basta parlarne, nel bene o nel male. Il suo ultimo film "Quo Vado?" è uscito tre anni fa, il primo gennaio del 2016. Sono andati fisicamente a vederlo nei cinema 9,5 milioni di persone per un incasso record di 66 milioni. Zalone, con il suo talento e la sua comicità politicamente scorretta, è l'unica gallina d'oro del cinema italiano e di quello che gli ruota intorno: sale, distribuzione, maestranze. Il resto è un disastro, tanto che nel 2018 sono stati staccati più biglietti per il teatro che per il grande schermo. Ma quando un film di Zalone esce traina anche le altre produzioni italiane e tutti sono più felici. "Il grande successo mi sembra un'aggravante, purtroppo", commenta Zaccaria. Il presidente del Cir ha visto sui siti e in tv il trailer del nuovo film di Zalone, "Tolo Tolo", che esce il primo gennaio. Della trama si sa ben poco. Si parla certamente di immigrazione, è stato girato anche in Africa, c'è una particina persino per il politicamente correttissimo Nichi Vendola, bersaglio di una straordinaria imitazione di Zalone. Ma da qualche giorno, sul web e in tv, gira il promo del film: una canzone in stile Celentano che si intitola "Immigrato". E' già supercliccata. Spicca nella homepage di Youtube. L'extracomunitario viene dipinto con ironia come onnipresente nelle nostre vite: chiede spiccioli, pulisce i vetri e non ci lascia mai in pace. Alla fine ruba la moglie a Zalone infilandosi nel loro letto. Zaccaria ne deve aver parlato in giro, indignato, anche con gente dello spettacolo visto che la sua compagna è Monica Guerritore. L'ex presidente della Rai è rimasto colpito in particolare dalla scenetta finale, con lo straniero coricato insieme alla consorte del comico. "Continuano a ripetermi: ma guarda che è satira, è un ribaltamento dei luoghi comuni. Io non credo proprio". Per il capo del Cir "la satira è un'altra cosa, si rivolge contro i potenti e il potere in generale, non contro i soggetti più deboli". E aspettare di guardare il film prima di giudicare, presidente? "Certo, andrò al cinema. Vediamo se la morale è diversa dal trailer. Ma sa una cosa? Sono convinto che rideranno molto di più coloro che pensano che l'immigrazione sia un grave problema, che condannano l'invasione rispetto a chi sostiene una forma regolare di accoglienza". Solo la visione della pellicola o un intervento dello stesso Zalone può smentire l'impressione del presidente del Consiglio rifugiati. Una onlus che lavora da anni con gli Sprar soprattutto a Catania, in Puglia, a Roma, in Veneto e a Badolato, lo storico punto di accoglienza dei curdi. Ha sportelli per l'assistenza legale in tutta Italia. Un ufficio a Tripoli dal 2008 e uno in Tunisia, le basi di partenza dell'immigrazione verso l'Italia. "Ho letto su Huffington post una ricostruzione di Giuliano Cazzola - dice Zaccaria - che ricordava come nei cabaret della Germania di Weimar si suonavano canzoncine ironiche sugli ebrei. Poi sappiamo come è finita. Ecco, il momento storico non mi sembra il più adatto per fare comicità su rifugiati e stranieri".

Giancarlo Dotto per Dagospia il 14 dicembre 2019. Anche un asino parlo perché volle Dio, disse il saggio. Ma quanti ce ne sono di questi maledetti asini in circolazione? Nel giorno in cui il ridicolo del politicamente abietto sfonda il muro del suono con le accuse di “razzismo” allo spot di Zalone, per me solo banalmente spassoso (vedendolo e sganasciandomi su mi chiedevo, ci sarà mica qualche asino che lo troverà razzista? E mi rispondevo: no, non può esserci tanto asino al mondo), diventa giusto tornare sul famigerato “Black Friday”, il titolo più vituperato del decennio, diventato nel frattempo sufficientemente inattuale per considerarlo finalmente attuale. E prima che i soliti cervelli bovini si mettano al lavoro, ruminando l’inevitabile schizzetto di veleno, anticipo: mi sarà allo stesso modo facile dargli addosso al Zazza, nel caso contrario di dissenso. Nulla di personale, dunque. Il titolo, in questo caso, lo faccio io: “Dove sta lo scandalo ZaZa, madonna mia?”. Triplice Za. Dallo spot di Zalone al titolo di Zazzaroni all’esecrazione di Zaccaria, mi sa che il problema è proprio questo: i ridicoli non hanno il senso del ridicolo. Un problema serio. Le trombe della demagogia sono sempre lì, pronte a stonare. Voglio dire, qualunque nome porti, qualunque carica, storia o decorazione abbia alle spalle, tu devi seriamente diffidare di te stesso nel momento in cui scambi un comico che “gioca” sulle fantasie, peraltro succubi, del latticino medio, inteso come uomo bianco, a proposito dell’immigrato incombente (immaginarlo peraltro nel letto con la moglie sarebbe, secondo un sondaggio impossibile ma vero, la fantasia prevalente dell’italiano medio, imbolsito e devitalizzato da anni di ménage coniugale), per “istigazione al razzismo”. Se poi a dirlo sono anche quelli che si occupano istituzionalmente di rifugiati, vuol dire solo una cosa, che stai portando l’acqua al tuo mulino, in questo caso nero ma verniciato di bianco. Trovando razzismo dove razzismo non c’è, nemmeno l’ombra, non fai altro che lucidare la tua targhetta di ottone. Tornando al “Black Friday”. Passata una settimana, passata la tempesta di fango, paragonabile alle scariche compulsive di guano che di questi tempi bersagliano le teste dei romani, crivellati tra cielo e terra da uccelli e buche, è arrivato il momento di dire. La miseria dei tempi è la non sussistenza delle cose. Ti uccidono per equivoco con una raffica a vanvera e il giorno dopo più nulla. Come nulla fosse accaduto. Carnefici e vittime spazzati via dalla scarica successiva. I social sono, in questo senso, nichilismo puro. Oggi sì, a mente fredda e ombrelli aperti, le teste protette dal guano della rete, possiamo dirlo: le accuse di razzismo a quel titolo sono state una gigantesca cazzata planetaria. Un caso unico di contagiosa idiozia, con l’apice inarrivabile dell’interdizione ai giornalisti del “Corriere”. Ma di questo nemmeno parlo, in certi casi anche le parole si rifiutano di parlare. Partita, come sempre, in epoca virale, con due o tre lasciti dei soliti petomani del politicamente abietto, sempre in assetto di giudizio universale, è diventata in poche ore un boato, una stroncatura per sentito blaterare, una scia grottesca, un abominevole blob, toccando pure la complicità di quei poveracci innocenti di Smalling e Lukaku, oggetti piuttosto, con quel titolo, di un omaggio assoluto. Cosa spaventa di questa stupidità che per un paio di giorni ha infuriato sul “Black Friday” e ora sul “Black Zalone”? Due cose: la totale assenza di un pensiero e l’ottusità gregaria, l’orda di crani vuoti che si allinea nella catena del passaparola. Le due cose insieme hanno combinato la tempesta perfetta. Terza cosa, la smania di superarsi l’un l’altro nella corsa delle anime belle. E qui, Roma e Milan hanno stravinto. L’ultimo appunto lo devo fare al direttore Zazzaroni. Ha sbagliato di grosso a chiedere scusa ai due soggetti in questione. Un piccolo cedimento alla furia alias bolla di massa. Non c’era nulla di cui scusarsi. Togli Chris Smalling e Romelu Lukaku, metti Tommie Smith e John Carlos. Metti caso che il giorno in cui i due hanno alzato il pugno guantato di nero sul podio, Città del Messico 1968, fosse stato un venerdì invece che un mercoledì, sarebbe stato perfetto titolare “Black Friday” e nessuno avrebbe fiatato. Lukaku e Smalling non erano gli eroi di una protesta che avrebbe fatto scandalo, ma i due probabili protagonisti di una partita che avrebbe incendiato San Siro. Due neri, due ex compagni, due suggestioni potenti anche nella chiave fisica oltre che cromatica dello scontro. Evidenziare non vuol dire discriminare, direbbe la maestra al ciuco di turno. Sottolineare la differenza non è razzistico di per sé, lo diventa se è motivo di discriminazione. Il razzismo peggiore è negare la differenza. Quello vero striscia e si nasconde in ognuno di noi, nelle tante forme subliminali di discriminazione, invisibili nelle piccole cose. Parlando di gialli e di neri nel calcio. Il coreano Son del Tottenham è il calciatore più sottovalutato del pianeta. Se Diawara fosse biondo e aitante, la sua partita a San Siro, gigantesca, sarebbe stata giudicata con un nove, non avremmo letto stitiche sufficienze. La “differenza” è ovunque, grazie al cielo, attorno a noi, che ci attrae, ci cattura, ci stordisce. Che ci ammutolisce o ci fa eloquenti. La differenza titola tutte le nostre giornate. Ci libera dalla noia e dall’apatia. Ci mette in movimento. Che tu sia uomo o donna, nero, bianco, giallo o rosso, differenza non è sofferenza. Il colore stesso della pelle è differenza, una delle tante porte dell’immaginario. Solo nel mondo di Narciso, il più grande razzista della mitologia, la differenza non è desiderio.

Checco Zalone: «Basta con la psicosi del politicamente corretto». Pubblicato domenica, 22 dicembre 2019 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. L’attore e le polemiche : «Io razzista? Pensarlo è una vera stupidaggine.». Poi scherza: «Credo nel futuro, ho persino affidato qualche soldino alla Banca popolare di Bari».

Luca Medici, anzi Checco Zalone, il suo Immigrato ha scatenato molte polemiche.

«Si sono mossi in milioni per difendermi da Heather Parisi, d’ora in poi Hater Parisi, e dal professor Giuliano Cazzola. Grazie a tutti; ma non era il caso».

Insomma, qualche critica è arrivata.

«Purtroppo non si può dire più nulla. Se riproponessi certe imitazioni di dieci anni fa, tipo quella di Giuliano dei Negramaro, mi arresterebbero. Oggi non potrei scherzare come facevo, che so, su Tiziano Ferro, o sugli uominisessuali».

Che non avranno gli assorbenti ma però hanno le ali.

«Per volare via, con la fantasia, da questa loro atroce malattia».

Lei non scherniva gli omosessuali, ma coloro che li scherniscono.

«È evidente; anche se forse non a tutti. L’unica cosa atroce qui è la psicosi del politicamente corretto. C’è sempre qualche comunità, o qualche gruppo di interesse, che si offende».

Hanno detto di lei che è diventato razzista.

«Escludo che qualcuno possa essere così stupido da pensarlo davvero. Non sono razzista neanche verso i salentini, che per noi baresi sono i veri terroni. E neppure con i foggiani, anche se molti di loro si sono risentiti per una canzone che ho cantato da Fiorello, La nostalgie de bidet: “Così proprio ogg’ so’ turnuto nella mia Fogg’, la delinquenza la spazzatura la poverté, ma finalment voilà le bidet...”. Ne approfitto per chiedere scusa ai foggiani: lo giuro, non penso che appartengano a una razza inferiore... E chiedo scusa pure ai calabresi: nel nuovo film c’è una battuta terribile su Vibo Valentia».

Altri hanno detto che lei è diventato di sinistra.

«Eh no! Questo è troppo! Qui mi arrabbio davvero».

Sul serio: lei come la pensa?

«Sono del 1977. Ho votato per la prima volta nel 1996: Berlusconi secco. Perse. Per un po’ mi sono astenuto. L’ultima volta ho votato Renzi. E ha perso pure lui».

Come nasce la leggenda del Checco Zalone di destra?

«Eravamo a una festa di paese. Tentavo di provare sul palco, ma da quattro ore un gruppo di comunisti, vestiti da comunisti, andava avanti con la pizzica. A un tratto mi venne spontaneo urlare: “Viva Berlusconi!”. Quel giorno nacque la Taranta de lu Centrudestra».

Che è una satira su Berlusconi e i suoi. L’ha mai conosciuto?

«Sono stato una volta ad Arcore, a cena con lui, il figlio Piersilvio, il mio produttore Pietro Valsecchi, Giampaolo Letta e la mia compagna Mariangela. Era nata nostra figlia Gaia, e per festeggiare bevemmo solo vino di Gaja, il migliore del mondo. Alle dieci di sera Berlusconi si alza sospirando: “Scusate, ma devo andare a scrivere le memorie difensive del processo. Cosa mi tocca, a quasi ottant’anni...”. Un’ora dopo, completamente ubriaco, mi faccio accompagnare al bagno. Ma al ritorno mi perdo nei meandri della villa. Mi oriento ascoltando una voce familiare… entro in una stanza, e trovo Berlusconi con sette donne: la Pascale e le sue amiche. Tutte vestite».

E lui?

«Recitava la parte del prete, che ascolta in confessione i peccati. Mi indignai».

Perché?

«Berlusconi con sette donne, tutte vestite!? E le tradizioni? I valori di una volta?».Lei nel 2013 disse che non le piaceva Renzi, perché piaceva a tutti. Il problema pare superato.«Infatti ora a me piace. Anche perché lui mi ha cercato, mi ha intortato... Amo i perdenti. Lei tifa il tennis?».

Sì.

«A me invece del tennis non me ne frega niente. Ma l’altra sera ho visto una partita in cui un tennista veniva massacrato; e ho cominciato a tifare per lui. Allo stesso modo, tifo Renzi. Mi ricorda don Chisciotte».

Le Sardine?

«Non le ho ancora capite. Non mi esprimo. Certo, questo leader con il cerchietto tra i capelli...».

E Salvini?

«Non ho capito neppure lui. So solo che è un grande comunicatore. E un grande paraculo. Ora vedo che sta tentando di diventare un po’ democristiano...».

Il suo nuovo film si chiama Tolo Tolo. Cosa vuol dire?

«Solo solo. È la storia di un italiano scappato in Africa, inseguito dai debiti. Nel Paese scoppia una guerra civile. E lui tenta di rientrare in patria, unico bianco tra i profughi. Incontra una donna. E un bambino: Dudù. “Ti chiami come il cane di Berlusconi!” gli urla».

La criticheranno per questo. Ma è un film che può cambiare il sentimento degli italiani verso i migranti.

«Non cambierà nulla, né ho questa ambizione. Però è stato un’esperienza straordinaria. Abbiamo girato in Kenya, in Marocco, a Malta, dove abbiamo ricreato i campi di detenzione libici. Venti settimane di lavoro durissimo. Ieri era il Data-Day».

È un termine tecnico? Cosa vuol dire?

«Non lo so: me lo sono inventato io. È il giorno in cui devi consegnare il film alla censura; perché esiste ancora la censura. Da quel momento non puoi più cambiare nulla».

Si è parlato di una lavorazione faticosa. Intanto non c’è più Gennaro Nunziante, il regista dei suoi altri film.

«Ma resta un amico: ci ritroveremo. Stavolta il regista doveva essere Paolo Virzì».

Poi cos’è successo?

«Mi sono reso conto di essere ingombrante. Forse ero troppo preoccupato di ripetere il successo di Quo vado. Fatto sta che gli ho detto: “Voglio farlo io”».

Virzì come l’ha presa?

«Spero male... Comunque ha già visto Tolo tolo. E mi assicura che gli è piaciuto. Ma è toscano, quindi paraculo».

Com’è stato lavorare in Africa?

«I primi provini per scegliere il piccolo protagonista li ho fatti a Roma. Ma erano tutti bambini adottati, pariolini, borghesi: bravissimi, ma troppo romani per essere credibili. Così siamo andati a fare i provini in Kenya. Ho conosciuto ragazzini straordinari, ma non trovavo quello giusto. Fino a quando non ho visto questo bambino con gli occhi enormi, Nassor, che quando ride, ride tutto, e mi sono detto: è lui».

Qual è il suo primo ricordo da bambino?

«Un balcone. Un triciclo. Io che vado su e giù».

Era molto solo?

«Per fortuna dopo tre anni è arrivato mio fratello Fabio. È uguale a me; solo che è povero. E ancora più cinico. Ogni volta che esce un nuovo film e cado in preda all’ansia, alla paura, alla depressione, mi canta balbettando la sigla di “Meteore”, il programma su quelli che hanno avuto successo una volta sola».

Perché balbettando?

«Quando parla con me, balbetta. Con le ragazze invece è spigliatissimo».

Che lavoro fa?

«Lo steward. Prima Ryan Air. Ora è stato promosso alla Norwegian. Capocabina. Una pacchia: dopo ogni volo transoceanico, per legge deve stare tre giorni a Manhattan».

L’ha raccomandato lei dopo Quo vado?

«In Norvegia non accettano raccomandazioni. Però da noi gli hanno offerto 40 mila euro per andare all’Isola dei Famosi come fratello di Checco Zalone. Mi ha telefonato: “Se me ne dai tu 45 mila, non vado”. Non è andato».

E l’altro fratello?

«Francesco è il piccolo di famiglia, anche se è enorme. Ha dieci anni meno di me e lavora nel cinema: attrezzista. Ruolo fondamentale. Se devi girare trenta volte la scena di una porta che sbatte con la maniglia che si stacca, devi riattaccare trenta volta la maniglia. Se servono due ore per girare una scena con il caminetto acceso, il fuoco va tenuto acceso con la stessa intensità. Una grande seccatura».

Qual è il suo primo ricordo pubblico?

«Paolo Rossi e il Mondiale 1982. Prima ancora, l’elezione di Reagan. Trovammo una cagnolina e mia madre disse: la chiameremo Nancy, come la first-lady».

Chi è sua mamma?

«Antonietta Capobianco. Si candidò nelle liste del Pci. Prese 18 voti; ma i Capobianco a Capurso erano 36. Metà non la votò. Un fatto gravissimo».

Comunista la madre di Checco Zalone?

«Quello di destra era mio nonno paterno: don Pasquale, capostazione».

Liberale?

«Fascistone. Lo sentivo mormorare: “Quando c’era Lui, i treni arrivavano in orario...”. Chiamò la figlia Rachele, come la moglie del Duce. Pudicamente la chiamavamo Lina. Ha fatto la poliziotta. L’ho stimata tantissimo. Mi ha insegnato cos’è il senso dello Stato, del bene comune. Dopo il terremoto la mandarono in Friuli. Ha chiuso la carriera come vicequestore. E’ stata lei a farmi studiare».

Dove?

«Mi iscrisse a una scuola privata di Bari. La quarta volta che non mi svegliai al mattino per prendere il pullman, mi mandarono alla scuola pubblica di Capurso. Io ero al penultimo banco. Dietro di me c’era Giuseppe De Bellis, che oggi dirige Sky Tg24».Lei si è pure laureato in Legge.

«Sì, ma non mi ricordo niente. Ho anche dato un concorso da ispettore di polizia. Per fortuna non mi hanno preso. Zia Lina tentò di farmi assumere da un avvocato: sarei dovuto andare a fare le fotocopie nello studio di Francesco Paolo Sisto, l’onorevole di Forza Italia. L’altro giorno l’ho incontrato in aereo e gli ho chiesto: “Fammi ‘na fotocopia, dai”».

È stato anche rappresentante di medicinali?

«Un periodo orribile. Piazzavo molta amuchina, che a Bari andava forte per paura del colera. E i cerotti per non russare, che però restarono invenduti».

E suonava ai matrimoni.

«Quello era un mestiere redditizio, perché in Puglia il matrimonio va molto. Settanta euro a serata. La cantante, serissima, annunciava: “Dopo questa canzone saranno serviti gli antipasti”».

Com’era il pubblico?

«C’era di tutto. Anche pregiudicati con amici e parenti in galera. Presi l’abitudine di esordire così: “Il concerto è dedicato ai reclusi della casa circondariale di Taranto, con augurio di presta libertà”. Al Nord scoppiavano a ridere. Al Sud scoppiava un applauso sincero: mi prendevano sul serio».

Ha giocato a calcio?

«Nella Polisportiva Capurso. Che poi non si capiva come mai si chiamasse Polisportiva, visto che – giustamente - si faceva uno sport soltanto: il pallone. Giocavo centravanti, benino. Un giorno incontriamo il Bari. Noto questo bambino di sette anni, piccolo, brutto. Non ci fece toccare palla. Era Antonio Cassano».

Siete diventati amici?

«Ogni tanto ci sentiamo. Ha un senso dell’umorismo totale. Un pomeriggio mi chiama sul telefonino al mare. Sto facendo il bagno, e al mio posto risponde Gennaro Nunziante. “Ricchione!” comincia Cassano. E l’altro, paziente: “Non sono Checco, sono Gennaro Nunziante, il suo regista...”. “E si’ ricchione pure tu!”».

Cassano sostiene di aver avuto 800 donne. E lei?

«Io otto. Anzi, ora che le riconto, sette. Ma perché non si fa i fatti suoi?».

Checco Zalone è un personaggio pubblico.

«La verità è che ho avuto solo due storie. La prima è durata dieci anni. La seconda dura ancora adesso. E sa qual è il segreto?».

Quale?

«Mariangela me l’ha fatta sudare per una vita».

Dicono che gli uomini tendano a innamorarsi prima di andare a letto con una donna, e le donne dopo...«...A volte per giustificare di esserci andate a letto. È assolutamente così».

Come vi siete conosciuti?

«Mariangela cantava in un piano bar della provincia barese, un posto un po’ triste. Io ero con un’amica che non mi considerava, e per ingelosirla vado da questa cantante, bella, prosperosa, a dirle: “Io suono ai matrimoni, se ti interessa...”. Le interessava. Sono innamoratissimo. Dopo Gaia è arrivata un’altra bimba, Greta».

Chi è il suo mito? Sordi? Totò? Benigni?

«Celentano».

Perché?

«Intendiamoci: Sordi ha messo in scena l’italiano come anch’io tento di fare. Ho visto e rivisto Tuttobenigni: straordinario, anche se dopo l’Oscar è un po’ rientrato nei ranghi, ha moderato il linguaggio... Un rischio, l’Oscar, che per fortuna io non corro. Totò è il più grande. Ogni volta che danno in tv Miseria e nobiltà, me lo guardo daccapo; e davanti alla scena in cui lui, finto aristocratico, entra nella casa del borghese impartendo benedizioni come il Papa, rido fino alle lacrime».

Ma perché Celentano?

«Innamorato pazzo, Il bisbetico domato, Asso: li ho visti tutti. Mi ha anche invitato alla sua trasmissione, ma non ci sono andato».

Perché?

«Dovevo ancora finire il film, ero distrutto, non potevo fare tre giorni di prove. Ma sono andato a pranzo con lui, l’ho visto lavorare. Sono pazzo di Celentano. All’orchestra ha detto: questa canzone la interrompiamo qui. “Va bene Adriano, ma perché?”. “Perché la so soltanto fino a qui”. Chiedo scusa pure a Celentano».

E Beppe Grillo?

«Come comico, siamo ai livelli di Totò. Ricordo una sua imitazione di Bossi dopo l’ictus: spietata».

Paolo Villaggio diceva che il comico deve essere cattivo...«...E non deve essere “scopante”. Purtroppo aveva ragione su tutti i fronti. Villaggio poi era cattivissimo: lo ricordo da Santoro criticare con sarcasmo la Lega perché non era abbastanza razzista. I primi due Fantozzi sono tra i film della mia vita».

Quali sono gli altri?

«Bud Spencer e Terence Hill. Rocky 4: la mia prima imitazione era Sylvester Stallone che gridava “Adrianaaaa!” e acchiappava la gallina. Di recente ho visto Una giornata particolare e C’eravamo tanto amati: stupendi. C’è una scena piena di poesia, quando Stefania Sandrelli, dopo essere stata con tutti, dice a Nino Manfredi che ha chiamato il figlio Luigi, e lui esulta: “L’hai chiamato come mi’ zio!”. Commovente».

È vero che una volta la cacciarono da una radio pugliese?

«Sì, ma non posso fare il nome. Comunque è Radio Norba. Facevo la parodia del cantante neomelodico. Interruppero le trasmissioni: volevano solo voci baritonali, impostate. È il Sud che si vergogna di se stesso. Pochi mesi dopo mi videro a Zelig e tornarono a invitarmi. Dissi no».

E quando non la vollero a Sanremo?

«Volevo prendere in giro Povia, che aveva fatto una canzone agghiacciante, “Luca era gay e adesso sta con lei”; come se l’omosessualità fosse una malattia da curare. L’idea era salire sul palco dell’Ariston con una medicina in mano, il Frociadil 600, ovviamente una supposta. Gli autori mi fecero capire che non era il caso».

A Sanremo quest’anno ci sarà Al Bano.

«Al Bano è il nostro Michael Jackson. La sua casa di Cellino San Marco è più grande dell’intero paese».

Siete amici?

«Lo ammiro, ma l’unico amico vero che ho nel mondo dello spettacolo è il mio quasi omonimo, Kekko dei Modà. Siamo anche stati in vacanza in Sardegna insieme, le nostre figlie sono coetanee; a raccontare le barzellette è molto più bravo di me. Sono affezionato anche a Gigi D’Alessio».

Quando l’ha conosciuto?

«Non l’ho mai visto in vita mia. Ma quando i critici stroncarono il mio secondo film, Che bella giornata, mi chiamò per consolarmi e mi tenne ore al telefono. Ho visto invece la Tatangelo, e questo mi ha reso ancora più solidale con Gigi D’Alessio».

Come vede l’Italia tra dieci anni?

«Sono ottimista. Credo nel futuro, ho persino affidato qualche soldino alla Banca popolare di Bari».

Sul serio?

«Giuro. Non sono ancora andato a riscuotere, perché temo di non trovare più un euro. Ma resto convinto che noi italiani siamo un popolo straordinario. Oggi va così. Però rinsaviremo».

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 23 dicembre 2019. Il sospetto sorge: e se stessero tutti guardando nella direzione sbagliata? I più illustri luminari della sinistra italica, ormai da settimane, non trovano di meglio da fare che rompersi il cranio a furia di rimuginare sulle sardine. Si rendono conto che i pesci balla che affollano (nemmeno troppo) le piazze sono privi di contenuti. E allora tutti si dannano per riempirli di concetti più o meno fumosi, nemmeno dovessero imbottire un tacchino per il pranzo di Natale. Il punto è che i progressisti italici hanno un disperato bisogno delle sardine. Vedono nei ragazzotti bolognesi e nei loro colleghi sparsi per l' Italia il miraggio di un legame con il popolo, ovvero quella stravagante entità di cui la sinistra ha perso da tempo ogni contezza, rapita com' è dalle astruse rivendicazioni delle minoranze più varie ed eventuali. Allora ci si mettono d' impegno a dire - come ha fatto Ezio Mauro - che i pesciolini rappresentano il cuore vivo e pulsante del Paese, quello che si è stancato delle farneticazioni sovraniste e chiede un mondo diverso. Funziona così ormai da anni: un po' di gente scende in strada a manifestare contro le destre e subito i progressisti gridano che quella è l' Italia vera, l' Italia migliore. È accaduto con i girotondi, con il popolo viola, con le massaie contro Silvio, con le madamine torinesi. C' è sempre, da qualche parte, un Nanni Moretti che grida: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!». C' è sempre un Roberto Saviano pronto a dettare la linea, e a spiegare quali siano «davvero» le esigenze degli italiani. Ci sono sempre dei giovani impegnati portatori di verità da ascoltare, un tempo lo furono persino Debora Serracchiani e Pippo Civati, e guardateli adesso. Poi, puntualmente, si scopre che la «voce del popolo», le «istanze da accogliere», i movimenti a cui «aprire il congresso del Pd» (lo chiede Massimo Cacciari riferendosi alle sardine) altro non erano che una camera dell'eco. Cioè un megafono diverso per le stesse tre o quattro idee da cui la sinistra non riesce a schiodarsi: antifascismo ideologico, antirazzismo, superiorità morale, disprezzo per l'''avversario e il volgo che lo sostiene. Non è un caso che i grandi vecchi dell' italico progressismo siano in brodo di giuggiole. Eugenio Scalfari sostiene che, grazie alle sardine, «il terreno per un resurrexit della sinistra italiana ha tutte le premesse», paragona gli imberbi militanti ai sodali di Giuseppe Mazzini e li invita a ribattezzarsi «Giovane Italia», poiché appunto rappresenterebbero gli organi più sani della Nazione. Furio Colombo, meno enfatico, vede nei pesciolini «la prova che l'umanità dei sentimenti normali esiste», parla di «ritorno della normalità», di «richiesta di decine di migliaia di persone di tornare alla normalità psichica e morale». Ma, appunto, sorge il sospetto che stiano guardando nella direzione sbagliata. Se volessero davvero un' iniezione di «normalità», se davvero volessero ascoltare il popolo anche quando proferisce frasi che a loro non piacciono, potrebbero fare a meno di rivolgersi alle piazze sardinesche. Basterebbe che andassero al cinema a vedere il nuovo film di Checco Zalone. Anzi, ancora più semplice: si riguardassero il trailer di Tolo Tolo, in arrivo il 1° gennaio. Lì dentro c'è tutta la normalità dell'Italia. Lì dentro c'è il popolo: non tutto, magari, ma una bella fetta. Un popolo che non è razzista e non odia gli immigrati, ma magari è un po' stanco di sentirsi trattare da stupido quando nota che qualcosa non va nel sistema d' accoglienza. Un popolo che non è ossessionato dall' antifascismo, dall' antirazzismo e dalla difesa delle minoranze oltre ogni limite. Con estrema «normalità», in un' intervista al Corriere della Sera, Checco Zalone ha respinto al mittente le accuse di razzismo suscitate dalla piccola anteprima della sua pellicola. «Purtroppo non si può dire più nulla», ha dichiarato. «Se riproponessi certe imitazioni di 10 anni fa mi arresterebbero. Oggi non potrei scherzare, come facevo, che so, su Tiziano Ferro e sugli uominisessuali». Non è di sinistra, Zalone. Ma nemmeno «sovranista». Ha votato centrodestra, poi centrosinistra. Come tanti. E ripete: «L'unica cosa atroce, qui, è la psicosi del politicamente corretto. C' è sempre qualche comunità, o qualche gruppo di interesse, che si offende». Già: c'è sempre qualcuno che si indigna perché si sente migliore, qualcuno che fa la morale, qualcuno che prova a zittire chi non la pensa nel modo giusto. Dopo tanti anni, magari, il «popolo» si è un po' stancato di questa situazione. Non chiede regimi, rivoluzioni sanguinarie o violenze. Forse vuole solo qualcuno che lo ascolti o, al limite, che lo lasci in pace. Vuole un po' di normalità. Quella che un tempo aveva e da un po' gli hanno strappato.

Elena Tebano per il ''Corriere della Sera'' l'1 dicembre 2019. «Non sono un politico, e non posso mentire su quello che sento. Non ci riesco. Non fa parte della mia personalità». E ancora: «Penso che sia pericoloso manipolare il modo in cui ti rappresenti perché hai paura della reazione che suscita. Questo, a me, non sembra molto progressista. Sembra spaventoso». Scarlett Johansson ha spiegato così, in un' intervista al magazine americano Vanity Fair , perché continua a difendere Woody Allen e crede alla sua versione dei fatti (il regista nega di aver abusato della figlia adottiva Dylan Farrow, cosa di cui quest' ultima lo accusa). E perché continua a essere sua amica e sarebbe pronta a fare un quarto film con lui. Nel commentare l'intervista, il Daily Beast sostiene che una simile posizione potrebbe costarle l' Oscar come migliore attrice, premio per il quale è considerata favorita grazie alla sua interpretazione in Marriage Story , il nuovo film di Noah Baumbach prodotto da Netflix su un divorzio conflittuale (nel ruolo del marito c'è Adam Driver). E ironizza sulla caparbietà di Johansson facendo capire tra le righe che il suo atteggiamento è folle. A essere folle, però, è l' idea che sia giusto negarle l' Oscar per quello che pensa di Woody Allen. Johansson, a differenza di Allen o anche di Roman Polanski, non è mai stata accusata di aver commesso un reato. È solo convinta che una persona che conosce e a cui è legata non si sia macchiata di un determinato, odiosissimo crimine a sfondo sessuale, crimine che neppure la giustizia - «giustamente» oppure no - è riuscita a provare. È possibile, forse addirittura probabile che Johansson si sbagli. Ed è sensato ritenere che le sue affermazioni siano inopportune. Ma punirla, o più precisamente, ritenere per questo meno valida la sua performance come attrice, è sbagliato. Di più, è un gesto degno dell' inquisizione, di una polizia del pensiero. Non è progressista: è spaventoso.

Bufera su Van Basten in tv: gli scappa un «saluto nazista», si deve scusare. Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 da Corriere.it. Brutta scivolata per Marco Van Basten. Nella sua veste di commentatore per Fox News doveva seguire la partita tra Ajax e Heracles (stravinta dalla sua ex squadra). Quando il giornalista Hans Kraay ha intervistato in tedesco l’allenatore tedesco Frank Wormuth alla guida dell’Heracles, Van Basten, come riporta il Daily Mail, non ha apprezzato per niente l’esibizione del collega in un’altra lingua. Così, non si sa se per antipatie verso la Germania o solo per prendere in giro l’intervistatore, l’ex formidabile attaccante ha pronunciato una frase particolarmente infelice: «Non troppo carino, sieg heil, pfannkuchen (pancake)», evidentemente ripetendo le prime parole tedesche che gli sono venute in mente. Peccato che «Sieg heil» sia un’espressione nazista che significa «saluto alla vittoria» e che Van Basten, che probabilmente pensava di essere fuori dai microfoni, sia stato però sentito in studio e dai telespettatori. Così, sommerso dalle polemiche, si è dovuto subito scusare: «Chiedo scusa, si è trattato di una battuta mal riuscita. Non volevo scioccare le persone. Volevo solo scherzare sul tedesco di Hans». Ma era il giorno più sbagliato, perché l’Olanda aveva deciso di dedicare la giornata di campionato a combattere pubblicamente il razzismo. La settimana precedente, infatti, in un campo di seconda divisione, la partita tra Excelsior Rotterdam e Den Bosch era stata interrotta dopo che il giocatore Ahmad Mendes Moreira aveva lasciato il campo per aver sentito buu di scimmie e cori ispirati al «Black Pete», un tradizionale personaggio olandese di colore tipico del periodo natalizio spesso utilizzato con significati razzisti. La Prima e la Seconda divisione olandese allora hanno dato vita all’iniziativa «Razzismo? E allora noi non giochiamo»: i giocatori al fischio d’inizio sono rimasti un minuto fermi in campo applaudendo.

Van Basten dice "Sieg Heil" in tv, Olanda sotto choc. Scandalo nei Paesi Bassi per l'espressione "Sieg Heil", il saluto ad Adolf Hitler, che l'ex calciatore del Milan si è lasciato scappare durante una trasmissione della tv olandese Fox Sports NL. Lui: "Chiedo scusa, era solo uno scherzo". Gianni Carotenuto, Domenica 24/11/2019 su Il Giornale. Clamorosa gaffe di Marco Van Basten. L'ex calciatore del Milan, durante una trasmissione dell'emittente televisiva olandese Fox Sports NL, si è lasciato sfuggire l'espressione "Sieg Heil", nota come saluto ad Adolf Hitler.

Cosa è successo. Van Basten, opinionista di Fox Sports NL, si trovava in studio per commentare in qualità di opinionista la partita di Eredivisie - la Serie A olandese - tra Ajax e Heracles, match terminato 4-1 per i padroni di casa. Al termine della gara, l'inviato allo stadio ha ricevuto la linea per intervistare il tecnico tedesco della squadra ospite, Frank Wormuth, parlandogli nella sua lingua. Quando i due si sono salutati Van Basten, pensando di non essere più in diretta o che la sua voce potesse essere ascoltata solo dall'inviato, ha detto "Sieg Heil". Ma il microfono era aperto. E tutta l'Olanda ha sentito quella frase. Inevitabilmente, sul tre volte Pallone d'Oro si è alzato un polverone mediatico. Soprattutto per il fatto che questo week-end, come spiega anche Fox Sports Italia, la giornata di campionato della Eredivisie era dedicata alla lotta contro il razzismo e ogni forma di discriminazione. Insomma, non poteva esserci momento peggiore per una gaffe del genere. Nello studio è calato il gelo, mentre sui social è montata l'indignazione. Infatti, bisogna considerare che l'Olanda stato tra i Paesi più devastati dall'aggressione nazista durante la seconda guerra mondiale. E infatti ancora oggi, a più di 70 anni di distanza, rimane molto forte il sentimento anti-tedesco.

Van Basten: "Era uno scherzo, ma mi scuso". Qualche minuto dopo lo scivolone, Van Basten si è giustificato così: "Non era mia intenzione scioccare nessuno, ci mancherebbe. Volevo soltanto scherzare sul tedesco di Hans (l'inviato, ndr). La mia è stata solo una battuta infelice e me ne scuso". Ma i responsabili dell'edizione olandese di Fox Sports, comprensibilmente, non l'hanno presa bene: "Quella di Marco è stata un'osservazione inappropriata. Non solo oggi che volevamo mandare un segnale contro il razzismo e le discriminazioni, lo sarebbe stata sempre". Dunque non è escluso che il management della tv possa prendere qualche provvedimento nei confronti dell'ex giocatore del Milan. La cui vicenda ricorda in parte quella di Paolo Di Canio, sospeso da Sky dopo avere esibito un tatuaggio di stampo fascista. Di Canio, ex calciatore della Lazio e grande esperto di calcio inglese, era stato "riabilitato" quattro mesi dopo.

Van Basten, dopo «Sieg Heil» è stato cancellato dai videogiochi Fifa 20. Pubblicato martedì, 03 dicembre 2019 da Corriere.it. Prima la sospensione per una settimana da opinionista di Fox Sports e adesso la cancellazione dal videogioco Fifa 20, dove faceva parte dei grandi campioni del passato. Non si placa la bufera su Marco van Basten, colpevole di aver pronunciato un «Sieg heil!» alla fine di Ajax-Heracles, probabilmente convinto che il microfono fosse spento. Van Basten era intervenuto dopo l’intervista di un giornalista della Fox a Frank Wormuth, allenatore tedesco dell’Heracles, sconfitto per 4-1 dai Lancieri di Amsterdam il 23 novembre. «Sieg heil!», traduzione letterale «Saluto alla vittoria!», era il saluto utilizzato dai nazisti in presenza di Adolf Hitler. «Non volevo scioccare nessuno — ha cercato di giustificarsi van Basten —, volevo solo scherzare sul tedesco di Hans (il giornalista di Fox). La mia è stata solo una battuta infelice». Fox ha preso le distanze, ha sospeso van Basten e devoluto il gettone di presenza che sarebbe toccato all’ex grande campione di Ajax e Milan all’Institute of Wars, Holocaust and Genocide Studies. Ora è intervenuta anche la EA Sports, colosso internazionale dei videogames, che ha escluso van Basten dal suo gioco più famoso e venduto: Fifa 20. I suoi oggetti «icon» nei pacchetti venduti online, così come nelle modalità «creazione rosa» e «draft» sono fuori utilizzo perché, come affermato in un comunicato ufficiale, i vertici di EA Sports intendono «rispettare l’impegno in favore dell’uguaglianza e della diversità all’interno del nostro gioco. Abbiamo deciso di escludere gli oggetti ICONA di Marco van Basten dai pacchetti, dalle Scr e da Fut Draft fino a nuovo ordine». Marco van Basten poteva essere trovato in tre diverse cards del valore 89, 91 e 93 in Fifa 20 Ultimate Team. Chi ha scaricato la card sulla sua consolle, per ora potrà continuare a usarla e scambiarla con altri giocatori in cambio di Fut Coins, la moneta virtuale che serve per comprare giocatori nel videogioco. La valutazione del van Basten bannato, con la logica tipica dei collezionisti, è andata alle stelle. Da capire se EA potrà cancellare tutte le cards, compensando i giocatori con Fut Coins. Non si ricordano altri casi di calciatori cancellati, se non per eventi luttuosi come capitato a Emiliano Sala, ex centravanti del Nantes, morto in un incidente aereo lo scorso 21 gennaio quando era appena stato acquistato dal Cardiff City. In segno di rispetto, Sala fu tolto dalle copie del gioco.

Professore a Siena inneggia a Hitler: dove finisce la libertà di espressione? Sara Giudice il 03/12/2019 su Notizie.it. Il professore Ermanno Castrucci inneggia a Hitler su Twitter e viene sospeso dall'Università di Siena. Qual è il confine della libertà di espressione?

Tra repressione e libertà di espressione. “Le frasi da me pronunciate rientrano nell’ambito delle convinzioni personali non violente, e trovano tutela nel principio di libertà di pensiero e di espressione garantito ad ognuno ed esplicitamente richiamato nella Costituzione”. Così Emanuele Castrucci, professore ordinario di Filosofia del Diritto all’Università di Siena, risponde alla richiesta di chiarimenti riguardo alcuni suoi post pubblicati su Twitter che rischiano ora di costargli molto caro. Il rettore Francesco Frati parla di un procedimento disciplinare rapido e racconta di aver perseguito anche le vie legali con tanto di esposto alla procura della Repubblica. Oggi tutti giurano, dal corpo docenti agli studenti, di non essersi mai accorti del pensiero cosi radicale del professore, nonostante i vent’anni di onorata carriera in Università a Siena.

Lo scandalo del professore di Siena pro Hitler. Sicuramente uno dei post più difficili da digerire, anche per un libertario convinto, è quello in cui afferma che “Hitler non era un mostro ma ha cercato di combattere i mostri veri”. I mostri in questo caso sarebbero gli ebrei, come è evidente da molte altre esternazioni su Twitter esplicitamente e orgogliosamente antisemite. Una continua provocazione e difesa della purezza della razza europea e riferimenti letterari di noti filosofi nazisti come Carl Schmitt. Soltanto un mese fa, l’otto di novembre viene postato un faccione enorme di Laura Boldrini con tanto di scimmiottamento della frase di Evelyn Beatrice Hall (spesso e volentieri attribuita a Voltaire) “non sono d’accordo con quello che dici e farò di tutto per non fartelo dire”. Il pensiero è chiaro, la direzione che prende il pensiero del Professore è limpido come l’acqua di un torrente di montagna.

La sfida è culturale. Ma il nostro di pensiero? Nostro inteso come comunità, come società. Noi siamo disposti a combattere contro tutto e tutti per lasciare al professore il diritto di esprime queste ripugnanti opinioni e soprattutto per salvaguardare il pensiero illuminista che vogliamo contrapporre proprio al suo? La sfida forse è proprio questa, è culturale e non va posta sul piano penale perché l’opinione non può e non deve essere punita penalmente, per quanto aberrante possa essere. “Lui da sempre nei suoi scritti ha espresso opinioni di stampo nazional-conservatore e fortemente reazionarie. Due dei testi che gli studenti dovevano esaminare si chiamavano ‘critica all’ideologia dei diritti dell’uomo’ e ‘il nomos della terra’. Cosi racconta Antonio, ex studente di Filosofia del Diritto. “Il primo testo arrivava anche a criticare la rivoluzione francese mentre il secondo è una vera e propria apologia della guerra”. Ora, se è legittimo chiedersi se una persona con questo tipo di opinioni possa e debba insegnare in una Università pubblica è anche doveroso ricordare che, ci piaccia o meno Emanuele Castrucci ha vinto un concorso in una Università pubblica e quindi qualcuno ha ritenuto avesse le competenze idonee idoneo e che fosse meritevole di avere un incarico di così tanto prestigio.

Tra repressione e libertà di espressione. E quindi qual è il confine legittimo, giustificabile, accettabile e soprattutto esiste un confine della libertà di espressione? O il rischio è quello che qualcuno un giorno ci indichi un perimetro “dell’accettabile” e la renda via via sempre più basso? La sfida è aperta e va gestita con il giusto livello di indignazione e lucidità. Perché il fascismo, il nazismo, l’estremismo si combatta sempre sul piano delle idee e mai su quello della repressione che non avrebbe altro effetto se non quello di legittimarlo.

Biagio De Giovanni per ragionepolitica.it il 3 dicembre 2019. Biagio De Giovanni è un filosofo della politica. Accademico dei Lincei, è stato Rettore dell’Università L’Orientale di Napoli e parlamentare europeo, eletto nel 1989 e nel 1994 per le liste del PCI e del PDS. Emanuele Castrucci è uno studioso serio, ha dato molte prove di sé, è serio conoscitore soprattutto di cultura tedesca, autore di libri che, per alcuni argomenti, non si possono non leggere e consultare. Premessa, per dire che cosa? Non certo per sottovalutare il clamoroso errore commesso con la pubblicazione di un tweet dove Hitler viene celebrato come difensore dell’Europa e contrapposto ai “mostri” che ora la governano. Un giudizio sulla cui totale negatività non ho bisogno nemmeno di argomentare. Ma può essere causa di licenziamento da professore, come viene chiesto, sembra, dalle autorità accademiche dell’Università di Siena? Non so, a me pare una cosa sbagliata. Alzo il tiro, per dir così: che ne facciamo del fascista, usque ad mortem, Giovanni Gentile? Di Heidegger, massimo filosofo del secolo, che sosteneva proprio questo, Hitler difensore dell’Europa contro americanismo e bolscevismo? Che ne facciamo di Carl Schmitt, grande costituzionalista e pensatore, ma infine alleato di Hitler ancora nei pieni anni Quaranta? Tutti autori che fanno parte del nostro irrinunciabile patrimonio intellettuale. Licenziamo tutti, in questo caso con roghi per i loro libri? Vietiamo di leggerli? Si può dire: ma che c’entra, non facciamo confusione, Castrucci è ben vivo, insegna, fa lezione, può trasmettere questo veleno, lo diffonde sui social. Terribilmente brutto, è innegabile, e si deve dirlo. Ma questo può esser causa di “licenziamento”? A me pare di no e voglio dichiararlo pubblicamente. Che avremmo detto se Castrucci avesse citato, tra virgolette, Heidegger esattamente sul tema che pone, senza commento? Allora. Giusto indignarsi, porre al professor Castrucci il tema della sua responsabilità verso i più giovani, farlo anche con una dichiarazione solenne del Senato accademico, un tweet non è una ricerca dove tutto è legittimo, ma dire “ti licenzio” non suona bene, soprattutto non mi pare che suoni legittimo. Un’opinione, per quanto giudicata folle, può esser causa di totale ostracismo? Lascio aperta la domanda, ma a me pare di no. Se poi si dirà che l’opinione manifestata configura un reato di apologia, beh allora questo tocca alla magistratura vederlo, ma anche qui, a distanza di quasi un secolo dalle drammatiche vicende, la cosa non convince più, appare come una soluzione piuttosto rituale, affidata alle procure, non come una risposta seria, culturale e politica come deve essere, alle tragedie dell’Europa del 900. Ed è proprio di questo che abbiamo bisogno. L’Università di Siena dedichi un corso alla storia del nazionalsocialismo. Che grande occasione! In tanti potrebbero contribuire.

Giordano Bruno Guerri per ilgiornale.it il 3 dicembre 2019. L' immagine un uomo in simbiosi con il suo cane, mano sulla zampa - potrebbe intenerire, se l' uomo non fosse Adolf Hitler. Anche il testo che la accompagna mira a suscitare emozione, contro un' ingiustizia: «Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo». Dunque, secondo l' autore del tweet, il «povero Hitler» subisce una diffamazione (cosmica e ultradecennale), avendo perso una guerra salvifica contro chi tuttora domina l' umanità. Poiché il comunismo è stato sconfitto, e non risulta che Hitler si sia battuto contro il grande capitale, la conclusione inevitabile è che i «veri mostri» sono gli ebrei. Ora, è vero che di idiozie se ne scrivono tante, soprattutto su internet. Ma è anche vero che l' istigazione all' odio razziale è un reato e che il razzismo è fondato su falsità pseudoscientifiche: invito a leggere, riguardo alle differenze fra i popoli, Armi, acciaio e malattie, di Jared Diamond (Einaudi), che ne spiega le cause storiche, non genetiche. Ma soprattutto il razzismo contro gli ebrei è intellettualmente ripugnante, proprio per motivi storici. Pazienza (pochissima) se a manifestarlo è quella «sergente di Hitler» che a Padova sostiene quanto fosse confortevole Auschwitz, a suo dire dotato pure di piscine. Però l' autore del tweet in questione, e di altri simili, è il professor Emanuele Castrucci, che insegna filosofia del diritto e filosofia politica all' università di Siena. Castrucci si appella alla «libertà di pensiero», che non si nega a nessuno. Diversa è la libertà di espressione di quel pensiero, se va contro le leggi, il buon senso, il buon gusto e nel caso di uno studioso senza dimostrazione di quanto sostiene. Che Castrucci si sia espresso «al di fuori della mia attività didattica», come argomenta, non cambia niente: l' immagine e il pensiero di un docente vanno oltre l' aula scolastica, e la contaminano. Né il professore può essere così stupido da credere oltre alle buone intenzioni di Hitler che le pagine social creino una distinzione fra vita pubblica e vita privata. Qualunque datore di lavoro, prima di un'assunzione, oltre al curriculum guarda anche la pagina Facebook di un candidato, spesso più utile a capire le sue caratteristiche. Non conosco gli studi di Castrucci, però adesso c' è da chiedersi se li conoscesse chi gli ha dato la cattedra: se, com' è probabile, manifestasse già certe idee, o se invece abbia scoperto in sé un coraggio leonino solo ora, a un passo dalla pensione. Che ci vada, dunque, in pensione, magari anticipata. Avrà più tempo per studiare e per giocare su Twitter.

Zittiamo i cattivi maestri. Ma tutti. Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 04/12/2019, su Il Giornale. Da alcuni giorni si parla di Emanuele Castrucci, docente di filosofia del diritto all'Università di Siena, finito su tutti i giornali per aver pubblicato sui social network dei post inneggianti a Hitler e all'antisemitismo. L'opinione pubblica si è giustamente indignata, la politica anche e il rettore dell'Ateneo ha chiesto il licenziamento del docente. Giustissimo, come abbiamo avuto modo di dire ieri su queste pagine. Esiste la libertà d'espressione e guai a intaccarla, ma non esiste la libertà di dire idiozie. Specialmente se si è un professore universitario e si maneggia materiale culturale. La risposta del rettore e dell'ateneo è stata fulminea e non possiamo che plaudire. Però c'è un però. Lo scorso 21 settembre il Parlamento europeo ha votato quasi all'unanimità una risoluzione che equipara nazismo e comunismo. Ovviamente è scoppiato un apriti cielo di proteste, ma di fronte alla firma del patto Molotov-Ribbentrop - un alleanza di fatto tra nazisti e sovietici - anche i compagni più trinariciuti hanno dovuto fermarsi. Non tiriamo in ballo il vecchio e insopportabile motto «ce lo dice l'Europa» che, elezioni alla mano, ha portato solo iella a chi lo pronunciava, ma lanciamo una provocazione: perché l'Italia non recepisce la lezione di storia dell'Europarlamento? Ci spieghiamo meglio: se comunismo e nazismo pari sono, allora devono essere sanzionati tutti i docenti che sui social network o (peggio ancora) nella aule scolastiche inneggiano e difendono gli scempi del comunismo. E, come abbiamo avuto modo di vedere nel corso degli anni, non sono pochi. Tenendo bene a mente che l'antisemitismo, al giorno d'oggi, alligna molto più all'estremità della sinistra che nella pancia profonda della destra. Il «metodo Castrucci» sia utilizzato nei confronti di tutti i docenti che sfruttano la loro cattedra, virtuale o digitale, per spargere i semi dell'odio comunista e nazista. Per chiudere, una volta per tutte, i conti con la storia e con i cattivi maestri.

Caso Castrucci: voi prendereste mai un caffé con quel nazista? Iuri Maria Prado su Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Qualcuno ha attribuito all’onorevole Claudio Borghi la colpa d’aver fatto chiacchiera con quel Castrucci, il professore nazista che insegna nell’università di Siena. L’onorevole Borghi si è giustificato spiegando che a lui capita di prendere un caffè con tante persone, e lo fa «senza sapere cosa pensano di Hitler».  Ha perfettamente ragione. È possibilissimo che l’onorevole Borghi non sapesse della propaganda nazista di quel professore. Il problema è che poi l’ha saputo, ma non ha detto nulla. Non ha detto se, sapendolo, avrebbe ugualmente preso quel caffè con il nazista. Non ha detto se, ora che lo sa, prenderebbe ancora un caffè con il nazista.  Non ha detto, infine, che cosa pensa di una università che consente di insegnare a uno che fa propaganda nazista. Queste omissioni, ancora, sono perfettamente lecite. Nessuno è obbligato a dimostrare avversione nei confronti di chi scrive che “Hitler ha difeso la civiltà occidentale”. È una scelta libera e legittimissima. Ma i cittadini e gli elettori hanno il diritto di giudicare questa scelta, e di considerare nel modo che ritengono giusto il comportamento omissivo di chi, davanti a manifestazioni di propaganda nazista, appunto non dice nulla.  Ho citato il caso di questo onorevole Borghi non perché sia esclusivo (purtroppo non è esclusivo) ma perché è molto significativo. La dice lunga sul carattere italiano e sul fatto che il Paese delle leggi razziali (è questo Paese, è il nostro Paese) è dopotutto cambiato molto poco. Nel Paese delle leggi razziali accade che a un politico non ripugni il fatto che a un nazista che fa propaganda nazista sia permesso di insegnare in una università.  Così come quel fatto non ripugnava al rettore dell’università medesima, che ha creduto inizialmente di poter liquidare la faccenda spiegando che quel professore parlava “a titolo personale” (mancava pure che parlasse a nome dell’università).  Poi, messo alle strette da cittadini un po’ irritati, il rettore è stato investito dalla fulminante necessità di far sapere che lui trova vergognosi i messaggi del professore nazista, gli stessi che fino a qualche ora prima scriminava siccome diffusi “a titolo personale”. Il che significa che per il rettore quei messaggi sono diventati vergognosi in forza dei cittadini che li denunciavano, prima che per il suo autonomo giudizio. A meno che il giudizio del rettore fosse lo stesso anche prima, ma riteneva superfluo farlo conoscere. Ha ragione il professor Castrucci quando obietta che si ha il diritto di dire che Hitler ha salvato la civiltà europea. Ma questo diritto ha (o almeno dovrebbe avere) un contrappeso: il dovere delle scuole di assumersi la responsabilità di non mettere in cattedra chi vuol esercitare quel diritto. Vada in un parco, salga su un panchetto e dica quel che gli pare. Magari insieme al rettore dell’università, che davvero non ha posto rimedio al suo sproposito reclamando tardivamente l’espulsione del professore. Doveva chiedere scusa, piuttosto. Deve ancora.  E non doveva dire che l’università di Siena “rifugge qualsiasi forma di revisionismo”, insopportabile scemenza retorica. Doveva dire che nel Paese delle leggi razziali non c’è posto d’insegnamento per chi fa propaganda nazista.  È una differenza – possiamo esserne certi – apprezzabile da parte di pochissimi. Ma è decisiva. Perché è riconoscere ciò che siamo stati, e sentirne il peso, a impedirci di esserlo ancora.  La negazione di quella conoscenza è l’antifascismo di maniera che non vede nulla, non capisce nulla e ha bisogno che altri spieghi che la vergogna siamo noi: non il professore nazista.

DIRE ''NASONI USURAI'' AGLI EBREI NON È RAZZISMO? (ANSA il 12 dicembre 2019) - Il gip di Siena, Roberta Malavasi, ha rigettato l'ordinanza di sequestro del profilo Twitter di Emanuele Castrucci, professore di filosofia del diritto dell'Università, autore di alcuni tweet “pro Hitler”. Il gip, secondo si legge su La Nazione, ha motivato la decisione perché "non ci sarebbero gli estremi del reato di propaganda e istigazione all'odio razziale ma solo una rilettura storica e apologetica della figura di Hitler". La procura presenterà ricorso al tribunale del riesame. La richiesta del sequestro del profilo del docente era stata fatta dalla procura di Siena appellandosi alla legge Fiano e all'articolo 604 bis del codice penale sulla "propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa". Intanto, per limitare i contatti del professor Castrucci con gli studenti il rettore Francesco Frati ha sospeso il docente dalle sessioni d'esame in programma domani. Gli studenti che si erano iscritti sosterranno la prova con un sostituto.

Stop a esami e lezioni per il prof di Siena che ha elogiato Hitler su Twitter. La decisione del rettore dell'Università, Francesco Frati, in attesa che il collegio di disciplina si pronunci sul futuro di Emanuele Castrucci, docente di Filosofia del diritto. Valeria Strambi l'11 dicembre 2019 su La Repubblica. Niente più lezioni e niente più esami per il professore filonazista. A deciderlo è il rettore dell'Università di Siena. In attesa che il collegio di disciplina si esprima sulle sorti di Emanuele Castrucci, ordinario di Filosofia del diritto finito al centro delle polemiche per aver pubblicato sul suo profilo Twitter alcuni post che inneggiavano a Hitler, l'ateneo blocca ogni rapporto tra il docente e gli studenti.  "Nel primo semestre dell'anno non erano previste lezioni di Castrucci, ma gli appelli d'esame sì - fa sapere il rettore, Francesco Frati - Uno di questi era fissato per il 13 dicembre e allora ne ho disposto la sospensione. Gli studenti sosterranno gli esami con gli altri docenti che insegnano la disciplina". Sempre dal rettore, dopo un Senato accademico straordinario convocato poche ore dopo la diffusione dei tweet, era arrivata l'indicazione di chiedere il licenziamento del professore. Il collegio di disciplina, la cui composizione è stata decisa lo scorso 9 dicembre, si è già messo al lavoro: "La prima riunione è fissata per il 19 dicembre - annuncia Frati - Prima dovranno essere esaminati gli atti e la documentazione trasmessi, poi sarà convocato Castrucci. Mi auguro che si arrivi al più presto a un responso che, per me e per l'intero Senato accademico, dovrebbe corrispondere alla destituzione. Non riteniamo che un docente che ha scritto frasi di quel genere possa continuare a insegnare a degli studenti che dovrebbero ricevere il buon esempio". Castrucci, finito nelle indagini della procura di Siena dopo che la stessa università aveva presentato un esposto, si era difeso appellandosi alla libertà di pensiero. "Le opinioni da me espresse, sempre rigorosamente al di fuori della mia attività didattica e lungi dal rappresentare alcuna forma di incitazione all’odio o alla violenza, consistono in semplici giudizi storiografici che trovano tutela nel principio di libertà di espressione garantito a ognuno". Una 'giustificazione' che non era piaciuta al ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti: "Si fa riferimento alla libertà di parola un po' a vanvera. Sono frasi inaccettabili tanto più che gli studenti avevano già manifestato una certa insofferenza di fronte ad alcune sue posizioni".

Siena, il prof che inneggiava a Hitler va in pensione ed evita il licenziamento. Emanuele Castrucci ha chiesto al rettore di poter lasciare la cattedra dal 1 gennaio 2020. Il collegio di disciplina si esprimerà comunque sulle sorti del docente, anche se la misura potrebbe non essere mai applicata. Valeriia Strambi il 19 dicembre 2019 su La Repubblica. Niente licenziamento per il prof che inneggiava a Hitler su Twitter. Emanuele Castrucci, 67 anni, docente di filosofia del diritto all'Università di Siena, ha pensato bene di evitare la sanzione disciplinare più estrema chiedendo il pensionamento anticipato. Pensionamento che sarà valido a tutti gli effetti a partire dal 1 gennaio 2020. Proprio oggi, giovedì 19 dicembre, si è riunito il collegio di disciplina che dovrà comunque esprimersi sulle sorti del professore finito nella bufera qualche settimana fa per aver pubblicato alcuni post nei quali veniva elogiato il dittatore nazista. La squadra di colleghi del professore chiamata a individuare il tipo di "punizione" andrà avanti nell'esaminare gli atti e nel sentire le parti interessate. Peccato che quando arriverà la decisione, qualunque essa sia, potrebbe rivelarsi inefficace e non venire di fatto mai applicata proprio perché Castrucci si troverebbe già in pensione. Il professore, nato a Monterosso al Mare (La Spezia) il 3 giugno 1952, pur potendo continuare a insegnare fino ai 70 anni, ha però già maturato l'età pensionistica. Il rettore dell’Università di Siena, Francesco Frati, che con l'appoggio dell'intero senato accademico ne aveva chiesto la destituzione, non ha potuto far altro che disporre, tramite decreto, il collocamento in pensione. "Si tratta di una decisione che avevo preso già da tempo, motivata dal fatto che non ho più niente a che fare con un'università come questa", ha spiegato Castrucci. Mentre dall'ateneo il rettore Frati specifica di aver "ricevuto una richiesta di collocamento in pensione" di aver "verificato che tutti i requisiti fossero presenti e in regola" e di essersi "comportato secondo quanto prevede la legge. Non avrei potuto fare altrimenti". "Voglio chiarire - ha aggiunto - che questa richiesta non è partita né da me né da chiunque altro perché con il professor Castrucci, da quando si sono verificati i fatti, parliamo solo per atti ufficiali". Per Frati "probabilmente è proprio perché l'Università ha tenuto un atteggiamento fermo e tempestivo che il collega ha preferito 'andarsene' di sua spontanea volontà". "L'Università - ha concluso il rettore - dirà comunque la sua fino in fondo su questa vicenda attraverso i passaggi previsti dal regolamento e cioè il parere del collegio di disciplina e il pronunciamento del consiglio di amministrazione". Il collegio di disciplina ha intanto esaminato tutto il materiale trasmesso e per acquisire ulteriori elementi di giudizio ha deciso di convocare, oltre all'interessato, alcuni rappresentanti degli studenti della facoltà di Giurisprudenza e il presidente del comitato della didattica. "Il procedimento disciplinare sanzionatorio va comunque avanti, a prescindere dal fatto che Castrucci andrà in pensione - spiega Gabriella Piccinni, presidente del collegio di disciplina - La prossima riunione sarà a gennaio e daremo il nostro parere. Poi starà al Consiglio di amministrazione approvarlo". "Non spetta a noi, ma saranno le leggi dello Stato - precisa - a dire se l'eventuale sanzione potrà essere applicata o meno a una persona che è già in pensione". Nel frattempo il rettore aveva già bloccato tutte le attività didattiche di Castucci, impedendo anche la sua partecipazione agli esami, alle elezioni e al ricevimento degli studenti. Il professore è indagato dalla procura di Siena, che ha ipotizzato il reato di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, aggravata da negazionismo. La procura diretta dal procuratore capo Salvatore Vitello aveva chiesto anche il sequestro del profilo Twitter del docente, ma il gip del tribunale senese, Roberta Malavasi, aveva rigettato l'ordinanza sostenendo che in quei tweet non c'erano gli estremi del reato di propaganda e istigazione all'odio razziale, ma solo una rilettura storica e apologetica della figura di Hitler.

MATTEO PUCCIARELLI per repubblica.it il 5 dicembre 2019. "Fino a che il popolo non impicca i banchieri", oppure "l'alto tradimento" del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sul Mes, reato che "in tempo di guerra era punito con la fucilazione alle spalle". Non sono discorsi di qualcuno alticcio al bar, ma è il contenuto di un post su Facebook di un consigliere regionale della Lega in Abruzzo, Simone Angelosante. Tra un "mi creda, la misura di questo sistema globalista è colma" e un riferimento al "pensiero unico globalista", nei suoi commenti Angelosante - che è anche sindaco di Ovindoli - è un crescendo che culmina con il cruento riferimento all'impiccagione di banchieri ad opera del popolo ("fino a quando il popolo con il populismo non impicca i banchieri... è già successo sai?"). Simone Angelosante, professione medico, 55 anni, un passato in Alleanza Nazionale e poi la folgorazione leghista, era già noto alle cronache per due episodi: aver gonfiato il proprio curriculum in campagna elettorale (si definiva direttore sanitario di una clinica, ma non era vero) ed essere entrato in polemica con Roberto Vecchioni, colpevole di aver cantato Bella ciao durante un suo concerto nella cittadina di cui è sindaco. Il cantautore "fa propaganda di basso livello", si inalberò.

Foibe, docenti comunisti contro l'assessore "patriota": "Non puoi dare lezioni". La denuncia dell'assessore all'Ambiente della Regione Friuli-Venezia Giulia: "Attaccato da un gruppo di docenti perché ho ricordato loro delle foibe". Elena Barlozzari, Mercoledì 04/12/2019, su Il Giornale. Alla fine Fabio Scoccimarro, assessore all’Ambiente della Regione Friuli-Venezia Giulia, non ha potuto fare a meno di intervenire. Siamo a Trieste, nel bel mezzo di un convegno per celebrare i cento anni dalla fine della Grande Guerra. Ci sono più di 300 studenti in platea: italiani, croati e austriaci. Tutti riuniti a poche centinaia di metri dalle trincee del Carso dove i loro bisnonni si sono combattuti. Scoccimarro è appena intervenuto con una riflessione scomoda: “Ho ricordato ai ragazzi che la storia va conosciuta a trecentosessanta gradi, soprattutto in queste terre, e che troppo spesso i docenti la raccontano a senso unico”. Adesso è il turno dello storico Raoul Pupo, già finito nell’occhio del ciclone per aver scritto un vademecum per il Giorno del ric Luca Ciriani e Walter Rizzetto, che stanno già lavorando per presentare un’interrogazione al ministro dell’Istruzione. Mentre il presidente della Fondazione dalmatica Rustia-Traine, Renzo de’ Vidovich, chiede alla Regione che sui temi dell’esodo e delle foibe il programma scolastico venga rivisto. E non solo. “Anche che si faccia promotrice dell’esumazione di centinaia di migliaia di vittime, tra i quali 14mila italiani, infoibati in Slovenia e Croazia”. Con l’auspicio che possa servire a rinfrescare la memoria a chi l’ha perduta.

Giacomo Salvini per ilfattoquotidiano.it il 3 dicembre 2019. Wolfgang Amadeus Mozart era un massone quindi la sua musica non può essere suonata nella basilica di Santa Croce a Firenze. Nemmeno se in programma ci sono il suo Requiem e l’Ave Verum Corpus, scritti nel 1791 per la solennità del Corpus Domini. La decisione, che a Firenze sta facendo molto discutere, è stata presa nei giorni scorsi dal priore di Santa Croce, padre Paolo Bocci, che ha negato gli spazi della basilica per il concerto del 5 dicembre, in occasione del 228esimo anniversario della morte del genio di Salisburgo. “Non voglio questa musica in basilica perché siamo in periodo dell’Avvento e di Quaresima francescana – ha spiegato il prete – Non voglio Mozart in chiesa, non è adatto al clima natalizio”. Tra le varie voci critiche, però, anche il direttore d’orchestra – tra i più celebri al mondo – Riccardo Muti che, in un’intervista al Corriere della Sera, si è detto “dispiaciuto” per la decisione del priore spiegando anche che “la massoneria all’epoca di Mozart aveva un altro significato, completamente diverso”: “Non condivido il rifiuto, tanto più che mancano più di venti giorni al Natale, il Requiem di Mozart non è collegabile a questo o quell’evento funebre, è una pagina universale della cultura che ti dà il senso della morte”. Alla fine l’Opera di Santa Croce ha salvato il concerto dell’Orchestra da Camera Fiorentina diretta dal maestro Giuseppe Lanzetta spostandolo nel cenacolo sconsacrato di Santa Croce (luogo laico) nonostante i posti disponibili siano un quinto rispetto a quelli della chiesa (300 contro 1500). La presa di posizione del priore sta provocando molte polemiche a Firenze (“le parole di padre Bocci sono fuori luogo” ha detto l’assessore alla Cultura del Comune Tommaso Sacchi) mentre non poteva mancare il commento del gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Stefano Bisi, secondo cui “vietare la musica di Mozart in Basilica a Firenze perché massone è follia pura”. Adesso, per lo stesso motivo di Mozart e per tenere lontana musica che non sia sacra dalla chiesa francescana, anche Dante potrebbe essere nuovamente “esiliato” da Santa Croce: il priore Bocci vorrebbe escludere anche il musical sulla Divina Commedia ideata e composta da monsignor Marco Frisina e in programma per il novembre 2020. Il concerto si sarebbe dovuto svolgere nella navata della basilica di Santa Croce, chiesa gotica fiorentina finita di costruire nel 1385 che spesso si presta a concerti e conferenze, ma il priore ha deciso che non se ne sarebbe fatto niente proprio per il fatto che Mozart – tra i più grandi geni della musica di tutti i tempi – era massone. Dopo essersi trasferito a Vienna, il grande compositore divenne prima “apprendista” nel 1784, poi elevato a “compagno” un anno dopo fino al grado di “maestro” nel 1786. “Escludere e vietare la sublime opera di Mozart nel Tempio per la sua militanza muratoria – ribatte Bisi – ci pare ridicolo e persino offensivo per tutti gli ‘uomini di buona volontà’ che amano solo e innanzitutto la grande musica classica che non guardano con pregiudizio alcuno alle scelte fatte in vita da nessun genio, e non pensano affatto che le sue note celestiali possano nuocere all’animo di ognuno o turbare addirittura quello dei padri francescani”. Da Palazzo Vecchio l’assessore Sacchi sottolinea che dispiace “che un genio ‘celestiale’ e sconfinato come quello del salisburghese sia stato confinato a piccole e discutibili valutazioni di opportunità politico-liturgiche a maggior ragione a Santa Croce, una delle chiese più ‘colme’ di storia, di arte e di artisti di Firenze, luogo dove peraltro negli anni scorsi il Requiem è sempre stato suonato con grande successo”.

Non punite don Biancalani, il prete che ha cantato Bella Ciao. Don Andrea Gallo avrebbe fumato il sigaro e vi avrebbe detto “Ieri, oggi, domani, sempre Resistenza!” Ilfuturoblog il 26 novembre 2019. Don Massimo Biancalani, parroco di Vicofaro, è di nuovo sulle prime pagine dei giornali. Tempo fa la sua storia e quella del centro d’accoglienza che gestisce erano state alla ribalta della cronaca. Matteo Salvini era vice premier, la propaganda per i decreti sicurezza imperversava e Vicofaro, insieme a Riace, ne divenne suo malgrado l’epicentro. Numerosi attacchi, molte minacce, una macchina dell’odio scatenatissima il cui punto più basso fu toccato quando don Biancalani postò la foto dei suoi ragazzi in piscina scrivendo “oggi… PISCINA!!! Loro sono la mia patria, i razzisti e i fascisti i miei nemici!” E Salvini rispose:  “Questo Massimo Biancalani, prete anti-leghista, anti-fascista e anti-italiano, fa il parroco a Pistoia. Non è un fake! Buon bagnetto“. Oggi, di nuovo, a dare il la è il capo della Lega Matteo Salvini: “Ricordate il prete toscano che vorrebbe portare tutta l’Africa in Italia? Oggi concertino sardinante di Bella Ciao… a Messa! Tra un po’ lo vedremo a Sanremo! (Roba da matti!)“. Don Massimo Biancalani ha, infatti, concluso la messa con il canto simbolo della Liberazione. Sacro e profano. La politica sull’altare. “Più ancora che una profanazione, un’appropriazione indebita” strombazza Massimo Gramellini sulle pagine del Corriere della Sera chiamandolo prete-sardina. E già si parla di punizioni in arrivo da parte del vescovo che, in realtà, intervistato da Avvenire, si dice solo molto amareggiato. Questa, però, non è solo la storia di Don Biancalani. E’ la storia dei preti partigiani, che forse abbiamo tutti dimenticato, di quei tanti che persero la vita nella difesa dei loro parrocchiani e dei loro concittadini, nella lotta contro l’oppressione nazista e fascista. E poi questa è anche la storia dei preti di strada, come don Luigi Ciotti e Padre Alex Zanotelli. Come don Andrea Gallo. Tutti e tre hanno cantato Bella Ciao in chiesa e mai nessuno ne aveva fatto un caso, anzi a Genova ai funerali del “Gallo” Bella Ciao la cantarono tutti, dentro e fuori la chiesa. Lui avrebbe voluto farne l’inno nazionale. L’8 dicembre del 2010 al termine della Messa nella Chiesa di San Benedetto per festeggiare i 40 anni della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova, don Gallo salutò i presenti intonando “Bella Ciao” accompagnato da Gino Paoli. Un paio di anni più tardi replicò sventolando la immancabile sciarpa rossa e augurando a tutti Buon Natale. Certo, Don Gallo. Don Gallo che citava tanto spesso Antonio Gramsci. Lo fece anche a Gattatico dove vennero trucidati i fratelli Cervi in un meraviglioso discorso intitolato “Partigiano della Costituzione”. In quell’occasione raccontò: “A quindici anni ho partecipato alla guerra partigiana. Mio fratello era comandante e io ero giovanissimo.  Il motto di quella brigata mio fratello lo scriveva da tutte le parti. Gli ho detto: «Non scrivere, che poi i tedeschi ci vengon dietro». Il motto era ed è il primo messaggio che voglio dare a voi: «Osare la speranza». Son venuto qui per cantare con voi, coi fratelli, per la libertà, per la giustizia, per la pace, per la democrazia che sta morendo! Quando andai con la brigata, quindici anni e rotti, mia madre mi guarda e dice: «Cosa fai?». «Vado con Dino, mio fratello, comandante.» La mamma piangeva. Ma capiva. Non potevo fare altro. A volte arrivavo a casa, lasciavo la borsa alla mamma. Poi ripartivo… Tutta la Resistenza non è venuta a predicare la verità: è venuta a testimoniarla! Sulla mia scrivania, se venite a Genova, vedrete le fotografie di Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore, Gelindo, fucilati il 28 dicembre 1943. Nel ’43 scoppiò la ribellione. È questa  la lotta quotidiana. Attenti, un’altra domanda: qual era l’obiettivo prioritario della lotta della Resistenza? Abbattere il nazifascismo per ottenere la pace. Noi facevamo la guerra, perché credevamo fosse l’ultima. Questo è il punto. Oggi chiediamo: se il 25 aprile ha ancora qualcosa da dire ai giovani e ai giovanissimi, vale la pena di insistere o non si rischia di passare per pedanti custodi di un cerimoniale superato? Io dico di no, che vale la pena insistere, però ad una condizione: che non si beatifichi la Resistenza. Si parli dei resistenti, ecco perché ho ricordato i nostri compagni Cervi, a uno a uno. Resistenti, donne e uomini in carne e ossa, giovani alla ricerca di una vita. Oggi invece stiamo vivendo l’esatto contrario dello spirito della Resistenza e del 25 aprile, che io ho personalmente vissuto. La maggioranza degli italiani, bisogna che ce lo diciamo (qui siamo in tanti, a Reggio Emilia si respira antifascismo…), a mio avviso non sono nemmeno lontanamente antifascisti. «È sempre meglio un fascista che un comunista», da anni me lo dicono! Però io non sono venuto qui per fare lezioni, non sono uno studioso, son venuto qui per mettermi in discussione, con voi… quando tornerò a Genova, a Dio piacendo, voglio essere più uomo, più partigiano, più cristiano, più prete, più coordinatore di comunità, più antifascista… Più anticapitalista! È qui il casino.” (Il canto del Gallo, Chiarelettere editore) Ecco, non punite don Massimo Biancalani perché ha voluto essere più uomo, più partigiano, più cristiano, più prete, più coordinatore di comunità, più antifascista, più anticapitalista.

Vescovo "bacchetta" don Biancalani ("Che amarezza...") e Salvini ("Fa polemica scorretta"). Valdinievoleoggi.it il 26/11/2019.  «Una grande amarezza». E' così che il vescovo Fausto Tardelli commenta l'iniziativa presa da don Massimo Biancalani, che domenica ha cantato assiene a un gruppo di fedeli “Bella ciao” al termine della messa nella parrocchia di Vicofaro, nonostante proprio dalla diocesi fosse arrivato un "altolà". L'Avvenire ha intervistato monsignor Tardelli, il quale ha detto di non riuscire "proprio a capire come dei fedeli possano non tener conto nella celebrazione liturgica di quelle che sono le indicazioni della Chiesa", aggiungendo che don Biancalani lo avrebbe fatto "quasi a mo’ di sfida". Dice poi di aver cantato lui stesso Bella ciao ("Un bellissimo canto") e racconta che anche il padre è stato partigiano e ha combattuto i nazifascisti sulle Alpi Apuane. "Ma Bella ciao non è un canto liturgico e non è appropriato cantarlo in chiesa", specifica. Ma poi la bacchettata del vescovo si rivolge anche verso il leader della Lega Matteo Salvini: «Provo profonda amarezza inoltre per l’ulteriore, e prevedibile, strumentalizzazione di questa vicenda da parte del senatore Salvini, che non perde l’occasione per entrare in polemica, in modo scorretto, nel contesto ecclesiale. Una ulteriore dimostrazione di miopia e, alla fine, di scarso di interesse nei confronti del mondo ecclesiale, “usato”, più che sostenuto».

Il prete anti-Salvini insulta ancora: "È un pezzo di m..." Il prete che aveva invitato a uccidere il ministro dell’Interno, va ancora all'attacco: "È dannoso per la democrazia". Pina Francone, Mercoledì 19/06/2019 su Il Giornale. Dopo aver invitato a uccidere Matteo Salvini, ora gli dà del pezzo di "emme". Don Giorgio De Capitani, il prete che ha appunto evocato la morte, per uccisione, del leader della Lega, è stato ospite de La Zanzara su Radio 24, cercando di mettere una pezza a quella delirante uscita. Ma la pezza è peggio del buco. E, infatti, ai microfoni della trasmissione radiofonico, dice: "Era una cosa paradossale per dire come Salvini sbaglia quando gode che un negoziante uccide una persona, così io sbaglio dicendo che bisogna ammazzare Salvini […] Un paradosso. Sto dicendo che il mio ragionamento è sbagliato, così lui capirà che il suo è sbagliato. Salvini mette sempre quei suoi post dicendo che hanno fatto bene ad ammazzare il ladro, dai...". Dunque, rincara la dose: "Salvini è un pericolo per la democrazia. L’ho definito più volte un pezzo di merda. Ma non ho detto di farlo fuori perché via Salvini ne arriverà un altro che è peggio". Poi l'uomo di Chiesa se la prende con i cittadini-elettori: "Il problema è il popolo, chi lo vota ragiona con la pancia. Quando lui dice che bisogna difendersi anche ammazzando il ladro, io allora dico bisogna che anch’io mi difenda ammazzando te che considero un ladro di democrazia. Ma è un puro ragionamento, cavoli, ci rendiamo conto ad un certo punto che siamo in mezzo ad una massa di cretini che non sanno neppure leggere tra le righe di chi si esprime?". Infine, dopo aver insultato – dandogli del "coglione" - uno dei conduttori de La Zanzara, che lo aveva criticato per le sue uscite più che colorite, il sacerdote svela di aver votato il Partito Democratico, turandosi il naso: "Ho sempre votato la sinistra. Il male minore. Una volta pure Bertinotti…".

Da repubblica.it il 21 novembre 2019. La casa natale di Adolf Hitler a Braunau am Inn, in Austria, ospiterà presto un commissariato di polizia. Come riferito dal ministero dell'Interno di Vienna, dopo una serie di lavori di ristrutturazione, sarà il comando distrettuale delle forze dell'ordine ad occupare i locali della casa nella quale nacque nel 1889 e passò i primi anni della sua vita il futuro Fuehrer, morto suicida nel suo bunker a Berlino il 30 aprile 1945 con l'ingresso dei soldati sovietici nella capitale tedesca. "Attraverso l'utilizzo di questa casa da parte della polizia intendiamo dare un segnale non fraintendibile del fatto che questo edificio verrà per sempre sottratto alla memoria del nazionalsocialismo", ha dichiarato il ministro dell'Interno, Wolfgang Peschorn. Dopo esser stato espropriata all'inizio del 2017, la casa è di proprietà dello Stato austriaco: lo scopo dichiarato è quello di evitare che si trasformi in una meta di pellegrinaggio per neonazisti di ogni sorta. L'espropriazione è avvenuta al termine di una lunga controversia legale tra la precedente proprietaria e lo Stato circa l'entità del risarcimento. Finora la Repubblica d'Austria ha versato a tal scopo circa 812 mila euro. Per i lavori di ristrutturazione verrà emesso un bando apposito entro il mese di novembre, i risultati si avranno probabilmente entro i primi sei mesi del 2020.

Lavinia Greci per ilgiornale.it il 22 novembre 2019. Vietato utilizzare "HH" nelle targhe in Germania. Il motivo? La possibile allusione al saluto nazista "Heil Hitler". Anche se sembra impossibile, è accaduto veramente. Secondo quanto riportato da Italia Oggi, nei giorni scorsi, il tribunale di Münster, in Westfalia, in Germania, ha deciso di proibire l'utilizzo della doppia lettera "HH" nelle targhe delle automobili. Forse per un eccesso di politicamente corretto, fatto sta che il proprietario della macchina in questione ha fatto appello al tribunale, ma ha perso.

Tutti i divieti tedeschi. Con il diffondersi del populismo e dei movimenti di destra, soprattutto in Germania, l'attenzione al politicamente corretto si è fatta più serrata. Quindi non solo "HH" (che rievoca lo slogan del terzo Reich con cui si salutava il Fuhrer) non si può utilizzare, ma è proibito scegliere anche "HJ", che potrebbe stare per "Hitler Jugend", la gioventù nazista. Oppure, ancora, il numero 88, che rievoca per due volte l'ottava lettera dell'alfabeto, che è proprio "H". Sulla stessa scia, non è possibile scegliere nemmeno il 18, perché entrambi i numeri porterebbero a indicare la prima e l'ottava lettera, ovvero "A" e "H", le iniziali di Adolf Hitler. E niente 84, per la stessa ragione: contando le lettere si costituirebbero le iniziali di "Heil Deutschland". Non si usa nemmeno 444, che sta per "DDD", sigla potenzialmente amata dai razzisti, che significherebbe appunto "Deutschland den Deutschen", la "Germania ai tedeschi". Ma le motorizzazioni in Germania (non tutte) non prestano attenzione soltanto alle iniziali degli slogan tedeschi, ma anche a quelle inglesi. Meglio non scegliere il 192, che significa "Adolf is back". Niente "SA" e, ovviamente, niente "SS". Ma neanche "OP", che sta per "Ost Preussen", la Prussia Orientale (ora diventata polacca), che stuzzica chi sogna quella riconquista.

I divieti non sono ovunque. Ma le interdizioni non sono tutte uguali. Perché se è vero che è proibito utilizzare la doppia "H" a Münster, è invece lecito sceglierla ad Amburgo. Il tutto perché la città anseatica ha rinunciato alla sola "H" (la sola lettera a cui hanno diritto le metropoli) per usare "Hanseatic Hamburg". Ma se le iniziali dei cittadini dovessero coincidere a dei riferimenti nazisti, le regole parlano chiaro: niente permesso. Non vanno bene nemmeno le allusioni esoteriche, sataniche o che possano ricordare il terrorismo. Quindi nemmeno "IS", la sigla dello Stato islamico.

Come funzionano le targhe tedesche. A differenza dell'Italia, dove qualche anno fa tutti i cittadini furono costretti a cambiare le targhe, non più con le sigle delle città di provenienza, ma con le lettere dell'alfabeto, in Germania le località che hanno diritto a una dicitura erano circa 490. La pratica del cambio di targa, oggi, là risulta più semplice ed economica e, secondo quanto riportato dal quotidiano, è possibile scegliere una sigla personale, purché non sia già occupata. Vanno bene date di matrimoni, anniversari, iniziali di persone o di figli, date di nascita o avvenimenti importanti.

Da “Libero quotidiano” il 21 novembre 2019. Il Comune di Verona intitola una strada a Giorgio Almirante - decisione della scorsa primavera, ora è arrivato il via libera tecnico - ma Pd e M5s insorgono. «Il Comune di Verona ne combina un' altra delle sue e prosegue nel tentativo di trasformare la città medaglia d' oro della Resistenza, nel laboratorio politico e culturale della peggior destra», attacca Alessia Rotta, vice capogruppo Pd.

(ANSA il 21 novembre 2019) - Spariscono i nomi di due strade e un largo di Roma prima intitolate ad Arturo Donaggio ed Edoardo Zavattari, firmatari del Manifesto della Razza. La sindaca Virginia Raggi ha presentato insieme con studenti romani e con la comunità ebraica la reintitolazione delle vie al medico Mario Carrara, alla fisica Nella Mortara e alla zoologa Enrica Calabresi. I tre nuovi intestatari sono scienziati che si opposero e furono vittime di discriminazioni razziali durante il regime fascista.

Francesco Giubilei per Nicolaporro.it l'1 luglio 2019. Ci risiamo. Per l’ennesima volta scatta la censura rossa nei confronti di pensatori, giornalisti, professori, uomini di cultura non allineati al pensiero progressista, questa volta a farne le spese è Marco Gervasoni, professore di Storia contemporanea all’Università degli Studi del Molise, editorialista de Il Messaggero e volto noto del mondo conservatore italiano. Il gravissimo crimine di cui si è macchiato Gervasoni è aver espresso sul suo profilo Facebook una personale opinione sul caso Sea Watch scrivendo: “Ha ragione Giorgia Meloni la nave va affondata” per poi aggiungere provocatoriamente “quindi Sea watch bum bum, a meno che non si trovi un mezzo meno rumoroso”. Il post non è passato inosservato e ha suscitato la reazione di Loreto Tizzani, presidente dell’Anpi Molise, che ha definito le parole di Gervasoni indicative “di una visione del mondo e dei diritti umani a dir poco sconcertante” per poi aggiungere “ciò che li rende assolutamente vergognosi è il fatto che ad usarli sia un docente universitario, e per di più un docente di storia: la categoria cioè di coloro che avrebbero l’alto compito di educare le giovani generazioni instillando in loro conoscenza, competenza, etica. Senza dimenticare il rigore di analisi e di acquisizione di dati che dovrebbe costituire il necessario bagaglio operativo di chi si avvicini allo studio della storia”. L’attacco dell’Anpi nei confronti di Gervasoni è grave per due motivi: anzitutto perché vuole colpire le legittime opinioni personali di un professore espresse al di fuori del contesto universitario, in secondo luogo perché, se a esprimere opinioni politiche è un docente con idee progressiste (cosa che avviene quotidianamente), è considerato non solo giusto ma anche doveroso, se a farlo è un conservatore scatta la censura. Gervasoni non ha manifestato il suo pensiero sul caso Sea Watch all’interno di un’aula universitaria, in quel caso sarebbe stato giusto intervenire (anche se quando la politica viene portata nelle aule universitarie dai professori di sinistra nessuno dice nulla) ma lo ha fatto sui propri social network esprimendo un’opinione che si può non condividere, si può definire sopra le righe, ma rientra nell’ambito della normale dialettica democratica. Un “affronto” ritenuto sufficiente per mettere in discussione le sue capacità didattiche: “ci si chiede dunque cosa e come potrà insegnare ai propri studenti”. Non credo sia necessario conoscere il curriculum di Gervasoni per rendersi conto della sua preparazione, basterebbe leggere un qualsiasi suo libro o articolo ma la stessa attenzione dell’Anpi a indignarsi, chiedere dimissioni o licenziamenti, non viene dedicata a leggere e conoscere la produzione editoriale dei conservatori. Ci chiediamo cosa sarebbe accaduto se Gervasoni non fosse un professore ordinario ma un ricercatore o un associato? Per il semplice fatto di aver espresso un’opinione personale non allineata, ne avrebbe risentito la sua carriera accademica nell’ambito di una visione dell’università basata sul concetto di egemonia culturale della sinistra teorizzato da Gramsci che, come scrive lo stesso Gervasoni, sembra “avere come modello di libertà l’Urss”. Arriviamo così alla richiesta di provvedimenti contro Gervasoni: “comportamenti così gravi, soprattutto per i possibili effetti negativi sugli studenti dal punto di vista umano e didattico, siano adeguatamente valutati dall’Università”. Nelle Università italiane martoriate da occupazioni abusive, scandali sui concorsi e le nomine, strutture carenti e insufficienti, qualità della didattica sempre più bassa, il post di Gervasoni di certo non avrà nessun effetto dal punto di vista umano (!?) e didattico sugli studenti mentre da ormai molti anni le conseguenze di atteggiamenti censori sono devastanti per la libertà di pensiero di professori e studenti nelle università che alcuni non vorrebbero come un luogo di confronto, dialogo e scambio di opinioni ma di indottrinamento al pensiero unico.

«Incita al femminicidio». T-shirt in vendita al Carrefour scatena l’indignazione del Pd. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 da Corriere.it. Ha scatenato le proteste del Pd e indignazione sui social una t-shirt in vendita da Carrefour. Sulla maglietta compaiono in un riquadro un uomo e una donna stilizzati in cui lei urla nell’orecchio di lui, e sotto la scritta “problem”. Nel riquadro accanto c’è solo l’uomo con il braccio teso perché ha cacciato la donna, buttata giù fuori dal riquadro a testa in giù e la scritta “solved”. Duro l’attacco della senatrice dem Monica Cirinnà che ha postato la foto della maglietta su Twitter attaccando duramente l’azienda. «Se una donna parla troppo, meglio liberarsene? Gravissimo, specie in un paese in cui la violenza contro le donne è notizia di ogni giorno . Chiariscano, o dovrò buttare la mia tessera» ha scritto Cirinnà. «È gravissimo che un’azienda produca magliette che incitano al femminicidio. Ancora più grave che una nota catena di supermercati si metta a disposizione per distribuirle», le ha fatto eco la senatrice Pd Valeria Fedeli. «Attrazione per idioti. Ma davvero succede al @CarrefourItalia?», ha commentato la cantante Paola Turci. Carrefour in una nota ha spiegato che «le due unità poste erroneamente in vendita in un unico punto vendita di Roma, appartengono a un lotto che non avrebbe dovuto essere commercializzato». La catena di supermercati ha anche fatto sapere che «a seguito della segnalazione ricevuta nella giornata di ieri tramite social, Carrefour Italia ha immediatamente provveduto al ritiro delle magliette e contemporaneamente avviato una indagine interna per comprendere le dinamiche dell’accaduto. In questo modo è stato immediatamente chiarito che quanto accaduto è un mero errore materiale nel rifornimento di quel singolo punto vendita». Carrefour Italia infine «si scusa con tutti coloro che si sono sentiti offesi dai contenuti della maglietta», contraria ai «principi di inclusione e rispetto» che l’azienda promuove sul territorio italiano.

Violenza sulle donne, maglietta shock da Carrefour: "La ritirino, incita al femminicidio". La replica: un errore. Sulla t-shirt si vede una donna che precipita spinta da un uomo, dopo una discussione. E si legge la scritta "problema risolto". La protesta del Pd. Fedeli: "Deve essere subito bloccata e ritirata dal mercato". Cirinnà: "L'azienda sposa questo messaggio?". La risposta della società: "Avevamo già tolto dal mercato quelle maglie, indagheremo su quanto accaduto". La Repubblica il 26 ottobre 2019. Due figure stilizzate: un uomo e una donna. Discutono (si vede lei che parla animatamente). Poi la donna precipita, evidentemente spinta da lui, che ha il braccio teso. E sotto si legge l'incredibile scritta in inglese: problem solved, problema risolto. Tutto questo disegnato su una maglietta azzurra in vendita nei supermercati Carrefour. A far esplodere il caso - provocando poi le scuse dell'azienda - sono alcune parlamentari del Partito democratico. Monica Cirinnà, incredula, posta la foto della maglietta. E twitta: "Ho appena visto questa maglietta in vendita al Carrefour. Se una donna parla troppo, meglio liberarsene? L'azienda sposa questo messaggio? Gravissimo, specie in un paese in cui la violenza contro le donne è notizia di ogni giorno. Chiariscano, o dovrò buttare la mia tessera". Dure critiche dalla ministra della Famiglia Elena Bonetti. Che in un post su Facebook scrive: "Magliette come questa sono purtroppo ovunque in vendita nel web, in Italia e non solo, a testimonianza di una cultura inaccettabile e dilagante di violenza sulle donne. È una battaglia difficile che vinceremo solo se sapremo affrontarla insieme, in prima persona. Il cambiamento sta a noi, nelle nostre parole, nei gesti. E anche nei nostri acquisti". Interviene anche la senatrice dem Valeria Fedeli, capogruppo in commissione diritti umani. "È gravissimo che un'azienda produca magliette che incitano al femminicidio. Ancora più grave che una nota catena di supermercati si metta a disposizione per distribuirle". E ricorda: "In un Paese dove ogni 72 ore una donna viene uccisa, la mercificazione di una tragedia di queste dimensioni è un fatto intollerabile". Infine chiede l'immediato stop alla vendita e alla produzione: "L'azienda Skytshirt fermi subito la produzione e Carrefour Italia ritiri immediatamente il prodotto dai propri negozi". E Valeria Valente, presidente della Commissione femminicidio: "Vi pare normale che in un Paese dove viene uccisa 1 donna ogni 2 giorni si possa mettere in vendita una t-shirt del genere?". "La questione è culturale e investe chiunque, aziende comprese", dice Francesco Laforgia di Leu. Per Laura Boldrini la maglietta è "vergognosa". La parlamentare dem ringrazia "tutte le persone che si sono mobilitate per farla ritirare". Cinzia Leone (M5S) chiede che "episodi del genere non si ripetano più". Mentre la Casa internazionale delle donne invita a mandare una mail di protesta alla catena di supermercati per ottenere il ritiro del prodotto.

La replica dell'azienda: "È stato un errore". E Carrefour - contattata da Repubblica - fa sapere che erano state messe in vendita solo due di quelle magliette in un unico supermercato a Roma e per un errore, perché quel prodotto era già stato ritirato mesi fa. E aggiunge che è stata avviata un'indagine interna per capire come mai siano state esposte quelle due t-shirt, comunque ritirate già ieri dopo una segnalazione sui social. "Per noi - si legge poi in una nota - l'impegno contro la violenza sulle donne è un valore centrale, come testimoniano numerose iniziative a sostegno di organizzazioni no profit impegnate su questi temi".

Stefano Rizzuti per fanpage.it il 26 ottobre 2019. Sulla maglietta sono ritratti un uomo e una donna. Nel primo riquadro i due discutono animatamente e lei sembra urlare. Nel secondo riquadro, invece, lei non c’è più, probabilmente buttata giù dall’uomo che sembra averla spinta. La maglietta, in vendita al Carrefour, è al centro delle polemiche politiche, scatenate dalla senatrice del Pd, Monica Cirinnà, che ha condiviso una foto della t-shirt su Twitter. Nella maglietta blu si legge nel primo riquadro la scritta ‘problem’, nel secondo la scritta ‘solved’, quando la figura femminile viene spinta giù dall’uomo. A far partire la polemica, come detto, è Monica Cirinnà: “Ho appena visto questa maglietta in vendita al Carrefour. Se una donna parla troppo, meglio liberarsene? L’azienda sposa questo messaggio? Gravissimo, specie in un paese in cui la violenza contro le donne è notizia di ogni giorno. Chiariscano, o dovrò buttare la mia tessera”. Alle proteste della senatrice Pd seguono quelle di Valeria Fedeli, ex ministro dell’Istruzione e senatrice dem: “È gravissimo che un'azienda produca magliette che incitano al femminicidio. Ancora più grave che una nota catena di supermercati si metta a disposizione per distribuirle. In un Paese dove ogni 72 ore una donna viene uccisa, la mercificazione di una tragedia di queste dimensioni è un fatto intollerabile. L’azienda Skytshirt fermi subito la produzione e Carrefour Italia ritiri immediatamente il prodotto dai propri negozi”. Si unisce alle critiche anche Valeria Valente, presidente della commissione Femminicidio: “Vi pare normale che in un Paese dove viene uccisa 1 donna ogni 2 giorni si possa mettere in vendita una t-shirt del genere? La violenza contro le donne vive una vera e propria escalation: basta con questi attacchi sessisti, tanto più subdoli perché mascherati da una macabra ironia”, scrive su Twitter postando la foto della maglietta. Sempre dal Pd, commenta anche Alessia Morani: “Al Carrefour vendono questa maglietta. Io credo sia una vergogna in un paese in cui il femminicidio è un dramma. Mi auguro che immediatamente venga ritirata dalla vendita”.

 Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 28 ottobre 2019. "Ho una figlia bellissima, ma anche una pistola, una pala e un alibi perfetto", "ti avevamo detto di prendere un mojito e non un marito", "frequento solo gente per bere", "salva un maiale, mangia un vegano", "a mali estremi, bevi e rimedi", "ogni uomo ha il diritto di fare quello che vuole lei". Sono alcune delle frasi che appaiono stampate sulle magliette in vendita sia online che in numerosi negozi della penisola. Le compriamo, le sfoggiamo, ci suscitano una risata, eppure mai nessuno si è sognato di fare il processo ad una di queste t-shirt accusandola di incitare all' omicidio, o all' alcolismo, o alla violenza. L' unica vera e indiscutibile colpa di simili indumenti è che risultano di cattivo gusto e non andrebbero indossati neanche come pigiama, quantunque si vada a letto da soli o al massimo in compagnia del proprio gatto. Tuttavia, tacciare chi li veste, li produce o li vende di esortare al femminicidio più che da malpensanti è da folli. Come può infatti una scritta demenziale impressa sul cotone istigare al compimento di un brutale assassinio?

LA FURIA DELLA CIRINNÀ. È bastato che la senatrice del Pd Monica Cirinnà postasse su Twitter la fotografia della maglia inquisita, in cui appare un omino che spinge una sagoma femminile che gli urla nell' orecchio, perché deflagrasse l' ennesima polemica di stampo sessista. Cirinnà scorge insulti al gentil sesso persino mentre spinge il carrello al supermercato e si imbatte in un prodotto che peraltro ha il suo corrispettivo al femminile: una sposa che si libera dello sposo con uno spintone e la frase "problema risolto". Dovremmo forse ritenere che tale vignetta rappresenti un invito rivolto alle mogli a fare fuori i mariti? O si tratta piuttosto di una asserzione ironica, mirante a strappare una risata? Non è plausibile pensare che la signora insoddisfatta della sua vita coniugale una volta intravista la maglietta in questione torni a casa e accoltelli il coniuge, poiché indotta alla realizzazione del delitto da una specie di straccetto demoniaco. Se ammettessimo codesta circostanza, un domani potremmo ritrovarci un imputato per omicidio che giustifica il suo atto tirando in ballo una t-shirt innocente pescata sul bancone del mercato, come se egli non avesse avuto capacità di intendere e di volere, come se non fosse un soggetto in grado di discernere e di riconoscere il sarcasmo, eccellente o pessimo che sia, secondo i gusti personali, dal momento che ciò che diverte me non per forza deve divertire anche te.

PRETESE ASSURDE. Siamo alle solite, insomma. Il neo-femminismo lagnoso, che mira a fare delle donne vittime perfette del sistema, della società, degli uomini, seguita a cogliere ogni fantomatica pretesa per piagnucolare, per additare qualcuno, per prendersela e dirsi offeso, anzi oltraggiato. Questo tipo di femminismo è un insulto a tutto il nostro genere. Dovremmo essere innanzitutto noi ad emanciparci dal ruolo di martiri. Tuttavia, sembra che ci piaccia, e pure tanto. Dovremmo chiedere di essere trattate come gli uomini, né meglio né peggio, eppure noi davanti alla maglietta del Carrefour ci stracciamo le vesti, i maschi invece se leggono la scritta "meglio un moijto che un marito" si fanno una risata. Qualche giorno fa ha suscitato un pandemonio un titolo di Repubblica sul web: "Prima passeggiata al femminile per le due astronaute della Iss". Gli utenti si sono proclamati indignati dal maschilismo dei giornalisti, i quali hanno soltanto riportato una notizia, ossia che per la prima volta nella storia due donne, Christina Koch e Jessica Meir, si sono avventurate nello spazio senza colleghi maschi (rimasti a guardare), uscendo dalla stazione spaziale internazionale per un intervento tecnico alle batterie durato 7 ore e 17 minuti. Non era accaduto prima per la mancanza di tute e protezioni delle taglie adeguate. Persino la Nasa ha festeggiato l' evento definendolo "HERstory", ossia "storia di lei". Intanto, dall' altra parte dell' oceano Atlantico, ovvero in Italia, si deplorava la fallocrazia di Repubblica nei confronti delle misere astronaute maltrattate.

Marco Pasqua per il Messaggero il 28 ottobre 2019. «La famiglia è uomo e donna. Si chiama normalità». E' uno dei commenti firmati, oggi, su Facebook, dal social media manager della Federazione pugilistica italiana. Commenti venuti all'attenzione del Gay Center, che, con il suo portavoce chiede l'intervento del ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora. Postando un articolo del "Primato nazionale", di fatto house organ di Casapound (che titola "La Consulta boccia l'omogenitorialità: le coppie gay non sono famiglie"), l'addetto-giornalista della Federazione pugilistica, sul suo profilo Facebook,: "Attaccateve a stoc...". E, ancora: «A un bambino servono una madre e un padre. Io non discrimino nessuno, ma sono contro la società del "è bono tutto". Saluti romani». «E' indegno che un dipendente di un ente pubblico possa usare espressioni di questo tipo - dice il portavoce del Gay Center, Fabrizio Marrazzo - offendendo, tra l'altro, le famiglie Glbt e le persone omosessuali. Chiediamo al ministro Spadafora, che è da sempre attento al tema anche in quanto ex Sottosegretario alle Pari opportunità, di intervenire contro queste affermazioni e valutando la rimozione di questo dipendente dal suo incarico. Commenti di questo tipo non sono tollerabili».

L'intervento di Vittorio Lai, presidente Fpi. «Abbiamo appreso - scrive Lai in una nota - da un comunicato stampa diffuso in tarda serata di un post attribuito a un nostro dipendente che contempla affermazioni discriminanti e a tratti anche offensive nei riguardi di chi vive la propria condizione umana nel pieno consesso civile. Nel rappresentare l’intera Federazione, atleti e dirigenti in qualità di presidente della FPI e unitamente a tutto il mondo pugilistico italiano prendo nettamente e con decisione le distanze da tali affermazioni e soprattutto da tali comportamenti discriminatori. Preciso che la Federazione Pugilistica Italiana è da sempre impegnata con testimonianze e attività di sensibilizzazione a tutela della famiglia e dei valori umani di tutti. Da sempre abbiamo messo in atto campagne sociali a favore dell’integrazione, a favore della difesa delle donne, a tutela delle vittime di ogni violenza, anche psicologica. Nei confronti del bullismo e del cyberbullismo realizziamo con periodicità incontri, dibattiti con testimonial di grande spessore. Non possiamo sentirci coinvolti in dichiarazioni personali che non appartengono alla mission di questa Federazione e del Pugilato. Valuteremo immediatamente la posizione del nostro dipendente e prenderemo i provvedimenti più opportuni. Sia ben chiaro, infine, che questo accadimento non frenerà le nostre campagne sociali nel processo di divulgazione dei valori e principi che sono alla base della nostra disciplina.

 “Donne in vetrina per rilanciare turismo”.  La proposta shock del consigliere leghista. Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. Durante l’esternazione, in commissione Sviluppo economico del consiglio regionale, c’è chi ha pensato a uno scherzo di pessimo gusto. Ma quando Roberto Salvini, esponente pisano della Lega, già sindacalista alla Piaggio di Pontedera ed ex fondatore del partito dei cacciatori, ha ripetuto più volte che per rilanciare il turismo termale ci vogliono anche le «donne in vetrina» come fanno in Olando e in altri paesi dell’Ue, è scoppiato il putiferio. O meglio le polemiche sono esplose poco dopo quando i consiglieri e le consigliere hanno riascoltato le parole del collega immortalate anche in un video pubblicato su Facebook dalla vice capogruppo in consiglio regionale del Pd, Monia Monni che ha detto di essere «indignata e disgustata» per la proposta della Lega. L’esternazione di Salvini, ascoltata prima delle contestazioni da un silenzio glaciale, descrive in gergo toscano che cosa cerca il villeggiante medio. «Un “briaone” (ubriaco fradicio ndr) va a cercare la cantina – spiega il leghista – ma non c’è solo il “briaone”, c’è anche altra gente che cerca altre cose». Che cosa? Semplice le donne in vetrina, come in Olanda. «Ce lo vogliamo togliere il prosciutto dagli occhi – esorta il Salvini pisano -. Io sono stato vent’anni alle fiere in Germania, in Francia in Austria. Troviamo anche noi le donne da mettere in vetrina. Come si sfruttano le terme? Gioco e…». A questo punto iniziano le prime contestazioni. Ma Salvini non fa marcia indietro. «Non facciamo i benpensanti. Che cosa è Firenze sui viali? E Montecatini? E Viareggio?». Le reazioni contro la proposta di Roberto Salvini sono durissime. E non soltanto da parte dell’opposizione, delle associazioni delle donne e dei singoli cittadini indignati, ma anche dalla Lega. Che prima diffonde una nota nella quale scrive di prendere le distanze «dai contenuti e dai toni del consigliere che ha parlato esclusivamente a titolo personale», poi per bocca del commissario leghista Daniele Belotti annuncia di aver dato mandato alla capogruppo leghista Elisa Montemagni di sospendere il consigliere Salvini. Nella nota, diffusa in mattinata, la Lega scriveva di essere «in prima linea per difendere dignità e diritti della donna, sotto tutti i punti di vista, familiare, sociale e lavorativo». «Il consigliere regionale – continua la nota - è fuori linea anche sulla legalizzazione della prostituzione. Siamo a favore della riapertura delle case chiuse, ma guardiamo al modello svizzero ed austriaco, quindi senza vetrine, col chiaro scopo di garantire più sicurezza nelle nostre città, eliminare il degrado nelle aree teatro di prostituzione da strada, stroncare radicalmente l’indegno sfruttamento delle donne da parte di organizzazioni criminali, prevenire malattie a trasmissione sessuale e far emergere l’enorme ed incontrollata evasione fiscale, garantendo, in tal modo, entrate tributarie miliardarie per lo stato italiano».

Dall'articolo di La Repubblica il 20 settembre 2019. (…) "È fortunata, perché è sopravvissuta, tante donne vengono uccise", dice Vespa. E aggiunge: "Se avesse voluto ucciderla l’avrebbe uccisa".  Parole che potrebbero essere intese come se l'aggressore si fosse voluto fermare in tempo, mentre dal racconto di Lucia appare chiaro che l'omicidio non c'è stato perchè con la forza della disperazione lei riesce a scappare. "Il tono dell’intervistatore tra risolini, negazioni, battutine è semplicemente intollerabile. Questo non è giornalismo, questa è spazzatura", scrive l'associazione "Non Una Di Meno". "Mi vergogno profondamente che non siano stati ancora presi provvedimenti per questa intervista indegna. Vespa ha offeso tutte le donne vittime di violenza, che vivono in un paese misogino, sessista e patriarcale", attacca su Facebook Beatrice Brignone, segretaria di Possibile. "Siamo nel 2019 e ancora dobbiamo assistere alla colpevolizzazione delle vittime, come nei processi di 50 anni fa, con l'aggravante che tutto questo accade in televisione e attraverso un servizio pubblico, che noi cittadini paghiamo", commenta un altro utente. Aggiunge "Lettera Donna": "Quando Lucia descrive la sua relazione con Fabbri come "poco più che un flirt", Vespa chiosa: "Diciotto mesi sono un bel flirtino però, eh". Poi mostra le immagini della donna pestata dopo l’aggressione: "Certo che l’aveva ridotta piuttosto male, ma posso chiederle di cosa si era innamorata?". "Ma era così follemente innamorato di lei da non volerla dividere con nessuno se non con la morte?". Vespa ha però scelto di replicare alla ricostruzione: “Sono sorpreso e indignato - ha affermato il giornalista - da alcune reazioni alla mia intervista di ieri sera alla signora Lucia Panigalli. Se c'è una trasmissione che dalle sue origini si è fatta portavoce della tutela fisica e morale delle donne vittime di violenza questa è Porta a porta. Abbiamo invitato la signora proprio perché il suo caso è clamoroso e allo stato la legislazione non è in grado di proteggerla in maniera adeguata. È gravissimo che si voglia estrapolare una frase da un dialogo complessivo di grande solidarietà e rispetto. La risposta migliore a queste calunnie sono i ringraziamenti che abbiamo ricevuto dalla signora e dal suo avvocato”. La Rai ha anche fatto sapere che l’avvocato Giacomo Forlani, legale della signora Panigalli, "ha ringraziato Bruno Vespa per la sensibilità mostrata nei confronti di un caso umano. La frase su cui si sono concentrate le speculazioni, per le quali si è immediatamente scusato, è frutto di un’affermazione assolutamente involontaria, pronunciata nel contesto di una serata dedicata alla difesa delle donne".

Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 20 settembre 2019. «È fortunata, perché è sopravvissuta, tante donne vengono uccise». È una delle frasi su cui è scivolato Bruno Vespa nel corso dell' intervista a una donna vittima di tentato femminicidio, trasmessa martedì scorso su Rai1. Alle proteste di Fnsi e Usigrai, si è aggiunto ieri l'Ordine dei giornalisti: «In seguito alla segnalazione di una privata cittadina», il conduttore sarà ora «sottoposto al rituale procedimento disciplinare». Sulle barricate pure la politica. Il M5S annuncia un esposto all' Agcom, Leu in Vigilanza. Tanto da costringere l' ad di Viale Mazzini a stigmatizzare l' accaduto. «Condivido la forte contrarietà suscitata dai toni dell' intervista», precisa Fabrizio Salini in serata, «considero la difesa e la tutela dei diritti delle donne un principio imprescindibile e indiscutibile della Rai, su cui non sono mai tollerabili equivoci». Parole che fanno trapelare tutta l' irritazione per la leggerezza con cui troppo spesso la tv pubblica tratta la cronaca nera. «La Rai e tutte le sue strutture - a cominciare da Porta a Porta - devono aderire alla linea editoriale dell' azienda che condanna fermamente la violenza», avverte Salini. Era stata la stessa vittima, Lucia Panigalli, a confessare all' Ansa tutto il suo disagio per il trattamento riservatole. Maturato a mente fredda. «Mi hanno profondamente offesa il tono e i modi usati da Vespa nel corso della trasmissione. Mi sento offesa anche a nome di tutte le donne che non sono state "fortunate" come me». Parole che, dopo una prima ondata di polemiche, scatenano la condanna delle Commissioni pari opportunità della Fnsi. Che insieme all' Usigrai si chiede «come sia possibile che la Rai tolleri una tale, distorta, tossica rappresentazione della violenza contro le donne», in «palese violazione del contratto di servizio » e del codice deontologico.

Identico il giudizio della politica. «Su temi così delicati e sulla sofferenza delle persone, quelli che svolgono il difficile compito di informare devono avere la massima attenzione e delicatezza», dice la vicepresidente M5S della Camera Maria Edera Spadoni. Mentre la dem Valeria Valente, presidente della Commissione d' inchiesta sul femminicido, esorta: «L' intervista è stata gestita male. È arrivato il momento di richiamare i giornalisti ai valori contenuti nel Manifesto di Venezia, la carta per la corretta informazione sulla violenza di genere che la Fnsi ha varato due anni fa». Ma Vespa si difende: «Credo sia la prima volta in assoluto che un giornalista viene criminalizzato a causa di una trasmissione per la quale viene al tempo stesso ringraziato dall' avvocato della sua presunta vittima». A cui rinfaccia: «Alla fine della trasmissione la signora Panigalli mi ha ringraziato con molta cordialità».

Da "il Giornale" il 20 settembre 2019. «Mi sono dimesso il 23 gennaio 2016 dalla Federazione nazionale della stampa per il carattere violento, pretestuoso e settario delle sue polemiche nei miei confronti. Il mio giudizio si rafforza alla luce dell' incredibile dichiarazione di oggi. Credo sia la prima volta in assoluto che un giornalista viene criminalizzato a causa di una trasmissione per la quale viene al tempo stesso ringraziato dall'avvocato della sua presunta vittima».

Se ora anche Simba diventa un fascista....Francesco Maria Del Vigo, Mercoledì 17/07/2019 su Il Giornale. Zampa destra tesa verso il cielo con stentoreo e virile - pardon animale - gesto. Camerata Simba! Presente. Sì, avete capito bene, il Re leone è fascista. Lo ha scritto il Washington Post. Anche se a questo punto avrebbero potuto chiamarlo direttamente il Duce Leone. Giusto per essere chiari. Qualche giorno fa il prestigioso quotidiano americano ha pubblicato un editoriale che non lascia dubbi: il remake del celebre cartone animato della Disney, non è nient'altro che una larvata metafora della società fascista. «Il film - scrive Dan Hassler-Forest, docente all'università di Utrecht - presenta una visione del mondo seducente in cui il potere assoluto non viene messo in discussione e il debole e il vulnerabile sono fondamentalmente inferiori. In altre parole: Il Re Leone ci offre un'ideologia fascista scritta a lettere cubitali, e non c'è una via d'uscita ovvia per il remake». Il passo successivo è sostenere che i giovani d'oggi votano Salvini perché vent'anni fa mamma e papà li hanno portati al cinema a vedere il cartone della Disney. Il professor Hassler non arriva a tanto, ma forse solo perché non conosce Salvini. E per fortuna che il simbolo di Casapound sono le tartarughe, altrimenti sai che casino. Ma Hassler fa di peggio: arriva a sostenere che le iene «con i loro accenti di strada codificati etnicamente simboleggiano stereotipi razzisti e antisemiti» e, ovviamente, anche omofobi. Sì, sì, non vi state sbagliando. Sta parlando di un cartone animato, non del Mein Kampf. Speriamo solo che i figli al cinema li porti sua moglie...Il problema è che Hassler non è un pazzo isolato, ma solo l'ultimo epigono di una serie di pompieri del politicamente corretto che vorrebbero ridurre tutto a una dittatura culturale. Povera, arida, molto poco creativa. Sono partiti dalla politica e sono arrivati alle favole. «Il film incorpora una visione del mondo in cui il potere dei governanti deriva dalla loro superiorità biologica». Grazie caro Hassler, è un film il cui personaggio principale è un leone. Lo vada a dire alla gazzella che il mondo non è dei più forti. Ma forse non sa nemmeno quella storiella lì. Sarà stata troppo politicamente scorretta.

La solita ghigliottina del politicamente corretto cala su Artsmedia. Marco Lomonaco il 18/07/2019 su Il Giornale Off. “Non posso stare senza la Fi”. Anche alle donne piace la Fi”. Sono queste alcune delle frasi usate dall’agenzia Artsmedia per la campagna di comunicazione social della Fidelis Andria, squadra di calcio militante in serie D, per lanciare gli abbonamenti alla prossima stagione. Peccato che, dopo poco tempo dal lancio della campagna, è scattata la mordacchia anti-sessista di certi giornali che non si sono astenuti dai soliti commenti di circostanza. Di seguito le parole della presidente del CAV (Centro Anti Violenza) Patrizia Lomuscio comparse in un commento al post della Fidelis targato Arsmedia: “Ho chiesto immediatamente alla società di cambiare la pubblicità, altrimenti mi vedrò costretta, in qualità di presidente del centro antiviolenza ma anche donna, tifosa da anni, a segnalare alle autorità competenti. Non mi sento rappresentata da questo tipo di pubblicità”. L’agenzia però, come ovvio, non voleva offendere nessuno e a passare per sessista non ci sta. Il CEO di Artsmedia Giuseppe Inchingolo ha infatti precisato in mattinata al Giornale OFF che: “Le immagini con la scritta ‘Non posso stare senza la Fidelis’ o ‘Anche alle donne piace la Fidelis” sono state volutamente tagliate perché l’idea dietro la campagna è che l’amore per la squadra sia talmente grande da non poter essere contenuto in un post social”. Facendo questo, come quando un immagine da caricare sui social risulta troppo grande per essere contenuta nel rettangolo o nel quadrato a disposizione, risulta sformata o addirittura, come in questo caso, tagliata. “L’invito che la campagna di comunicazione fa è il seguente – precisa Inchingolo – Uscire dai social, che non possono contenere l’amore per la Fidelis, e andare allo stadio a tifare!”. Un amore così grande non può essere contenuto nei social, non per niente l’hashtag della campagna abbonamenti 2019/2020 è #amoresenzafine. Ora, sarà forse perché Artsmedia collabora fra gli altri con Luca Morisi, spin doctor di Matteo Salvini, nella comunicazione leghista che la loro campagna per la Fidelis Andria è stata bollata da subito come sessista a causa di un gioco di parole? Il sospetto è più che legittimo a questo punto, viste le ampie spiegazioni che l’agenzia ha fornito alla stampa in seguito alla polemica. Polemica che per altro, non esiste, come non esiste sessismo in questo caso: ad esistere piuttosto è una campagna di marketing e un gioco di parole a supportarla. Ma se anche ci fosse l’intento di “giocare” con le parole: c’è qualcosa di sbagliato nel riconoscere tramite un post, un pubblico omosessuale femminile ad una squadra di calcio? O l’amore per il calcio è prerogativa solo di alcune categorie di persone?. Assolutamente no. Quindi se anche ci fosse stata la volontà di giocare su questi aspetti, che cosa ci sarebbe di male? Forse l’unica cosa inquietante di tutta questa storia è che la mannaia dell’anti sessismo è calata ancora una volta su chi non rientra nei canoni belli ed educati del politicamente corretto, su professionisti che sanno fare il loro lavoro e, non per niente, partecipano alla campagna del primo partito Italiano.

Velletri, il paese che "boldrinizza" il linguaggio. La giunta di Velletri approva un provvedimento "boldriniano" che mette al bando il linguaggio sessista dalla modulistica e dalle comunicazioni ufficiali. Fratelli d'Italia: "Di questo passo cambieranno anche l'inno nazionale". Elena Barlozzari e Alessandra Benigenetti, Giovedì 18/07/2019 su Il Giornale. “Sindaco, sindaca? A me non importa, quello che conta è che sia una persona per bene”. La signora che abbiamo davanti, una velletrana doc che porta sul viso i segni dell’esperienza, proprio non riesce a capire quale sia il problema. “È nel linguaggio signora”, proviamo a rilanciare. Nulla, ci guarda disorientata, scrolla le spalle e si congeda con un sorriso. Difficile spiegare, soprattutto agli over sessanta, quello che sta succedendo in città. Una vera e propria rivoluzione linguistica con cui, prossimamente, dovranno fare i conti tutti i cittadini (anzi, meglio dire gli individui, per non far torto a nessuno) che si troveranno a dialogare con l’amministrazione locale. Sarà allora che si accorgeranno dei cambiamenti introdotti dalla delibera di giunta di Velletri approvata lo scorso lunedì. Un provvedimento dal sapore “boldriniano” che mette al bando il linguaggio sessista dalla modulistica e dalle comunicazioni ufficiali. “Il linguaggio – si legge nelle premesse – rappresenta uno strumento fondamentale per diffondere una cultura paritaria”. Alla classica (e un po’ cacofonica) declinazione di qualifiche professionali ed incarichi istituzionali al femminile (la sindaca, l’assessora, l’architetta, la medica e via dicendo) si accompagnano anche altre novità. “Leggendo le linee guida balzano all’occhio delle trovate tragicomiche”, spiega Chiara Ercoli, consigliera comunale di Fratelli d’Italia con una discreta allergia per le quote rosa. “Noi donne non abbiamo bisogno della corsia preferenziale”, mette subito le mani avanti. Ecco allora qualche esempio di “linguaggio rispettoso dell’identità di genere”: evitare l’uso delle parole uomo e uomini in senso universale, meglio scrivere “diritti dell’umanità” piuttosto che dell’uomo; parlando di popoli, invece, la formula consigliata è, ad esempio, “il popolo romano” anziché “i romani”; per quanto riguarda la coppia oppositiva “uomo/donna” la nuova regola è quella di dare la precedenza al femminile. Ma non finisce qui. Dalla modulistica comunale spariranno anche parole di uso comune che, mettono in guardia gli estensori della delibera, celerebbero in realtà stereotipi e pregiudizi sessisti. Tra queste spiccano “signorina”, perché identificare una donna rispetto al proprio stato civile sarebbe discriminante, ed anche “fraternità, fratellanza e paternità” quando si riferiscono ad entrambi i generi. Se la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha definito gli accorgimenti lessicali alla stregua di una “criminalizzazione dell’uomo”, la Ercoli si domanda: “Per presentarci alle prossime elezioni, noi di Fratelli d’Italia dovremo cambiare il nome?”. “Di questo passo – rilancia – sostituiranno l’inno nazionale con la Traviata”. Dubbi legittimi in quest’epoca di cambiamenti. “Dite alla Ercoli di non preoccuparsi – ribatte il sindaco dem Orlando Pocci – nessuno ha delle simili pretese”. Lui, in realtà, il giorno dell’approvazione della delibera non c’era neppure, e nel palazzo qualcuno sussurra che non ne sposi a pieno i contenuti. “La mia assenza – smentisce – non significa che io non condivida la delibera, se poi in fase di applicazione emergeranno delle storture siamo pronti a rivederla, niente è immodificabile, solo il Vangelo”. Tanto clamore per nulla, insomma. E poi, si smarca, “abbiamo solamente anticipato la direttiva della Bongiorno”. Il riferimento è al provvedimento siglato dal ministro della Pubblica Amministrazione e dal sottosegretario con delega alle Pari Opportunità Vincenzo Spadafora, che dispone di “utilizzare in tutti i documenti di lavoro termini non discriminatori”. “Le parole sono importanti, soprattutto nell’epoca dei social-network, dove persino esponenti politici di primo piano come il ministro Salvini utilizzano un linguaggio palesemente discriminatorio”, aggiunge Sara Solinas, presidente della commissione Pari Opportunità del Comune di Velletri, richiamando quel “sbruffoncella” usato dal numero uno del Viminale per apostrofare Carola Rackete. Per lei il decalogo anti-sessista è un passo in avanti verso l’inclusione delle donne nel mondo del lavoro. E, in fondo, si difende: “Dire diritti dell’umanità non stravolge nemmeno troppo la lingua comune”.

 “IO CE L’HO PROFUMATO”. Alessandro Gonzato per “Libero Quotidiano” l'1 luglio 2019. È uno scandalo! Razzisti! Sessisti! Ma ve le immaginate le reazioni delle anime belle della Sinistra se alcuni mitici spot televisivi del passato venissero messi in onda oggi? Negli anni '80 e '90 ce n' erano di formidabili: erano incisivi, semplici ma per questo molto efficaci. Si trattava di gag legate alla réclame. Altri tempi, altra tivù. Ora i politici di Sinistra, soprattutto certe signore di quella sponda, farebbero a gara per farli bloccare. L' Agcom, l' autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, sarebbe presa d' assalto.

Come potrebbero non gridare allo scandalo, le finte perbeniste, di fronte allo spot delle caramelle Mental? «Io ce l' ho profumato» diceva un signore meridionale vestito di tutto punto voltandosi verso una donna imbarazzata. «L' alito...», chiariva l' uomo, «ce l' ho profumato con Mental. Perché Mental profuma l' alito... E che avevi capito?». L' onorevole di turno, meglio se con qualche alta carica della Repubblica, come minimo presenterebbe un' interrogazione parlamentare per chiedere conto al ministro competente di questa gravissima offesa alla dignità delle donne.

Non la passerebbero liscia nemmeno gli autori dello spot dello spazzolino Rapident, in cui una piacente signora accettava di farsi mordere il collo dal Conte Dracula solo dopo che questi si era lavato i denti accuratamente: ah, la violenza sulle donne! E quelle casalinghe che si facevano in quattro per pulire il bagno con Mastrolindo? No, quello era schiavismo.

Oggi si scatenerebbe un putiferio. Assisteremmo a una ridda di dichiarazioni al vetriolo, fioccherebbero i comunicati stampa: basta svilire il ruolo della donna! Che la doccia e la vasca da bagno se la puliscano gli uomini! Chi non ricorda la pubblicità dei preservativi Control? «Di chi è questo?» chiedeva un corrucciato professore che entrando in aula ne aveva trovato una confezione sul pavimento. «È mio», «è mio», «è mio», rispondevano uno dopo l' altro studenti e studentesse. Svergognati!

I paladini e le paladine radical chic avrebbero di che indignarsi a vanvera anche sul fronte razzismo, dicevamo. Nino Manfredi, a lungo testimonial della Lavazza, sfotteva gli aborigeni che dicevamo «Labazza», con la "b". Gli omoni neri con l' anello al naso lo perseguitavano in salotto, in giardino, erano dappertutto e gli fregavano sempre la tazzina di caffè.

Lui gli faceva il verso: è del tutto evidente che oggi qualche mente eccelsa darebbe dell' intollerante al compianto attore. E lo spot dei cioccolatini Sperlari? I magi, in attesa della nascita di Gesù, nella loro tenda ne mangiavano uno dopo l' altro fino a finirli. E dunque cosa portare al bambinello? Trovata geniale di Baldassare, quello nero: «Mazzo di fiori!». Ci sembra di sentirli i tromboni di sinistra: «È una vergogna sfottere i venditori di rose! Fermate questa pubblicità xenofoba!».

C' era poi la coppia italiana, marito e moglie, che viaggiava a bordo di un autobus scalcinato, tra beduini e capre, guidato da un africano: «Turista fai da te?» gli chiedeva il conducente africano. «No Alpitour? Ahi ahi ahi!».

Qualcuno di sicuro avrebbe da ridire anche sull' omino delle caramelle Tabù (era un fumetto tutto nero coi guanti bianchi) che alla fine dello spot, per reclamizzare la variante del confetto, se ne usciva canticchiando: «Ta-ta, ta-tabù, anche bianco...».

La bellissima Kelly Hu, conosciuta come Kaori, nello spot del formaggio Philadelphia, non faceva che dire: «Poco, poco», «tanto, tanto»: insomma, la giapponesina veniva derisa da quei razzistacci dei padroni di casa dove lei prestava servizio. Se torniamo ancora più indietro negli anni è impossibile non pensare a Calimero e al suo «Ava come lava». Il simpatico pulcino, rivolgendosi a una giovane che faceva il bucato diceva: «Non trovo la mia mamma perché sono piccolo e nero». La risposta, oggi, provocherebbe un terremoto: «Tu non sei nero, sei solo sporco». La ragazza lavava Calimero con Ava, e lui ne usciva di un bianco abbagliante.

Giro di vite su Twitter: oscurati i messaggi “eccessivi”. Roberto Vivaldelli il 28 giugno 2019 su it.insideover.com. Non è una censura vera e propria, ma poco ci manca. Twitter si adegua al politicamente corretto e annuncia nuove misure per i politici che violano le regole della piattaforma. Come riporta Repubblica, se un personaggio colorito e fuori dagli schemi come il presidente degli Stati Uniti Donald Trump “dovesse sfogarsi eccedendo palesemente e andando oltre il consentito, la piattaforma informerà gli utenti della violazione e ridurrà la visibilità del tweet”. “In passato, abbiamo consentito a determinati tweet che violavano le nostre regole di rimanere su Twitter perché erano nell’interesse pubblico, ma non c’era un criterio definito per il trattamento di questi messaggi”, spiega l’azienda, annunciando il giro di vite. Sempre secondo Repubblica, la nuova norma vale per gli account appartenenti a personaggi politici, verificati, e a coloro che hanno oltre 100mila follower. Se un tweet dovesse esser contrassegnato per una violazione un comitato della multinazionale di San Francisco deciderà poi se il messaggio è di interesse pubblico. Già, ma questo sedicente comitato sarà davvero imparziale? Qualche dubbio c’è.

Twitter, misure contro il “free speech”. “La nostra massima priorità – spiega la società di San Francisco – è quella proteggere la salute della conversazione pubblica su Twitter, e una parte importante di ciò è garantire che le nostre regole e il modo in cui le applichiamo siano di facile comprensione”. La compagnia ha negato a più riprese che tale azione riguardi un leader politico in particolare, ma la maggior parte dei media liberal statunitensi fa riferimento alla comunicazione politicamente scorretta adottata da Donald Trump. “Non parlerò di particolari”, ha spiegato il Ceo Jack Dorsey in un’intervista all’Huffpost. “Abbiamo stabilito il protocollo, è trasparente. È là fuori in maniera tale che tutti lo possano leggere. Abbiamo, indipendentemente dal presidente degli Stati Uniti, rapporti con tutti i governi”. È stato proprio il presidente Trump a criticare con veemenza la piattaforma social in una recente intervista a Fox Business. Secondo il presidente Usa, forze oscure stanno rendendo “molto difficile” seguirlo su Twitter perché la multinazionale è piegata ai voleri e all’influenza dei democratici. “Quello che mi hanno fatto su Twitter è incredibile”, ha spiegato il tycoon. “Ho milioni e milioni di follower, ma ti dirò, rendono molto difficile per le persone unirsi a me su Twitter e rendono ancora più difficile per me far passare il messaggio”.

I social penalizzano i conservatori? Da tempo Trump denuncia la censura ai danni dei conservatori americani sui social media. “Per i conservatori è sempre peggio sui social media” ha twittato The Donald qualche tempo fa. “Questi sono gli Stati Uniti e c’è quella che è chiamata libertà di parola. Monitoriamo da vicino”, ha aggiunto Trump dicendosi sorpreso di vedere Twitter vietata al conservatore James Woods e Facebook al giornalista Paul Watson. In effetti, ciò che sostiene il presidente non è lontano dalla verità: se sono numerosi gli account oscurati su Facebook e Twitter appartenenti a politici e opinionisti di orientamento conservatore, non si può certo dire lo stesso dei progressisti immuni alla censura e che forse avrebbero meritato il medesimo trattamento. Account che incitavano alla violenza contro il Presidente degli Stati Uniti – per esempio – e che l’hanno passata liscia. Mistero. Ne è prova il fatto che a maggio Twitter ha sospeso una serie di profili pro-Trump, incluso l’account ‘Magaphobia’, che è stato creato dal commentatore conservatore Jack Posobiecper “tenere traccia della violenza contro i sostenitori di Trump”. La piattaforma ha sospeso inoltre il profilo @AOCPress creato da alcuni conservatori per prendere in giro – in maniera satirica e innocua – la deputata Alexandria Ocasio-Cortez: la pagina si presentava legittimamente come “satira” ma è stata ugualmente chiusa. L’uomo che gestiva il profilo satirico è il conservatore ebreo Mike Morrison, a cui è stato “sospeso” anche il profilo personale. A novembre, riporta Politico, Jesse Kelly, conduttrice conservatrice di una radio di Houston e candidata politica, è stata sospesa. In solidarietà, il professore di giurisprudenza e giornalista di Usa Today Glenn “Instapundit” Reynolds, un pioniere dei blog, ha disattivato il suo account (quasi 100mila follower) in segno di protesta. “Twitter è impazzito bannando le persone di destra, quindi ho disattivato il mio account Twitter”, ha scritto Reynolds nel suo blog Instapundit. “Perché dovrei fornire contenuti gratuiti a persone che non mi piacciono, che mi odiano?” sottolinea. “Attualmente sto lavorando a un libro sui social media, e continuo a ribadire che Twitter è di gran lunga il più socialmente distruttivo delle varie piattaforme. Così ho deciso di sospendermi, poiché loro stanno sospendendo gli altri”.

IL POLITICAMENTE CORRETTO UCCIDERÀ LA LIBERTÀ D’ESPRESSIONE? Federico Rampini per “la Repubblica” il 12 giugno 2019. Basta vignette e disegni d' autore, stop alla satira politica: troppo pericolosa. Stavolta non c' entra una fatwa ma l' autocensura. E la ritirata parte dal tempio della libertà di stampa: The New York Times , un giornale orgoglioso della sua tradizione d' indipendenza, e protetto dal formidabile Primo Emendamento. La direzione del quotidiano annuncia che «non pubblicherà più vignette politiche nella sua edizione internazionale». Il caporedattore delle pagine dei commenti, James Bennet, ha detto che «da più di un anno stavamo pensando di allineare l' edizione internazionale con quella nazionale, terminando la pubblicazione di vignette politiche». Ma lo stesso New York Times nelle sue cronache fa riferimento a un episodio molto più recente: le accuse di anti-semitismo scatenate da una caricatura di Donald Trump e Benjamin Netanyahu. Il presidente americano vi viene ritratto come un non vedente e indossa una kippah ebraica sulla nuca. Il cane-guida che decide dove indirizzarlo ha il volto del premier israeliano Benjamin Netanyahu e al posto della catenina per cani ha una Stella di Davide. La caricatura è del disegnatore portoghese Antonio Moreira Antunes, venne diffusa da una syndication e ad aprile finì anche sulle pagine del New York Times nell' edizione estera. Le proteste furono immediate, e con esse le accuse di anti-semitismo. Anche se un messaggio della caricatura voleva alludere all' influenza d' Israele sulla politica estera di Trump, i simboli etnico-religiosi usati nel disegno furono denunciati come un ritorno a metodi indegni. L'ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite paragonò quell' edizione del New York Times al giornale della propaganda nazista Der Sturmer. Anche diversi opinionisti dello stesso quotidiano si dissociarono subito. Una delle firme della pagina dei commenti, Bret Stephens, chiese alla direzione del quotidiano «una riflessione profonda su come sia stato possibile pubblicare propaganda anti-semitica ». La direzione del New York Times si scusò subito ed eliminò la caricatura dal sito. Ora arriva la decisione più radicale: basta con le vignette di satira politica. Un rimedio così drastico ha scatenato a sua volta polemiche. Tra le voci più note a criticare questa decisione c' è quella di Plantu, il disegnatore satirico di Le Monde . «L' umorismo, e le immagini che turbano, fanno parte della nostra democrazia», ha detto Plantu. Ma la ritirata della libertà di espressione e di satira è in atto da tempo. Cominciò con le fatwa islamiche contro vignette su Maometto; a cui seguì a Parigi la strage jihadista nella redazione della rivista satirica Charlie Hebdo. Senza arrivare a quegli estremi di ferocia, anche negli Stati Uniti c' è una lenta regressione attraverso l' autocensura: questa è strisciante sia a destra che a sinistra. Alcuni giornali di provincia hanno licenziato disegnatori per le caricature contro Trump. Sul fronte opposto il New York Times però nell' abbandonare già da tempo le vignette sull' edizione americana, ha preso atto che anche tra i suoi lettori - per lo più liberal - le sensibilità offese si moltiplicano a dismisura.

IL TOPO RIPULITO COL “POLITICALLY CORRECT”. Stefano Priarone per “la Stampa” il 12 maggio 2019. Riveduti e (politicamente) corretti. Sono i remake con attori dei classici film animati disneyani. Il 22 maggio esce Aladdin , presto seguito, fra gli altri, da Il re leone, Lilli e il vagabondo e Mulan . Quest' anno abbiamo già avuto Dumbo , nel 2017 La bella e la bestia , nel 2016 Il libro della giungla . Lo stesso Maleficent (2014) è una versione di La bella addormentata nel bosco dalla parte della fata cattiva Malefica riscattata in versione femminista da Angelina Jolie. I remake hanno un duplice scopo: conservare i diritti sui personaggi (anche quando in realtà vengono da storie antichissime come spesso capita) e rilanciare i film in stile «politicamente corretto» per un nuovo pubblico. Nel deludente Dumbo di Tim Burton, ad esempio, l' elefantino non fumava (massimo peccato veder fumare un bambino, seppure elefante), e non c' erano i corvi che nel film originario parlavano con accento afroamericano. In Aladdin diretto da Guy Ritchie tutti i personaggi, secondo le dichiarazioni della produzione dovrebbero essere etnicamente corretti e dunque, dato che la fiaba è una rivisitazione delle Mille e una notte , mediorientali. In realtà c' è piuttosto un' attenzione a replicare esattamente la multietnicità statunitense: così il genio è l' afroamericano Will Smith, scelta che non si può discutere (è un essere fantastico, non ha etnia umana, e infatti sia nel cartoon originario che nel film è blu), Aladdin è Mena Massoud, attore canadese di origini tunisine, come è olandese di origini tunisine lo stregone Jafar, (Marwan Kenzari) mentre Jasmine è Naomi Scott (origini britannico-ugandesi). La questione femminile Un' altra questione aperta, oltre a quella etnica, è quella della parità tra i sessi. Dopo varie polemiche sulle «principesse Disney» i personaggi femminili diventano via via più eroici a scapito di quelli maschili, diventati spesso comici e inconcludenti. La tendenza era iniziata già nei cartoon Anni 90 (da Mulan a Pocahontas ). Lo si vede anche nei film Marvel (prodotti dalla Disney): è stata introdotta la supereroina Capitan Marvel rendendola però molto più potente che nei fumetti, un Superman anni 50 senza kryptonite. È invincibile: in Avengers: Edgame viene tenuta in disparte perché altrimenti il film durerebbe cinque minuti, non tre ore. A volte i remake servono anche per non scontentare ricchi mercati: nel nuovo Lilli e il vagabondo è stata tolta la scena dei gatti siamesi perché avrebbe irritato la Cina. E in Iron Man 3 (2013) il nemico del supereroe, il Mandarino, alla fine si rivela, a differenza dei fumetti non cinese, per non irritare il Celeste Impero. Per i lettori di fumetti non c' è nulla di nuovo. Già a partire dagli Anni 90 nei fumetti disneyani, anche se realizzati quasi tutti nel nostro Paese, per direttive della casa madre si è tolto ogni riferimento al fumo e all' alcol, censurando e correggendo anche le ristampe di storie classiche. Negli ultimi anni, le ristampe sono filologicamente corrette, fortunatamente non abbiamo più una Paperina che negli Anni 50 indossa pellicce ecologiche, ma tante storie del grande sceneggiatore Guido Martina (piene di risse e insulti, davvero politicamente scorrettissime) non si possono più riproporre. Basti pensare alle storie di Topolino Anni 30, 40, 50 del grande Floyd Gottfredson, ristampate integralmente in America solo negli ultimi anni (con note che le inquadrano storicamente) non solo perché negli States il fumetto disneyano è di nicchia, ma soprattutto perché viste come inaccettabili (razziste, misogine, violente) dalla Disney. Il pubblico deluso Eppure questi remake, con finora l' eccezione di Maleficent (più una rilettura che un remake) non sempre convincono il pubblico: in generale i cartoon rendono molto di più dei live action. Il record assoluto spetta al Libro della giungla del 1967. Costato 4 milioni, ne ha incassati 378. Segue la Cenerentola del 1950, che ha fruttato 90,89 volte l' investimento. Solo in due casi il remake ha fatto meglio del cartoon: Alice nel Paese delle meraviglie di Burton incassò 5,13 dollari per ciascuno di quelli spesi, contro gli 1,87 del cartoon del '51. E Maleficent incassò 4,21per ciascuno di quelli spesi, contro gli 1,58 del cartoon del '59. Speriamo che i film in live action spingano almeno gli spettatori a rivedersi gli originali. Avremo sempre Parigi dice Humphrey Bogart a Ingrid Bergman alla fine di Casablanca . Noi avremo sempre (in streaming o dvd) i cartoon originali.

Caterina Soffici per “la Stampa” il 12 maggio 2019. Un nuovo mondo «asiaticamente corretto» è in arrivo. E così anche la Disney è corsa ai ripari, come racconta Variety. Nel remake di Lilli e il vagabondo, che uscirà a novembre per lanciare la nuova piattaforma streaming, sparirà la scena dei gatti siamesi, accusata di discriminazione razziale verso gli asiatici e simbolo del colonialismo culturale dell' occidente, che si faceva beffa degli orientali rappresentandoli come infidi, cattivi e bugiardi. La scena del film del 1955 è un cult: i due gatti, con gli occhi marcatamente a mandorla devastano il salotto, rovesciano la boccia di vetro del pesce rosso e si apprestano ad attaccare la camera del bambino, ma quando la gattofila zia Sara torna a casa fingono di essere stati aggrediti dall' ingenua cagnolina Lilli, che si prenderà la colpa. Con i due felini sparirà anche la celebre canzone interpretata da Peggy Lee ( The Siamese Cat Song ): nelle versione inglese i due siamesi cantavano con un forte accento orientale, in quella italiana era addirittura parodiata con il più classico degli stereotipi, dove la «erre» diventa «elle». («...C' è un pupo là/Chissà quanto latte in gilo ci salà/Nella culla celto un po' ne tlovelem/ E un bel planzettin insieme ci falem»). La questione era già stata sollevata qualche anno fa in America quando i due siamesi erano stati definiti «tra i personaggi più razzisti mai rappresentati in un cartoon». Niente accade mai per caso. E infatti sul sito culturale newyorkese Flaworwire un lungo saggio di Marcus Hunter ne spiega l' origine storica, risalendo alla II guerra mondiale, quando gli americani si sono trovati a combattere nel pacifico contro i giapponesi dell' Asse e la Thailandia era allora sostenitrice del Giappone. I campi di internamento giapponesi dei primi Anni 40 - in cui oltre 100.000 asiatici-americani, il 62 % dei quali erano cittadini statunitensi - sono stati un' altra fonte di aumento del sentimento anti-asiatico. Alla fine, nell' iconografia e nell' immaginario popolare, siamese, giapponese, cinese sono diventati tutti uguali, in un gran pastone, dove l' occhio a mandarla e la «elle» erano comunque negativi. I due gatti Si e Am di Lilli e il vagabondo , uscito un decennio dopo la fine della guerra, ne sono l' esempio perfetto. Un'altra questione di revisionismo è in corso in questi giorni alla London School of Economics (Lse), dove un gruppo di studenti cinesi sta vivamente protestando per una questione di confini geografici: nel cortile dell' università è stata installata una scultura a forma di mappamondo rovesciato, come simbolo sia della vocazione internazionale della scuola (il 68 % degli studenti è straniero), sia dei tempi difficili che viviamo. Nel globo Taiwan è rappresentato come stato indipendente e Lhasa è indicata come capitale del Tibet, il che ha fatto infuriare i cinesi, i quali rivendicano i due territori. Come finirà non si sa, certo è più facile cancellare due gatti da un film, che mettere a rischio i lauti proventi delle rette degli studenti cinesi, che sono l' 11 % del totale e pagano tre volte tanto gli inglesi.

Il vero problema del politicamente corretto. Roberto Vivaldelli il 12 maggio 2019 su Gli Occhi della Guerra. Dal caso del filosofo conservatore Roger Scruton, licenziato con effetto immediato dalla presidenza di una commissione governativa britannica per aver criticato Soros e l’islam, all’involuzione di serie animate come i Simpson, su questo giornale ci siamo occupati diverse volte dell’ideologia fanatica e totalitaria del politicamente corretto. Una spinta ideologica che porta la sinistra progressista alla censura di tutto ciò che ritiene potenzialmente “intollerante” e “offensivo” verso una delle minoranze che la stessa sinistra ha preso sotto la sua protettrice, a sdoganare un linguaggio ridicolo per compiacere l’ultima ossessiva deriva del femminismo e a riconoscere tutte le identità sessuali possibili di questo mondo (asessuale, intersessuale, pansessuale, demisessuale, queer, Transgender, e così via). È anche in quest’ottica che va letta (anche) la recente polemica attorno alla casa editrice AltaForte di Francesco Polacchi, esclusa dal Salone del libro di Torino a causa dell’isteria progressista su un ipotetico ritorno del fascismo smentito in maniera categorica dagli accademici più autorevoli – come Emilio Gentile, docente di Storia contemporanea all’Università La Sapienza di Roma e storico di fama internazionale per i suoi studi sul ventennio fascista. Nulla da fare, l’ideologia del politicamente corretto non vuole sentir ragioni e l’unica lingua che conosce è quella – questa sì liberticida – della censura. Dalle Università e dai movimenti liberal statunitensi, il politically correct sta contagiando in maniera ineluttabile l’opinione pubblica italiana, già fortemente polarizzata. 

Che cos’è il politicamente corretto. Come spiega William Lind in un articolo pubblicato qualche anno fa sulla rivista The American Conservative e intitolato “Le origini del politicamente corretto”, il termine è stato ampiamente sdoganato dalla cosiddetta New left americana negli anni ’70. “Negli anni ’50 e ’60 – osserva – Herbert Marcuse tradusse il lavoro degli altri pensatori della Scuola di Francoforte in libri che gli studenti universitari potevano comprendere, come Eros e civiltà, che divenne la Bibbia della New left negli anni ’60. Marcuse ha iniettato il marxismo culturale della Scuola di Francoforte nella generazione del boom, al punto che ora è l’ideologia di quella generazione”. Da allora, i campus universitari americani sono stati il fulcro del political correctness, ideologia diventata particolarmente aggressiva negli ultimi anni, soprattutto, nei confronti degli studenti conservatori. Tant’è che nel 2015 la rivista The Atlantic ha pubblicato un articolo sulle preoccupanti conseguenze dell’imposizione del linguaggio politicamente corretto nei campus degli Stati Uniti. Come riporta Tempi, l’Università del New Hampshire pubblicò, sempre nel 2015, una guida sul linguaggio da usare in campus, scoraggiando gli studenti dal pronunciare parole come “povero” per sostituirle con espressioni tipo “persona che vive sotto la soglia della povertà”. Per nominare gli studenti provenienti dall’estero non si può più parlare di “stranieri”, ma solo di “persone internazionali”, mentre un uomo non può più descrivere una donna come appartenente al “sesso opposto” ma come persona “di un altro sesso”. Secondo The Atlantic, “questo nuovo clima si sta lentamente istituzionalizzando, influenzando ciò che può essere detto in aula, anche come base di una discussione”.

Se l’ideologia colpisce le statue. Su Gli Occhi della Guerra, Edoardo Cigolini e Marta Proietti si sono occupati con un reportage dagli Usa della folle guerra dei liberal contro le statue dei confederati, ultima deriva del politicamente corretto. A Charlottesville, la statua del generale Robert Lee era stata coperta da alcuni teloni neri, studiati per schermarne la vista e non “urtare” le persone di colore. Il tentativo è quello di applicare la morale dei nostri giorni al passato. Ma la guerra non si è fermata ai sudisti. Lo scorso novembre, a Los Angeles, la statua di Cristoforo Colombo è stata rimossa dal centro della città. “Fu personalmente responsabile di diverse atrocità, le sue azioni hanno messo in moto il più grande genocidio della storia” ha spiegato il consigliere comunale Mitch O’Farrell. E così che il “politicamente corretto”, nato in certa sinistra liberal nordamericana, è diventato la neolingua ufficiale dei progressisti di mezzo mondo. Che si tratti di antifascismo – ad oltre 70 anni dalla fine del fascismo – o della guerra alle statue, non cambia poi molto. La volontà di cancellare la storia e di censurare il pensiero altrui, è la medesima. Ed è un serio problema. 

Cattività buonoide. Augusto Bassi 12 maggio 2019 su Il Giornale. Siamo ammorbati dalla mistificazione sinistra. Ne discutiamo da che ne discutiamo. Ma fra i riflessi condizionati della cattività buonoide, dell’anti-pensiero ideologico, ve n’è uno in particolare che pare virale. Il campanello pavloviano faceva salivare il cane associando un suono al cibo, perché aveva abituato l’animale a vedersi servito appena dopo lo scampanellìo; quello rothschildiano fa salivare il progressista appena si associa uno straniero a un crimine, un immigrato a uno stupro; ma non di fame, bensì di rabbia. E il comportamento riflesso porterà ineluttabilmente all’atteggiamento di cui avevo già accennato ne “La bertuccia progressista”, sempre uguale a se stessa: «Perché, gli italiani non delinquono?!? Non importa nazionalità, colore della pelle, sesso, cultura o religione: un criminale è un criminale! Lo volete capire, razzisti che non siete altro?!?». «Sì, giusto! Guardate quanti stupratori e assassini ci sono fra di noi! Perché di loro non parlate mai?!». «I fascisti razzisti sanno puntare il dito solo contro gli africani, ma noi, noi abbiamo creato la Mafia e l’abbiamo esportata in tutto il mondo!». Nella prevedibilità di queste pestifere incontinenze verbali, di queste reazioni involontarie, condizionate, eterodirette, vi è la bava intellettuale della cattività ideologica. Dove l’idea totalitaria (siamo tutti uguali) nega la libertà del reale (siamo tutti diversi) istituendo una rappresentazione di potere. Nella realtà, infatti, un criminale non è assiomaticamente un criminale, perché il crimine – come il peccato – non è affatto un dogma universale, bensì un giudizio di valore, che si modifica attraverso le epoche e lungo le culture: indagando l’etimologia della parola si ritroverà cernere, ovvero separare, distinguere, giudicare. Scriveva Pascal: «Tre gradi di latitudine capovolgono tutta la giurisprudenza, un meridiano decide della verità. In pochi anni di dominio le leggi fondamentali cambiano, il diritto ha le sue epoche, l’entrata di Saturno nel Leone segna l’origine del tale crimine. Ridicola giustizia, delimitata da un fiume! Verità al di qua dei Pirenei, errore al di là». Di qua dal Mediterraneo lapidare un’adultera, per esempio, sarebbe un crimine efferato contro la legge degli uomini e delle donne come contro le legge del nostro Dio, perché «chi è senza peccato scagli la prima pietra»; al di là del mare, in altre comunità, è invece un diritto e un dovere, di fronte agli uomini e di fronte a Dio. Così può capitare che in Somalia, sotto il cielo della legalità e della santità, una bambina di tredici anni venga lapidata allo stadio di fronte a una folla festante. Quindi soltanto una bestiola che ha formato le proprie convinzioni sotto regime di cattività ideologica può affermare “un criminale è un criminale!”, poiché nella dimensione multiculturale che lei pensa di rappresentare colui il quale è per noi un fuorilegge e un peccatore – o addirittura un mostro – per altre genti è un buon fedele, ovvero un onesto cittadino («Il Profeta diede allora l’ordine che entrambi fossero lapidati»). E queste genti sono fra noi.

Inferno SPA: quando la pietà diventa la nemica della verità. Anna Valerio l'11/05/2019 su Il Giornale Off. C’è un punto di equilibrio tra gli appelli umanissimi di Papa Francesco all’accoglienza e il razzismo da bar: è studiare il fenomeno migratorio. Questo fa Francesca Totolo nel suo Inferno SPA. Viaggio tra i protagonisti del business dell’accoglienza (AltaForte Edizioni, 2019, pp. 264, € 20). Va, avventurosamente e faticosamente, a vedere tutto da vicino. A verificare cosa c’è nella pancia delle navi delle ONG. S’impegna ad analizzare i bilanci, le liste dei finanziatori. Riporta le fonti. Tiene il conto dell’andirivieni degli irregolari, che giurano spesso, appena espulsi, «tornerò». Si accorge della complicità tra i gommoni per il trasbordo dei migranti e i barchini degli scafisti. Registra l’ignavia di una capitaneria di porto svuotata di senso e della guardia costiera: non arrestano i criminali che gestiscono il traffico di uomini, fanno finta addirittura di non vederli. Prima della chiusura dei porti, c’erano weekend estivi in cui arrivavano in Italia anche 12.000 migranti. Magari bastonati durante la loro traversata terribile sotto gli occhi dei team dell’ONG. Dopo aver monitorato le rotte delle navi umanitarie, la Totolo ne ricava l’impressione che abbiano un volto di Caronte. Troppo business, sotto quelle acque agitate. È evidente che, una volta in Italia, i migranti gonfieranno i portafogli delle cooperative dell’accoglienza. È evidente che a molti furbastri facciano gola. L’autrice parla, con ironia amara, di “filiera dell’immigrazione”. Nei gironi di questo inferno, che la Totolo racconta con un incalzare di prove anche fotografiche, s’incontrano poi i traditori della Patria in giacca e cravatta: i politici che siglano accordi per la gestione dei migranti contro l’interesse dei propri connazionali. Tutti contagiati dalla stessa smania di guadagnarci qualcosa, come l’ultimo scafista. Ed è il potere pervertitore del denaro la lezione di politica più dura di un libro che con la politica non vuole connivenze e che è antiideologico dalla prima alla ultima pagina, nella sua professione di oggettività. Dietro l’appello alla pietà della Giornata dell’Accoglienza, la Totolo scopre invece un sistema di speculazioni con ramificazioni istituzionali, giuridiche, ma pure culturali e mediatiche. Ed ecco che al suo editore si vorrebbe negare, con pretesti ideologici, la presenza al Salone del Libro di Torino. Ma che cosa succederà quando la pietà sarà diventata nemica della verità?  

Leggere Pasolini contro il fascismo "antifascista". Nicola Porro, Domenica 12/05/2019, su Il Giornale. «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli». Quando Italo Calvino scrive queste parole sul Messaggero del 18 giugno 1974, Pier Paolo Pasolini s'infuria e risponde con una lettera aperta su Paese Sera: «Augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male». «Pasolini non c'è più. Però - ha rassicurato Michela Murgia, in un servizio andato in onda su Quarta Repubblica - ci siamo noi». Cioè, loro: i nuovi intellettuali della sinistra impegnata. Che, come Calvino, non hanno nessuna voglia di incontrare un fascista. Nemmeno per sbaglio, tra gli stand del Salone del Libro. Pasolini, invece, con i fascisti parlava. La sua ultima poesia, Saluto e augurio, inizia così: «voglio parlare a un fascista,/ prima che io, o lui, siamo troppo lontani». Contro l'atteggiamento di Calvino e degli altri antifascisti militati, Pasolini scrive: «Ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti». È il famoso fascismo degli antifascisti. Così lo definisce Pasolini negli Scritti corsari. Mentre nelle Lettere luterane, testo più nascosto, e per questo lo suggeriamo, Pasolini si spinge ancora più in là: fa a pezzi i giovani della nuova sinistra, tutti con il certificato dell'antifascismo doc. Perché, scrive, «essi aggiungono, dentro lo schema del conformismo assimilato - come ai tempi delle orde - dall'ordine sociale paterno, una nuova dose di conformismo: quello della rivolta e dell'opposizione».

·         Il nefasto “politicamente corretto”.

Scopri la verità nascosta tra le parole. Mario Furlan su Il Giornale il 28 novembre 2019. Il “Grande Fratello” di Orwell, esempio di neolingua. In cui le parole significano il contrario di ciò che proclamano. Ben prima che arrivasse il politicamente corretto con le sue fantasiose ipocrisie si parlava di metalinguaggio. Delle parole, cioè, con cui imbellettiamo la dura realtà; come una ottantenne che vuole sembrare una ventenne a forza di cipria, rossetto e fard. Rimane, però, un retrogusto sgradevole. Insomma, ci sentiamo presi in giro. Oppure di neolingua: la lingua artificiale e di regime immaginata da George Orwell nel suo capolavoro 1984, che dice l’esatto contrario della verità. Per cui il Ministero della Verità si occupava di occultarla, il Ministero della Pace di fare la guerra, il Ministero dell’Amore di sopprimere il dissenso...Da ragazzi, quando ci chiedevano se una ragazza era carina e non volevamo essere offensivi, rispondevamo che era simpatica. Cioè un ciospo. E quando la ragazza ci diceva che le serviva una pausa di riflessione capivamo che la storia era bell’e finita. Se, invece, ci spiegava che ci teneva tanto alla nostra preziosissima amicizia, capivamo che non c’era trippa per gatti. E ci tornava alla mente la canzone di Max Pezzali “La regola dell’amico”: “La regola dell’amico non sbaglia mai / Se sei amico di una donna non ci combinerai mai niente, mai / Non vorrai rovinare un così bel rapporto”. Oggi, da adulti, sappiamo che se ci dicono che qualcuno ha un carattere forte significa che è un arrogante. Un prepotente. Un dittatore. E se diciamo che è un tipo, vuol dire che è perlomeno bizzarro. Se non mezzo matto. La politica – a parte lodevolissime eccezioni – è il regno dell’ipocrisia: si dice il contrario di quello che si fa. Tutti parlano di ridurre le tasse, ma quasi nessuno lo fa sul serio. Anzi, semmai aumentano… Tutti assicurano di voler sfoltire la foresta burocratica, ma nessuno l’ha mai fatto davvero. Tutti si dicono servitori del popolo sovrano, ma torna in mente la retorica dei regimi comunisti: tutti, da quelli defunti dell’Est Europa a quelli ancora vivi della Corea del Nord, della Cina e di Cuba, si dicono democratici e popolari. Democratici: quindi uno vale uno. E popolari: quindi il popolo decide. Anche se sappiamo benissimo che l’unico uno che conta è il capopartito. Chi fa parte della sua cricca conta qualcosina, mentre tutti gli altri contano zero. E il popolo serve solo per applaudire, in piazza, chi sale sul palco dichiarando di fare tutto per lui. Per questo quando sento un politico che si riempie la bocca di parole come popolo, democrazia, sovranità sento puzza di bruciato. Preferirei uno che dicesse la verità: “Votatemi perché non so fare nulla nella vita e riesco a campare solo se mi votate e occupo uno scranno ben remunerato”; oppure “Votatemi perché voglio prendere il potere per fare i miei porci comodi, e magari per appagare il mio ego e finire sui telegiornali”. Ma se un politico dicesse tutta la verità, quanti voti prenderebbe? Zero! “Vulgus vult decipi, ergo decipiatur”: il popolo vuole essere ingannato, pertanto inganniamolo, sosteneva 500 anni fa il Cardinale Carlo Carafa. Se il mondo girava così allora, figuriamoci oggi, all’epoca dei deep fake. Mia madre mi ha mostrato, esterrefatta, un video in cui Berlusconi dichiara che bisogna bombardare a tappeto l’Africa con ordigni atomici per risolvere il problema dell’emigrazione degli africani verso l’Europa. “Mamma, guarda che Berlusconi ha detto ben altro, e quella è una bufala creata al computer!” le ho assicurato. “Ma no, è proprio lui, con il suo viso e la sua voce! Non posso non credere ai miei occhi e alle mie orecchie!” ha ribattuto, indispettita. E non c’è stato verso di farle cambiare idea.

Perché ci offendiamo facilmente. In una società equa, la gente diventa permalosa. E forse va bene così. Anna Momigliano il 23 Ottobre 2018 surivistastudio.com. I troll di destra hanno creato un’espressione ad hoc, che amano utilizzare come insulto: snowflake, spesso tradotto come “anima candida”, anche se indica più che altro l’essere permaloso. Ma non c’è bisogno di essere trumpiani o pentafelpati per avere in mente il fenomeno: da qualche tempo a questa parte, ci offendiamo tutti più facilmente. Specie quando si toccano tasti delicati come genere, etnia, religione, disabilità e orientamento sessuale, la gente tede a prendersela e, soprattutto, a protestare. Il prendersela, probabilmente, non è una novità. Il protestare, almeno in parte, lo è. Mai, nella storia recente, la denuncia pubblica di un’offesa e la pretesa di scuse ha avuto la potenza che ha oggi. Prendiamo due casi di questi giorni, la battutaccia di Beppe Grillo, che ha attaccato «i filosofi in televisione» (presumibilmente, gli intellettuali) dando loro degli autistici, come fosse un insulto, e le dichiarazioni di Beppe Sala, che in un’intervista a La Voce ha detto che «l’immigrazione africana porta persone che hanno livello di istruzione pari a zero». Sui social e sui giornali s’è alzato un polverone, molta gente s’è offesa, difficile dargli torto: in entrambi i casi, si è trattato di parole di pessimo gusto. Il dato interessante, da un punto di vista sociologico, è però un altro: qualche anno fa, quel polverone non ci sarebbe stato, per lo meno non in Italia e non così forte. Abbiamo iniziato a fare correre di meno, a pretendere scuse e chiarimenti, abbiamo deciso che non è il caso di incassare. E, nel frattempo, abbiamo anche iniziato ad offenderci davanti a casi meno plateali, rispetto ai due citati, come un paio di anni fa, quando il Ministero della Salute ha dovuto ritirare una campagna rivolta alle donne: «La bellezza non ha età, la fertilità sì». Perché oggi ci offendiamo più facilmente? È il segnale che stiamo diventando una società più civile, dove si dà importanza al rispetto, dicono alcuni: in genere (ma non sempre) sono le persone più istruite, più di sinistra e più giovani. È la dittatura del politicamente corretto, dicono altri: in genere (ma non sempre) più anziani e tendenti a destra. I più sofisticati di questo secondo campo tendono a leggere i cambiamenti dell’ultimo decennio in termini storici: ai loro occhi, spiega il giornalista canadese Clifton Mark, i Millennial che si offendono facilmente sono «gli eredi viziati degli anni Sessanta». Cinquant’anni fa, questo il ragionamento, donne, gay e (negli Usa) le minoranze etniche hanno portato avanti le loro sacrosante battaglie per essere riconosciuti come pari in una società che accordava, senza neppure preoccuparsi di nasconderlo, un privilegio di nascita ai maschi bianchi eterosessuali, ma oggi quell’uguaglianza è ormai cosa riconosciuta, certamente nella teoria e un po’ anche nei fatti, dunque non c’è più ragione di offendersi e fare i permalosi serve solo a limitare la libertà d’espressione altrui. In un interessante pezzo su Aeon, Mark prende quest’argomentazione e la ribalta utilizzando riferimenti storici: «Uno sguardo al passato fa capire che l’uguaglianza dello status sociale non è affatto un antidoto all’offesa, semmai è una precondizione». Se stiamo diventando più permalosi, insomma, è proprio perché viviamo in una società più uguale. Per capire il ragionamento, si deve fare un passo indietro alla Francia del Diciottesimo secolo, dove la cultura del duello, che si basava su una concezione molto particolare di offesa e di onore, era anche uno strumento di affermare un’uguaglianza tra pari. Prima della Rivoluzione, scrive l’autore, era in vigore un codice che funzionava così: davanti a un insulto, un gentiluomo era obbligato a dichiararsi offeso e pretendere soddisfazione sfidando chi l’ha offeso a duello; questo perché «accettare un insulto equivaleva a confermarlo e un uomo capace di incassare un’offesa senza vendicarsi era visto come incapace di rispettare se stesso e dunque non meritava di essere rispettato dagli altri»; tuttavia questa regola valeva soltanto tra pari.

Un gruppo di fan durante i Giochi Olimpici Invernali del 2018, il 22 febbraio 2018 a Pyeongchang-gun, inCorea del Sud. “Snowflake”, spesso tradotto con “anima candida”, è un insulto rivolto a chi si offende facilmente o non sa gestire chi la pensa in modo diverso.

Solo un insulto tra parigrado era un’offesa cui occorreva rimediare, mentre un insulto da qualcuno di socialmente inferiore «era trattato come si tratta la disobbedienza di un bambino, poteva essere tollerato oppure punito dall’alto» (l’esempio più celebre fu lo scontro tra Voltaire e Chevalier de Rohan, un nobilotto suo contemporaneo: quando il filosofo l’insultò, de Rohan mica lo sfidò a duello, ma lo fece prima menare dai suoi servi, poi rinchiudere alla Bastiglia, e non risulta che ci fece una brutta figura). Per quanto fosse un’istituzione profondamente elitista, la cultura dell’onore «implicava un’eguaglianza all’interno dell’élite». L’insulto era visto come una negazione di quell’uguaglianza e il duello era lo strumento per ripristinarla. Non a caso, infatti, dopo la Rivoluzione francese la cultura del duello, lungi dallo scomparire, si è estesa alle altre classi sociali: «In tutta Europa, gli uomini che godevano di un nuovo status di eguaglianza tenevano a costruirsi una reputazione di intransigenza in fatto di onore» e il risultato fu che i duelli si diffusero ancora di più. Anche in quel caso, il punto era sempre quello: l’insulto era una negazione dell’uguaglianza – una nuova uguaglianza, che non separava più nobili e borghesi – mentre dichiararsi offesi e chiedere soddisfazione era uno strumento per ripristinare quell’uguaglianza. Se lo scontro tra Voltaire e de Rohan si fosse svolto un secolo più tardi, il nobile non se la sarebbe cavata affidando un pestaggio ai suoi scagnozzi. Oggi, naturalmente, i duelli sono passati di moda. Però, sostiene Clifton Mark, la permalosità contemporanea ricorda alcune dinamiche della cultura dell’onore dei secoli scorsi. La sua analisi ribalta una lettura antropologica abbastanza diffusa – e apprezzata da destra – secondo cui oggi si sarebbe diffusa una “cultura del vittimismo” che è l’esatto opposto della “cultura dell’onore” del passato: se un tempo ricevere un insulto era una minaccia al nostro status sociale, questo il ragionamento, oggi ricevere un insulto “dà punti”, dunque ci offendiamo per sembrare più fighi. «In alcuni contesti l’essere vittima, parte di un gruppo oppresso, offre un prestigio morale», mi ha detto una volta il sociologo Jason Manning, che ha da poco pubblicato un saggio sul tema insieme al collega Bradley Campbell. Ma se fosse esattamente il contrario? Forse, se siamo più permalosi, non è affatto perché vogliamo passare per vittime: al contrario, ci teniamo a non passare per persone abituate a incassare gli insulti. La tesi di Mark è che, oggi proprio come ieri, quello che più ci offende è vedere negato il nostro status di pari, e questo tra l’altro spiega perché le implicazioni sessiste, razziste e omofobe sono quelle che bruciano di più: riguardano gruppi fino a poco tempo fa considerati inferiori e che si sono sudati l’uguaglianza a caro prezzo. L’insulto è una minaccia al nostro status di pari e, nel 2018 come nell’Ottocento, lasciando correre si rischia di fare passare il messaggio che siamo disposti a essere rimessi nel nostro posto di inferiori. Dunque, urge fare capire che non è così. La novità è che per raggiungere l’obiettivo, non c’è più bisogno di ricorrere all’arma bianca: abbiamo trovato strumenti decisamente meno cruenti, come confrontare la persona, fare un reclamo alle risorse umane. O, sempre più spesso, fare un po’ di shaming sui social media.

DAGONEWS il 27 novembre 2019. Centinaia di pornostar stanno protestando dopo che i loro account Instagram sono stati chiusi, affermando di essere nel mirino a tal punto da dover stare molto più attenti alla pubblicazione rispetto alle altre star. «Dovrei essere in grado di costruire il mio account Instagram come quello di Sharon Stone, ma la realtà è che farlo mi farebbe cancellare» afferma Alana Evans, presidente della Adult Performers Actors Guild e una delle voci principali di questa battaglia. Il gruppo ha raccolto oltre 1.300 performer che affermano che i loro account sono stati eliminati dai moderatori di Instagram per violazioni degli standard, nonostante non abbiano mai pubblicato foto di nudo o di sesso. «Ci discriminano perché non gli piace quello che facciamo per vivere» afferma Evans. La campagna ha portato a un incontro con i rappresentanti di Instagram a giugno, seguito dalla creazione di un nuovo sistema di appello per gli account rimossi. Durante l'estate, tuttavia, i colloqui sono stati interrotti e gli account hanno continuato a essere eliminati. La goccia che ha fatto traboccare il vaso risale a poco tempo fa quando l’account della pornostar Jessica Jaymes è stato rimosso dopo la sua morte. «Quando ho visto che l'account di Jessica era stato cancellato, il mio cuore è andato in mille pezzi. È stata l'ultima goccia» ha continuato Evans. L'account, seguito da oltre 900.000 persone, è stato successivamente ripristinato. Secondo alcuni attori porno alla fine del 2018 diverse persone hanno avviato una campagna coordinata per segnalare gli account ai social con il chiaro intento di farli rimuovere. Una tattica accompagnata da una serie di intimidazioni nei confronti degli attori in cui queste persone li insultavano e si vantavano dell’operato. Ginger Banks, attivista per i diritti dei sex worker, è stata uno dei primi obiettivi della campagna. «Quando dedichi tempo e fatica alla creazione di un account con oltre 300.000 follower e questo viene eliminato, ti fa sentire sconfitto - afferma Ginger Banks, pornoattrice e attivista per i diritti dei sex worker - Anche se stai seguendo le regole vedere che il tuo account è stato eliminato è frustante. Le persone che ci segnalano non comprendono che i nostri redditi sono spesso legati al mondo social. Ma loro pensano solo che noi non dovremmo esistere. La rivoluzione tecnologica che ha trasformato l'industria della pornografia ha aperto nuovi canali e ha permesso a molte pornostar di operare in modo indipendente, utilizzando siti per webcam girl, servizi di abbonamento e piattaforme video personalizzate. La maggior parte usa Instagram per mettersi in mostra e promuovere i propri canali. Non solo. Ormai le case di produzione valutano la popolarità di un pornostar attraverso i social. Quando un attore vede cancellato il proprio account, perde l'accesso ai fan e alle relazioni commerciali che ha creato, con un impatto negativo significativo sul proprio profitto.

«Black Friday», polemica per il titolo del Corriere dello sport: Milan e Roma colpiscono i giornalisti del quotidiano. Pubblicato giovedì, 05 dicembre 2019 da Luca Valdiserri su Corriere.it. Roma e Milan vietano l’accesso ai giornalisti del Corriere dello Sport per il titolo "Black Friday". Succede un po’ di tutto. Prima l’ira dei media britannici, poi quella di alcuni club calcistici e poi il disappunto di diversi giocatori. Un titolo del Corriere dello Sport («Black Friday» in prima pagina, con Lukaku e Smalling protagonisti della sfida di venerdì a San Siro tra Inter e Roma) provoca molte reazioni sul web, ma anche, come detto, la presa di posizione di tre club che più o meno direttamente lo criticano. E due di essi (Milan e Roma) finiscono anche per prendere una decisione drastica: chiusura dell’accesso ai giornalisti del Corriere dello Sport dei loro centri di allenamento fino alla fine dell’anno. «Crediamo che tutti i giocatori, i club, i tifosi e i media - scrivono in un comunicato congiunto le due società - debbano essere uniti nella lotta contro il razzismo nel mondo del calcio ed è responsabilità di tutti noi essere estremamente precisi nella scelta delle parole e dei messaggi che trasmettiamo» scrivo i due club in una nota congiunta. «Il calcio è passione, cultura e fratellanza. Siamo e saremo sempre contro ogni forma di discriminazione», scrive invece l’Inter sul suo account Twitter, senza però alcun riferimento alla prima pagina del quotidiano sportivo. La Roma, sul profilo in inglese, scrive: «Nessuno, assolutamente nessuno, nemmeno uno solo» avrebbe pensato di fare un titolo del genere allegando la prima pagina del Corriere dello sport. Decisamente più diretto il Milan: «Non sono più tollerabili superficialità e ignoranza sul tema del razzismo. Non resteremo più in silenzio davanti a questo problema», è il tweet del club rossonero con la foto del giornale. Alla fine intervengono anche i protagonisti involontari della vicenda, ovvero Lukaku e Smalling. «Invece di concentrarsi su una sfida tra due squadre, il Corriere dello Sport esce con il titolo più stupido che io abbia mai visto nella mia carriera» scrive l’attaccante dell’Inter sui social. «Voi continuate ad alimentare il pensiero negativo - scrive il belga - e il problema sul razzismo, invece di parlare di una partita bellissima che verrà giocata a San Siro tra due grandi club. La cultura è la chiave. Voi del Corriere dello Sport dovreste fare un lavoro migliore a riguardo. Grazie a tutti i tifosi e ai giornalisti per il supporto e concentriamoci sul match di domani». Della vicenda parla anche Smalling, in un tweet. «Avrei voluto spendere la giornata concentrandomi sulla partita di domani ma è importante riconoscere che quello che è successo stamattina è sbagliato e molto insensibile. Spero che i redattori coinvolti in questo titolo si prendano le proprie responsabilità e capiscano il potere che hanno attraverso le loro parole e l’impatto che potrebbero avere. Un grande grazie alla Roma per il supporto. Ora facciamo iniziare la battaglia, forza Roma!». Sui social la polemica è divampata in un attimo. «Che schifo! Tutto il resto del mondo si vergogna di voi», «Imbarazzante, vergognatevi», «La pubblicate anche? Siete senza limiti», si legge in alcuni post, mentre in altri vengono lanciate esplicite accuse di razzismo oltre a insulti di vario genere. E la prima pagina incriminata sta facendo il giro del mondo: ne parlano alcuni media britannici e sono tanti anche i commenti in inglese al post pubblicato dalla Roma. La risposta del direttore del quotidiano, Ivan Zazzaroni, non si è fatta attendere. Sul sito del Corriere dello sport, ha ribattuto alle critiche con un intervento dal titolo «L’elogio della differenza». «Piattaforme digitali? Direi pattumiere. Truccate da rancori nobili. Sdegno a buon mercato. Un bel pensiero al giorno toglie il medico di torno. Eserciti di benpensanti di questi tempi affollano il web per tingersi di bianco le loro anime belle — scrive Zazzaroni —. Individuato il razzista di turno, vai, due colpi alla tastiera e via la macchia, ti senti un uomo migliore in un mondo migliore. Bianchi, neri, gialli. Negare la differenza è il tipico macroscopico inciampo del razzismo degli anti razzismi. La suburra mentale dei moralisti della domenica, quando anche giovedì è domenica. “Black Friday”, per chi vuole e può capirlo, era ed è solo l’elogio della differenza, l’orgoglio della differenza, la ricchezza magnifica della differenza. Se non lo capisci è perché non ce la fai o perché ci fai. Un titolo innocente viene trasformato in veleno da chi il veleno ce l’ha dentro».

Prima pagina "Black Friday", bufera sul Corriere dello Sport. Roma e Milan vietano l'accesso al centro sportivo. Il gioco di parole con le foto di Lukaku e Smalling scatena l'indignazione del web e dei media inglesi. Stop ai giornalisti del quotidiano sportivo a Trigoria e Milanello fino al mese di gennaio. I post di accusa dei due giocatori. La difesa del direttore Zazzaroni: ''Elogio della differenza". La Repubblica il 05 dicembre 2019. Il razzismo dilaga anche nel mondo del calcio. Ma a pochi giorni dalla lettera aperta indirizzata "a chi ama il calcio" sottoscritta dai 20 club di Serie A, per schierarsi attivamente e lanciare un messaggio forte, suscita un mare di polemiche la prima pagina di oggi del Corriere dello Sport. Il quotidiano sportivo romano ha infatti aperto la sua edizione con la foto di Lukaku e Smalling, ex compagni allo United e protagonisti del match fra Inter e Roma di venerdì sera, col titolo di "Black Friday", facendo riferimento al colore della pelle dei due calciatori, giocando anche sul nome dell'iniziativa commerciale per gli acquisti a prezzi scontati.

Le dure critiche dei media britannici. Una scelta editoriale che pochi hanno però apprezzato e sui social si è alzato subito un coro di protesta contro il giornale sportivo. Nell'editoriale si specifica subito il significato del titolo: "Alla faccia degli scemi che fanno "buu", domani tutti dovremmo fare "ooh"", però non è bastato a fermare l'indignazione della rete. Sul web infatti è scoppiata subito la polemica, e il titolo è stato riportato con dure critiche da diversi siti online stranieri, tra cui il popolarissimo Daily Mail, il Guardian e la stessa BBC in home page, facendo divampare la protesta e provocando attacchi al vetriolo, soprattutto dall'estero e dall'Inghilterra, nei confronti del calcio italiano.

Roma e Milan vietano accesso a centro sportivo a giornalisti Corriere dello Sport. La Roma ha preso subito posizione, dal suo canale inglese ha twittato contro la prima pagina del giornale: "No one, absolutely nobody. Not a single soul" ("Nessuno. Assolutamente nessuno. Non anima viva. Il titolista del Corriere dello Sport", con riferimento a coloro che avrebbero scritto o solamente pensato a quell'apertura in un momento delicato come questo su un tema del genere). In serata poi Roma e Milan hanno diramato una nota in cui annunciano la decisione di negare l'accesso ai rispettivi centri sportivi ai giornalisti del Corriere dello Sport "per il resto dell'anno e hanno stabilito che i rispettivi giocatori non svolgeranno alcuna attività mediatica con il giornale durante questo periodo. Entrambi i club sono consapevoli che comunque l'articolo di giornale associato al titolo "Black Friday" contenga un messaggio antirazzista ed è questa la ragione per la quale sarà vietato l'accesso al Corriere dello Sport solo fino a gennaio".

Smalling e Lukaku: ''Titolo sbagliato''. Sui social hanno preso posizione anche Smalling e Lukaku, i due giocatori raffigurati sulla prima pagina. Il difensore della Roma ha scritto su Twitter: "Avrei voluto passare la giornata concentrandomi sulla partita di domani, e devo confessare che quel che è avvenuto stamattina è stato sbagliato e altamente insensibile. Spero che i responsabili coinvolti nella redazione di questo titolo si prendano la responsabilità e capiscano il potere che hanno attraverso le parole, e l'impatto che queste parole possono avere". Per Lukaku quello del Corriere dello Sporto è "il titolo più stupido che io abbia mai visto nella mia carriera, dovreste fare un lavoro migliore". Ha preso posizione sull'episodio anche l'Inter lanciando un messaggio contro il razzismo: "Il calcio è passione, cultura e fratellanza. Siamo e saremo sempre contro ogni forma discriminazione", scrive il club milanese che ha scelto di non citare il Corriere dello Sport per non dare ulteriore visibilità ad una prima pagina considerata di pessimo gusto.

Zazzaroni: ''Elogio della differenza". Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport, ha difeso la sua scelta con un nota pubblicata sul sito del giornale: "Piattaforme digitali? Direi pattumiere. Truccate da rancori nobili. Sdegno a buon mercato. Un bel pensiero al giorno toglie il medico di torno. Eserciti di benpensanti di questi tempi affollano il web per tingersi di bianco le loro anime belle. Individuato il razzista di turno, vai, due colpi alla tastiera e via la macchia, ti senti un uomo migliore in un mondo migliore. Bianchi, neri, gialli. Negare la differenza è il tipico macroscopico inciampo del razzismo degli antirazzismi. La suburra mentale dei moralisti della domenica, quando anche giovedì è domenica. "Black Friday", per chi vuole e può capirlo, era ed è solo l'elogio della differenza, l'orgoglio della differenza, la ricchezza magnifica della differenza. Se non lo capisci è perché non ce la fai o perché ci fai. Un titolo innocente, peraltro perfettamente argomentato da Roberto Perrone, viene trasformato in veleno da chi il veleno ce l'ha dentro".

Presidente Ordine Giornalisti: "La Lega A non fa nulla contro i razzisti". "Non ci sto! Devo usare un'espressione storica nel nostro Paese per dare forza allo sdegno per ciò che sta accadendo verso i colleghi del Corriere dello Sport": così in una nota il presidente dell'Ordine dei giornalisti, Carlo Verna, interviene sulla vicenda del titolo di oggi del Corriere dello Sport dedicato alla sfida di domani tra Inter e Roma. "Tutto quello che la Lega calcio non ha fatto e non fa contro il razzismo, con cori indecenti che impunemente si ascoltano negli stadi senza che mai una partita sia stata definitivamente fermata e senza significative sanzioni per le curve - aggiunge Verna - ora si traduce in una  (presunta) 'esemplare' squalifica per dei giornalisti che nessuna responsabilità avrebbero, ammesso che i loro capi avessero sbagliato. A me peraltro non sembra proprio, forse gli inglesi, da cui sarebbe partita la polemica, si sono fermati al titolo, ma Roma e Milan, nonostante la proprietà straniera, l'italiano dovrebbero comprenderlo. Io leggo che, parlando di Lukaku e Smalling- prosegue la nota del presidente dell'Ordine dei giornalisti - si parla di idoli e si aggiunge che hanno imparato a stimarsi e che hanno preso posizioni forti contro il razzismo: sono i simboli di due squadre. Cosa volete? Forse far dimenticare la polemica di quel dirigente della Lega calcio che piuttosto che impedire i cori razzisti voleva evitarne la percezione della gente, con la conseguenza che il telecronista tenuto a stigmatizzarli e condannarli o l'arbitro che dovrebbe sospendere la partita siano presi per visionari da casa?". Verna sottolinea che "la lotta al razzismo e per il rispetto merita posizioni più serie. La sfida che lanciamo, come giornalisti, è la tolleranza zero su qualsiasi atteggiamento discriminatorio".

Katia Riccardi per repubblica.it" il 5 dicembre 2019. Non esiste innocuo né buona fede che possa passare attraverso il setaccio dei social media. La stessa indifferenza non è più tale nel momento in cui diventa commento. E che l'ennesimo spot di Natale, assolutamente mediocre, sia riuscito a creare tanta polemica negli Stati e Regno Uniti, non ne è che la solita prova. Il video pubblicitario mostra una donna magra, giovane e di nome Grace, che scende le scale con la figlia piccola e scopre il regalo del marito, giovane anche lui. Considerando la casa a due piani e le vetrate col bosco innevato fuori, forse anche benestante. Le ha regalato una cyclette (che non ha incartato, neanche un fiocco). Lei si porta le mani alla bocca, felice. È una Peloton Bike, costa circa duemila sterline (il modello dello spot 2.245 sterline, 2.653 euro). Voluta la bici non resta che pedalare. Decide quindi di documentare in un vlog i suoi progressi filmandosi per 12 mesi mentre si allena. L'anno successivo mostra il suo video al marito, e dice: "Un anno fa, non mi ero resa conto di quanto questo mi avrebbe cambiata". Lo guarda in cerca di approvazione. Lui sembra compiaciuto. Fine spot. A parte il fatto che lei è identica sia prima che dopo l'anno di allenamento, i social media si sono scagliati contro Peloton per: messaggio negativo sulla forma del corpo e diffusione di dinamiche coniugali malsane (marito che vuole la moglie in forma e lei che lo accontenta). Migliaia i commenti e le parodie su Twitter, compresa quella in cui una donna presenta le carte di divorzio al marito alla fine del suo viaggio in bicicletta. "L'unico modo per apprezzare l'annuncio di Peloton è di pensarlo come il primo minuto di un episodio di Black Mirror", scrive un utente. Altri suggeriscono che la moglie assomigli a un'influencer in ostaggio. Risultato, l'azienda ha registrato un crollo in borsa del 9 per cento. I commenti passano dall'offesa alla critica costruttiva. "Solo perché ha comprato una bicicletta a sua moglie non significa che si tratti di perdita di peso", ha affermato Shelley Zalis, CEO di The Female Quotient e co-fondatrice della campagna #SeeHer che si occupa di garantire che le donne siano ritratte accuratamente nei media. "Non c'erano riferimenti alla perdita di peso e non sembrava che fosse necessario". Forse voleva solo che restasse in forma. "La donna all'inizio della storia ha la forma di qualcuno che si sta allenando", ha detto Tim Calkins, professore di marketing presso la Kellogg School of Management della Northwestern University. Qualcuno parla solo di stile di vita sano. Nel Regno Unito, la Advertising Standards Authority (Asa) ha introdotto nuove regole per combattere gli stereotipi che rischiano di causare danni. Ad agosto Philadelphia Cheese Cream e Volkswagen sono stati i primi marchi ad essere banditi. Geront Lloyd-Taylor, un partner dello studio legale Lewis Silkin, ha affermato che Peleton (che non ha voluto rilasciare alcun commento) non ha violato le regole. L'Asa ha invece fatto sapere al quotidiano britannico The Guardian di aver ricevuto solo una critica ufficiale alla pubblicità. Ma non per lamentarsi del sessismo. La critica è sulla donna, che sembra pedalare in maniera ossessiva, e molto più velocemente di quanto umanamente possibile.

Charlize Theron: "Nel mio ultimo film ho odiato dire che Babbo Natale è bianco". L'attrice sudafricana e madre adottiva di due bambini afroamericani ha trovato difficile e imbarazzante dover pronunciare nel suo ultimo film una battuta sul fatto che Babbo Natale è bianco. Sandra Rondini, Giovedì 05/12/2019 su Il Giornale. Charlize Theron potrebbe avere una nuova nomination all'Oscar per "Bombshell", in cui interpreta la giornalista di Fox News, Megyn Kelly, ma il ruolo a cui tiene di più è quello di madre dei piccoli August e Jackson con cui in questo periodo dell’anno incontra sempre qualche "difficoltà" quando si trova a dover spiegare loro che Babbo Natale è bianco. Nel suo ultimo film, come riporta Movie Player, al di là della drammaticità della storia, la battuta che ha trovato più difficile pronunciare è stata: "Babbo Natale per me è solo bianco", quando lei nella realtà ha adottato due bambini afroamericani, August e Jackson. La battuta in “Bombshell” pare abbia messo a dura prova Charlize Theron, perché detta con tono razzista dal personaggio che interpreta nel film. Da anni negli Usa è in corso un dibattito sulla possibilità che il simbolo del Natale per i bambini possa avere la pelle nera o anche di qualsiasi altro colore, non per forza bianca, trattandosi di un personaggio di fantasia. Charlize Theron è di origine sudafricana, un Paese che, nonostante la fine dell'apartheid, ancora non ha raggiunto un equilibrio sociale tra bianchi e neri e per di più è madre di due bambini afroamericani. Così per lei dire quella battuta è stata un’esperienza, come ha tenuto a sottolineare, "decisamente imbarazzante", e poco conta, come si legge sui social, dove la frase dell’attrice non è passata inosservata, "ricordare alla signora che Babbo Natale è la rappresentazione pagana di un santo di origini turche, San Nicola, patrono tra l'altro della città di Bari" e probabilmente di "carnagione bianca o olivastra, anche se è la seconda a prevalere nelle immagini sacre. E solo qui ci sarebbe da discutere su quale pelle scegliere per rappresentare il santo...". Ma, come scrivono in molti "Babbo Natale vive in Lapponia, la regione più a nord della Finlandia, dove gli abitanti, persino la minoranza Sami, hanno la pelle bianca". Infine, per togliere ogni patema d’animo al cuore di mamma della Theron che soffre nel dire che Babbo Natale è 'bianco' c’è chi le consiglia di guardare con pù attenzione una sua illustre collega: "Fattene una ragione, in Lapponia sono come Renée Zellweger, figlia di una infermiera Sami". Basterà l'immagine di Bridget Jones a convincere la Theron a non trovare "imbarazzante" e razzista la tradizione che vuole che Babbo Natale sia bianco?

La psicopolizia del politicamente corretto censura anche Eschilo. Loris Falconi il 14/04/2019 su ariannaeditrice.it. Fonte: Revoluzione. Tra i frutti marci della cosiddetta Democrazia Liberale con il suo correlato di eguaglianza, principio tanto sbandierato quanto mostruosamente distorto, vi è il cosiddetto “Politically Correct”, sempre più pericolosamente in auge in questo misero tempo presente, con il suo potere censorio e violento, che non ammette altra verità al di fuori della sua verità.

La violenza del politicamente corretto. Oltre il velo dell’illusione mediatico-spettacolare, ci potremmo facilmente rendere conto che si tratta di “verità” del tutto relative e opinabili, spesso ridicolamente meschine, affermate dalla violenza di un mono-discorso tipicamente democratica e occidentale, per cui subdola, mai palese e manifesta, a tratti leziosa, persino bonaria come potrebbe essere una pacca sulla spalla che lo Zio Sam, dismesso il fucile insanguinato, potrebbe dare all’impenitente e irriducibile uomo anti-moderno (e ovviamente anti-puritano). L’efficacia del politically correct ha principalmente a che fare con l’ormai irrimediabile miopia ed ignoranza dell’attuale homo consumens iper-stimolato, un’idiota nel senso etimologico del termine, privato di un mondo comune, ripiegato sul suo ombelico, che si limita ad assorbire acriticamente la vulgata mainstream propinata da tutte le TV e gli organi di stampa. Quest’ultima sottende un ben preciso Immaginario Dominante, il quale, come una grande cappa scura e obnubilante, avvolge l’intera esistenza di ciascun singolo individuo nella sua quotidiana lotta per “un posto al sole” (anch’esso ovviamente già pre-stabilito e pre-confezionato secondo il mantra non recitato del “desidera ciò che gli altri desiderano”).

I “funzionari” del politicamente corretto. Ed ecco che da questa fitta e asfissiante nebbia compaiono i grigi funzionari del “Grande Manovratore”, gli agitatori delpolitically correct con i loro proni sodali: eccoli i buoni e i giusti, sempre misericordiosamente all’erta nello scovare “ciò che si può dire e ciò che non si può dire”, “ciò che si può fare e ciò che non si può fare”, dal passo deciso, dal volto liscio e lucido, mai solcato da alcuna traccia di dubbio, con in bocca le solite trite parole, ripetute sino alla nausea (tra gli evergreen sempre in voga ricordiamo “razzista”, “fascista” e “populista”).

Se pure Eschilo diventa razzista. A questo proposito risulta emblematico riportare l’incredibile fatto accaduto pochi giorni fa nella prestigiosa Università “La Sorbona” di Parigi in occasione della rappresentazione teatrale de “Le Supplici” di Eschilo, antica tragedia greca incentrata sulle cinquanta figlie di Danao, le cosiddette “Danaidi”, che per evitare il matrimonio con i cinquanta cugini, figli di Egitto, fratello di Danao, lasciano la terra d’Egitto per rifugiarsi ad Argo, in Grecia. Lo spettacolo è stato al centro di infuocate polemiche: il Consiglio delle associazioni nere in Francia (Cran) ha accusato la rappresentazione teatrale di “propaganda coloniale” per il fatto che alcuni personaggi vestivano delle maschere bianche mentre altri le indossavano nere, pertanto, a causa delle contestazioni degli studenti “anti-razzisti”, gli attori, impossibilitati a proseguire la recita, si sono trovati costretti a lasciare il palco. Sarebbe opportuno ricordare, come ha fatto attraverso un comunicato la stessa università parigina, che è prassi consolidata nella messa in scena di tale opera utilizzare sia maschere bianche sia maschere nere, seguendo così la tradizione teatrale greca così come ci è stata tramandata. Eppure questo non è bastato per scongiurare l’annullamento della tragedia di Eschilo: non è accettabile “discriminare” i bianchi dai neri. In tutto questo delirante quadretto, sintomo di una crisi socio-culturale drammaticamente profonda in cui si è completamente perduto ogni saldo punto di riferimento, risulta estremamente significativo il tentativo del regista Philippe Brunet di giustificarsi così attraverso la sua pagina Facebook: “Nell’ultima rappresentazione dell’Antigone ho fatto recitare i ruoli da uomini a delle donne. Recito Omero ma non sono cieco come lui; ho fatto recitare i ruoli dei persiani a dei ragazzi nigeriani a Niamey; la mia ultima regina persiana era nera di pelle e portava una maschera bianca”. Dunque cosa fa il regista? Invece di rivendicare con forza – come sarebbe lecito aspettarsi – l’incommensurabile valore meta-storico dell’epoca classica dalla quale prende forma la tragedia greca, specificando il necessario radicamento in una certa tradizione culturale, con determinati usi e costumi, egli porge intimidito l’altra guancia al nichilismo egualitario e livellante del politically correct, auto-dichiarandosi anch’esso “democratico e liberale”, sino a sottolineare la sua moderna non-cecità rispetto a Omero, presumibilmente un “razzista ante litteram” (sic.). Ebbene i greci, pur essendo passati alla storia per aver “inventato” la democrazia – aggiungiamo e specifichiamo diretta, non rappresentativa – non erano affatto dei “democratici” come oggi comunemente intenderemmo, ossia non erano affatto dei deboli e miopi epigoni che pretendono di riportare ai loro miseri e deturpanti schemi occidentocentrici la nobile grandezza del passato. In una società così putridamente ipocrita come quella francese, fulgida bandiera dei cosiddetti “diritti civili” e spietata fustigatrice nei confronti di qualsiasi rivendicazione sociale, non ci dovrebbe di certo stupire la violenta rivolta dei “Gilets Jaunes”, non a caso costantemente ignorati da tutti i media mainstream nonostante i mesi di radicale e assidua protesta. Ciò non significa – sia chiaro – che gli altri Paesi occidentali non siano alle prese con la stessa follia auto-distruttiva: una macabra danza di nani acefali e tronfi che invece di salire sulle spalle dei propri avi giganti, ben radicati alle loro millenarie tradizioni, per cercare di scrutare l’orizzonte e tracciare una possibile via futura, si crogiolano nel vederli crollare inermi ai loro piedi.

Un futuro senza radici. Senza memoria delle proprie radici, non ci può essere alcun futuro. E senza conoscere ciò che ha forgiato la mia identità, non posso conoscere l’altro, se non riportandolo all’uniformità dell’identico, e dunque misconoscendolo, senza possibilità alcuna di comprenderlo. La comprensione nasce dalla differenza ed è proprio quest’ultima che l’attuale sistema di potere tecno-finanziario globale cerca di annullare, riducendo tutto a un’unica dimensione livellante e fintamente egualitaria. Antonio de Curtis paragonava la morte a una livella, perché ci fa tutti uguali. La stessa cosa possiamo dire della mortifera strategia del politically correct, che come una livella normalizza asetticamente ogni forma di dissenso, ogni possibilità di voce altra, riducendola al silenzio, alla non-esistenza. È questa oggi la vera tragedia!

Ed è per questo che oggi più che mai è così importante cercare di esprimere la propria voce.

Ed è per questo che oggi più che mai è così importante cercare di pensare.

A proposito del pensiero, la filosofa Hannah Arendt concludeva il suo splendido saggio Vita Activacon queste parole: “Disgraziatamente, a differenza di ciò che si pensa di solito circa la proverbiale indipendenza dei pensatori, nella loro torre d’avorio, nessun’altra facoltà umana è così vulnerabile, e di fatto è molto più facile agire in condizioni di tirannia che non pensare”. Che queste parole ci accompagnino e siano di monito. 

“Contro il politicamente corretto. La deriva della civiltà occidentale. Da Letture.org.

Dott. Enzo Pennetta, Lei è autore con Ettore Gotti Tedeschi del libro Contro il politicamente corretto. La deriva della civiltà occidentale edito da Giubilei Regnani: quando e come nasce il concetto di politically correct?

«La nascita del concetto di politicamente corretto risale agli anni ‘30 ma ha avuto poi una maggior diffusione sia dopo il 68 che negli anni 90. Inizialmente si trattava di evitare nel linguaggio termini che potessero risultare discriminatori e offensivi verso determinate categorie sociali, ma aldilà di queste origini quello che è interessante è stato lo sviluppo successivo del fenomeno che è poi quello che ci riguarda direttamente. L’idea di contrastare dei comportamenti negativi modificando il linguaggio appariva interessante perché di facile attuazione ma di fatto spostava l’azione dall’educazione ad un comportamento rispettoso ad autentiche forme di censura del pensiero. Con il politicamente corretto però non era l’idea, per fare un esempio, di razzismo ad essere contrastata ma l’uso di particolari termini come la parola “negro”, cioè anziché cambiare il modo di pensare si puntava ad impedire che certi pensieri potessero essere espressi. La pericolosità di questo modo di procedere è evidente, si passa da un’azione educativa ad una repressiva che però lascia intatto il problema che si vuole eliminare e semmai introduce una tendenza all’ipocrisia. Per capire come la situazione si sia evoluta nel tempo e, restando al caso citato del razzismo, possiamo osservare che negli anni ad esempio si sono succeduti termini come “di colore” e “nero” che però possono anch’essi venire impiegati in modo dispregiativo perché quello che in effetti conta è il senso con il quale le parole sono pronunciate. Per capire è ad esempio interessante un caso come quello dell’On. Boldrini che intendendo indicare in positivo gli immigrati coniò il termine “risorse” ha finito con l’ottenere l’effetto opposto di far impiegare in senso ironico il termine e trasformarlo in uno dei più pungenti epiteti verso gli immigrati stessi».

Cosa è politica­mente corretto?

«Per dirla con Nietzsche “Nessun pastore e un solo gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono uguali: chi sente diversamente, se ne va da sé al manicomio”, con queste parole scritte in “Così parlò Zarathustra” il filosofo dipinse lo spirito di omologazione di un’umanità senza più Dio e con il miraggio irraggiungibile dell’oltre uomo. La mancanza di un riferimento di tipo religioso rende l’etica soggettiva, al tempo stesso il miraggio dell’oltre uomo pone invece una meta irraggiungibile e vaga ma che deve essere dichiarata possibile e chiara. Ecco quindi che si capisce perché l’uomo moderno ha più bisogno di consenso rispetto a quello antico che il consenso lo aspettava dalla divinità e che come modello comportamentale aveva un’umanità presente e definita. Senza un riferimento chiaro ecco che il consenso dei propri simili diventa fondamentale e l’adeguamento alle aspettative del gruppo è vitale. Qui sta la forza del politicamente corretto, è il metro col quale si misura la propria appartenenza ad un gruppo percepito come maggioranza accogliente, un’appartenenza che è al tempo stesso una ricompensa e un elemento tranquillizzante».

In che senso si può affermare che il politicamente corretto è una specie di “truffa” imposta dal potere dominante?

«Se pensiamo alle truffe commerciali ci è immediatamente chiaro in che senso il politicamente corretto può esserlo, l’essenza di una truffa è spingere qualcuno a spendere delle risorse per qualcosa di ingannevole. Pensiamo adesso al politicamente corretto, sappiamo che si tratta di un pensiero che viene imposto dai grandi media, sia nella forma della carta stampata che dalle televisioni, ma quello che è ancora più importante è sapere come funziona. Dato il metodo impiegato per diffonderlo possiamo dire che si tratta in fondo di una sofisticata tecnica di marketing e condizionamento che è riconducibile alla discussa tecnica delle Programmazione Neuro Linguistica (PNL) che viene usata dagli anni ’60 per indurre convinzioni e comportamenti in soggetti che vi sono inconsapevolmente sottoposti. Nel caso in questione i messaggi da inserire nella visione del mondo di chi ascolta sono veicolati all’interno di concetti preesistenti e largamente accettati, un esempio è il riferimento ai “diritti” e alla difesa delle “minoranze”: chi potrebbe dirsi contrario ai diritti e alla tutela delle minoranze? Ed è proprio facendo affidamento su questi principi già , largamente condivisi che si fanno passare, come cavalli di Troia, i messaggi del politicamente corretto. La tecnica della PNL a sua volta si fonde spesso in modo molto efficace con il concetto di “finestra di Overton”, la ormai nota teoria sulla tecnica di diffusione di principi e comportamenti inizialmente condannati dal senso comune. Ricordiamo brevemente che nella finestra di Overton si passa da una fase iniziale nella quale essa viene aperta su una determinata idea definita “impensabile” a quella finale in cui la situazione è ribaltata e una larga maggioranza di persone infine approva tale idea mentre una residua minoranza ancora la rifiuta e per questo viene messa in cattiva luce».

In che modo il pensiero politicamente cor­retto si è imposto come pensiero unico?

«Come abbiamo visto alla base del politicamente corretto agiscono meccanismi efficacissimi che fanno leva su principi morali comunemente condivisi, l’imposizione definitiva può essere quindi ottenuta rendendo pervasivi i giudizi morali contro chi non si adegua. Per intenderci, se di fronte all’impiego di una determinata parola da parte di un qualsiasi soggetto vediamo sulla stampa e sui media un coro unanime di condanna, il senso di isolamento di chi dovesse schierarsi dalla parte del trasgressore sarebbe massimo e la maggior parte delle persone in quel caso o cambia idea o tace. Eliminato così il dissenso, quello che resta è solo il pensiero unico, un pensiero che verrà percepito ancor più unanime e obbligatorio. Ci sono studi scientifici sul fatto che quando si percepisce una maggioranza su un determinato argomento si tende ad adeguarsi a quelle posizioni».

Cosa significa rivendicare diritto di cittadinanza al poli­ticamente scorretto?

«Diritto di cittadinanza significa che qualcosa è un componente organico e accettato di una società, in questo caso sarebbe come dire che la coercizione verso un determinato modo di pensare è normale e funzionale. Fatte queste premesse è chiaro che il politicamente corretto può avere diritto di cittadinanza in una società falsamente libera, tornando alla frase di Nietzsche una società dove c’è spazio per il politicamente corretto è un luogo in cui “chi sente diversamente, se ne va da sé al manicomio”. Le società in cui si veniva mandati al manicomio erano quelle dei Gulag e il fatto di andarci “da sé” non cambia la questione, anzi semmai la peggiora. Il politicamente corretto non deve avere alcuna cittadinanza, riconoscerlo e denunciarlo è un atto rivoluzionario al quale chiunque crede nel libero pensiero deve compiere».

Giovanni Sallusti per “Libero Quotidiano” il 7 novembre 2019. Oggi in Occidente - nella fattispecie nel Regno Unito - è vietato asserire che solamente le donne possono partorire. Forse nessuna storia racconta come quella di Lynsey McCarthy-Calvert l' essenza del politicamente corretto, questa dittatura à la carte che nemmeno distrugge tragicamente la nostra civiltà, ma la spegne giorno per giorno, con quotidiane iniezioni di letale comicità involontaria. Lynsey McCarthy-Calvert è (o meglio era) la portavoce di "Doula Uk", l' associazione britannica delle assistenti materne, le moderne "levatrici" che sostengono la madre prima, durante e dopo il parto. Un bel giorno Lynsey dev' essersi stancata del correttismo sessuale e "di genere" (orrida espressione la cui imposizione è già una mezza vittoria dell' ideologia dominante) e sul suo profilo Facebook ha postato queste apparenti ovvietà: «Non sono una persona che "possiede una cervice uterina". Non sono un "menstruator". Non sono un "feeling". Non sono definita da un vestito e un rossetto. Sono una donna: una femmina, umana, adulta. Le donne fanno nascere tutte le persone». Doveva essere impazzita quel giorno, Lynsey, o forse aveva alzato troppo il gomito in qualche pub londinese. Rivendicare l' essere femminile come alternativo a quello maschile, e presentarlo come l' unico in grado di procreare? Ce n' era abbastanza per essere piazzata davanti al plotone d' esecuzione degli unici, veri odiatori del nostro tempo, i progressisti convertiti da "Bandiera Rossa" a "Mutanda Arcobaleno". E infatti, giù accuse di "discriminazioni verso la comunità Lgbt", una lettera di denuncia firmata da venti autodichiaratisi "attivisti transgender" (qualunque cosa voglia dire), e ancora commenti di utenti indignati perché «sembra che tu ti stia dimenticando che non solo le donne mettono al mondo bambini» (ma certo, pure chi scrive non ha ancora sciolto il dubbio se sia stato partorito da sua madre o da suo padre). Risultato: "Doula Uk" fa dimettere Lynsey e fa pure atto di pubblica contrizione. «Siamo orgogliosi di apportare modifiche, compresi i cambiamenti al linguaggio che utilizziamo, se riteniamo che sia necessario rendere la comunità più accogliente e solidale». Il bis-linguaggio, la lingua artificiale creata ad hoc per controllare pensieri e comportamenti: la ciccia del totalitarismo sta sempre lì, fin da "1984" di George Orwell. L'uscita che è costata posto e rispettabilità sociale a Lynsey è infatti pregnante, soprattutto perché contiene esplicite allusioni a una deriva orwelliana in pieno corso nel Regno Unito ma anche in tutto l' Occidente (come dimostra in Italia la perenne tentazione burocraticamente corretta di rimpiazzare padre e madre con Genitore 1 e Genitore 2). La "Cancer Research Uk", associazione per la ricerca sul cancro, ha eliminato la parola "donne" dalla campagna informativa per il pap test, esame uterino: d' ora in poi lo screening sarà destinato "a ogni persona con la cervice tra i 25 e i 64 anni", perché ci sono signore che si sentono signori e nessuna anatomia tiranna può negare loro (per fortuna siamo al plurale, e non dobbiamo effettuare la pericolosissima scelta tra "gli" e "le") questo fondamentale diritto civile. La "Bloody Good Period", società che rifornisce di assorbenti chi (il chi è unisex vostro onore, siamo salvi!) non può permetterseli, per analoghi motivi non parla più di "donne", bensì di "menstruator", forse prendendo troppo alla lettera il dogma contemporaneo che invita a fluidificare le identità. Quanto alla prestigiosa "British Medical Association", ha dato consegna ai suoi 160mila membri (nel senso di esponenti, non siate ignobili sessisti fallocentrici) sparsi nel Regno Unito di non chiamare mai più una donna incinta con l' appellativo retrogrado di "futura mamma" - perché certo, come recita la nota ufficiale, «la grande maggioranza delle persone che sono incinte o che hanno partorito si identificano come donne» (contro ogni pronostico, aggiungiamo), tuttavia «ci sono alcuni uomini intersex e uomini trans che possono essere gravidi. È possibile includerli chiamandoli "persone incinte"». Certamente, è possibile qualunque supercazzola gender, nel bel mondo in cui la piazza virtuale di Facebook ti permette di definirti tra 56 identità sessuali diverse. Poi la sera, a casa, lo specchio ti riflette quel nocciolo di realtà oggettiva che pur rimane: o sei maschio o sei femmina. E, lo scriviamo a costo di essere scomunicati dall' Inquisizione polotically correct, puoi partorire solo nel secondo caso.

Sentiero alpino «spianato» per far accedere disabili. Pioggia di critiche. Pubblicato venerdì, 08 novembre 2019 da Corriere.it. «Adesso anche un ipovedente o chi ha disabilità motoria, ma anche una mamma con il passeggino, potranno salire tra i boschi fino al rifugio. Potrà respirare il sapore di montagna anche finora non ha avuto la possibilità di farlo», spiega orgoglioso Antonio Gonella, presidente del Rotary Club Città di Clusone. «La montagna presenta di per sé delle difficoltà e dei livelli per tutti. Non è corretto spianare un sentiero o deturpare un bosco per rendere accessibile tutto ad ogni costo. Anche perché ci sono sempre delle valide alternative», reagisce Andrea Gennari Daneri, fondatore di «Pareti Climbing Magazine», uno dei punti di riferimento per chi ama la montagna. Oggetto del contendere in questo caso è il sentiero 315 che dal Passo della Presolana arriva alla Baita Cassinelli. A metà di ottobre si è conclusa la prima parte dei lavori per «renderlo accessibile agli ipovedenti, non vedenti e persone con leggera difficoltà di mobilità», un progetto complessivo da 100 mila euro portato avanti dal Rotary Club di Clusone con il sostegno del Cai di Bergamo. Ma lo scontro va oltre questo tracciato di poco più di 2 chilometri con 230 metri di dislivello, e riguardo un tema più generale: fino a che punto è giusto rendere fruibile ciò che per natura non lo è? O ancora (visto da un’altra angolazione) quanto patrimonio ambientale siamo disposti a sacrificare per avvicinare più persone a goderne? I soci del Rotary e del Cai locale non hanno avuto dubbi e domenica 27 ottobre hanno inaugurato il nuovo percorso con una camminata a cui hanno partecipato anche due non vedenti e un disabile su joelette, la carrozzina speciale per la montagna. «La scintilla è scoppiata nel luglio 2017 in occasione dell’Abbraccio alla Presolana — ricorda Gonella —. Tra i tanti partecipanti c’era anche una decina di ipovedenti. Allora ci siamo detti: perché non rendere più agevole il tracciato, anche perché si arriva in una baita che non ha barriere architettoniche». Il progetto è stato finanziato con contributi e donazioni private. «Ci sono voluti 22 mesi di burocrazia e 5 mesi di lavoro — aggiunge Gonella —. Le critiche? Ben vengano, perché ci fanno crescere. Ma inviterei tutti quelli che sollevano dubbi a venire prima a vedere che cosa abbiamo realizzato».

Il sentiero. Andrea Gennari Daneri Andrea Gennari Daneri conosce bene quei posti, ed è stato uno dei primi ad avere delle perplessità. «Pratico la montagna da 36 anni, so che ci sono delle cose che anche per me sono troppo difficili ed è giusto che rimangano tali — spiega il fondatore di Pareti —. Nessuno dovrebbe modificare la natura per avanzare di un livello. In questi anni ho raccontato molte storie di uomini e donne con difficoltà, che hanno raggiunto traguardi insperati grazie al loro impegno e alla loro dedizione non certo spianando la strada che avevano davanti. In particolare, quel sentiero della Presolana è pieno di radici, significa tagliarle per renderlo accessibile. E poi verrà messo un batti bastone per tutto il percorso, mi chiedo quante persone con disabilità poi lo utilizzeranno davvero. Senza considerare che c’è già una strada alternativa, usata per rifornire il rifugio; bastava togliere un po’ di ghiaia e mettere qualche cartello».

Quello della Presolana non è l’unico caso. Nei mesi scorsi diverse associazioni e un comitato locale si sono opposti al progetto dell’Ersaf Lombardia (l’Ente regionale per i servizi all’agricoltura e alle foreste) per allargare un sentiero in Val di Mello e renderlo percorribile anche per chi ha problemi di mobilità. Dopo accordi, ripensamenti e qualche malinteso, alla fine sembra che si sia trovata un’intesa. «Abbiamo ottenuto la garanzia che il sentiero sarà mantenuto quanto più originale possibile — dice Gabriella Vanzan di Mountain Wilderness, una delle associazioni che più si è impegnata —. All’inizio si parlava di un tracciato largo almeno 90 centimetri, adesso abbiamo la promessa che non superi tale misura». In questo caso le proteste, e anche una raccolta di 60 mila firme, sono riuscite a intervenire prima che i lavori partissero e a trovare una soluzione il più possibile condivisa.

La Presolana. Ma resta il nodo di fondo: fino a che punto la montagna può essere per tutti? Anche per Mountain Wilderness bisognerebbe partire dal concetto che «gli ostacoli che si trovano in natura non sono assimilabili alle barriere architettoniche dei contesti urbanizzati che vanno giustamente eliminati». Conclude Gabriella Vanzan: «Anche la Dichiarazione di Norcia del 2003 che ha fissato il diritto che tutti possano andare ovunque, aggiunge anche che ciò va fatto nel rispetto del patrimonio naturale e delle generazioni future».

Lo show di Victoria’s Secret è ufficialmente annullato: il brand travolto dalle accuse di sessismo. Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. Ora è ufficiale: lo show annuale di Victoria’s Secret, programmato sempre nel mese di novembre, non si farà nel 2019, come annunciato da L Brand, rivenditore del marchio. Lo spettacolo che ha decretato il successo di tante modelle, da Adriana Lima a Gigi Hadid, fino a Gisele Bundchen, nel quale le top hanno sfilato in passerella con ali da «angelo» e in lingerie, è stato annullato definitivamente. Un po’ per colpa del social, visto che l’evento messo in scena dopo il 20 novembre andava in televisione soltanto un mese dopo, e il pubblico non aspettava di vederlo in tv , ma accedeva a Instagram per seguirlo tramite dirette e immagini, e un po’ per il calo delle vendite e i problemi interni al brand (vedi anche nuovo amministratore delegato). Quando è stato chiesto a Stuart Burgdoerfer, numero uno finanziario di L Brand, se ci sarà qualche evento in prossimità del Natale, lui ha dichiarato: «No, lo comunicheremo ai clienti. Pensiamo che sia importante far evolvere il marketing di Victoria’s Secret». La serata magica degli «angeli» non è più redditizia ed è stata tolta dal programma. Perché dal 2001, da quando esiste lo show, gli spettatori televisivi americani sono calati in maniera vertiginosa, passando da 12 milioni a 3,3. Non solo. Il marchio perde in termini di business: la lingerie preziosa e tutta pizzo che ha decretato la fortuna dell’azienda ha lasciato il posto ai completini intimi sportivi e sobri, simili a quelli che si possono comprare a prezzi più competitivi da altri brand. Senza dimenticare la polemica che ha travolto l’ex direttore marketing di Victoria’s Secret Ed Razek (anche presidente di L Brand), accusato di sessismo e body shaming, che si è dimesso dopo aver detto che gli standard della società non potevano includere modelle curvy e transgender (ora non è più così, dato che la trans brasiliana Valentina Sampaio è stata messa sotto contratto). Insomma, finisce un’era di «angeli» in passerella. Bisognerà trovare altri mezzi di comunicazione per promuovere i prodotti. Le prime voci dell’annullamento dello spettacolo sono trapelate quest’estate, nei primi giorni di agosto, quando l’angelo Shanina Shaik si è fatta sfuggire la notizia dello stop durante un’intervista. La 28enne aveva detto: «Sfortunatamente quest’anno non ci sarà uno show. Sono un po’ delusa perché non è qualcosa a cui sono abituata. Di solito durante il periodo estivo faccio le prove come “angelo”». Ma al tempo il marchio contattato dai media non aveva confermato o commentato la notizia. Ora è ufficiale: Victoria's Secret cancella lo show natalizio. ''Vogliamo che il nostro messaggio si evolva''.

Dopo le voci circolate questa estate arriva anche la conferma da parte del CFO di L Brands (azienda proprietaria di Victoria's Secret) Stuart Burgdoerfer: lo show natalizio del 2019 del marchio di intimo statunitense è stato cancellato. Una decisione figlia di un nuovo concetto di bellezza inclusiva, del calo delle vendite e delle critiche sempre più numerose. La Repubblica il 22 Novembre 2019. Sarà un Natale senza angeli quello del 2019. Nessun sacrilegio: stiamo parlando degli angeli di Victori'a Secret, brand di intimo statunitense tra i più amati al mondo che per il 2019 ha decisio di cancellare il fashion show faraonico con il quale ogni anno dal 1995 presenta nel periodo natalizio le sue collezioni. La notizia era trapelata già la scorsa estate e a farsela sfuggire era stata proprio una delle modelle di VS, Shanina Shaik, durante un'intervista nella quale aveva dichiarato: "Sfortunatamente lo show di Victoria's Secret non ci sarà quest'anno. È qualcosa a cui non sono abituata perché ogni anno in questo periodo mi alleno per essere pronta a fare 'l'angelo'". Ebbene, quest'anno niente angeli e niente show. La conferma arriva direttamente da Stuart Burgdoerfer, CFO di L Brands, l'azienda proprietaria di Victoria's Secret: "Comunicheremo con i nostri clienti, ma nulla di simile, come magnificenza, al fashion show". Uno spettacolo trasmesso in TV in tutto il mondo che ogni anno colleziona centinaia di milioni di telespettatori e che ha contribuito a lanciare la carriera di modelle come Adriana Lima e Alessandra Ambrosio o come le più recenti Gigi e Bella Hadid e Kendall Jenner forgiando contemporaneamente un'idea di bellezza così esclusiva che le modelle che vi partecipano vengono chiamate, appunto, "angeli di Victoria's Secret". Perché dunque cancellarlo? Perché è tempo di "evolvere il messaggio della compagnia". Un messaggio che era stato riassunto in tutta la sua cruda intransigenza dall'ex Chief Marketing Officer, Ed Razek, in un'intervista per Vogue dell'anno scorso nella quale, interrogato sulla possibilità di avere modelle transgender e plus size nello show, aveva risposto: "No, non credo dovremmo perché lo show è una fantasia. È uno spettacolo di intrattenimento di 42 minuti. Questo è quello che è. È l'unico nel suo genere e qualsiasi altro marchio di moda lo farebbe suo in un minuto, compresi quelli che ci criticano". Parole che nel 2019, in una società che ha imparato a rifiutare canoni estetici rigidi e che sta definendo una nuova idea di bellezza inclusiva, hanno avuto un effetto boomerang devastante. Nel giro di 12 mesi Victoria's Secret ha ingaggiato una modella trans, una con la taglia 46 (che non sarà plus size ma è lontana dalla forma fisica generalmente esatta ai casting di VS), ha accompagnato alla pensione Ed Razek e ora ha cancellato anche lo show simbolo del suo successo commerciale. Un successo commerciale che ha cominciato a venire meno negli ultimi due anni (nonostante il marchio americano resti leader indiscusso dell'intimo) e che rappresenta la vera motivazione di un cambiamento di rotta così veloce e radicale: quando la curva delle vendite comincia a guardare verso il basso, un buon management corre ai ripari prima che la situazione precipiti. Soprattutto in un mondo che corre velocissimo e nel quale indignazione e boicottaggi rimbalzano senza possibilità di scampo sui social network. Se si aggiunge che le critiche a Victoria's Secret stavano cominciando ad arrivare anche dalle stesse modelle come Karlie Kloss (che ha abbandonato il marchio per protesta verso il messaggio che trasmette) o Doutzen Kroes (che ha firmato una lettera aperta per invitare il brand a difendere le sue modelle dalle molestie sessuali sul set) era inevitabile aspettarsi dei cambiamenti.

La rivista ospita le tesi del fisico sessista. Rivolta degli scienziati. Alessandro Strumia fu allontanato dal Cern per aver detto che la "fisica è fatta dagli uomini, non dalle donne". Ora rilancia, tra le polemiche. Elena Dusi il 04 novembre 2019. E lui insiste. Alessandro Strumia, 50 anni, professore di fisica all'università di Pisa, un anno fa si alzò a un convegno al Cern sulla parità di genere e lasciò tutti a bocca aperta, dichiarando che "la fisica è stata costruita dagli uomini", le donne si lagnano per nulla perché "non è vero che sono discriminate" e nella scienza "non si entra con un invito". Come se non bastasse: "Gli uomini preferiscono lavorare con le cose, le donne con le persone". Ci sono "differenze nei sessi già nei bambini, prima che l'influenza sociale intervenga" e via stereotipando. La gragnola di critiche non ha piegato Strumia, che oggi rilancia. Durante quest'anno ha trasformato le sue tesi scombinate in grafici ed equazioni sul numero delle donne ricercatrici e su quanta carriera fanno e ha perfino trovato una rivista scientifica disposta a pubblicare il suo "Questione di genere in fisica fondamentale". Si tratta di Quantitative Science Studies, un giornale nato da pochi mesi, non certo di primo piano, ma comunque affiliato alla casa editrice del Mit di Boston (il prestigioso Massachusetts Institute of Technology). La rivista è sottoposta alla revisione dei pari (all'approvazione cioè da parte di altri scienziati) e ha promesso diritto di replica ai detrattori. L'articolo per il momento è stato approvato, ma non pubblicato. Il fisico pisano - carattere polemico e testardo, lo descrive chi lavora con lui - l'ha pubblicato intanto sul suo blog, come una sorta di rivalsa. La rivista americana Science ha subito registrato le polemiche, dedicando al fisico nostrano uno speciale sul suo sito Sciencemag e citando uno dei pari autori della revisione: il testo di Strumia, dice, è pieno di "difetti" e "affermazioni non dimostrate". Un anno fa, dopo l'improprio intervento, Strumia perse l'affiliazione al Cern. Il centro Ginevra diretto da Fabiola Gianotti si dichiarò "gravemente offeso" e tagliò ogni rapporto. Stessa cosa fece il nostro Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), tirato in ballo con frasi da querela: Strumia aveva infatti partecipato a un concorso Infn vinto, fra gli altri, anche da due donne che - sostiene lui - non meritavano un punteggio superiore al suo. L'università di Pisa si era limitata a una sanzione etica, lasciando intatta la cattedra e il gruppo di ricerca. Strumia, quando non si accanisce sulla questione di genere, è infatti un fisico teorico stimato. Ha un progetto di ricerca europeo da 1,8 milioni di euro che resta inquadrato a Pisa. La cifra. per questa disciplina, è di tutto rilievo. A Speranza Falciano, nel sentire tutto questo, cadono le braccia. A 65 anni la scienziata, membro della giunta dell'Infn, una vita trascorsa agli esperimenti del Cern, sperava che certi pregiudizi fossero relegati al passato. "La carriera scientifica è dura e impone sacrifici" racconta. "Le donne hanno risultati migliori all'università e al dottorato. Poi spesso rinunciano. Sanno che dovranno farsi strada in un mondo quasi tutto maschile e che la scelta della carriera potrebbe pesare sulla vita privata". Ci sono decine di anni di sforzi e di studi davvero approfonditi, per superare il problema. "La questione della disparità delle donne nella scienza esiste" conferma Falciano. "Ed è ora di risolverla, non di fare polemiche inutili e dannose".

Giuseppe Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 6 dicembre 2019. Era stato indicato come un potenziale successore di Larry Fink, co-fondatore e Ceo di BlackRock, il più grande gestore del mondo. Invece il top manager Mark Wiseman, canadese, responsabile degli investimenti attivi in azioni, con circa 300 miliardi di dollari di asset gestiti, ieri è stato licenziato per non aver rivelato una relazione romantica con una collega, che non era la moglie, anche lei potente manager a BlackRock. Wiseman è solo l' ultima vittima corporate del MeToo. A inizio novembre lo stesso destino era capitato al Ceo di McDonald' s, Steve Easterbrook.

Simonetta Sciandivasci per il Foglio il 26 novembre 2019. Quando Bridget Jones fa il colloquio per diventare tv reporter e il direttore rete le chiede come mai vuole lavorare in televisione, lei risponde: `Pm lasciare il posto dove lavoro adesso perché mi sono scopata il capo". Lui l'assume all'istante e le dice: "Qui a Sit Up! Britain nessuno è mai stato licenziato per essersi scopato il capo. E una questione di principio". Sembra un fantasy, e invece è soltanto il 20010, se preferite (e preferiamo), è il mondo prima che arrivasse il #metoo. Una battuta così, adesso, a un dirigente, a un capo, pub valere la carriera, perché la questione di principio è opposta: se il superiore finisce a letto con una dipendente, va licenziato, anche se lei è consenziente, entusiasta, innamorata, fence e contenta. E' capitato all'ormai ex ceo di McDonald's, Steve Eastkrbrook, che qualche settimana fa si è dimesso perché aveva una relazione con un'altra lavoratrice del ristorante dell'umanità, violando non la volontà di lei (che invece ricambiava l'amore e con lui ci stava perché aveva scelto di starci), bensì la policy aziendale, e dimostrando così di avere "scarsa capacità di giudizio" ce scritto nel comunicato stampa che l'azienda ha diffuso a epurazione di Easterbrook, consensuale anch'essa, terminata). Lo Stato non mette (ancora)bocca sulle relazioni tra i dipendenti di una stessa azienda, quelle che gli americani chiamano Office Romance e che Business Insider s'è affrettato a ricordare che hanno dato al mondo Monica Lewinsky e Bill Clinton, certo, ma pure Michelle e Barack Obama, Melinda e Bill Gates, Brigitte ed Emmanuel Macron, e quindi cautela, ché l'amore tra colleghi, alla pari o no che siano, non è detto che degeneri in abuso di potere, circuizione, molestia a fine di lucro: talvolta degenera in matrimonio. Il 51 per cento delle aziende statunitensi prevede, nella propria policy, un love contract, più o meno romantico, più o meno illiberale, più o meno femminista, più o meno utopista. (…) Nei comportamenti che per McDonald's sono esempi di "cattiva condotta" ci sono anche il guardare a lungo un collega ci sono anche il guardare a lungo un collega, condividere immagini di cartoni animati che abbiano riferimenti sessuali e raccontare barzellette erotiche. Ai poveri laidi che credono ancora di farci ridere con storielle porno di quart'ordine, la policy di Facebook non consente neppure di scusarsi: vietato, e per di più inutile, un "chiedo venia" non esonererà nessuno dalla punizione, men che meno lo farà il dirsi ubriachi, influenzati, scaricati, depressi. Il dipendente Facebook che assista, senza intervenire, a esternazioni sessiste, bollismi veteropatriarcali, varie e complesse circuizioni di una persona a scopo di sesso o flirt, è secondo l'azienda complice e quindi colpevole dello stesso reato di chi lo commette. Conseguentemente, da ciascun dipendente ci si aspetta una molto matura e consolidata consapevolezza di cosa sia o non sia molestia, di cosa sia gradito o no, deontologico o no, consensuale o no. Vale per chi è in coppia, e per chi vorrebbe entrarci. I love contracts delle grandi aziende statunitensi sono propedeutici ai regolamenti di buona condotta in fatto di relazioni tra uomini e donne, o tra uomini e uomini, o tra donne e donne (eccetera eccetera) e cercano soprattutto di arginare le ripercussioni che lo stato di salute di una coppia, in fieri o rodata, pub avere su un posto di lavoro: è evidente che se in un ufficio di quindici persone lavorano fianco a fianco anche un uomo e una donna che stanno facendosi la guerra per dividersi la casa dopo il fallimento di un matrimonio lampo, nessuna scrivania, nessun posacenere e nessun collega è al sicuro. Pertanto, una delle regole più frequenti dei love contracts è la trasparenza: quando due colleghi stanno insieme, hanno il dovere di comunicarlo al dipartimento delle risorse umane, primo perché questo garantisce che sono entrambi consenzienti, secondo perché in questo modo si apre un tavolo di trattativa, nel quale gli innamorati e l'azienda concordano cosa i due faranno in caso di rottura, se accetteranno di trasferirsi o saranno capaci di tornare colleghi come prima; come evitare ripercussioni sulla stabilita e serenità del resto della squadra; quanto e quando concedersi effusioni; quanto e cosa far sapere agli altri dipendenti della propria relazione; come evitare che uno dei due attui nei confronti dell'altro una rappresaglia per fargli scontare eventuali tradimenti, inevase lavatrici, intenzionali ferimenti. Non c'è aspetto della vita di coppia che non costituisca un potenziale pericolo pubblico, pertanto la burocrazia aziendale è investita del compito di creare uno scudo per ciascuno di essi. E, soprattutto, a essere regolamentata è la vita prima della coppia, cioè il suo farsi, tutto ciò che la porta in essere. Di recente, Google e Facebook, che rendono pubbliche le proprie policy ritenendo a ragione che questo favorisca la loro reputazione, sono state molto liete di annunciare l'introduzione della clausola "one strike and you're out" (un colpo e sei fuori) in base alla quale puoi invitare a uscire quella che ti piace una e una volta soltanto: se ti dice di no e tu bissi, sei passibile di denuncia per stalking (…) Innamorarsi e poi amarsi sono diritti inalienabili, libertà fondamentali che la legge tutela e una policy aziendale può esprimersi fintanto che non contraddice la legge. E' interessante perché dice tutto del nostro tempo: più di ogni altra cosa ci terrorizza il tentativo. Disincentivare una relazione è un modo infallibile di disincentivare il sesso, specie tra due persone che, vedendosi tutti i giorni per molte ore, condividendo ansie, sacrifici, fatiche, risultati, riuscirebbero a non superare la soglia della liason pornographique. Lo scopamico è possibile, lo scopacollega, forse, no. Nonostante i love contracts, infatti, le percentuali di colleghi che si amano sono ancora piuttosto alte: in Inghilterra almeno il 30 per cento dei lavoratori sostiene di aver avuto una relazione con un collega, in Italia il 70 per cento (settanta! Popolo di aziendalisti!), in Australia il 40 per cento delle persone tra i 35e i 50 anni ha incontrato il proprio partner in officio, negli Stati Uniti - lo scriveva con molto disappunto Forbes, a San Valentino di quest'anno - quasi la metà della popolazione che ha un lavoro dipendente vive una office romance (si arriva al 72 per cento tra gli ultracinquantenni). Numeri così sbalorditivi che, secondo Forbes, dimostrano inequivocabilmente che i dipendenti non sono abbastanza informati sulle policy aziendali in fatto di sesso, seduzione, corteggiamento tra le pareti dell'ufficio. Esistono tre tipi di policy aziendale: quelle che proibiscono in modo categorico a un dirigente di uscire con una o un sottoposto, quelle che scoraggiano qualsiasi relazione tra i colleghi ("dismissal for fraternisation"), quelle che obbligano alla sottoscrizione di un contratto (il love contract, appunto) e che sono, com'è evidente, le più lasche. Immaginatevi la scena: voi, neoassunti dopo anni di precariato, smunti dall'Iva e finalmente pronti a rimpolparvi, talmente felici per questo da esservi spinti Il 70 per cento degli italiani ha avuto o ha un amante in ufficio It 73 per cent° dei dirigenti d' azienda li licenzierebbe a chiedere alla vostra dirimpettaia di desk di uscire e aver incassato un si entusiasta e averla quindi portata a cena e poi a letto con grande soddisfazione vostra e sua, all'indomani del vostro primo giorno di dignità e libertà da adulti, dovete andare a conferire col capo, uno che ha il calendario Pirelli del 1984 appeso sotto il crocifisso. E dovete dirgli: "Sa, capo, ieri sera ho fatto sesso con Teresa, quella che sta nel mio team, poi verrà anche lei a dirglielo, per adesso le do la mia parola che la nostra relazione non si trasformerà in una sotto-azienda antagonista, non ci faremo favori né favoritismi; se ci lasceremo nessuno si farà male, e se ci sposeremo sarete tutti invitati. Mi dica dove devo firmare". Imponente distopia, vero? A un oceano di distanza da noi è una regola. Diceva Agnelli che ci si innamora a vent'anni e basta, dopo s'innamorano soltanto le cameriere - e infatti in Fiat di love contracts neanche l'ombra, mai. In nessuna azienda italiana ce ne sono, tuttavia l'attenzione dei vertici d'impresa a prevenire molestie, abusi, disuguaglianze, raccomandazioni è alta come nel resto dell'occidente. Da un sondaggio di BP Academy dello scorso anno risultava che il 73 per cento dei manager italiani si diceva pronto a licenziare i dipendenti che tubavano, ritenendo l'amore sul lavoro una sciagura per gli affari.

Leonard Berberi per il “Corriere della sera” il 4 novembre 2019. L'amministratore delegato di McDonald' s Steve Easterbrook è stato licenziato a causa di una relazione consensuale con una propria dipendente finendo però per violare le regole interne. In una nota ufficiale il board della più grande catena mondiale di fast food ha spiegato che l' ad uscente si è comportato con «scarso giudizio» dal momento che il codice etico proibisce di frequentare colleghi che abbiano un rapporto di lavoro - diretto o indiretto - con l' interessato. Easterbrook, britannico di 52 anni, negli ultimi tempi era riuscito a migliorare i conti e la reputazione del colosso. In una e-mail interna il dirigente - salito al vertice il 1° marzo 2015 dopo essere stato Chief brand officer - ha ammesso la relazione e concesso che è stato un errore. «Considerati i valori della compagnia concordo con il consiglio che è il momento di farmi da parte». Secondo l'Associated Press il board ha deciso venerdì di allontanare l'amministratore delegato dopo un'indagine interna e i dettagli di quella che per ora sembra una separazione consensuale saranno resi noti oggi quando l'azienda depositerà i documenti richiesti dagli organi federali americani in materia di trasparenza. McDonald' s ha aggiunto che non saranno forniti dati sul flirt. Il consiglio di amministrazione ha sostituito Easterbrook con il 51enne Chris Kempczinski, attuale presidente di McDonald's Usa, che ricoprirà il doppio incarico di ad e presidente. Easterbrook - divorziato e padre di tre figli - era stato apprezzato per gli interventi in un'azienda che negli ultimi anni aveva perso quote di mercato non soltanto negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo. Dieci mesi dopo aver preso in mano le redini McDonald's ha chiuso uno dei peggiori anni della sua storia. Nei mesi successivi le azioni sono quasi raddoppiate arrivando - come calcola Cnbc - a 193,94 dollari, segnando quindi un +96%. Tra le ragioni di questo aumento del valore gli analisti che seguono il fast food elencano il restyling - anche tecnologico - dei ristoranti, introducendo i chioschetti per ordinare direttamente attraverso un monitor con il menu digitale. Ma le sfide non sono state superate. Una su tutte: convincere i consumatori più giovani a tornare nei suoi fast food. Per questo Easterbrook aveva insistito molto sugli investimenti in tecnologia, arrivando a raggiungere accordi commerciali con alcune delle più famose applicazioni per la distribuzione degli alimenti Uber Eats e DoorDash, oppure acquisendo società specializzate nell'intelligenza artificial. Alla fine del 2018 McDonald' s contava 37.855 ristoranti (il 95% in franchising) in oltre cento Paesi e impiega circa 210 mila persone. L'anno scorso i ricavi hanno toccato i 21,03 miliardi di dollari, più del Pil della Bosnia ed Erzegovina. Il passaggio di consegne al vertice - ha aggiunto il consiglio di amministrazione nella nota - «non è legato in alcun modo ai risultati operativi e finanziari della compagnia».

Felice Manti per “il Giornale” il 5 novembre 2019. L'amore vince su tutto tranne che sui codici etici delle aziende? Li chiamano no fraternization policy, e sembra di sentirli, i capoccia degli uffici del personale, arringare i neo assunti: do not fraternize with your colleagues. E non si parla di relazioni extraconiugali, scappatelle, rapporti mordi e fuggi o extramarital affairs. Quelli sono quasi quasi tollerati, perché l' amore - quello vero - sballa i rapporti, scatena invidie e soprattutto mette in discussione l' autorità del capo. In America le nuove streghe si chiamano gossip, backstabbing (pugnalare alle spalle) e pillow talking, le conversazioni a letto dopo il rapporto sessuale, quando non ci sono più filtri e si confessano i segreti (di lavoro) più inconfessabili. E quindi molte aziende cercano di cautelarsi. Nella liberal Silicon Valley chi lavora per Facebook o Google deve comunicare ai manager eventuali love contracts: l' idea è evitare i famigerati «conflitti di interessi». C' è un codice da rispettare, tipo chiedere - una e una volta sola - di uscire insieme. In caso di no, ogni altra insistenza è considerata molestia. È il frutto amaro del #MeToo. Secondo chi ha vissuto un love affair in ufficio l' amore al lavoro è un guaio perché alimenta l' incostanza, la cattiveria e la morbosità, ma soprattutto «ruba» almeno un' ora al giorno di produttività, trascorsa invece a spiare gli spostamenti del partner. Secondo un'altra ricerca di Glassdoor almeno un terzo degli intervistati tra uomini e donne (il 37 per cento) ha avuto una storia con un/una collega, uno su 10 ammette di avere fatto l' amore sul posto di lavoro (mentre uno su cinque ci ha pensato), quasi la metà sogna di avere una relazione con un/una collega anche se dopo si sentirebbe almeno in imbarazzo. E in Italia? Non ci sono (ancora) casi come quello del ceo di McDonald' s Stephen J. Easterbrook che ha perso il posto perché ha una relazione (stabile) con una sua dipendente, o come il top manager Intel Brian Krzanich, fatto fuori perché aveva nascosto un flirt tra le scrivanie. Ma si può condizionare l' amore vero a una firma? Si può silenziare il cuore in nome di un codice etico? Probabilmente no, anche se forse la verità è molto più triste: passiamo più tempo in ufficio che a casa. E questo ha rovinato più matrimoni di quelli che ha salvato.

Alessandra Menzani per “Libero” il 3 novembre 2019. In un futuro non troppo lontano fare l'amore con il proprio partner potrebbe diventare un' operazione asettica come chiamare l' ascensore o accendere il forno a microonde. Con un pulsante per dire sì o no all' amplesso. Andiamo bene. Per carità, i più pigri potrebbero trovare questa nuova opzione tecnologica estremamente vantaggiosa, pratica e al passo con i tempi, meno maleducata per mandare in bianco il compagno o la compagna. Ma per fortuna al mondo esiste ancora qualcuno che si parla e si tocca. Oggi, lo sappiamo, è diventato obsoleto rivolgersi la parola, fastidioso ordinare al ristorante con la voce, tanto c' è un tablet che lo fa per te, comunicare con il collega verbalmente ma farlo con un messaggio WhatsApp. Le uniche cose rimaste tangibili erano il cibo e le attività carnali. Invece, ecco l' idea di una coppia di quarantenni dell' Ohio, Jenn e Ryan Cmich, che hanno presentato un dispositivo per "facilitare" il sesso con il partner. Un pulsante, praticamente, per fare capire al compagno se si è disponibili o meno. Una specie di semaforo per essere chiari perché evidentemente è troppo faticoso guardarsi in faccia, fare battutine spinte, figuriamoci altri approcci più "tattili" (siamo nell' era del MeToo): meglio schiacciare un tasto.

QUALCHE PROBLEMINO. Evidentemente i due signori hanno non pochi problemi a letto se sono arrivati a partorire una trovata simile con cui, visti i tempi, faranno soldi facili a palate. L' evoluzione contemporanea della "copula programmata", di cui esiste una lunga letteratura, si chiama "LoveSync". Il dispositivo è composto da due bottoni da lasciare in giro per la casa, idealmente sul comodino di lui e sul comodino di lei. Quando uno dei due è - diciamo - infoiato, preme il bottone ovviamente nella speranza che il suo approccio abbia un seguito. Se l' altro vede il pulsante illuminato e condivide la voglia di amplesso, clicca ed è fatta. Se invece non ne ha voglia, ciao. Forse questa trovata ha senso tra due persone che si conoscono poco e non sono (ancora) andate a letto insieme. È una diavoleria stucchevole anche se la ratio è chiara: evitare quell' imbarazzo che si prova nel dare il due di picche, o soprattutto nel riceverlo, evitare di disturbare il compagno con approcci in quel momento non graditi.

LA ZONA GRIGIA. Siamo tutti d' accordo che la paura del rifiuto è un sentimento comune a tutti, forse da qui ha origine l' idea. Spiegano gli inventori del dispositivo: «Nelle coppie c' è una "zona grigia", anche piuttosto ampia, fra "facciamo sesso" e "no, dormiamo e basta", perché magari vorremmo farlo, ma non abbastanza da compiere il primo passo e rischiare di sentirsi dire di no». Secondo loro, «LoveSync contribuisce a togliere un po' di pressione, un po' di stress, perché se entrambi i bottoni sono illuminati allora c' è chiaramente il consenso di tutti e due i partner». Sommessamente vorremmo dire che quando c' è il consenso di lui, si vede, ma andiamo avanti. «Il bottone leva a tutti e due il peso di essere, o dover sempre essere, quello che fa il primo passo», aggiungono. C'è anche la possibilità di premere il proprio bottone più volte e più a lungo, allargando la finestra di tempo entro la quale il partner può rispondere. Jenn e Ryan ritengono la loro start up perfetta per «quelli che sono usciti dalla "fase luna di miele", che fra figli, lavoro, stanchezza e tutta la vita che si mette in mezzo, hanno normalmente rallentato la loro attività sessuale», perché «vi farà capire che ci sono molte più possibilità di fare l' amore di quelle che pensavate». LoveSync ha avuto abbastanza successo: ha raccolto quasi 22mila dollari nella raccolta fondi su Kickstarters, la più nota piattaforma di crowdfunding del mondo, l' obiettivo per partire era stato fissato a quota 7500. Dunque è stato prodotto e spedito agli acquirenti. Il prossimo passo? Qualcuno che faccia sesso al posto vostro quando non avete voglia. Poco ci manca.

Da ilfattoquotidiano.it il 3 novembre 2019. Alcuni ragazzi hanno sfilato per le vie di Lucca, dove è in corso fino al 3 novembre il Lucca comics & games (uno dei più importanti appuntamenti europei per gli appassionati di fumetti e videogiochi) travestiti da soldati dell’esercito nazista. Il gruppo ha curato i costumi in tutti i dettagli e si è presentato con tanto di finto carro armato, fascia con la svastica al braccio e bandiere con le croci celtiche in mano. L’esibizione però non è piaciuta a tutti e ha scatenato una animata discussione tra i presenti. Un visitatore, in particolare, si è rivolto al gruppetto (impegnato a soddisfare le richieste di selfie e foto di altri partecipanti al festival). “Vergognatevi – ha detto loro – il nazismo non è un gioco. Questa è apologia del nazismo, che è vietata”. La scena, ripresa in un video, è stata diffusa dal gruppo social Welcome to Favelas e in poche ore ha fatto il giro del web. Il Comune di Lucca e Lucca Crea, che organizza il festival, hanno diffuso un comunicato congiunto in cui “prendono le distanze e condannano il comportamento dei due ragazzi”. Comportamento definito “offensivo non solo per il festival e tutto il suo pubblico, ma soprattutto per la memoria storica del nostro territorio”. L’accaduto – specificano ancora, “non ha nulla a che vedere con il festival, né con le community cosplay, né con alcuna rievocazione storica. Nessun evento della manifestazione, nessun partner, nessuna attività collaterale è coinvolta in questo gesto dei due ragazzi”. Intanto la Questura di Lucca ha avviato un’indagine e sta valutando se i due ragazzi abbiano commesso un reato.

Londra, addio a "signore e signori". Neutralità  di genere a teatro. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 da Corriere.it. Dopo la metropolitana e gli autobus di Londra anche i teatri si apprestano a sposare la neutralità di genere. Così il classico «Signore e signori per favore prendete posto, lo spettacolo sta per cominciare» cederà il passo a un generico «benvenuti» o un semplice «buonasera». È la raccomandazione di Equity, il sindacato degli attori e degli intrattenitori, che nelle nuove linee guida incoraggia i teatri ad adottare «una terminologia neutra per le chiamate collettive, sia in platea che nel backstage». Questo per mettere a proprio agio le persone «non binarie» che non si identificano né con un genere né con l’altro. Equity consiglia anche di non complimentarsi mai con un attore o un’attrice «in merito alla voce, all’abbigliamento o alla bellezza». La prima ad adeguarsi sarà Royal Shakespeare Company che ha assicurato la revisione di «tutti gli annunci e della segnaletica» oltre all’introduzione di servizi igienici neutrali». «Ci sforziamo di creare un ambiente accogliente per i trans e le persone fluide» ha aggiunto il portavoce del teatro. Anche il National Theatre ha promesso di correre ai ripari al più presto. Tuttavia, per adesso, rimarrà il classico «signore e signori». Stessa linea per la Royal Opera House che ha intenzione di «prendere in seria considerazione le linee guida di Equity. Nina Burns, co-proprietaria dei Nimax Theatres nel West End di Londra , ha assicurato di aver già optato per un annuncio politically correct come «buonasera» o «benvenuti». Nel 2017 la società Transport for London aveva deciso di eliminare la frase «Good morning ladies and gentlemen» per un più inclusivo «Hello everyone», («Salve a tutti»).Ironica la chiusa del Sunday Times che riporta la notizia: «Ma su come dovrebbe essere rinominata la commedia di Shakespeare I due gentiluomini di Verona le linee guida di Equity tacciono».

Da ilmessaggero.it il 3 novembre 2019. Maria De Filippi va su tutte le furie a Tu si que vales. Durante l'esibizione Pietro, un uomo che si presentava ironicamente come capace di leggere le mani, non ha conquistato il pubblico, visto che nessuno ha riso dopo la sua prima performance. Insistendo al centro del palco ha fatto una richiesta particolare: «Vorrei una vergine qui con me» e a quel punto Maria è sbottata. Già durante la lettura della mano a Teo Mammuccari il giudice gli aveva fatto fare una figuraccia, dicendo che quello che stava dicendo non corrispondeva alla realtà, così il concorrente per "riprendersi" ha fatto l'insolita richiesta. La De Filippi lo ha interrogato stupita facendogli notare che la sua affermazione era fuori luogo. Sempre per provare a fare il simpatico Pietro ha aggiunto che non solo la ragazza in questore doveva essere illibata ma c'era bosogno di una certificazione, così Maria è esplosa: «Per me lei può uscire subito. Dopo la certificazione, può uscire. Quando uno dice che vuole una vergine con una certificazione deve uscire. Ma come le viene in mente? Ma questo è fuori». Subito dopo la conduttrice si è alzata per lasciare lo studio, aggiungendo che sarebbe rientrata solo dopo che il concorrente fosse andato via. In studio è calato il gelo e anche un visibile imbarazzo sulla faccia degli altri giudici. Zerbi si è rivolto a Pietro invitandolo a lasciare lo studio: «Hai pensato di fare lo spiritoso ma è andata male. Secondo me la cosa più bella che puoi fare è chiedere scusa e andare via. Fidati». Rientrata in studio Maria non è riuscita a trattenere la sua disapprovazione e ha chiuso la storia affermando: «Si è autocertificato come un coglione ed è uscito».

Caserta, cartelli pubblicitari sessisti: esplode la polemica ad Aversa. “Te la diamo gratis la patata acquistando due polli”. La frase incriminata è accompagnata dalla foto di una donna a seno semiscoperto. Ignazio Riccio, Lunedì 04/11/2019, su Il Giornale. Ha provocato la reazione stizzita di molti internauti il cartellone pubblicitario fatto affiggere nella città di Aversa, in provincia di Caserta, da una nota braceria locale. Sul social network si è scatenata una violenta polemica che ha coinvolto anche le istituzioni locali. Nel manifesto c’è scritto: “Te la diamo gratis la patata acquistando due polli”. Oltre alla frase, la foto di una donna con il seno semiscoperto, che ha fatto indignare il popolo di Facebook, offeso per la pubblicità di natura sessista. In tanti hanno commentato l’immagine, definita squallida e volgare e sono in molti a richiedere la rimozione del cartellone. Il sindaco di Aversa Alfonso Golia ha parlato di “messaggi desolanti, equivoci, che vanno stigmatizzati e condannati”. Anche l’esponente della maggioranza in consiglio comunale Elena Caterino ha bollato l’iniziativa come inopportuna e ha fatto sapere che si rivolgerà alla polizia municipale. “Bisogna agire in fretta – ha detto la rappresentante politica – contro questa affissione vergognosa e sconcertante”. Da parte loro i titolari della braceria hanno fatto sapere che non c’era alcuna intenzione di offendere le donne, ma si trattava semplicemente di una pubblicità ironica e innocua.

Alessandro Gnocchi per ''Il Giornale'' il 29 ottobre 2019. Questa è l'epoca del vittimismo, dell'eufemismo, dell'ossessione per le politiche dell'identità: sessuale, razziale, etnica. Ogni minoranza, reale o sedicente, invoca il riconoscimento della propria diversità e indica il nemico oppressore: il bianco, laureato, ricco e conservatore. Il privilegiato dei privilegiati. Ogni critica è vissuta come un insulto. Dunque stop alle critiche. Dover calibrare le parole. Avere la paura di parlare chiaro. Essere espulsi dal dibattito pubblico per una opinione. Sono fatti all' ordine del giorno nel regime di psico-polizia creato dal politically correct, una ideologia in aperta opposizione alla libertà. Questo nuovo ordine mondiale, a metà tra 1984 e Il racconto dell' ancella, è raccontato dallo scrittore americano Bret Easton Ellis in Bianco (Einaudi, pagg. 268, euro 19), un libro che sfugge a ogni categoria. In parte autobiografia, in parte pamphlet, è forse il romanzo-memoir di come si perde la libertà di parola: prima un po' alla volta, e poi tutta insieme in un colpo solo. Ellis è un simbolo per alcune generazioni di lettori. Maestro nell' indagare e descrivere la superficie, per svelare il vuoto sottostante, ha scritto romanzi definitivi per chi aveva 15 anni nel 1986 (anno della prima edizione italiana di Meno di zero, Pironti editore) e venti nel 1991 (anno di American Psycho). Meno di zero era il ritratto perfetto della Generazione X: solitudine scintillante, freddezza, nichilismo. American Psycho celebrava, a modo suo, la fine dell' edonismo ma lasciava intuire anche l' inizio di qualcos' altro: il desiderio di essere approvati, il terrore dell' anonimato nell' epoca della comunicazione, quello di mostrarsi per quello che si è, la schizofrenia indotta da questo stile di vita. Tutta roba che ha trovato realizzazione compiuta nella società dei like, della connessione e delle amicizie virtuali che ci illudono di essere in intimo contatto con un' infinità di amici. Proprio il mondo descritto in Bianco dove sembra affermarsi un nuovo tipo di dittatura: «Sembriamo aver fatto pericolosamente ingresso in un tipo di totalitarismo che in realtà aborre la libertà di opinione e punisce chi si rivela per quello che è davvero». La superficie, quindi. Ellis, per farci vedere lo scivolare sempre più veloce verso la censura e l' autocensura, prende in esame i film, i divi, i presidenti americani, le cene. La cultura di massa. La superficie. Si parla di American Gigolò, Shampoo, Weekend, Carrie. Si esamina l' immagine pubblica di Richard Gere, Tom Cruise, Charlie Sheen, Kayne West. Pochissimi gli scrittori citati, ci sono David Foster Wallace, Jonathan Franzen, Stephen King, Jay McInerney. La carrellata si intreccia con la biografia dell' autore e la genesi dei romanzi più famosi. Questa è l'epoca del vittimismo, si diceva all' inizio. Ma è anche l' epoca degli eroi della «libertà» che stanno sempre dalla parte giusta, quella che non ha bisogno di essere difesa. Sono sempre in prima linea nelle battaglie già vinte, naturalmente fingendo di esporre il petto al plotone d' esecuzione. Sono a favore della libertà d' espressione, soltanto la loro. Sono a favore della democrazia, soltanto se comandano loro. Forti del consenso scontato, gli eroi della «libertà» perdono la testa. Sempre più narcisi, sempre meno capaci di osservare, sviluppano un fiuto eccezionale per l'applauso. Mettono sempre le mani avanti per far capire quanto sono intelligenti. Prima di lasciarsi andare alla pura demagogia, precisano di detestare chi parla alla pancia del Paese, che espressione infelice, ti fa capire subito che considerano la gente alla pari della merda. Invitano la plebe a restare umana, a spalancare la porta al diverso. Ma spalancatela voi, vigliacchi. No, loro vivono in case del centro blindate come casseforti. La porta devono spalancarla i poveracci, in quartieri così lontani che non ci arriva neanche l' autobus. Sono coccolati da televisioni, festival, editoria: è tutto dovuto, per carità, sono le coscienze democratiche della società civile. Infatti denunciano il familismo amorale, a meno che la famiglia non sia la loro, il degrado del dibattito politico, che hanno condotto in solitudine per 70 anni, il fascismo strisciante, di cui hanno adottato i metodi, il razzismo esplicito, che fomentano con l' ossessione per le politiche dell' identità (sessuale, razziale, etnica). Il prezzo della loro costante indignazione è fissato dal mercato che spesso dicono di disprezzare. In nome della libertà d' opinione, censurano a tutto spiano chiunque non la pensi come loro: «Rifiutare quelli che non la pensano come te ora non era più una forma di protesta e di resistenza ma si era trasformato in una forma infantile di fascismo». Stiamo parlando dell' America di Ellis ma è vero anche in Italia. Ellis critica con ferocia i saputelli che ritengono (e non si sa perché) di essere migliori dei «rozzi» sostenitori di Donald Trump: «La Sinistra sembrò mutare in qualcosa che non avevo mai visto in vita mia: un partito intriso di superiorità morale, intollerante e autoritario che era distaccato dalla realtà e mancava di qualsiasi coerenza ideologica». Ci sono episodi molto divertenti. L' incontro casuale con l' artista Jean-Michel Basquiat nel bagno di un ristorante che si chiude con una sniffata in compagnia. Il boss di Hollywood che ha paura di essere sorpreso dalla moglie mentre risponde agli sms di Steve Bannon, eminenza grigia di Trump. Le litigate con i vecchi milionari «progressisti». L'intervista con un Quentin Tarantino scatenato. Le nottate in macchina con Kanye West. Chi cercherà in Bianco un saggio sistematico sul politicamente corretto non lo troverà. Ellis non dimentica mai di essere un artista. Rivendica infatti il culto per l' estetica e lo oppone al moralismo. Il moralista giudica l'opera per il suo contenuto ideologico. L'artista valuta le qualità stilistiche. Quando prevale il giudizio morale? A parere di Ellis, quando l' arte è diventata irrilevante per la società: «Tutti devono essere uguali, e avere le stesse reazioni di fronte a qualunque opera d' arte, movimento o idea, e se uno si rifiuta di unirsi al coro di approvazione verrà accusato di essere un razzista o un misogino. Questo è ciò che accade a una cultura quando non gliene frega più niente dell' arte». Lo scrittore è finito al centro di moltissime polemiche soprattutto per i suoi tweet troppo schietti. Da omosessuale se la prende con le immagini stereotipate dell' omosessuale sensibile e perseguitato. Le politiche dell' identità sono riduttive e conducono in fondo a un vicolo cieco: «Avallano l' idea che gli esseri umani siano essenzialmente tribali, e che le nostre differenze siano inconciliabili, cosa che naturalmente rende impossibili l' accettazione della diversità e l' inclusione». Da scrittore se la prende con i santini dei colleghi morti specie David Foster Wallace, ricordando come l' autore de La scopa del sistema fosse un fan di Ronald Reagan e Ross Perot, un critico letterario feroce, un artista «insincero» e infine «un paraculo». Insomma: «Lo scrittore più sopravvalutato della nostra generazione» e insieme un genio irrisolto. Sono opinioni schiette interpretate però come azioni criminali dai chierici del politically correct.

Dylan Dog sposo gay: è l’ultima vittima del politicamente corretto. Davide Ventola giovedì 31 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. Come far risollevare le vendite di un fumetto in crisi? Facciamolo diventare gay. L’ultima vittima del politicamente corretto è il povero Dylan Dog. Da indagatore dell’incubo a indagatore della banalità, è un attimo. E oggi non c’è niente di più banale e trito che cavalcare il tema delle nozze gay. Peccato, perché il papà di Dylan Dog, Tiziano Sclavi, aveva costruito il successo del suo personaggio sull’irregolarità. Il genere horror era sempre stato un pretesto per ribaltare schemi e luoghi comuni. Il vero incubo del nostro eroe erano la noia e la banalità. Mai Sclavi sarebbe scivolato su un tema così inflazionato. Forse non è un caso che l’albo in questione non porti la sua firma. Il povero Dylan Dog con questa deriva “politically correct” affoga nella banalità luogocomunista. A Lucca Comics hanno preparato una grande operazione di marketing per il fumetto in questione. Nell’albo n. 399,  Oggi sposi l’Indagatore dell’Incubo decide di sposarsi con il suo amico Groucho. Nelle intenzioni degli autori, il numero speciale sarebbe una riflessione sulla forza dell’amore in tutte le sue forme. Per festeggiare il matrimonio, la Sergio Bonelli editore ha realizzato  un apposito cofanetto, la Dylan Dog Wedding Box. Conterrà la versione “regular” di Oggi sposi, una versione variant con copertina bianca (venduta anche separatamente), una versione variant con copertina nera (disponibile solo nel box) e una nuova versione con colorazione “pop” di “Finché morte non vi separi”, l’albo n. 121 che celebrava il decimo compleanno dell’Indagatore dell’Incubo e il suo primo matrimonio. Sempre all’interno della box, i lettori troveranno la partecipazione nuziale, una speciale fialetta di bolle di sapone (gadget immancabile nei matrimoni moderni) e un anello di fidanzamento (ben noto a tutti i fan della serie). Operazioni commerciali legittime, ma che cosa c’entra con l’inno all’amore? Anche i fumetti invecchiano. Perdono il loro vitalismo e finiscono per imbolsirsi. Più che “Oggi sposi” sarebbe stato più appropriato un cartello appeso al numero 7 di Craven Road: “Chiuso per lutto”.

Statue con slip «per non offendere la sensibilità del pubblico». Bufera contro l’Unesco. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 da Corriere.it. La gaffe risale a più di un mese fa, ma è stata raccontata solo di recente dalla stampa francese. Il 21 e 22 settembre, per le giornate mondiali del Patrimonio, l'Unesco ha chiesto all'artista visivo Stéphane Simon di esporre delle opere nella sede parigina dell'organizzazione internazionale. Il 47enne francese ha accettato, scegliendo per la rassegna due statue nude a grandezza naturale, parte del suo progetto «In Memory of Me». Quando gli organizzatori dell'evento hanno visto le nudità delle opere d'arte sono rimasti perplessi e alla fine hanno deciso di coprire il sesso dei modelli con slip e perizoma. Il motivo? «Non offendere la sensibilità del pubblico». Dopo che il settimanale «Le Point» ha denunciato in un editoriale «la spiacevole sorpresa», il web si è scatenato prendendo di mira l'Unesco e l'uso eccessivo (e ridicolo) del politicamente corretto. 

DIVISI DALLA GNOCCA. Valeria Costantini per il “Corriere della sera - Edizione Roma” il 18 ottobre 2019. Finisce nella bufera la sagra della «Gnocca migliore» di Formello. Un titolo «sessista e volgare» commenta Michela Califano, consigliera regionale Pd, quello scelto per la gara di cucina di gnocchi in programma domenica 20 ottobre nel comune laziale. La festa è promossa dalla Proloco di zona, già protagonista a febbraio di un' altra polemica infuocata: uno dei carri della sfilata di Carnevale era stato infatti allestito a forma di gommone con finti migranti e cartelli tipo «no pago affitto» o «vogliamo wifi». Ora la nuova bagarre. «È un riferimento maschilista poco edificante per bambini e famiglie e, visto che l' evento è patrocinato dal Comune, chiedo al sindaco di sospenderlo», la richiesta dell' esponente dem della Pisana. «Il nome della manifestazione è offensivo per le donne», la stessa linea del Pd di Formello. Alla levata di scudi, la Proloco ha fatto un passo indietro ritirando la locandina, senza mancare di sottolineare di non aver pensato di «indurre in malevole interpretazioni - spiega -. Riconosciamo la leggerezza nell' esecuzione dello slogan e prendiamo le distanze da qualunque interpretazione sessista, poiché lontano dalle intenzioni dell' associazione».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 23 ottobre 2019. Negro. La scriviamo subito (la parola negro) perché dagli Stati Uniti rimbalzano notizie paradossali circa l' uso di questo termine, e, soprattutto, perché certe consuetudini anglosassoni spesso non fanno che anticipare degli orientamenti che nell' Occidente di retroguardia (l' Italia) si presentano poi con puntuale ritardo: ma si presentano. Non che il biasimo per chi adotti quest' espressione (ancora presente sui vocabolari) non sia da tempo, anche in Italia, una notissima regola del politicamente corretto: ma dire «negro», di norma, non produce ancora conseguenze tipo licenziamenti o allontanamenti da società sportive e non. Da noi, al limite, ti cacciano da qualche social network o ti arriva un esposto dell'Ordine dei Giornalisti. Negli Stati Uniti invece è diverso.

Esempio numero uno. La direttrice di una squadra femminile di basket professionistico, i Los Angeles Sparks, è stata licenziata all' inizio del mese perché in un discorso rivolto alle giocatrici ha appunto usato la parola «negro». Facciamo notare, anzitutto, che l'espressione è talmente innominabile da non comparire neppure negli articoli americani che ne parlano: viene definita «N-word». Il secondo dettaglio è che questa direttrice generale è negra, o nera che dir si voglia. Il terzo aspetto è che questa direttrice, che si chiama Penny Toler e che ricopriva l'incarico da vent' anni, secondo varie testimonianze non ha usato il termine in forma spregiativa o rivolta alle giocatrici: l'ha usato, in generale, all' interno di un discorso vivace e motivatore dopo una sconfitta coi Connecticut Sun nelle semifinali del Wnba, la lega professionistica femminile degli Usa. Notare che la Lega esiste dal 1997 e che Penny Toler, ai tempi giocatrice proprio dei Los Angeles Sparks, segnò il primo canestro della storia della Wnba e divenne direttrice dopo essersi ritirata nel 1999. Da allora, la sua squadra ha vinto tre campionati e ha raggiunto gli spareggi finali 18 volte. Ora l' hanno mandata via perché ha detto negro. Lei ha detto solo: «È un peccato che io abbia usato quella parola. Non dovrei. Nessuno dovrebbe».

Passiamo al secondo esempio, e qui vi invitiamo a leggere con attenzione perché è roba da capogiro. In sostanza, in una scuola del Wisconsin, una guardia giurata negra di 48 anni è stata licenziata perché, nel dire a uno studente negro di non usare la parola «negro», ha pronunciato la parola «negro». Rileggete, se necessario. Si chiama Marlon Anderson e il caso risale al 9 ottobre scorso, quando i suoi superiori l' hanno invitato a occuparsi di uno studente ribelle il quale, per tutta risposta, ha cominciato a insultarlo e a chiamarlo «negro» per una quindicina di volte, dopodiché la guardia ha risposto «non chiamarmi negro» per altrettante volte. Quindi ha detto anche lui «negro», e la scuola (West High School, a Madison) una settimana dopo l' ha licenziato dopo 11 anni. Motivo ufficiale: la politica di tolleranza zero del Metropolitan School District circa un eventuale linguaggio dispregiativo del personale. Poi, non essendo ancora tutti rinscemiti, qualcuno ha cominciato a protestare. Qualche decina di studenti ha improvvisato uno sciopero contro il licenziamento, e la notizia ha cominciato a circolare. È diventata un piccolo caso nazionale e vi evitiamo gli strascichi, tipo la cantante Cher che si è offerta di pagargli le spese legali, cose del genere. Morale: dopo un po' di teatrino formale e mediatico, il distretto ha deciso di riassumerlo, e lunedì Marlon ha scritto «Sono tornato!!» sulla sua pagina Facebook. Nota: solo l'anno scorso, almeno sette impiegati dello stesso distretto sono stati licenziati per aver usato espressioni ritenute razziste. Ma non sono diventate un caso nazionale, e ignoriamo il colore della loro pelle. Seconda nota: non abbiamo commenti da fare. Preferiamo serbarli per quando servirà da noi, al di qua dell' Atlantico. Siamo ancora in una fase involuta: abbiamo ancora il problema di spiegare - chessò - a un ghanese che «negro» un tempo era una bella e normale parola, ma che poi è scaduta ed è diventata nero (black) che poi è diventata afroasiatico o afroamericano (sette sillabe) prima di acquietarsi sul demenziale extracomunitario o immigrato di colore, espressione che peraltro ai negri non piace. Qualcuno di noi, impunito, continua a scrivere negro negli articoli e addirittura a farci dei titoli di giornale. Nella maggioranza dei vocabolari, come detto, la voce riporta «Chi appartiene alle diverse razze del ceppo negride, originarie del continente africano». Ma noi siamo in ritardo culturale, con poca o nessuna voglia - nel nostro caso - di accelerare.

Mai dire "negro". Parole ed ipocrisie ai tempi del "politicamente corretto". Stefania Vitulli il 20 settembre 2019 su Panorama. «Mi si nota di più se dico «negro» o «zingaraccia»? Una domanda che il correttissimo Nanni Moretti non si farebbe mai, ma che, in una fase storico-sociale in cui sembra ci sia tolleranza zero su ogni espressione che offenda anche alla lontana tribù e «diversità», ridiventa di attualità. In un millennio in cui il politicamente corretto è diventato una dittatura (o addirittura un «catechismo», secondo alcuni), spetta al linguaggio il ruolo di ultima frontiera della provocazione. La vera differenza con il Novecento è tuttavia la rapidità con cui la condanna di espressioni «borderline» si alterna al loro sdoganamento, a seconda di mezzi, contesti e personaggi che se le permettono. Quelle sopra citate diventano allora - a seconda dell’andamento del mercato dell’insulto - volgarità sessiste e razziste oppure «citazioni colte». Il borsino quotidiano del lessico pubblico e privato subisce impennate continue: ciò che oggi è offensivo domani potrebbe risultare ironico e le quotazioni del gergo oscillano, impazzite, tra simpatia e sdegno, pop e kitsch, rivendicazioni di appartenenza o fiaschi fallocratici. Partiamo da una parola, «negro», sulla cui messa al bando ci si interrogava già nel 1989, come dimostra l’articolo di Panorama di quell’anno, che abbiamo riprodotto a pagina 66. Ha ancora più senso farlo oggi, a 400 anni di distanza dalla nascita ufficiale della schiavitù (era l’agosto del 1619 quando a Fort Monroe, Virginia, sbarcavano da una nave portoghese 33 africani di origine angolana scambiati con provviste) e in un momento in cui «sbarcare» in un porto occidentale per un africano ha ben altro significato: «Il grande mostro oggi è lo hate speech, che ha sdoganato i linguaggi estremi verso i sentimenti di un determinato gruppo» riflette Eugenio Capozzi, ordinario di Storia contemporanea a Napoli e autore di Politicamente corretto. Breve storia di un’ideologia (Marsilio). Spiega: «I diritti ci appartengono solo se siamo categoria: se sei africano e lo hate speech ti chiama “negro”, oppure “indiano” invece di “nativo”, offende i sentimenti del gruppo. Ma se sei algerino o musulmano in Francia e dici, come ha fatto il rapper nero Nick Conrad in una canzone, “Impiccate i bianchi”, questo viene considerato una legittima reazione alla discriminazione e il rapper viene assolto dall’accusa di istigazione a delinquere. Se lo schiavismo è il peccato originale su cui è stata costruita la storia costituzionale americana, io afroamericano posso sputare sulla democrazia americana quanto voglio e dire “Odio i bianchi”: non è razzismo. È così che i diritti umani diventano una nozione vuota». La legittimazione ex post è dietro l’angolo: se i versi trasgressivi e scorretti sono del provocatorio Kanye West, che sostiene Donald Trump e la parola «negro» vorrebbe proprio normalizzarla, si tratterebbe di razzismo allo stato puro. Diverso invece è quel che è accaduto da noi per Tommy Kuti, il rapper nigeriano trentenne con accento bresciano che si dichiara «Né bianco né nero ma afroitaliano» e che ha da poco portato in libreria Ci rido sopra. Crescere con la pelle nera nell’Italia di Salvini (Rizzoli). I versi «Sulla metro le vecchiette fanno sempre un passo indietro, tengon strette le borsette perché è arrivato il negro» fanno parte di Un rap per lo Ius Soli ed ecco che «negro» non solo si può dire ma diventa un manifesto. Diverso è il caso se non sei rapper ma giornalista e ti scappa di pubblicare un articolo su Facebook che contenga la parola «negro», come è accaduto a Marcello Veneziani nel giugno 2018. Ora, a distanza di 14 mesi, l’algoritmo del social network ha bloccato la sua pagina ufficiale per tre giorni. La parola compariva nel titolo, «Il capo del Pd sarà negro» ma, specifica Veneziani, «nel testo non vi era alcun contenuto razzista». «Chi lo dice» e «perché lo dice» fanno dunque cambiare le regole del gioco. Gli americani hanno un sistema per «classificare» le parole da censurare, che permette di non dirle, non scriverle e in teoria nemmeno pensarle: vi si fa riferimento con l’iniziale e il gioco è fatto. C’è la N-word, per indicare «nigger, «negro», e c’è la F-word, a cui possono corrispondere, a seconda del contesto, «fuck», scopare, o «faggot», «finocchio». Ma secondo il codice politically correct non basta purgare l’indicibile con l’abbreviazione: alle N-word, F-word o altri lemmi intollerabili deve toccare un destino di cancellazione totale, opere d’arte comprese. Facciamo un esempio, anzi due: dall’anno della sua pubblicazione, il 1960, Il buio oltre la siepe di Harper Lee è stato messo all’indice in molte biblioteche americane e lo è ancora oggi (nel 2018 risultava addirittura tra i primi dieci libri più banditi in scuole e università degli States) per via dell’uso della parola «negro». Stesso destino qualche anno fa per Huckleberry Finn di Mark Twain: solo che invece di bandire il romanzo, nella nuova edizione è stata cancellata la parola e via. «Che ci si autocensuri o ci si contenga nella dimensione pubblica del linguaggio non lo reputo affatto cosa negativa, ma civile» commenta Marco Balzano, scrittore e insegnante milanese, premio Campiello 2015 e autore di Le parole sono importanti (Einaudi). «Che tu abbia un super-io molto attento nel dire “negro” in pubblico e magari faccia lo stesso per le parole legate all’omosessualità o alla parità di genere non si oppone alla libertà di espressione. L’unico ambito che deve restare in campo libero, però, è quello artistico. E vale per tutte le arti, per chi dipinge, scrive canzoni o scrive romanzi. Se faccio lo scrittore devo avere libertà di muovermi: posso avere necessità di dire “negro”, adottare il punto di vista di chi voglio e anche il lessico più urticante. L’artista può e deve poter essere scorretto. Il cittadino di oggi invece deve avere più etica del cittadino di ieri: oggi chi dice “negro”? La persona non “educata”: nel senso di ex duco, “portata fuori” da uno stato inferiore verso una condizione più umana». Di fatto la censura del politicamente corretto ci ha condizionati al punto che non riusciremmo più a immaginare l’apparire in tv di un duetto come quello, scorrettissimo, di Tognazzi-Vianello a Un due tre (ed era il 1959) o l’uscita nelle sale di un film come Amici miei, in cui i cinquantenni fiorentini Mascetti, Melandri, Perozzi, Necchi e Sassaroli se la prendevano allegramente con mogli, amanti, bambini, adolescenti, malati, animali e ogni altra categoria protetta, minoranza, genere o orientamento. Scatenerebbero risse verbali infinite dai social ai talk show, urtando suscettibilità a catena senza ottenerne in cambio neanche una sincera risata. Sarà per questo che, se bisogna offendere ad esempio gli anziani, si va giù pesanti e viscerali, imperdonabili sin dal principio: lo fece il cantautore Giancane qualche anno fa con il brano Vecchi di merda, ripreso l’anno scorso - nel titolo e nello spirito - dalla graphic novel Quattro vecchi di merda (Fandango) di Taddei-Angelini, distopia su quattro ultrasettantenni che nel 2029 rimettono in piedi una band punk, ovviamente molto, molto scorretta. «Condannare la parola “negro” sa a volte di vezzo, visto che la fonte è la stessa di “nero”, ovvero “niger” e la differenza sta in una “g”: quindi son certo che prima o poi verrà “riabilitata. Perché a volte ciò che sembra scorretto è solo vintage, basta vedere il caso della “Patata bollente” usata da Feltri per la Raggi» chiosa Vittorio Sgarbi. «La parola “gay” per esempio ha “lavato” tutto il lessico riferito agli omosessuali, per cui oggi chi dice “finocchio” viene segnato a dito. Ma in realtà si tratta solo di una parola “scaduta”, demodé, che un tempo veniva tollerata anche dagli stessi gay. Salvini infatti, con il suo arcaismo psicologico, continua a usarla». Volendo seguire la teoria di «rimozione da consumo eccessivo» legata ad alcune parole-tabù, si potrebbe provare a fare uno degli ultimi test dell’estate: qual è la vostra parola vietata, oggi, quella che non usereste mai in pubblico per paura di essere «bannati»? Per Capozzi: «Diversità. Mentre sociologia e politologia sottolineano come le società sono danneggiate da un tasso troppo alto di differenze da tenere insieme, guai a contrastare il luogo comune secondo cui le differenze - sessuali, culturali, etc. - sono belle...». Per Balzano: «Cancro. L’ultima barriera linguistica, il tabù equivalente a negro, riguarda morte e malattie». Per Sgarbi: «La parola meno usabile oggi? Normale. Nessuno capisce più che cosa vuol dire: è diventata inquietante, oscena, pericolosa». 

Ecco le "soldatine" di plastica: il trionfo del politically correct. Negli Stati Uniti, una nota fabbrica di giocattoli ha cominciato a produrre soldatini di plastica al femminile. Tutto è partito dalla lettera di una bimba di 6 anni che chiedeva alla società: "Perché ci sono solo soldatini maschi?". Gianni Carotenuto, Domenica 15/09/2019, su Il Giornale. Vivian Lord è una bambina americana di 6 anni che quest'estate si è fatta regalare una manciata di soldatini di plastica. Dopo averci giocato per un po', ha chiesto a mamma e papà: "Perché ci sono soltanto soldati maschi?". I genitori della piccola, sorpresi dalla strana domanda della piccina, hanno cercato su Google scoprendo che non ne esistevano. Di qui il secondo "colpo di genio" della piccola Vivian: "Scriviamo una lettera a chi li fa? Voglio le soldatine". Stanno arrivando. Come scrive il sito Taskandpurpose, questa settimana la società di e-commerce BMC Toys ha annunciato di stare sviluppando un nuovo plotone con quattro donne dell'esercito che saranno disponibili a Natale il prossimo anno. Jeff Imel, rappresentante dell'azienda, ha raccontato di stare accarezzando da tempo l'idea di produrre soldatini al femminile. L'estate scorsa, un ex marine gli aveva chiesto di farlo. Imel ci ha pensato per un po'. Infatti, disegnare e produrre un giocattolo nuovo di questo tipo ha un costo considerevole. E non sapeva se ci fosse abbastanza domanda. Poi, però, è arrivata la lettera della piccola. Che l'ha convinto a mettere da parte anche i dubbi "storici" sull'opportunità di mettere in commercio "soldatine", dato che alla metà del XX secolo - periodo a cui si ispirano la maggior parte dei soldatini fabbricati in tutto il mondo - le donne non potevano entrare nell'esercito. I nuovi stampi per le "fantesse" - si dirà così? - saranno pronti a breve. Accontentando così la piccola Vivian. Il contingente al femminile sarà composto certamente da un capitano che porta una pistola e un binocolo. Altri tre modelli sono in fase di progettazione: una donna in piedi (e una piegata) che sparano con il fucile e un'altra in ginocchio con un bazooka. In tutto, il set sarà formato da 24 pezzi con quattro diverse pose. La madre della piccola ha raccontato di avere parlato di questa possibilità con alcune donne dell'esercito, ricevendo in cambio complimenti e pacche sulle spalle. Intanto, la piccola Vivian non vede l'ora di far combattere le sue "soldatine". Spareranno meglio degli uomini?

Per non offendere i gay il college mette al bando le gonne. In Inghilterra un college ha imposto alle studentesse il divieto di indossare la gonna per combattere la discriminazione nei confronti di chi ha maturato incertezze sulla propria identità sessuale. Federico Giuliani, Domenica 08/09/2019 su Il Giornale. In Inghilterra una scuola ha imposto alle studentesse il divieto di indossare la gonna per combattere la discriminazione nei confronti degli omosessuali e, più in generale, di chi ha maturato incertezze sulla propria identità sessuale. Siamo a Lewes, nell'East Sussex, dove il nuovo regolamento della Priory School, ripreso da numerosi media britannici, ha fatto il giro del mondo. Il college ha infatti proibito l'uso della gonna all'interno dell'istituto e imposto l'uso di un'uniforme di genere neutro per tutti gli studenti: pantaloni lunghi per ragazzi e ragazze. Quella che appare come una follia, spiegano dal college, è in realtà un avanzato programma di educazione (obbligatorio) contro le piaghe del bullismo e dell'omofobia. In nome del progresso, e costo di ostacolare la libera educazione familiare, gli studenti della Priory School si sono visti imporre un obbligo alquanto bizzarro.

Una decisione che fa discutere. Lo scorso venerdì, immaginando che qualche alunna potesse trasgredire il regolamento, all'ingresso dell'istituto era presente una nutrita schiera di poliziotti con il compito di rispedire a casa le ragazze che avevano trasgredito la norma e osando presentarsi ai cancelli scolastici con la pericolosissima gonna. Ma le ragazze respinte non hanno solo dovuto subire lo smacco di essere escluse dalle lezioni. Già, perché la direzione dell'istituto ha scritto e spedito una lettera alle famiglie delle inadempienti in cui chiedeva spiegazioni sull'assenza ingiustificata delle figlie, che presumibilmente andranno incontro a qualche sanzione scolastica. Nonostante le pressioni di una discreta fetta della società, i vertici della Priory School restano inflessibili: “L'uniforme neutra è il miglior modo per garantire l'uguaglianza”. 

Niente benedizione alla nuova ambulanza della Croce Rossa: "Non vogliamo offendere i musulmani". Niente sacerdote a Moncalieri in occasione della presentazione della nuova ambulanza della Croce Rossa. Un fatto paradossale, le cui scuse appaiono ancora più assurde, ecco quanto accaduto in Piemonte. Mauro Indelicato, Domenica 08/09/2019 su Il Giornale. Niente segno della croce davanti la Croce Rossa: una scena da vero e proprio teatro dell’assurdo, emblema di una società post reale. Ecco quello che accade nella cittadina piemontese di Moncalieri. Succede infatti che nella locale sezione della Croce Rossa ci si dimentica di una tradizione da sempre in voga all’interno dell'istituzione vocata alla cura di feriti ed ammalati, ossia la benedizione di una nuova ambulanza. Al momento della cerimonia, ci sono tutti ma manca il prete. I volontari si chiedono che fine abbia fatto, ma in realtà il sacerdote non arriva perché la benedizione è vietata: nessun segno della croce, nessuna liturgia, nessun gesto che possa ricondurre alla tradizione cattolica sia della Croce Rossa che del territorio. Su La Stampa si riporta quella che, in un primo momento, è la spiegazione ufficiale: “Nessuna benedizione per non offendere la sensibilità di chi non è cattolico”. In poche parole, niente presenza di sacerdoti per non urtare chi cattolico non è: musulmani in primo luogo ed atei. Un ragionamento che cozza con la missione di un’istituzione come la Croce Rossa, cristiana sì ma, seguendo i proprio i precetti cristiani, pronta a non tirarsi indietro davanti alle necessità di ogni uomo, a prescindere dalla sua fede. La Croce Rossa va in giro per il mondo proprio per portare questo primario ed importante principio cristiano, a Moncalieri invece si sceglie di relegare il simbolo della croce ad un mero addobbo rosso su sfondo bianco della nuova ambulanza. Del resto, ogni fede ed ogni paese ha le sue organizzazioni umanitarie storiche, tradizionali e religiose: nei paesi a maggioranza musulmana i cittadini confidano molto, in caso di bisogno, nell’arrivo di ambulanze con la mezzaluna rossa e nessun arabo, anche cristiano, si sognerebbe di togliere a quel simbolo il suo forte significato. E poi a Moncalieri, tornando al caso locale accaduto lo scorso primo agosto, nessun imam ha mai chiesto ufficialmente di non effettuare la benedizione, nessun musulmano si è sentito offeso dalla eventuale presenza di un parroco. La sceneggiata post reale accade invece, come scrive Libero, per un’altra motivazione forse ancora più assurda: il marito della donna che ha donato il mezzo da adibire ad ambulanza, non vuole alcuna benedizione. In poche parole, si dona il mezzo purché nessuna benedizione venisse impartita. Forse perché ateo, forse perché non praticante, fatto sta che la sezione locale di Moncalieri, forse a corto di mezzi, pur di avere una nuova ambulanza asseconda le velleità di un singolo contro il sentimento sia dei volontari che dei cittadini. Questi ultimi risultano straniti da questa decisione, per nulla contenti di come la presentazione di una nuova ambulanza si sia trasformata nella più ridicola interpretazione che l’estremismo laicista potesse mettere in scena. Si tratta di un singolo episodio accaduto all’interno di una cittadina piemontese, ma rischia di essere il paradigma e l’emblema di una società dove, sia il sentimento laicista che quello di un singolo, possano prevalere su tutto fino ad arrivare all’assurdo. Ma del resto, si vive in un periodo in cui i paesi del nord Europa nella migliore delle ipotesi dimenticano di avere delle croci nelle proprie bandiere e, nella peggiore, c’è chi propone di toglierle completamente. Dunque nulla di nuovo e nulla di sorprendente, ma non per questo meno condannabile: una società che vive una post storia, difficilmente può vivere il futuro.

La Francia vieta l'insulto. Ordina stadi come chiese. Tony Damascelli, Giovedì 22/08/2019 su Il Giornale. Informate i parenti di Cambronne: in Francia sarà vietato severamente qualunque insulto che possa risultare omofobo. D'accordo, il «merde» del generale francese fu l'ultima risposta agli inglesi di Waterloo vincitori in battaglia ma qui è roba di pallone e siamo ormai in piena fase del ridicolo, soprattutto nella douce France che viene stuprata dai gentili gilet gialli ai quali è consentito la qualunque oppure nel terroir di Sua Eccellenza, il primo ministro, Macron Emanuele, che si può permettere di considerare gli italiani «lebbrosi e vomitevoli». Orbene, le reazioni nei confronti dello strillo razzista, violento e volgare, dell'epiteto rivolto al ragazzo di colore e ce ne sono tanti, tra coloured e insulti come confermano le cronache della Ligue 1, sono giuste, doverose, ma la crociata contro il vaffa dei tifosi va oltre ogni logica, toglie il gusto dell'insulto, sì screanzato, ma che fa parte della storia di osterie, campi di calcio, caserme e, perché no, cortili e condomini. Lo stadio non è una cloaca ma nemmeno una dependance della Sorbona, se, nella scorsa settimana, è stata sospesa temporaneamente la partita tra Nancy e Le Mans, per le parolacce degli ultras della maison che diede la nascita calcistica a Michel Platini, la Francia si è concessa un bis a Rennes quando si sono presentati i ricconi del Paris Saint Germain, i quali sono stati accolti da uno slogan di poche ed efficaci paroline: «Paris, Paris, on t'encule», robaccia di facile ed immediata traduzione, frasario che appartiene, tuttavia, anche al vocabolario comiziante di Grillo e al suo movimento di grande popolarità in Italia. Ma la Francia, quella delle boites e dei gigolò, si fa improvvisamente bigotta e decide di risciacquare la lingua nella Senna. Avremo stadi di football come chiese, novanta minuti di olalà e parbleu. Cambronne continui a dormire pure tranquillo, il suo «merde» resterà nei secoli.

SE DIRE ''UOMO'' È DIFFAMAZIONE. Francesca Bernasconi per Il Giornale il 3 settembre 2019. Il prossimo 18 settembre dovrà comparire davanti ai giudici, per difendersi dall'accusa di "campagna di molestie mirata". La colpa di Kate Scottow, 38 anni e madre di due figli, è stata quella di definire "uomo" l'attivista transgender Stephanie Hayden. Nel dicembre dello scorso anno, tre agenti di polizia erano piombati a casa di Kate, a Hitchin, nell'Hertfordshire in Inghilterra, e l'avevano portata in commissariato, davanti agli occhi dei dei figli, una bimba autistica di 10 anni e un bambino di 20 mesi. Ma, prima di essere interrogata, la donna era stata detenuta per sette ore in una cella di sicurezza. La donna è accusata di essersi rivolta alla Hayden chiamandola secondo la sua identità biologica e non quella percepita dal transessuale. Non solo. Secondo l'accusa, la 38enne avrebbe anche usato i social per "molestare, diffamare e pubblicare tweet oltraggiosi e diffamatori" nei confronti dell'attivista. Tutte accuse negate con forza dalla Scottow, che ha ammesso solamente di essere convinta che un essere umano "non può realmente cambiare sesso". Niente da fare. Come ricorda la Verità, il giudice aveva infatti deciso di emettere un'ingiunzione provvisoria, intimando alla donna di non pubblicare più sui social nessuna informazione sulla Hayden che facesse "riferimento a lei come un uomo" e nessun post che facesse riferimento alla sua "precedente identità maschile". Dopo la vicenda e l'arresto della donna, è stata avviata un'indagine, conclusasi il 21 agosto con la formulazione delle accuse, da cui la 38enne dovrà difendersi, tra qualche settimana. Accuse del genere non sono nuove in Gran Bretagna, dove già il marzo scorso un'altra donna era stata accusata di "transofobia". Lei, però, non aveva dovuto affrontare il processo, perché il giudice aveva stabilito il non luogo a procedere. Situazione diversa per la Scottow, che dovrà affrontare un processo, colpevole di aver chiamato "uomo", una persona diventata donna. 

LA PATATA NON HA MAI AMMAZZATO NESSUNO. Da "ilfattoalimentare.it" il 21 agosto 2019. Da alcuni anni l’azienda Amica Chips ha deciso di impostare la comunicazione pubblicitaria di alcune linee di prodotti sulla figura della ex porno star Rocco Siffredi e di doppi sensi non troppo originali. Una lettrice ha deciso di rivolgersi all’Istituto di autodisciplina pubblicitaria per segnalare il contenuto e le ricadute di questi spot. Di seguito pubblichiamo il botta-risposta tra la lettrice e l’Iap.

Gentile IAP, sto segnalando questo spot di Amica Chips con Rocco Siffredi per via dei riferimenti sessisti, che gioca su doppi sensi che reggono l’intera pubblicità, come evidenziato in modo goliardico anche da siti in rete dove sono anche riportati versione integrale e ridotte dello spot in questione. Come si può vedere, le allusioni e i doppi sensi a “patate” e “pacchetto” hanno evidenti intenzioni, più che tangibili, volgari e sessiste, la solita vulgata maschilista, formato spot, che riscuote ancora tanto successo nell’italietta di provincia e soprattutto in quell’Italia dove, guarda caso, fatica a sradicarsi questo pessimo fenomeno culturale stile califfo. Questa pubblicità è piena di simboli di questa portata: tante donne, uomini pochi e infatti solo ad uno, un ragazzo, verbalmente, si rivolge l’attore nella parte finale come fosse l’unico soggetto in mezzo a tanti oggetti di scena (le donne) con la frase più che esplicita ed evidente: “sempre dritto, il pacchetto!” Questo linguaggio, apparentemente scherzoso e innocuo, si impone invece a manifestare un “diritto sul campo” del maschio sulla donna, dal “pacco sempre dritto”, viene avallato il consenso di tanta ignoranza davvero fuori tempo. Inoltre, questa versione subdola (dunque ancor più pericolosa) e appena un po’ corretta di quello spot vergognoso, già ritirato in passato che ricordiamo tutti, non ha niente di educativo neanche per i minori i quali “apprendono” una cultura, ripeto, di stampo culturale sessista e a dir poco retrogrado, un voluto modello culturale da perpetrare alle giovani generazioni: ai giovani e piccoli spettatori maschi si “insegna” come trattare il genere femminile. così come le giovani donne che trasversalmente apprendono, come vorrebbero certi ricchi signori, quale sarà il loro ruolo nel mondo, ridendo e scherzando: patate erano e patate rimarranno, l’associazione è d’obbligo. Non bastano i delitti continui a fermare questa cultura da mentecatti (una media di 120 donne uccise ogni anno) dobbiamo pure subirla in modo trasversale attraverso simili pubblicità che mantengono quegli stessi giornalisti che apparentemente si schierano contro la violenza di genere, ridicolmente e a volte anche un po’ al limite. Voglio anche segnalare questa intervista dell’imprenditore Alfredo Moratti, il cui nome e protagonismo Ë stato dedicato al prodotto menzionato di amica chips, apparsa in rete solo due giorni dopo una a mia puntuale segnalazione a la7 e ad alcuni organi preposti per conoscenza della cosa (Giulia Buongiorno, Ordine dei giornalisti). Nella video intervista pubblicata su questo sito che potete confrontare l’imprenditore di amica chips fa alcune affermazioni su questa stessa campagna pubblicitaria: “… Visto che la patatina non è un prodotto che serve ma è un prodotto banale, un prodotto di divertimento… e abbiamo capito benissimo…”. “Questa idea (di usare come testimonial Rocco Siffredi) è venuta ad una agenzia anni fa, io sono molto sincero… ero un po’ contrario perché collegare o andare in simbiosi con un prodotto alimentare ad un personaggio di questo tipo ci vuole coraggio…”. “… Stiamo ripetendo questa esperienza che speriamo sia positiva ma già dalle voci che si sentono in giro “spaccherà”…” A poco serve il commento “riparatorio” dell’azienda sulla propria pagina ufficiale facebook del 15 luglio di Alfredo’s is back (il giorno dopo una mia segnalazione via mail agli organi preposti) del testimonial Siffredi che esclama “Mi piacciono le patatine. E non è un doppio senso”; una pezza, ed evidentemente peggiore del buco. Inoltre troverete una serie di commenti negativi estrapolati dalla pagina ufficiale Facebook di Amica chips, con precise argomentazioni da parte di numerosissimi utenti a sfavore dello spot menzionato, messe ovviamente in secondo piano e strategicamente oscurate, con a ciascuno dei quali relativa risposta e giustificazioni inconsistenti, copia incollata e sempre identica, da parte dei gestori della medesima pagina.

Di seguito la risposta con il parere del Comitato di Controllo dell’Iap: La ringraziamo per la segnalazione. Desideriamo informarla che il Comitato di Controllo ha ritenuto che il telecomunicato in questione non presenti profili di contrasto con le norme del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale. L’organo di controllo ha verificato che la programmazione dello spot esclude la fascia oraria di protezione specifica per i minori, che per legge è quella compresa tra le 16:00 e le 19:00, nonché la diffusione in prossimità di programmi esplicitamente rivolti ai minori. È certamente lecito dubitare del buon gusto della scelta pubblicitaria operata dall’inserzionista. Tuttavia, non è attribuita al Giurì o al Comitato di Controllo la competenza di dover giudicare del cattivo gusto della comunicazione quando – come nel caso segnalato – non siano ritenuti violati i livelli di guardia posti dal Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale a tutela dei consumatori-cittadini e della pubblicità in generale, per ragioni attinenti al contenuto dei messaggi. Il caso pertanto è allo stato concluso.

La replica della lettrice. Gentili membri dello IAP, Non penso che un Consiglio direttivo (“l’organo che fissa le direttive generali dell’attività e formula ed aggiorna le norme del Codice”), composto da 18 uomini, su 24 membri, possa stabilire parametri su cosa sia lesivo per l’immagine della donna. Inoltre vi è un potenziale conflitto di interessi in quanto molti dei membri stessi rappresentano i committenti delle pubblicità da sdoganare. Saluto i membri dello IAP con un tributo alla loro “imparzialità”. Patrizia S.

Miss Michigan perde la corona per i tweet razzisti sui social. Pubblicato martedì, 23 luglio 2019 da Corriere.it. Un sogno durato 24 ore. La studentessa ventenne Kathy Zhu, eletta Miss Michigan, si è vista levare lo scettro un giorno dopo la vittoria. Il motivo? La ragazza, fan del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, aveva scritto alcuni tweet contro afroamericani e musulmani ritenuti offensivi dall'organizzazione di Miss Word America che ha deciso di toglierle lo scettro. I post di Zhu violano le regole «di buon carattere» previste dalla competizione. Il direttore del concorso ha comunicato alla ragazza che i suoi account social «hanno contenuti offensivi, indelicati e inappropriati», come ha reso noto la stessa interessata, attivista conservatrice e direttrice del gruppo nazionale «Chinese Americans for Trump». La ragazza ha chiarito che i suoi tweet sono stati presi fuori dal contesto, sostenendo di essere stata punita per le sue vedute conservatrici. Uno dei messaggi, ad esempio, recitava: «Sapevate che la maggior parte delle morti di persone di colore è causata da altre persone di colore? Sistemate i problemi all'interno della vostra comunità prima di prendervela con gli altri». In un altro Zhu scriveva: «Nel campus della mia università è stata montata una cabina in cui si può provare l'hijab (il velo islamico, ndr). Quindi volete dirmi che adesso è diventato un semplice accessorio di moda e non è più una cosa religiosa? O state solo provando ad abituare le donne a essere oppresse sotto l'Islam».

SAPETE CHE IN AMERICA NON SI PUÒ PIÙ DIRE ''PET''. Camilla Tagliabue per il “Fatto quotidiano” il 22 giugno 2019. America, il Paese della libertà, ma non troppo: come il cinema, la tv e le università, anche l' editoria è minacciata dalla dittatura del politicamente corretto, che espunge dalla pagina tutto ciò che è considerato sconveniente. Così è capitato a Francesca Marciano, scrittrice e sceneggiatrice (già David di Donatello per Maledetto il giorno che t' ho incontrato di Carlo Verdone), che sta lavorando a una raccolta di racconti, in uscita nel 2020 con Penguin Random House.

Signora Marciano, le hanno censurato qualcosa?

«Indubbiamente c' è un incremento della vigilanza: in una similitudine in cui mi riferivo al canto dei gabbiani che risuonano come alla chiamata del muezzin, mi è stato chiesto di togliere il riferimento al muezzin e di evitare la parola moschea perché vanno usati con cautela. Altro esempio: uno dei personaggi di una festa si presenta vestito "con una gonna leopardata come Gloria Gaynor", nota cantante afroamericana. Bene, ho dovuto togliere il riferimento a lei perché l' idea che un uomo, per di più bianco, si travesta da nero è percepito come poco rispettoso. O ancora: parlo di un abito, una gonna indiana del Rajasthan. Mi è stato detto di non descriverla così perché si tratta di appropriazione culturale. È lo stesso problema che stanno affrontando stilisti e designer che si ispirano ad altre tradizioni (vedi Carolina Herrera, accusata dal segretario alla Cultura del Messico di aver copiato indebitamente i capi dei nativi americani). Tutto ciò che riguarda altre culture è inappropriato».

Il primo degli argomenti sensibili è la religione, soprattutto musulmana.

«Sì, insieme all' etnia e ad alcuni aggettivi come "grasso". Ma la parola inutilizzabile che più mi ha sconvolto è pet, animale domestico. Stupefatta, ho cercato su Google; un articolo consigliava addirittura il sinonimo: animal companion, compagno animale».

Cioè "pet" offenderebbe la dignità animale?

«Apparentemente è così; è chiaro che poi possiamo ignorarlo. Però qualcuno, più di uno in America, pensa che quell'espressione qualifichi l' animale come proprietà, mentre companion dà l' idea della convivenza con esso, senza specificare alcun padrone o possesso».

Dopo il #MeToo parlare di donne è più complicato?

«Io personalmente non mi sono mai imbattuta in censure su questo. Forse, inconsciamente, sono politicamente corretta in quanto donna: scherzo. Però mi è stato chiesto di modificare una frase in cui un uomo, che amava una ragazza più giovane, sognava di averla tutta per sé: in inglese il verbo own, possedere, è malvisto e fraintendibile. Sono vent' anni che scrivo per questo editore americano, e sempre con la stessa editor, che è molto più allarmata di un tempo. Il politicamente corretto rischia di trasformarsi in censura. Da parte degli artisti c' è la paura che chiunque possa distruggerti un lavoro se, anche un singolo dettaglio, viene considerato politicamente scorretto».

Ma a chi giova allora tutta questa correttezza?

«Io per prima credo nell' importanza e nel peso delle parole: eliminare le espressioni discriminatorie è un primo passo per estirpare le discriminazioni reali. Trovo inaccettabile nominare le persone in base alla loro nazionalità, come "il filippino", "la rumena" Dire "il bangla", per designare il negozio gestito da una persona del Bangladesh, è poco rispettoso, così come parlare di persone di colore o no. Però c' è un limite a tutto».

Chi stabilisce il limite etico? E a che diritto o titolo?

«Questo è il punto spinoso. In Italia però non siamo allo stesso livello di paranoia.

Ci arriveremo?

«No, non credo. Abbiamo un carattere diverso, siamo più tolleranti ed elastici».

Altri aneddoti censori?

«Una agente si è sentita rifiutare un manoscritto perché il protagonista era un misogino e quindi impubblicabile. Peccato che il romanzo fosse ambientato nel V secolo in Persia! Spesso c' è mancanza di cultura: tutto va contestualizzato; altrimenti rischiamo di cancellare la storia».

Il sesso resta un tabù? Penso agli amori loliteschi o alle minoranze Lgbt.

«C' è una politica di enorme rispetto per le minoranze. Ma il limite è sottile, oltre si sfocia nella bigotteria. I giovani, però, non si sorprendono delle censure: ci sono nati dentro».

A Hollywood, sul set, hanno introdotto la figura del "garante del sesso": c' è un corrispettivo nell' editoria?

«Non saprei: non credo che il problema sia il sesso in sé, ma la discriminazione o quello che è giudicato tale. Ad esempio, un bianco non può scrivere di un nero o di un messicano E si arriva al paradosso: noi scrittori dobbiamo inventare storie, ma solo quelle che riguardano noi stessi. Come se un uomo non potesse scrivere di donne: quindi cancelliamo Emma Bovary, Anna Karenina e gran parte della letteratura? È ridicolo, se non pericoloso».

Al cimitero oscurano i crocifissi per non urtare le altre religioni. Il caso al cimitero di Pieve di Cento, in provincia di Bologna, dove sono stati montati dei teli oscuranti per nascondere i simboli della religione cristiana, scrive Pina Francone, Lunedì 08/04/2019, su Il Giornale. Coprire i simboli cattolici anche nei cimiteri per non disturbare le altre religioni. Già, siamo, anzi sono arrivati pure a questo. Succede al cimitero di Pieve di Cento, comune di 7mila anime in provincia di Bologna, dove qualcuno ha pensato bene di montare dei teli per oscurare crocifissi e quant'altro per non urtare i credenti delle altre fedi. Nell'ambito dei lavori di ristrutturazione di una cappella, è stato installato un vero e proprio sistema motorizzato di teli oscuranti per nascondere i simboli della religione cristiana presenti in quella stessa cappella, in caso di cerimonie con rito diverso da quello cattolico.

La denuncia di Forza Italia. A denunciare il tutto Galeazzo Bignami, deputato di Forza Italia. "Ecco l'ultima trovata del sinistrati che in un comune della provincia bolognese annunciano fieramente, in un giornaletto preelettorale, il restauro del Cimitero e '‘...per riti o cerimonie laiche anche di altre religioni, il progetto prevede l'installazione di un sistema di oscuramento motorizzato con teli di tessuto che appunto consentiranno all’occorrenza di coprire temporaneamente le immagini sacre e le tombe di famiglia situate all’interno della Cappella'". L'esponente azzurro chiosa con durezza: "I sinistrati per non mancare di rispetto alle altre religioni offendono i Valori Cristiani e ancor più la memoria dei nostri morti nascondendoli dietro delle 'tende motorizzate' in un cimitero per non offendere le altre religioni. Se questi amministratori si vergognano della nostra tradizione e della nostra cultura, dovrebbero andare a nascondere se stessi e non solo dietro una tenda motorizzata. Se non sono capaci di portare rispetto per i vivi almeno abbiano la decenza di lasciare stare i morti e di non coinvolgerli in scempiaggini pre elettorali".

Il commento di Giorgia Meloni. "A Pieve di Cento, un comune del bolognese, amministrato dalla sinistra hanno deciso di montare dei teli oscuranti per nascondere i simboli della religione cristiana, per non urtare la sensibilità dei credenti di altre religioni. Con la scusa del rispetto per gli altri si manca di rispetto alla nostra cultura cattolica e alle nostre tradizioni. Ormai la Sinistra è oltre il fanatismo. Questo è delirio ideologico", l'affondo di Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia, sulla sua pagina Facebook.

Gennaro Sangiuliano: “il problema è il mainstream, cioè il politicamente corretto”, scrive il 5 aprile 2019  Alessandro Sansoni su culturaidentita.it. “Sai perché i giornali non vendono? Perché non sono più credibili: guarda come è finita in una bolla di sapone la storia sul Russiagate. Una bufala colossale”. Non ha dubbi Gennaro Sangiuliano – napoletano, ex direttore del Roma e vicedirettore di Libero, per nove anni vicedirettore del Tg1 – dal 31 ottobre direttore del Tg2, con la sicurezza di chi ha gli ascolti che gli danno ragione: il giornalismo è in crisi non solo per l’epocale passaggio tecnologico ai nuovi media, ma soprattutto perché “ha perso la sua stella polare, ovvero la rappresentazione fedele dei fatti ancorata il più possibile alla verità”.

Cosa si preferisce fare invece?

«Si punta a piegare i fatti a costruzioni precostituite. Un tempo non lo facevano nemmeno le riviste politicamente schierate come La Voce di Prezzolini o l’Ordine Nuovo di Gramsci. La stessa Unità, che negli anni ’70 vendeva un milione di copie, pur essendo il quotidiano del PCI riportava innanzitutto notizie. Oggi esistono testate di sinistra che fanno pura letteratura».

E la Rai? C’è chi dice che la “Rai del cambiamento” si sia fermata a Sangiuliano…

«Cambiare la Rai è un falso problema: il vero problema è il mainstream, la rappresentazione della realtà che ci viene propinata dal Partito Unico del Politicamente Corretto, che porta avanti le sue tesi senza verificarle empiricamente…»

…e non ammettendo critiche… A tal proposito, ritieni che le tue idee ti abbiano penalizzato in passato?

«Sì. La mia è stata spesso una carriera “controcorrente” e, talvolta, sono rimasto un passo indietro a persone che avevano meno titoli e credenziali di me. Va detto che la RAI ha tante espressioni libere al suo interno, giornalisti competenti e onesti e che alla fine, in questa azienda, il merito riesce a trionfare.»

Direttore, tu sei stato tra i primi a individuare nello scontro tra popolo ed élites la ragione profonda dei grandi cambiamenti che hanno rivoluzionato lo scenario politico occidentale… è ancora valido questo schema?

«Non solo è ancora valido, ma ha di fatto sostituito il vecchio paradigma ottocentesco della lotta di classe. Il Rapporto Oxfam ci dice che oggi 8 persone al mondo detengono una ricchezza superiore a quella della metà della popolazione mondiale e, guarda caso, questi otto supermiliardari sono tutti liberal, progressisti e di sinistra».

Nell’editoriale del nostro primo numero ci siamo proposti di dare voce a sentimenti, opinioni e valori dell’”Italia profonda”, traducendoli in cultura alta, consapevoli che per decenni amore per la Patria, senso della famiglia e adesione alle tradizioni sono stati snobbati dall’intellighenzia…è un obiettivo perseguibile?

«Credo di sì. Come ricordava Federico Chabod nel suo L’idea di Nazione “dire senso di nazionalità significa dire senso di individualità storica”, mentre il filosofo inglese Roger Scruton sottolinea il legame che esiste tra nazione e democrazia. Anche Ralf Dahrendorf, un’icona della sinistra, afferma che “la democrazia non è applicabile al di fuori dello Stato Nazione”, mettendo in guardia dai molti livelli decisionali sovranazionali che oggi indirizzano le scelte politiche. Questo significa che oggi appellarsi alla nazione, significa rivendicare sovranità e partecipazione diretta dei cittadini, titolari di diritti e di doveri, mentre le élites cercano di trasformarli in consumatori e codici a barre».

Cultura e Identità sono la stessa cosa?

«Toqueville sosteneva che lo spirito delle leggi si rinviene e si costruisce attraverso un costante riferimento alla propria cultura, che poi è la propria identità. Ad esempio le società occidentali per secoli si sono alimentate della concezione greca e romana di res publica fondata sui valori di libertase virtus, un recinto identitario che mette insieme individui e comunità, che poi è ciò che il filosofo napoletano Gianbattista Vico definiva idem sentire de re publica, individuandovi la sapienza poetica di un popolo».

Sotto la tua direzione il Tg2 ha intervistato sia Steve Bannon che Alexander Dugin, i due intellettuali di punta del cosiddetto sovranismo: chi ti ha colpito di più e a chi senti più affine?

«Premessa: io sono disponibile a intervistare anche Bernard–Henri Levy e mi piace far notare che abbiamo ricordato i 90 anni di Noam Chomsky. Lo dico perché Carlo Calenda in un tweet ci ha attaccato per aver intervistato Dugin, il quale però era già stato intervistato dalla BBC, da decine di autorevoli quotidiani di tutto il mondo, da Rai News 24, nel programma di Lucia Annunziata e in una rubrica del TGR. Chissà perché non gli è andato giù che lo intervistasse il Tg2…Peccato, perché Calenda è persona che stimo. Quanto a Bannon e Dugin, e forse più di loro Alain De Benoist, entrambi rappresentano due risposte forti alla vulgata dominante, al pensiero piatto e sono, a loro modo, esponenti della Rivoluzione Conservatrice. La verità è che viviamo una situazione simile a quella degli inizi del Novecento, quando l’idealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, delineò un’alternativa al Positivismo, cui si aggiunse la scuola politica di Mosca, Pareto e Michels e le riviste delle avanguardie fiorentine, prime fra tutte Leonardo e La Voce. Lo stesso Norberto Bobbio riconoscerà che “a chi ricordava l’afa e l’oppressura dell’età positivistica pareva che si fosse usciti all’aria aperta e vivida”».

Si approssimano le elezioni europee: possono davvero determinare un’inversione di rotta dell’Unione Europea?

«L’Europa in quanto tale è un valore culturale: richiama le comuni radici giudaico cristiane e la base comune del diritto romano. Le sovrastrutture dell’UE, invece, sono astratte, formali e arroganti. Se l’Europa non vuole deflagrare deve necessariamente autoriformarsi».

La parola chiave di questo numero di CulturaIdentità è “italianizzare”…

«Un certo provincialismo tende ad esaltare tutto ciò che accade all’estero, perdendo il senso storico della nostra specificità. L’Italia ha dato un grande contributo alla storia dell’umanità, si pensi all’Umanesimo e al Rinascimento, a Dante o a Leonardo da Vinci. Non capisco il ricorso smodato e dilatato a concetti e parole anglosassoni, spesso praticato solo per impressionare l’interlocutore, laddove sarebbe opportuno che i giovani recuperassero la nostra cultura. Ciò non significa essere gretti: il confronto con le altre culture e più proficuo quando si è consapevoli di sé stessi».

Il dito medio nella storia. L’atto di mostrare il dito medio è un gesto volgare riconosciuto soprattutto nei paesi occidentali. Un esempio di linguaggio non verbale che avrebbe avuto origine nell’antica Grecia, scrive Elisa Sartarelli, Sabato 06/04/2019, su Il Giornale. Mostrare il dito medio è un gesto inequivocabile soprattutto nei paesi occidentali ma nel Regno Unito lo è anche far vedere indice e medio con il dorso della mano. Mostrare il dito medio è un gesto volgare molto comune, riconosciuto in numerosi paesi e che ha origini antiche. Focus afferma che l’antropologo Desmond Morris lo considera uno dei gesti d’insulto più antichi, con il dito medio che rappresenta il pene e le dita ripiegate a rappresentare i testicoli. Secondo Morris si tratterebbe addirittura di un gesto preumano, perché usato anche dalle scimmie. Gli antichi romani lo chiamavano digitus impudicus, cioè dito indecente. E Tacito riporta che le tribù germaniche lo mostravano ai soldati romani. L’origine di questo gesto, però, sarebbe nell’antica Grecia, dove si pensa fosse usato anche per fare riferimento a un rapporto omosessuale. Il gesto di mostrare il dito sarebbe poi approdato in America attraverso gli immigrati italiani, insieme alla pizza. Nel 1886 fu fotografato un giocatore di baseball dei Boston Beaneaters che, in una foto di squadra, rivolgeva il dito medio probabilmente ai New York Giants. Negli ultimi anni a mostrare il dito medio sono state star della musica come Madonna e Kurt Kobain. Questo gesto antico oggi assume vari significati. Come spiega Ira Robbins, professore di giurisprudenza presso la American University di Washington DC, si tratta ormai di un modo per esprimere rabbia, protesta o eccitazione. È parte dunque del linguaggio non verbale. Un gesto comune in tanti paesi ma la gestualità spesso può causare fraintendimenti. Ad esempio nel Regno Unito, dove lo stesso significato del dito medio viene assunto anche dal segno della vittoria con il dorso della mano verso l’esterno. Quello che per molti è un semplice “due”, per gli anglosassoni è un gesto volgare. Per non essere fraintesi, basta unire indice e medio. Secondo Cafébabel, infatti, nel corso delle guerre medievali gli arcieri inglesi sarebbero stati piuttosto abili. Basti pensare alla figura del leggendario Robin Hood, eroe popolare del Regno Unito. Così, quando gli arcieri inglesi venivano catturati dai francesi, venivano tagliate loro due dita: l’indice e il medio, perché non potessero più tirare con l’arco. Dito medio o due dita unite sono dunque gesti volgari che vantano origini storiche e, dopo essere sopravvissuti nel corso dei secoli attraverso l’uso comune, non danno segno di voler essere dimenticati.

CACCIA AL CACCIA. Lu. Ga. per ''Il Tempo'' il 4 aprile 2019. Dai cieli al giardino dell' università. E dall' Ateneo ancora un altro «viaggio»: verso un museo. Al centro delle polemiche è finito il caccia F-104 che da 8 anni si trova nel giardino dell' Università Cattolica di Piacenza. Il velivolo era finito lì in onore della passione per il volo e gli studi scientifici di padre Agostino Gemelli. Ma nei prossimi giorni dovrà effettuare un altro viaggio poiché sarà rimosso. A deciderlo una delibera delle Facoltà d' ateneo perché l' aereo «richiama la guerra», si legge nel documento. Ma a contestare questa scelta chi quel mezzo lo ha pilotato, sostenendo che si tratta di una polemica «ammuffita». Il caccia intercettore F-104, che si trova nel parco della Cattolica a Piacenza per ricordare ai ragazzi padre Agostino Gemelli, medico e scienziato, fondatore e primo rettore dell'Università Cattolica del Sacro Cuore, pioniere degli studi di psicofisiologia dell' uomo in volo, ha fatto infatti scoppiare un botta e risposta tra chi lo difende, avendolo pilotato, e chi invece lo considera un aereo che non c' entra nulla con un Ateneo. Gemelli fu pilota e insignito, per i suoi meriti scientifici, del grado di colonnello del ruolo d' onore del Corpo sanitario aeronautico. A intervenire sul caso, anche Mauro Balordi, direttore della Cattolica a Piacenza, secondo il quale l' aereo F-104 era stato messo come messaggio «nobile», quindi per ricordare «la passione di padre Gemelli per il volo e i suoi studi sulle reazioni del corpo umano in volo». Però, in base alle parole del direttore, il velivolo nel giardino avrebbe fatto scoppiare polemiche e reazioni negative, tanto far chiedere a chi frequenta l' Ateneo il motivo di quell' aereo nel campus cattolico. Per il direttore sarebbe una tipologia di aereo «che non c' entra niente con quello che pilotava padre Gemelli» e neanche con gli studi e che, anche se non è «da guerra», comunque «richiama vicende legate alla guerra», ha sottolineato Balordi. E ancora: «Non c' è mai stata una vera sollevazione popolare ha proseguito - ma il rischio che venisse frainteso è stato costante in tutto questo tempo». Ecco arrivare la scelta di toglierlo dal parco dell' università. L' Aeronautica militare è comunque disposta a portare via l' aereo. Quale sarà l' ultimo viaggio dell' F-104? Un museo. Contrario allo spostamento dell' aereo, l' ex generale Dino Tricarico, anche ex capo di Stato maggiore dell' Aeronautica. L' ex alto ufficiale lo ha pilotato per anni e fu anche a capo di operazioni, tra le quali il conflitto nei Balcani. Secondo l' ex generale, le parole dette dal direttore dell' Ateneo di Piacenza, andrebbero avanti da 30 anni, da quando le pronunciavano le organizza zioni pacifiste».

·         L’uso dell’immagine per manipolare la coscienza.

Quelle fotografie che bucano la nostra indifferenza. Angela Azzaro il 18 luglio 2019 su Il Dubbio. Perché hanno un potere maggiore dell’immagine in movimento. Dal bambino coi libri di Primavalle ai piccoli morti durante la fuga da guerre e povertà. Cosa ci colpisce così tanto.

Le fotografie che bucano l’indifferenza. Viviamo subissati dalle immagini in movimento. Non c’è più solo la televisione, ma i videogiochi, le storie social, i video degli influencer. Sembra di far parte del film, profetico, di Michelangelo Antonioni, Blow up, in cui l’immagine esplodeva disintegrandosi e disintegrandoci. Più vediamo, meno capiamo. Meno capiamo, più vediamo. Sono passati ben 22 anni dal libro denuncia di Giovanni Sartori, Homo videns: un atto di accusa al potere della televisione e della sua capacità di condizionare e modificare il pensiero. Eppure in questo quadro desolante, la fotografia – considerata la parente povera dell’immagine in movimento – si sta prendendo una vera e propria rivincita. Se il fluire televisivo ci rende assuefatti al dolore e alla morte, spesso solleticando il nostro voyeurismo, la fotografia che fissa il tempo in un unico punto scuote gli animi, smuove le coscienze, racconta meglio di qualsiasi film l’epoca in cui stiamo vivendo. Negli ultimi anni è accaduto spesso.

Aylan, America e Primavalle. Il corpicino di Aylan, il bimbo in fuga dalla guerra in Siria, ritrovato nelle coste turche e fotografato da Nilüfer Demir, ci parla ancora: ci chiede conto della sua morte, del suo dolore e di quello del suo popolo. Quella immagine cambiò l’atteggiamento di molti Paesi europei, in testa la Germania, nei confronti del dramma siriano e ancora oggi è considerata un monumento contro il razzismo o i respingimenti dei migranti. Nessun testo, nessun film, niente potrà mai essere così potente. Se non altre immagini, altri scatti. Come il padre e il figlio annegati nel Rio Grande, negli Usa, poche settimane fa. O il bambino che, durante lo sgombero della scuola occupata da trecento persone senza casa a Primavalle, è stato immortalato mentre va via con i libri. Una immagine unica, sconvolgente. Allo stesso tempo un atto di accusa contro il potere e una luce di speranza rivolta verso il futuro. La domanda è perché le foto abbiano questo potere unico, quasi magico. Secondo il grande semiologo Roland Barthes, che alla fotografia ha dedicato il bellissimo saggio La Camera chiara, la foto è caratterizzata da due piani. Lo studium che attiene al voler del fotografo, al suo punto di vista, alla sua costruzione semantica. Poi c’è il punctum:è ciò che rende la foto quella foto. È ciò che noi indichiamo con il dito, che ci fa tornare quasi bambini. È qualcosa che non sempre riusciamo a verbalizzare ma che fa parte del nostro sentire, della nostra parte più profonda. È forse in questa spiegazione che troviamo una prima risposta al perché le foto abbiano così tanta forza. La foto smuove le coscienze perché isolando un momento stabilisce un rapporto diretto con chi guarda, un rapporto che tocca corde altrimenti irraggiungibili. Nella foto dei bambini morti, ritrovati con il corpicino rivolto, il dito si piega e diventa un atto di accusa contro l’indifferenza, contro chi nel mondo occidentale ha permesso che un orrore del genere potesse realizzarsi. La foto ferma il tempo, lo cristallizza. Ma solo in apparenza. Perché all’interno di ogni singola immagine la storia si dipana lo stesso, ma fuori dalla furia distruttrice del flusso post moderno. È un tempo diverso, più vicino ai sentimenti ma anche a un pensiero non addomesticato. In cuor nostro, anche se con rammarico, forse pensavamo che Robert Capa e la sua compagna Gerda Taro, protagonista del bellissimo romanzo La ragazza con la Leica di Helena Janeczek, fossero figure superate, legate al passato. Pensavano che la fotografia fosse stata uccisa da una tv killer. Invece la fotografia continua a vivere e a farci indignare, soffrire, amare. Un bravo fotografo, a differenza di un giornalista, non può prendere l’agenzia e “lavorarla” come si dice in gergo, deve andare sul posto, vedere con i suoi occhi. E una volta che si vede e lo si restituisce agli altri, è difficile restare zitti e girarsi dall’altra parte.

·         “Bella Ciao” sulla bocca di tutti…

Rovinano pure la festa di Natale con la pretesa di cantare la solita Bella ciao sotto l’Albero. Francesco Storace giovedì 12 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Cercate, cercate pure, ma Bella Ciao non la trovate tra i Canti di Natale. Perché è una pagliacciata mischiare sacro e profano. Eppure succede e stanno (quasi) tutti zitti. Come se si dovesse fare politica persino sotto l’Albero. Il silenzio sarebbe continuato se non esistesse la rete, con i suoi social, le sue notizie, anche se confinata in un ambito locale. Ma le vergogne si scoperchiano perché è inaccettabile turlupinare la buona fede delle persone. La “location” per l’esibizione della canzone tanta cara alla sinistra estremista – inclusa quella che governa l’Europa – è un comune in provincia di Foggia, Torremaggiore. Il 7 dicembre il sindaco Emilio Di Pumpo, accende l’Albero con tutte le sue luci. Arrivano i cantori – si fanno chiamare Street Band Vagaband, nomen omen… – e alla fine della cerimonia si canta l’immancabile Bella Ciao di questi tempi sardinati. Antifascismo da operetta. Da piccoli noi, “quelli di prima”, amavamo Tu scendi dalle stelle oppure Jingle bells. E certo non la buttavamo in politica. Ma nell’Italia blasfema c’è spazio per rovinare persino il Natale, una storia bimillenaria, il cammino dell’umanità. Senza senso del ridicolo. L’ex sindaco Lino Monteleone ha usato parole durissime nei confronti di un’iniziativa quantomeno sfrontata: “Ciò che mi stupisce è che si usi anche la banda presente all’evento facendole intonare ‘Bella ciao’: non mi risulta che sia un canto natalizio. Del resto, sono molti ormai i segnali di rigurgito ideologico, un atteggiamento frequente e ingiustificato, anche di rimozione della verità”. E si potrebbe anche aggiungere che se nel nostro paese si arriva a intonare Bella Ciao pure in Chiesa come è accaduto in Toscana, ormai la sfrontatezza ha oltrepassato ogni limite immaginabile. Ed è un peccato anche perché, nel caso del comune pugliese, si è voluto appiccicare un bollo ideologico ad un’iniziativa che aveva visto la partecipazione attiva di realtà sociali, a partire dall’Anfass e da altri soggetti locali. E’ stata quella canzone inutile, fuori luogo, dannosa, a far esplodere la polemica. Perché almeno durante le feste, le feste sante, c’è chi vorrebbe essere lasciato in pace. Invece no. La banda musicale rivendica il gesto: “E’ stato suonato il ritornello della canzone Bella ciao, dopo la richiesta di alcuni presenti tra il pubblico. Noi riteniamo di essere strumenti attraverso il quale divulgare musica e non potremmo farlo senza l’ascolto del nostro pubblico”. Chissà se qualcun altro dal pubblico avesse chiesto loro di intonare Faccetta Nera come avrebbero reagito… Ovviamente, applausi al signor sindaco dai suoi compagni. Ecco un commento di una signora dalla pagina Facebook del Peppone di Torremaggiore: “Una come me che è cresciuta a pane e ‘Bella ciao’ non ci vede niente di male che sia stata suonata in occasione delle feste natalizie perché appartiene al colore politico della nostra amministrazione e a quanto pare so che invece è stata molto apprezzata dalla gente presente”. Che facciamo? Che cosa merita un commento del genere? Sei cresciuta a pane e “Bella ciao”, cara compagna? Evidentemente ti ha fatto male se non riesci a distinguere una canzone di parte con una festa sacra. Sono quelli che pensano di potersi permettere di tutto. Non è democrazia, è anarchia.

Ue, Gentiloni e i commissari socialisti cantano Bella Ciao in aula, ira Meloni. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Alessandro Sala per corriere.it il 4 dicembre 2019. Hanno intonato «Bella Ciao», il canto partigiano per antonomasia (sulle cui origini vi sono però parecchie discordanze), all’interno dell’aula dell’Europarlamento di Strasburgo, dopo il via libera definitivo alla Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen. E lo hanno fatto in perfetto italiano, segno che la conoscevano bene. Sette dei 9 nuovi commissari di area socialista, tra cui il titolare degli Affari Economici Paolo Gentiloni, hanno pensato di festeggiare così l’avvio della nuova esperienza di governo, con un momento goliardico durante una foto-opportunity limitata agli esponenti del loro gruppo, dopo quella di rito con l’intera squadra. C’è grande partecipazione al coro e tra i più entusiasti si notano l’olandese Frans Timmermans, che della von der Leyen è il vicepresidente esecutivo con delega al Green Deal Europeo, ovvero le macropolitiche ambientali; la maltese Helen Dalli, commissaria all’Uguaglianza; e la portoghese Elisa Ferreira, commissaria per la Coesione e le riforme. Nessuno dei sette si sottrae al battimano ritmato che accompagna la piccola esibizione.

Meloni indignata. Ma un video registrato nell’occasione con un telefonino ha iniziato a circolare anche al di fuori delle chat del gruppo e oggi è stato diffuso su Facebook dalla presidente di Fratelli d’italia, Giorgia Meloni, sotto l’eloquente titolo di «Unione sovietica europea». « Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee — si chiede l’esponente della destra italiana —? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?». Anche il leader leghista Matteo Salvini è intervenuto sul coro dei commissari: «Complimenti a Pd e 5 Stelle per la scelta di Gentiloni come rappresentante dell’Italia in Europa — scrive l’ex vicepremier su Twitter —. Al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournée internazionale».

I precedenti. Anche se le origini partigiane di «Bella Ciao» non sono certe, e non è neppure certo che si tratti un brano italiano, nella politica italiana questo canto viene spesso evocato come canto di resistenza. Il soggetto del testo, del resto, lo è. Lo hanno rispolverato le «sardine» che nelle ultime settimane hanno riempito le piazze in nome della resistenza civile (per esempio qui durante il raduno di Genova); lo ha cantato nei giorni scori in chiesa di Vicofano, nel Pistoiese, don Massimo Biancalani, suscitando la rabbia di Salvini; lo aveva intonato addirittura Michele Santoro in diretta tv nel 2002 in polemica con l’allora premier Silvio Berlusconi. E risuona regolarmente ad ogni celebrazione del 25 aprile e nelle manifestazioni della sinistra. Nulla di strano, insomma, che dei parlamentari di sinistra la considerino un proprio simbolo. Ma il fatto che siano commissari, quindi rappresentanti istituzionali e non esponenti di parte, e che il canto sia avvenuto all’interno dell’Aula con tanto di coreografia ufficiale della Ue ha mandato su tutte le furie Giorgia Meloni.

«Noi Popolari siamo più seri». Ma non solo lei. Anche l’europarlamentare Fulvio Martusciello (Forza Italia), dal canto suo, ha scritto in una nota:«Ma pensassero a lavorare che sono pagati per questo. Bonino, Frattini o Tajani che pure sono stati commissari europei non lo avrebbero mai fatto. Non è un caso che i commissari che cantano sono tutti socialisti. Noi popolari siamo seri e una cretinaggine del genere non l’avremmo mai fatta».

I commissari europei cantano “Bella Ciao”, Meloni: “Teatrino ridicolo e scandaloso”. Alberto Consoli mercoledì 4 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. “Commissari europei intonano “Bella Ciao”. Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?”. Ha ragione Giorgia Meloni: un teatrino deprimente che sta facendo il giro del web. “Siamo alla tragica fine dell’Europa”, commentano i più, ossia gli utenti social che stanno condividendo questa scena molto poco edificante. Sul sito di Giorgia Meloni, la prima a diffondere dal suo profilo Fb il video, non ci sono solo commenti riferibili a una condivisione politica. Moltissimi commentatori si scandalizzino per ben altro. L’Europa ha grandi problemi da dibattere: la crisi economica, il ruolo che la Ue vorrà darsi, stratta tra Usa, Cina e Russia. Aziende in crisi, L’economia che arranca. Eppure gli “autorevoli commissari”, trovano il tempo per pagliacciate del genere. Ma come – è il senso dei commenti- intendono inculcarci l’idea che senza Europa saremmo dannati, persi, senza una bussola politica. Poi perdono tempo a “cazzeggiare”? Il video è pubblicato dai social di FdI con un titolo ironico: “Unione sovietica europea”. Ironia a parte,  l’indignazione resta. L’inno “Bella ciao” ormai viene usato come una clava un po’ da tutti: dalle sardine, da alcuni preti, dalle piazze di sinistra, dai preti rossi il primo giorno di scuola. Lo strimpella il ministro dell’Economia Gualtieri. Bella Ciao, a dispetto delle sue origini, è usato come slogan-contro: ogni volta che c’è da vocare le paure fasciste e sovraniste. Follia. Tristissima scena quella dei commissari Ue, che osserviamo, per fortuna per pochi minuti.  Tristissima Europa.

Marco Rizzo, Partito Comunista: “Commissari Ue cantano un’idea e sono gli stessi che la distruggono”. Rossella Grasso il 4 Dicembre 2019 su Il Riformista. In pochi minuti è diventato virale un video che vede i Commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici (S&D) mentre cantano “Bella Ciao” al Parlamento europeo dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea. Un video vecchio di una settimana che ha indignato Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista. “Adesso basta, non se ne può più – ha tuonato sulla sua pagina Facebook – Anche i commissari UE cantano ‘Bella Ciao’. Sono quelli che equiparano il comunismo al nazismo. Questa canzone è violentata ovunque. I Partigiani si rivoltano nella tomba. Vergogna! Fuori da UE, euro e Nato!” Se non stupisce che Meloni e Salvini fossero contrari a una simile esternazione dal parte del gruppo dei neocommissari socialisti, la posizione del segretario generale è particolare e gli abbiamo chiesto una spiegazione: “Vediamo i soggetti e l’oggetto – ha detto Rizzo – I soggetti sono il potere costituito dell’Unione Europea, la gabbia europea che attanaglia i popoli europei, secondo il nostro giudizio politico, sono gli uomini che consentono al fondo monetario internazionale e alla Banca Centrale europea di esercitare al meglio il loro potere. L’oggetto è una canzone che ha rappresentato le istanze di cambiamento, di battaglia, in cui sono morte decine di migliaia di persone tra cui in maggioranza comunisti. Possono rivoltarsi nella tomba i Partigiani a vedere che questi signori cantano la loro canzone? Purtroppo nel mainstream del capitalismo globalizzato "Bella ciao" la cantano tutti. E a me dà fastidio”. Per Rizzo si tratta di un vero e proprio ossimoro, l’esatto contrario del significato profondo di quella canzone. “Possiamo far cantare un’idea da quelli che quell’idea la distruggono? È la modalità con cui si crea il consenso e si crea anche il dissenso in questa società. Stessa cosa succede per chi inquina il mondo che si pone la questione dell’ambiente. È buffo ma oggi è così. Il 70% dell’inquinamento del mondo è fatto da 100 multinazionali e tra queste c’è chi impone la discussione sulla green economy. Come dire, "chiagnono e fottono"? Io sono contrario”. L’indignazione per il gesto in Parlamento europeo arriva anche da Salvini che ha twittato “Al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournee internazionale!” e Meloni che ha definito “scandaloso” l’accaduto. Per una volta le estremità di destra e sinistra sono tutti d’accordo? “Per definizione non sono mai d’accordo con la Meloni – ha detto – Penso di essere un po’ più titolato di Salvini e Meloni a parlare di Resistenza e partigiani anche perché gli antenati della Meloni durante la Resistenza stavano dall’altra parte“. “Bella Ciao” è una delle canzoni più cantate in tutti i contesti, anche non politici, come è accaduto per la popolare serie di Netflix ‘Casa de papel’ tanto da diventare per molti identificativa della serie tv, tralasciando il suo vero significato (e YouTube ne è testimone). La cantano anche le sardine ogni volta che scendono in piazza e per Rizzo anche questo è un abuso decontestualizzato. “Ormai tutti la cantano – ha detto il segretario comunista – Ma allo stesso modo mi sono incazzato quando ho visto il Che Guevara usato da Casapound. C’è un limite a tutto. ‘Bella Ciao’ la cantano tutti addirittura i padroni dell’Europa. È una roba folle”. Il segretario del partito comunista orgogliosamente ammette di non aver mai indossato una maglietta con il Che stampato su. Perché come ‘Bella Ciao’ “il Che è qualcosa che ti resta nel cuore – ha continuato – è l’idea del grande rivoluzionario. Questa società riesce persino a commercializzare un grande sentimento. È una società che fa schifo”. Rizzo non ci sta a credere che le sardine siano un movimento rivoluzionario. “La rivoluzione significa cambio di sistema – spiega – non mi pare che ci sia né tra le sardine, né tra il popolo viola né tra i 5stelle, né da Podemos né da Syriza una modalità di intercettare il dissenso in queste società contemporanee, nessuna di loro ha messo in discussione il sistema basato sull’economia capitalistica, nessuno parla di economia socialista, di cambio del sistema. Questa è la rotta su cui interpretare quello che accade ed è la differenza tra ribellione e rivoluzione”. Il segretario comunista guarda con sospetto a quel movimento che dice essere nato “guarda caso” a Bologna, dove tra poco ci saranno le amministrative che avranno un riflesso nazionale. Ragionando di partigiani, simboli e Resistenza non può non tornare alla mente Nilde Iotti scomparsa 20 anni fa proprio il 4 dicembre. Marco Rizzo l’ha conosciuta ed è convinto che siano politici come lei ad aver fatto la differenza. Lo afferma con amarezza perché “oggi politici come lei non ce ne sono più – ha detto – È stata una donna che ha partecipato all’emancipazione femminile in Italia, ma tutta la storia delle donne è legata all’idea del riscatto e del cambiamento della società. Qual è il primo posto al mondo in cui le donne hanno votato? L’Unione Sovietica. Dove per prime le donne hanno avuto i diritti di maternità, il primo ministro donna, tutti i mestieri ad alto livello sono stati anche per le donne dall’ingegnere all’astronauta, il diritto all’aborto e al divorzio? Sempre l’Unione Sovietica. Nilde Iotti ha portato tutto questo in Italia con un livello di dignità politica altissimo. Se pensiamo a Nilde Iotti e a cos’è oggi la politica, beh insomma…anche sul versante femminile lo scenario è disarmante”.

La storia di "Bella Ciao", l’inno che nacque dopo la Resistenza. Roberta Caiano su Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Nell’ultimo periodo la famosa canzone “Bella Ciao” è diventata un successo mainstream cantata ovunque. Senza dubbio la sua risonanza tra un pubblico giovanile la si deve alla serie Tv spagnola La casa di Carta, che continua a cavalcare gli schermi arrivando alla sua terza stagione. Andata in onda per la prima volta su Netflix nel 2017, continua ad avere un enorme successo mondiale e con essa la canzone Bella Ciao. Ma in questi ultimi mesi la canzone è stata adottata anche come inno dalle migliaia di giovani sardine che stanno affollando le piazze di moltissime città italiane a protestare contro Matteo Salvini. E’ notizia fresca, invece, quella che riguarda i Commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, i quali dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea, hanno intonato Bella Ciao al Parlamento europeo. Il video è diventato così virale da scatenare polemiche e commenti di indignazione e sconcerto. Oltre a Giorgia Meloni e Salvini, che si sono subito affrettati a chiosare la notizia su twitter, si è espresso in merito anche il segretario generale del Partito Comunista, Marco Rizzo. Il politico ha dichiarato in un’intervista che “la canzone ha rappresentato le istanze di un cambiamento di battaglia in cui sono morte decine di persone, tra cui in maggioranza partigiani comunisti italiani.” La maggior parte delle volte Bella Ciao è considerata la canzone intonata dai partigiani mentre liberavano l’Italia. Tutt’oggi viene usata come inno antiautoritario non soltanto in Italia ma in tante piazze del mondo. In realtà non molti sanno che questa è una leggenda che la tradizione ha tramandato sino ai nostri giorni. Infatti Bella Ciao non esisteva durante la Resistenza e nessuno la cantava, anche se alcuni studiosi sostengono che in alcune zone di Reggio Emilia e del Modenese fosse in realtà già nota. Tra le bande partigiane il canto più diffuso era Fischia il vento, nato nel 1943 dalla cadenza sovietica . Bella Ciao nella versione che conosciamo, debutterà ufficialmente a Praga nel 1947 durante il "Festival mondiale della gioventù democratica" e di lì conoscerà una fortuna sempre maggiore, anche al di là dei confini nazionali. Infatti la sua notorietà internazionale si diffuse alla fine degli anni ’40 e agli inizi degli anni ’50 in occasione dei Festival che oltre a Praga, si tennero anche a Berlino e Vienna dove fu cantata dai delegati italiani e in seguito tradotta in varie altre lingue. Questo canto deve la sua identificazione come simbolo della Resistenza italiana al testo, in quanto connota la canzone esclusivamente come inno contro “l’invasore”.

Bella Ciao, hit non di lotta ma di resistenza. Paolo Delgado il 6 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Le incerte radici della canzone simbolo. La incise Yves Montand, Daffini la cantò al festival dei due mondi di Pesaro: rappresentava la propaganda comunista. Poi i Dc la cantarono a Zaccagnini. Al funerale di Giorgio Bocca, grande firma ed ex partigiano, i dolenti scelsero di salutarlo intonando Bella Ciao. Decisione discutibile, avendo Bocca assicurato che i partigiani non l’avevano mai cantata. Al funerale di Giorgio Bocca, grande firma ed ex partigiano, i dolenti scelsero di salutarlo intonando Bella Ciao. Decisione discutibile, essendo Bocca uno di quelli che avevano assicurato che il canto destinato a diventare una sorta di nuova Internazionale, ritinteggiata in rosa pallido, i partigiani non l’avevano mai cantata. Aveva ragione lui o Cesare Bermani, autore del primo studio sulla canzone- simbolo La vera storia di "Bella Ciao", secondo cui invece qualcuno la cantava, comunque senza grande diffusione. E’ un fatto che i canzonieri della Resistenza usciti quando l’odore della polvere da sparo era ancora acre, nella seconda metà degli anni ‘ 40 e nei primissimi ‘ 50, proprio non la nominano e anche l’ipotesi di Bermani, secondo cui sarebbe stata l’inno della Brigata Maiella, sembra poco probabile: il figlio del fondatore della Brigata, Ettore Troilo, cita in un suo libro le canzoni delle Brigata e dell’ "inno" non c’è traccia. Fonti beninformate giurano che la canzone fu presentata alla rassegna di Praga sulle "Canzoni mondiali per la Gioventù e per la Pace", una delle tipiche iniziative Cominform dell’epoca, e che, complice l’orecchiabilità, il motivo decollò lì. Come in tutti i pezzi folk, rintracciare l’origine è un’impresa. Carlo Pestelli, autore a sua volta di Bella ciao. La canzone della libertà, parla di canzone- gomitolo, nella quale si intrecciano, anche in questo caso come spesso capita nelle canzoni folk, ‘ si intrecciano molti fili di vari colori’. Il gomitolo finale arriva al grande pubblico con l’incisione di Yves Montand, allora stella mondiale francese di origine italiana e comunista. L’anno dopo il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi di Pesaro, intonata da Giovanna Daffini, e fioccano le polemiche sulla propaganda comunista al Festival. I commentatori vicini alla Dc si scompongono ma poco più di 10 anni dopo, quando Benigno Zaccagnini, l’ "onesto Zac", rappresentante eminente dei morotei viene eletto segretario della Dc i delegati salutano il sedicente nuovo corso proprio col già vituperato motivo.

Oggi la cantano dappertutto. A New York, a Occupy Wall Street, e a Hong Kong, In Cile come in Iraq, a Parigi come a Roma e ieri anche sotto la porta di Brandeburgo. Ci mette parecchio di suo la serie Netflix "rivoluzionaria" per eccellenza, La casa di carta. Se la cantano lì, nella fiction più antibanche che sia mai stata trasmessa. Però è difficile credere che Paolo Gentiloni e i rappresentanti del Pse avessero in mente una feroce campagna contro le banche quando, dopo il voto a favore della commissione von der Leyen, hanno dato vita al noto coretto. La fortuna del canto non-partigiano, sostiene qualcuno, si deve proprio all’assenza di tonalità forti. Niente a che vedere con roba come Fischia il vento, che la vernice rossa non gliela si scrostava di dosso nemmeno a provarci per ore. E’ una canzone che poteva andare bene per tutti, fascisti esclusi, e dunque pareva fatta apposta, in Italia, per consentire a quello che si chiamava allora ‘ arco costituzionale’ di festeggiarsi senza troppe tensioni. Ma in fondo come e perché si sia arrivati a questo esempio eminente di ‘ invenzione della tradizione’ conta poco. Meglio chiedersi cosa l’opzione canora transnazionale indica oggi. Bella Ciao, nonostante le apparenze, non è una canzone di lotta. E’ una canzone di resistenza ( con la r minuscola). La può cantare chiunque ritenga di trovarsi alle prese con un potere che opprime, con l’invadenza di una potenza estera, persino con la temuta vittoria elettorale di un partito ritenuto minaccioso. E’ una canzone gentile: la può cantare chi resiste con le bottiglie molotov ma anche chi si affida alla resistenza passiva e persino chi si limita ad assieparsi in una piazza. Se non proprio buona per tutti gli usi, quasi.

Bella Ciao? Sallusti: “Nessun partigiano l’ha mai cantata”. Vaurosenesi.it il 30 aprile 2019. “Bella ciao” canzone di tutti gli italiani? Sallusti: ‘Nessun partigiano l’ha mai cantata’. Per Alessandro Sallusti ‘non c’è traccia di Bella ciao nella Resistenza, introdotta a metà degli anni ‘50 dalla retorica comunista’. A Quarta Repubblica, il talk show condotto da Nicola Porro, in onda tutti i lunedì sera su Rete 4, si discute sul fatto che la canzone Bella Ciao rappresenti o meno tutti gli italiani con Ilaria Bonaccorsi, Vittorio Sgarbi, Alessandro Sallusti, Marco Gervasoni e Vauro. Argomento spinoso e divisivo che, infatti, fa discutere animatamente gli ospiti in studio. La tesi di Porro è che sia diventata una canzone di parte e che, quindi, non è giusto che venga fatta cantare anche a suo figlio a scuola. Di questa stessa idea, ma con sfumature diverse, sono anche il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti e il critico d’arte Vittorio Sgarbi. Dalla parte opposta della barricata, è proprio il caso di dirlo, si sistema la storica e giornalista, Ilaria Bonaccorsi, mentre il vignettista Vauro Senesi sostiene, come gli altri ma da un punto di vista agli antipodi, che non sia la canzone di tutti perché appartiene solo agli italiani antifascisti.

Ma Bella ciao può essere considerata o no la canzone di tutti gli italiani. È questo il tema di discussione introdotto a Quarta Repubblica da Nicola Porro verso la fine della puntata andata in onda lunedì 29 aprile. Secondo la definizione di Wikipedia, Bella Ciao “è un canto popolare, nato prima della Liberazione, diventato poi celeberrimo dopo la Resistenza perché idealmente associato al movimento partigiano”. Dunque, secondo il conduttore, “chi la canta gli dà un contenuto politico, è diventata una canzone di una parte” che non dovrebbe essere fatta cantare nelle scuole. Una tesi contrastata con veemenza da Ilaria Bonaccorsi, secondo la quale, invece, il canto appartiene a tutti gli italiani perché “è una canzone trovatella che racconta di una reazione ad una oppressione, nel caso specifico la reazione a 20 anni di dittatura nazifascista e alla fine di una guerra tragicamente combattuta accanto ad Hitler. Non è la canzone di una parte, ma degli esseri umani”.

L’affondo di Alessandro Sallusti: ‘Comunisti parte minoritaria della Resistenza’. La pensa naturalmente in maniera opposta Alessandro Sallusti, secondo il quale “vi siete accodati alla narrazione che ci fanno da 70 anni di quelle vicende. In realtà Bella ciao non può essere la canzone di tutti, anche perché è una fake news. Nessun partigiano l’ha mai cantata – sostiene il direttore del berlusconiano Il Giornale – Non c’è traccia di Bella ciao nella Resistenza. È stata introdotta a metà degli anni ‘50 dalla retorica comunista proprio per impossessarsi definitivamente di un fenomeno, quello della Resistenza, di cui il Partito Comunista è stato una parte, tra l’altro anche minoritaria, ma ha cercato ed è riuscito, perché ancora 70 anni dopo noi immaginiamo che i partigiani erano tutti e soltanto comunisti e che cantavano Bella ciao. Non è vera né l’una né l’altra cosa”.

Vauro d’accordo con Sgarbi. A questo punto interviene Vittorio Sgarbi, convinto che Bella ciao “è una bella canzone, ma va rispettato che sia di una parte, perché altrimenti essa perde la sua forza di rottura. Non puoi immaginare La Russa, Berlusconi o Sallusti che la canta, perché è offensivo. Il partigiano monarchico Edgardo Sogno mai l’avrebbe cantata. La caratterizzazione di sinistra, per cui immagino Vauro sia contento, va lasciata a Bella ciao, non possiamo farla diventare cosa di tutti. Se Casapound la canterà sarà un delitto”. Opinione con cui concorda anche Vauro. Il vignettista prima premette che “sarà un miracolo di questa trasmissione, ma è già la terza puntata che vado d’accordo con Sgarbi”. Poi però attacca a testa bassa: “Alla domanda se Bella ciao è la canzone di tutti gli italiani, io rispondo un secco e netto no. È la canzone di tutti gli italiani che si riconoscono nella Costituzione della Repubblica italiana, antifascista e nata dalla Resistenza. L’antifascismo è un valore e anche una discriminante”.

Alessandro Sallusti fa a pezzi Vauro a Quarta Repubblica: "Parlate di partigiani e dimenticate le foibe". Libero Quotidiano 30 Aprile 2019.  "Bella ciao è una fake news. Non era la canzone dei partigiani ma è stata introdotta negli anni Cinquanta dalla retorica comunista". Alessandro Sallusti, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, su Rete 4, fa a pezzi il vignettista Vauro Senesi che, invece, insiste sulla necessità di insegnare il fascismo nelle scuole anche se il conduttore sottolinea che i bambini non sanno nulla dell'argomento: "L'istruzione è il primo anticorpo contro il fascismo", tuona il vignettista. Ma il direttore de Il Giornale lo massacra: "In quella scuola si sono dimenticati di insegnare le foibe e la strage di Osoppo e tante altre cose ancora".

O anti-grillino, portami via...La cantilena di Bella Ciao sta risuonando in queste settimane nelle manifestazioni della sinistra. Ma se resistenza deve essere, oggi il nemico non può essere la destra liberale e neppure Salvini che si barcamena come può. Alessandro Sallusti, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Ieri ho partecipato a un dibattito televisivo, ospite di Nicola Porro su Rete4, sul ritorno in auge di Bella Ciao, la canzone che modificata nel testo fu adottata negli anni Cinquanta dal Pci per dare una colonna sonora postuma alla retorica della Resistenza e all'antifascismo perpetuo da utilizzare contro chiunque, da Berlusconi a Salvini, si sia frapposto con successo all'avanzata del comunismo. La cantilena di Bella Ciao sta risuonando in queste settimane nelle manifestazioni della sinistra, ma anche nelle scuole e in un caso addirittura in chiesa, Eugenio Scalfari le ha dedicato un pezzo della sua omelia domenicale su La Repubblica. Un revival sinistro in ogni senso, che come tutti i revival è indice dell'incapacità di guardare al presente e al futuro, un po' come Little Tony che si è fermato a Cuore matto e Bobby Solo a Una lacrima sul viso. Sono fermi lì, quelli del Pd, alla rivoluzione sognata e per fortuna nostra fallita. Ma se proprio vogliamo dare una colonna sonora a questo tempo bisognerebbe che anche la sinistra uscisse dalla «nostalgia canaglia» (peraltro titolo di una fortunata canzone cantata da Al Bano e Romina) e scrivesse un nuovo spartito con parole e musica comprensibili non tanto ai nostri nonni, ma ai nostri figli e nipoti, cosa che però non mi pare Zingaretti e soci siano intenzionati o capaci di fare. Proporsi, tra accelerazioni e frenate (ieri quella dell'ex ministro Delrio) come possibili stampelle dei Cinque Stelle nel caso di una rottura tra Di Maio e Salvini, più che un programma politico è una mossa della disperazione nella quale era già caduto Bersani sei anni fa all'indomani della sconfitta, o «non vittoria» come la chiamò lui, alle Politiche del 2013. Se resistenza deve essere, oggi il nemico non può essere la destra liberale (quella radicale e intollerante è talmente al lumicino che bastano polizia e carabinieri) e neppure Salvini che si barcamena come può stante la situazione. L'inutile «fascismo-antifascismo» andrebbe sostituito con il più utile «grillismo-antigrillismo» perché nell'opaco movimento di Di Maio e nei suoi agganci con i servizi segreti italiani e stranieri sta il vero pericolo per la democrazia, proprio come ai tempi di Bella ciao, ballata pensata da chi ci voleva portare al fianco di Stalin.

Red Ronnie a Stasera Italia contro le Sardine e Bella Ciao: "L'invasore chi è, Matteo Salvini o l'Europa?" Libero Quotidiano l'8 Dicembre 2019. Parole che strappano un sorriso a Matteo Salvini. Parole di Red Ronnie a Stasera Italia, il programma di Rete 4, rilanciate sui social proprio dal leader della Lega, di fatto difeso a spada tratta dal cantante. Barbara Palombelli chiede a Red Ronnie: "Ma che tipo è Salvini secondo te?". Lui risponde: "È un istintivo, uno che si dice che raggiunga la pancia perché parla con la pancia. Raramente legge dei discorsi, diffido da chi lo fa". Dunque, Red Ronnie prosegue: "All'inizio del servizio avete fatto sentire la canzone C'è chi dice no di Vasco Rossi, in un servizio in cui elencavate tutti i nemici del leghista. Io ho il disco, e devo mettere un pezzo della canzone: continuano a giudicarlo per il Papeete, perché era a torso nudo, perché beveva il mojito. È un po' come quello che Vasco diceva di se stesso. Gli dicevano: guardate l'animale, è un animale? E Salvini oggi è un po' quell'animale che tutti dicono", afferma. Ma non è finita, perché poi nel mirino di Red Ronnie ci finisce Bella Ciao, tornata in auge nelle piazze delle sardine: "Visto che parliamo di canzoni, vorrei parlare di Bella Ciao. È una canzone che va bene nella Casa di Carta ormai. Ma cantare Bella Ciao, quando si dice: mi sveglio la mattina, è arrivato un invasore. Ma l'invasore chi è? Salvini o qualcuno dell'Europa che ci sta invadendo e ci sta comprando? Io sono un anarchico, però vedo che ci sono molte cose che non stanno andando in questo mondo, c'è qualcuno che non sa più che ore sono", conclude. Intervento, come detto, rilanciato sui social da Salvini col commento: "Fortissimo Red Ronnie, parole di buonsenso!".

·         Spettacolo: "La droga è ovunque ma vince l’ipocrisia".

Giampiero Mughini, la verità scandalosa sulla droga nello spettacolo: "Cosa succede davvero nelle feste vip". Libero Quotidiano il 3 Maggio 2019. Giampiero Mughini torna a parlare del fenomeno droga alle pagine del Quotidiano Nazione e per farlo riparte dalle dichiarazioni su Desirèe Mariottini, la 16 enne violentata e uccisa in una borgata romana di cui disse che non avrebbe potuto non fare quella fine dato il "reame di droga" in cui viveva. Riguardo al modo in cui quelle dichiarazioni furono lapidate Mughini piuttosto che tornare indietro incalza e dichiara "si trattava di una povera ragazza che aveva dalla sua solo la giovinezza e finì preda del primo delinquente" ma questa volta va più a fondo e, al fatto di cronaca, affianca una riflessione su una piaga sempre più grave a cui non viene dedicato spazio: "È un argomento su cui la coltre dell’ipocrisia è molto spessa", e aggiunge "si fa finta che questi consumatori non ci siano". Parlando di come il fenomeno sia dilagante in Italia e di quanto oramai sia sdoganato l'uso di cocaina e canne nelle feste dei vip Mughini dichiara: "Nel mondo dello spettacolo sono più quelli che si fanno di quelli che non si fanno". Quanto alla possibile realizzazione di una campagna anti-droga (in Italia manca da 8 anni) il giornalista ironizza sul fatto che non gli viene in mente nessun possibile testimonial anti-droga tra i famosi e aggiunge: "Qui ci troviamo di fronte a una piaga particolare, perché i tossicodipendenti da quelle sostanza fanno dipendere la loro vita. In questo senso, diciamo la verità, gli spot non servono a nulla".

"La droga è ovunque ma vince l’ipocrisia". Mughini e il muro del silenzio. "Fenomeno interclassista. Nello spettacolo dilaga". Marcella Cocchi il 3 maggio 2019 Quotidiano.net. Giampiero Mughini sfiorò il tabù quando di Desirée Mariottini, la 16 enne violentata e uccisa in una borgata romana, disse che non avrebbe potuto non fare quella fine dato il "reame di droga" in cui viveva. Ma ancora oggi "a me pare di aver detto una ovvietà assoluta", si infervora lo scrittore. Solo che ci sono argomenti che a toccarli resta scottata l’intera società.

Mughini, lei chiamò in causa l’ambiente e fu ‘lapidato’, sommerso di critiche. Perché? 

"Ma sa, gli analfabeti sono talmente numerosi... il reame di droga è una cosa che esiste e ha leggi proprie. Nel caso specifico, si trattava di una povera ragazza che aveva dalla sua solo la giovinezza e finì preda del primo delinquente".

L’impressione è che lei abbia detto qualcosa che non si vuole sentir dire. La droga è un tabù?

"Sì, è un argomento su cui la coltre dell’ipocrisia è molto spessa. Perché parlarne vorrebbe dire accettarne la complessità e la non risolvibilità. E allora si finisce sempre lì: proibizionismo o antiproibizionismo? Invece l’argomento è molto più delicato". 

Perché si parla di spaccio e non del fatto che ci sono 8 milioni di italiani che fanno uso di droga? 

"Giusto, questo è il punto. Si fa finta che questi consumatori non ci siano e possano essere redenti, ma non so da chi".

Oltre all’aumento di casi tra i giovani, l’inchiesta del Qn ha mostrato che sempre di più è diffusa tra professionisti di ambienti tutt’altro che degradati. 

"Infatti il reame della droga è interclassista". 

Lo sa che l’ultima campagna anti droga risale a 8 anni fa? Pochi grandi nomi si sono spesi per la causa.

"Qui ci troviamo di fronte a una piaga particolare, perché i tossicodipendenti da quelle sostanza fanno dipendere la loro vita. In questo senso, diciamo la verità, gli spot non servono a nulla".

Come si può pensare che se ne parli se alle feste vip è diffusa la cocaina e le canne sono sdoganate? 

"È molto difficile. La normativa intellettuale corrente è poco attrezzata a parlarne. Penso che nel mondo dello spettacolo siano più quelli che ‘fanno’ di quelli che non fanno. Dappertutto sono violate le norme dei nostri nonni, perché la modernità si è portata appresso una tensione che è insopportabile. I patrimoni intellettuali che guidarono le generazioni non ci sono più e un ragazzo si trova da solo con l’interrogativo: consumo la quinta birra o no?".

C’è un certo giustificazionismo?

"Io penso che bisogna capire perché questo accade. Rimproverare quelli che lo fanno non serve a niente. Ecco, 5 anni fa io per esempio entrai in depressione e conobbi la dipendenza da antidepressivo: solo in quel caso posso dire di aver colto cosa può essere il morso della droga: l’uso di quella pillola era la maniglia cui mi aggrappavo per sopravvivere. E poi, le anfetamine sono una droga? Ne faceva uso Sartre, per esempio". 

Appunto, Baudelaire, la droga e i letterati, gli intellettuali. Il tormento di Serge Gainsbourg... C’è questo alone affascinante che circonda le droghe…

"Ma si può distinguere nell’arte di Gainsbourg quello che prendeva in più da quello che prendeva in meno? Non so dire se è affascinante, fatto sta che a 60 anni lui era un rudere". 

Perfino i Beatles giocavano con le parole con ‘Lucky in the sky with diamonds’, Lsd. 

"Guardi, senza la droga non ci sarebbe stato il rock". 

Poi adesso c’è il trap.

"Sì, io però non ne so nulla". 

Lei frequenta salotti, ambienti sia vip sia intellettuali, mi può dire se si parla di droga?

"Io? Ma che, scherza? Nessuno di questo ambiente ne accenna". 

E in passato com’era invece, nel ‘68 per esempio? 

"Secondo me l’offensiva della droga è venuta dopo, con il ‘77, con l’ambiente del Dams di Bologna di allora. Pazienza veniva da lì. Prima eravamo permeati dai sistemi ideali. In questo caso le cazzate inaudite in cui credevamo servivano da corazza. Per brodo di coltura della droga bisogna comunque intendere qualcosa che riguardi l’essere nel suo insieme, la sua fragilità, da dove si viene, il modo in cui l’uomo si situa nelle giornate del moderno, dove ci sono stress, disperazione, solitudine, impotenza di vari tipi". 

Le viene in mente un testimonial ideale anti-droga?

"No... lo potrei fare io". 

·         I Selficienti. I Selfi della Gleba: Gli Egomostri.

Selfie generation, chi sono gli egomostri che esibiscono se stessi. Diego Fusaro, Filosofo, il 26 luglio 2017 su Il Fatto Quotidiano.  Gravida di narcisismo autistico, la “selfie generation” genera egomostri. Ne genera ogni giorno, senza posa e sempre in posa. È questa la fisionomia della selfie generation virtualizzata e omologata, connessa alla rete e sconnessa dalla realtà. Se, ancora in tempi non remoti, la pratica dell’autoscatto era indice di solitudine, oggi essa diventa la norma: permette al singolo io dal legame sociale spezzato di esibire se stesso, con ebete ottusità, nel quadro dell’egosistema delle monadi sradicate, narcisiste e rigorosamente senza finestre. Investendo soprattutto i cosiddetti “nativi digitali” , le reti sociali favoriscono quella liquidità generale che informa di sé ogni rapporto, da quello amicale a quello amoroso. E, insieme, realizzano al grado iperbolico quell’autoreferenzialità egotica e quella connettività virtuale che trovano la propria realizzazione massima nel gesto del selfie condiviso compulsivamente dagli eremiti di massa sulle reti sociali. È l’apoteosi dell’individuo ridotto realmente a scarto del sistema, a pedina eterodiretta, a mero strumento svalorizzato della valorizzazione del valore e, insieme, atto virtualmente a celebrare il culto narcisistico di sé mediante l’esposizione mediatica e digitale permanente con la batteria dei selfie, dei blogs, delle esternazioni egocentrate nel mare infinito – e infinitamente dispersivo – del world wide web. Le reti sociali delle solitudini connesse nel web e disconnesse dalla realtà assumono esse stesse la funzione di specchio che riflette su scala planetaria l’immagine alienata e il profilo del consumatore solitario e cosmopolita, digitalizzato efashion addicted. Ogni giorno più schiavo, ogni giorno più convinto di essere libero. Eccoli, i postmoderni e gaudenti selfie della gleba.

E' nato prima il selfie o la gallina? Ogni anno si scattano tra i 120 milioni e i 300 milioni di selfie. Numeri che non rappresentano più un trend, ma di un fenomeno che fa parte della nostra vita. Ugo Barbàra il 17 luglio 2019 su Agi. E’ nato prima il selfie o la fotocamera frontale? Una domanda che può sembrare peregrina a quanti ricordano ancora quanto fu rivoluzionaria l’introduzione di un obiettivo in un cellulare. Allora non si chiamavano ancora smartphone, perché oltre a telefonare e, per l’appunto, fare fotografie, non andavano al di là delle funzioni base. Per questo è ragionevole pesare che il selfie abbia acquisito senso grazie al 4G, quando i social network sono arrivati su quelli che nessuno chiamava più telefonini e che all’improvviso erano in grado non solo di scattare foto, ma anche di registrare video, riprodurre una quantità pressoché illimitata di musica e navigare sul web più velocemente del pc di casa. Come spesso capita per le innovazioni tecnologiche, anche la fotocamera frontale ha seguito una strada che non era quella che era stata tracciata per lei. Pensata per le video chiamate (FaceTime e Skype su tutti) ha finito per servire un’esigenza diversa da quella della comunicazione one-to-one. Da strumento per un flusso video tra conoscenti è stata trasformata in un’arma di narcisismo di massa. Colpa di chi? Ma nostra, naturalmente, perché il primo ingegnere a metterci una fotocamera davanti al naso lo aveva fatto perché potessimo vedere la mamma lontana, non per farci ammirare dai follower mentre mettiamo la bocca a culo di gallina. “Il selfie è il figlio di una tecnologia volta ad accelerare il nostro ego” dice Daniela Idi, responsabile marketing di Asus Mobile in Europa, “anche se le sue origini sono molto antiche e risalgono al 1839 quando Robert Cornelius, un chimico che aveva la passione per la fotografia, mise la macchina davanti a sé e scattò. Il primo vero selfie, tuttavia, è del 1920, quando 5 fotografi a New York presero in mano la macchina fotografica: era la prima volta che passava l’idea che fosse possibile fotografarsi tenendo il device in mano”. Secondo Idi l’accostamento tra autoritratto e selfie fatto in una delle tracce dello scritto di maturità 2019 è inesatto. “C’è una differenza tra l’autoritratto, che è volto a cogliere lo stato d’animo e interpretarlo, e il selfie, che è una mera riproduzione del sé e del momento”. Oggi che il selfie non è più un trend, ma un compagno di quotidianità, i big della tecnologia fanno a gara a fornire strumenti che non solo assecondino, ma stimolino la tendenza. Così la fotocamera frontale non basta più: serve qualcosa che solletichi l’ego e la strizzatina d’occhio meccanica arriva con la fotocamera pop-up e quella flip che mettono a disposizione della vanità obiettivi luminosi e potenti come quelli della fotocamera posteriore. Un giochino per narcisi, dite? Può darsi, ma che ha numeri da paura. “Il trend dei selfie è in crescita del 17.000% anno su anno” dice Daniela Idi, “Tendiamo sempre di più a far vedere noi stessi e il nostro ego che a osservare la realtà. Si scattano tra i 120 milioni e i 300 milioni di selfie l’anno: numeri che non sono più un trend ma di un fenomeno che fa parte della nostra vita, sono un fenomeno sociale che rende l’Io più aperto alle relazioni con le persone, anche se con l’utilizzo dei software di correzione dell’immagine che la rendono ingannevole”.

“Abbiamo realizzato diverse ricerche sul consumatore, siamo andati ad analizzare le esigenze in Asia e in Europa (Svezia, Italia e Francia) non per esaminare l’uso che si fa dello smartphone, ma le aspettative. Abbiamo selezionato dei power user e che potessero dirci esattamente cosa si aspettavano e quello che è venuto fuori è la richiesta di uno smartphone con prestazioni importanti, soprattutto sul fronte dei selfie”. Con un’esperienza lontana dalla tecnologia e cresciuta nel mondo del lusso in cui i codici di comunicazione e di creazione di valore di prodotto sono diversi, Idi si è trovata a gestire il lancio dell’Asus Zenfone 6, uno smartphone che ha fatto della flip camera da 48 megapixel il punto di forza. Una novità rispetto alla  soluzione già adottata, ad esempio, da Oppo per il suo Reno e da OnePlus per il 7 (in entrambi i casi pop-up camera, ossia fotocamere a scomparsa ma con ottica alternativa a quella principale) ma la conferma di un trend, anche se in molti sono convinti che si tratti di una tecnologia transitoria in quanto non permette di avere la certificazione IP68 (quella che garantisce una certa impermeabilità e resistenza alla polvere dei device. “Siamo partiti dalle esigenze del nostro consumatore e dagli elementi che avrebbe ricercato “ dice Idi, “e l’innovazione ha portato al fold e alla telecamera che scompare. Per noi la flip camera è un modo per tornare a quella innovazione che è nel nostro Dna e proporre qualcosa di diverso, senza fare compromessi con la qualità”. E’ nato così lo Zenfone 6, uno smartphone di fascia media (va a un prezzo di partenza di 499 euro) che monta il processore Snapdragon 855 di Qualcomm e una batteria di 5.000 mAh. “Vedremo nei prossimi mesi che successo avrà il pop up” dice Idi, “siamo convinti che sarà ancora lungo, pur sapendo che l’industria in cui lavoriamo è particolarmente veloce. E’ un trend di diversificazione e credo che verrà cavalcato da altri”. E tra gli altri, l’ultimo ad arrivare in termini di tempo, c’è Samsung, che ha lanciato il primo smartphone con una tripla fotocamera rotante. “Galaxy A80 è stato realizzato per l’era del Live in un mondo in cui i nativi digitali scattano foto, condividono e si connettono in tempo reale”, ha commentato DJ Koh, Presidente e CEO della Divisione IT & Mobile Communications di Samsung. A80 utilizza le stesse lenti frontali e posteriori ad alta risoluzione:  48MP per la fotocamera principale, obiettivo Ultra-grandangolare, con un campo visivo di 123 gradi e fotocamera di profondità 3D TOF.

Gli ultimi dati sui selfie mortali nel mondo. L'Eurispes ha elaborato i numeri dell'India Institute of Medical Sciences di Nuova Delhi. Gabriele Fazio il 21 maggio 2019 su Agi. Sta facendo molto discutere il rapporto Eurispes 2019 che svela i dati circa le morti a causa dei selfie: 259 per l’esattezza, nel mondo, tra l'ottobre 2011 e novembre 2017, una quantità enorme portata a galla, così come scrive La Repubblica, da uno studio dell'India Institute of Medical Sciences di Nuova Delhi. “La fascia d'età con la più alta incidenza è quella compresa tra i 20 e i 29 anni con 106 vittime, seguita dai più giovani 10-19enni (76 vittime). Queste due fasce d'età rappresentano il 70,3% del totale dei morti a causa di un selfie. Altre 20 vittime si contano nella fascia tra i 30 e i 39 anni, 2 tra i 50 e i 59 anni e 3 persone tra i 60 e i 69 anni. Delle 259 vittime, 153 sono uomini, 106 sono donne”. La causa principale di queste morti, sono nella maggior parte dei casi, incidenti; nello specifico l’84% sono stati causati da manovre ad alto rischio e riguardano per lo più giovani tra i 10 e i 29 anni: 70 persone sono morte per annegamento, 51 sono rimaste vittime di incidenti con mezzi di trasporto, gli ultimi due, in Italia, solo due giorni fa, si chiamavano Luigi Visconti e Fausto Dal Moro, che postano su Facebook un video della loro folle corsa in autostrada oltre i 200 Km/h poco prima che la Bmw sopra la quale correvano sbandasse e si schiantasse uccidendoli. Sono invece 48 le persone morte scattando un selfie mentre si trovavano in caduta libera da un’alta quota, lo stesso numero di persone che invece durante l’autoscatto sono finite in fiamme, 16 fulminate da scariche elettriche. Per quanto riguarda le ar mi da fuoco sono 11 le persone decedute mentre armeggiavano pistole o fucili; 8 invece gli attacchi mortali subiti da animali selvatici con i quali, magari, si voleva solo scattare una foto ricordo; letale, purtroppo. In generale, comunque, sono i treni la prima causa di morte da selfie con un mezzo di trasporto, irresistibile per qualcuno, a quanto pare, l’idea di un autoscatto sui binari pochi istanti prima del passaggio, gioco evidentemente sconsigliabile. Come scrive Il Fatto Quotidiano “Tutti rischi, questi, alimentati da alcune tendenze dei social network. Digitando su Instagram l’hashtag #extremeselfie spuntano più di 11.500 post di persone che si sono scattate foto in luoghi e condizioni a dir poco pericolose. In bilico su una roccia precaria in cima a uno strapiombo, aggrappati ai tiranti di un ponte sospeso, oppure in equilibro sul parapetto del terrazzo di un grattacielo. Ma c’è anche di peggio, come chi cavalca un’auto in corsa come fosse una tavola da surf: il numero di like è correlato al grado di pericolosità”. È evidente dunque che non si tratta di un problema legato a pochi utenti che amano un rischio che poi pagano a caro prezzo, ma si tratta di un qualcosa di più dilagante, qualcosa società virtuale non solo apprezza, ma in qualche modo premia; ed è questo probabilmente il pericolo più grande.

AIUTO, ARRIVANO I SELFI-CENTI. Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 16 luglio 2019. Alla ricerca dello scatto perfetto da postare sui social, si aggirano per i quartieri delle nostre città ma anche su isole e zone protette: sono gli instagrammer e per qualcuno stanno diventando un problema. Residenti, turisti tradizionali e proprietari di attività ricettive stanno iniziando a ribellarsi alla dittatura dell'hashtag e dei cuoricini. Così a Parigi gli abitanti di Rue Crémieux, una via pedonale nel pieno centro della Capitale, hanno denunciato alla municipalità parigina la loro difficoltà: in poche settimane oltre 36 mila aspiranti influencer hanno invaso gli appena 144 metri di strada acciottolata dove vivono e, con essa, la loro privacy. Scorrerie che l'associazione dei residenti da un lato ha proposto di combattere installando cancelli che impediscano l'accesso nei momenti di punta (albe, tramonti e weekend), dall'altro facendo proprie le armi dei nemici e documentando il tutto attraverso un profilo Instagram. L'account Clubcrémieux raccoglie e posta foto di instagrammer che assumono pose ridicole o comportamenti inappropriati nella suddetta stradina. Proprio quello del poco rispetto dei luoghi visitati e della loro storia è un altro dei rimproveri fatti ai turisti 3.0. Dopo la messa in onda della serie tv Chernobyl, in molti si sono recati sul luogo del disastro segnando il proprio passaggio con foto su Instagram dai toni irriverenti. E lo stesso vale per Auschwitz i cui binari sono diventati terra di conquista degli influencer, o per il muro di Berlino, dove i graffiti un tempo simbolo delle libertà riacquistate, oggi fanno solamente da sfondo agli utenti dei social. Il tutto solo per ottenere qualche follower in più. Il numero di seguaci infatti, almeno per qualcuno, ormai vale più del denaro. Non è un caso se un resort nelle Filippine gestito da proprietari italiani sull'isola di Siargao, qualche mese fa ha gentilmente chiesto agli influencer di «andare a lavorare». Con un post su Facebook la proprietà ha raccontato come ogni giorno arrivino decine di proposte tutte uguali: ospitateci gratis e noi vi paghiamo in visibilità. Un compenso alternativo non apprezzato neppure da Joe Nicchi, un gelataio di Los Angeles che si muove per la città a bordo di un camioncino vintage e fa impazzire gli utenti di Instagram. Nicchi ha esposto un cartello che la scorsa settimana lo ha reso famoso in tutto il mondo: «Qui gli influencer pagano il doppio». Non è detto però che il messaggio arrivi. Non lo hanno fatto ad esempio le decine di segnali posti accanto alle acque turchesi del laghetto russo di Novosibirsk, nel nord del Paese, già soprannominato le Maldive siberiane. Come denunciato dalla Cnn lo specchio d'acqua è meta di pellegrinaggio da parte degli instagrammer russi che, tavola da surf alla mano, navigano fino al centro del lago per scattare la foto perfetta. Ciò di cui non tengono conto è che il laghetto artificiale è tossico e che il colore turchese delle acque è dato dalle ceneri scaricate dalla vicina centrale a carbone. Al di là di rischi, la realtà è che il turismo instagrammabile sta cambiando il destino di molti luoghi. La cittadina statunitense di Page, ottomila abitanti ai margini del deserto dell'Arizona, fino a qualche anno fa era nota solo per essere uno degli ultimi centri in cui sopravviveva la cultura dei Navajo. Gli indiani della zona, che da sempre hanno fatto dei canyon del deserto un luogo di spiritualità e devozione, ora sono costretti a condividerli con i 4 milioni di visitatori che arrivano ogni anno. I turisti accorrono in massa tutti nella stessa stagione (tarda primavera e inizio autunno) e tutti nello stesso momento (tra le 11.30 e le 12.15) per scattare foto tutte identiche alla luce del sole che illumina le fessure dei canyon. Una rincorsa alla bellezza in replica che ha stravolto la vita della comunità di Page che, in un estremo tentativo insieme alla celebre azienda di cosmetici Glossier, ha provato a fermare in due modi: costruendo una versione finta del canyon nella boutique di Los Angeles pensata appositamente per scattare foto; e soprattutto sottolineando sempre agli instagrammer che chiedono informazioni per raggiungere i canyon, come da quelle parti non ci siano né rete telefonica né connessioni. Questo sembra essere l'unico inconveniente che li scoraggia davvero.

Alexandra Genova per “Time” il 18 agosto 2019.  Le piramidi d’Egitto sono una delle sette meraviglie ma i turisti le visitano per immortalare le vere stelle dello spettacolo: se stessi. Negli ultimi dieci anni la fotografia turistica è diventata un progetto di vanità: invece di documentare siti fantastici, le foto della vacanza servono come strumento di marketing per corroborare la narrativa della "vita ideale". Sono un’altra opportunità per esercitare l’inaddomesticabile ego moderno, secondo Julien Lombardi, l’artista francese che ha realizzato il progetto "Ego Tour". Pensava che l’infrastruttura di folla e turisti togliesse bellezza ai luoghi, ora invece è convinto che sia parte integrante dell’esperienza. Anche quando puoi quasi toccare i monumenti, la sensazione è che siano inaccessibili, in mezzo ci sono persone, oggetti, cammelli, venditori ambulanti. La santuarizzazione è tale che questi monumenti sono eretti a simbolo, diventati quasi virtuali. L’idea delle piramidi è indipendente dal luogo reale e la rappresentazione è diventata più significativa della realtà. Lombardi ha raccolto immagini e prodotto video, installazioni e stampe su seta, mettendo in discussione la realtà dei posti che sembravano ‘un fake autentico’, come diceva Umberto eco, o iper-realtà, come diceva Jean Baudrillard. Secondo Lombardi la cartolina non funziona più, i turisti non sono più passanti passivi. Le foto della vacanza sono prove visuali, proprio come gli esploratori che posano accanto ad una carcassa di leone. Grazie ai social media, la carcassa di leone è diventata familiare, al punto che non viene vista, è ridotta ad un’idea quasi virtuale. Le pose sono una sorta di linguaggio universale assimilato che riflette il desiderio di interagire con i luoghi in maniera fisica. Le piramidi sono ridotte a simbolo, a sfondo per una performance. I siti si sono trasformati in un fondale di gioco per i social media. Le macchine fotografiche ora cercano il proprietario e non il resto del mondo. La democratizzazione della fotografia può però avere conseguenze pericolose, contribuendo ad esempio alla scomparsa della realtà. In un mondo dove le immagini significano più di ciò che ritraggono, la nostra memoria diventa visuale, meno tangibile, e la nostra relazione organica con il mondo decade lentamente. Confidiamo in alcuni dispositivi per conoscere il mondo che ci circonda, ma sono proprio quelli che ci separano dalla realtà. Presto saranno solo gli algoritmi a dare senso alle immagini. Al mondo rischiamo di diventar estranei.

·         Siamo circondati da Influencer.

Paolo Landi. Ha lavorato per Vittorio Gassman, i Benetton e gli Agnelli. «La sera impennata di like per foto di crepuscoli: prefigura il declino». «Spiego il tramonto di Instagram alla regina ChiaraFerragni». Pubblicato mercoledì, 27 novembre 2019 da Stefano Lorenzetto su Corriere.it. Corregge lo Zingarelli, tanto per cominciare: «Si pronuncia ìnfluencer, con l’accento sulla “i”, e non sulla prima “e”, come facciamo noi italiani pensando all’influenza e procurando risolini agli inglesi». Puntiglio giustificato: Paolo Landi ha avuto per professoressa Adele Corradi, l’unica donna che insegnò l’italiano ai ragazzi della scuola di Barbiana. «Sono nato nel Mugello. In prima media conobbi don Lorenzo Milani, mentre dipingeva san Francesco su una vetrata. Mi allungò il pennello: “To’, disegnagli i coglioni... Scusa, volevo dire i cordoni del saio”». Landi è un advisor di comunicazione. Ha cominciato curando l’ufficio stampa di Vittorio Gassman e del regista Luca Ronconi. Mentre lavorava per lo stilista Enrico Coveri, fu scoperto da Oliviero Toscani, che lo portò alla Benetton, dove rimase per 20 anni. È stato responsabile sviluppo corporate alla Pinacoteca Agnelli del Lingotto. Oggi si occupa di Ovs, Upim, Coin, Bologna fiere e altre aziende. Ha appena scritto un saggio dedicato idealmente a Chiara Ferragni, la regina degli influencer.

La nave di Teseo lo manderà in libreria il 28 novembre con il titolo Instagram al tramonto, reso ancora più intrigante da un mosaico di crepuscoli in copertina, rubati dallo smartphone di Toscani.

«Lo sapeva che questo social ha un’impennata di “mi piace” verso sera perché tutti postano foto di paesaggi al calar del sole?».

Sbaglio o il titolo è anfibologico?

«Non sbaglia. Gioca sull’ambiguità: il fenomeno di massa vespertino potrebbe prefigurare il declino di Instagram».

Con oltre 1 miliardo di utenti attivi?

«Credo che Second Life ne conti suppergiù 600.000. Eppure 15 anni fa era una potenza. Oggi chi parla più di avatar? Un social cinese di clip musicali, Tik Tok, sta seriamente insidiando Instagram e anche Facebook arranca».

Ma a che serve Instagram?

«Ad avere un contatto immediato con il mondo. In realtà è una trappola formidabile per l’ego. Ci fa credere che sia importante ogni istante della nostra vita, incluso mangiare un sushi, del quale infatti postiamo la foto al volo».

Perché gli uomini di oggi sono narcisi mentre i nostri genitori non lo erano?

«Perché siamo condannati alla solitudine dalla tecnologia. Starsene chiusi in camera è una condizione ormai elevata a sistema di vita. L’interazione degli individui sui social è paragonabile a un vizio solitario, al consumo di una droga leggera che non intacca l’ordine conformista. I nostri padri avevano la comunità, oggi c’è solo la web community. Crediamo di usare Instagram, invece veniamo usati».

In che modo?

«Per esempio, ci fa pagare le sponsorizzazioni. In questo momento io ho 2.121 follower. Se volessi essere seguito da più persone, le potrei comprare. Ricevo ogni giorno offerte in tal senso: 5,98 euro per 200 follower; 7,55 per 500; 9,98 per 1.000; 29,90 per 5.000».Lei scrive che è «un grande moltiplicatore di felicità».

Si guardi attorno: io vedo rancore, rabbia, sguaiataggine.

«Felicità fittizia. Il pascolo degli hater, gli odiatori professionali, è Twitter, che a me fa paura. Instagram è più borghese».Dove trova il tempo per frequentarlo?«Eeeh...».

(Smorfia di rassegnazione).

«Prima in treno tenevo fra le mani un libro, ora lo smartphone o il tablet. Avverto sempre un senso di colpa mentre uso Instagram. Sto meditando di uscirne».Alleluia!«Parliamoci chiaro: alla fine stufa. All’inizio, quando vedi che la gente ti segue, è adrenalinico, fa scattare lo snobismo. Dopo un po’ subentra la noia».

Se avessi un posto di responsabilità come il suo, assumerei solo candidati che non figurino in queste vetrine.

«Dissento. È una modalità di comunicazione con cui dobbiamo confrontarci. Non va demonizzata. Però mi piacerebbe che le persone andassero oltre, capissero che cosa stanno consumando».

Vasto programma.

«Quale sarà l’élite del futuro? In passato era selezionata dal digital divide, il divario tra chi è in grado di utilizzare gli strumenti digitali e chi non lo è. Ma oggi la tecnologia è talmente facile che tutti la sanno usare. Allora chi sceglierà la classe dirigente che decide i destini altrui?».

Poniamo che su Instagram si potessero pubblicare solo volti, mai corpi. Pensa che avrebbe lo stesso successo?

«Mi chiede se è fatto per i guardoni? Sicuramente. C’è voyerismo nel fotografarsi quasi nudi e feticismo nel postare persino le istantanee dei piedi. Ma di sesso su Instagram si parla solo sottotraccia, c’è persino una policy che vieta di mostrare il seno nudo. Semmai considero vagamente pornografica la nevrosi di passare da un profilo all’altro, l’avidità compulsiva che ti costringe a scorrere incessantemente i mosaici delle foto e a distaccarti dalla realtà per cercare emozioni visive sempre nuove».

Che mestiere è quello dell’influencer?

«Interessante. Anticipa un futuro in cui il lavoro, almeno quello del terziario avanzato che conosciamo oggi, sparirà. L’influencer è un tizio totalmente occupato e nello stesso tempo totalmente ozioso. Che cosa fa Chiara Ferragni?».

Stavo per chiederglielo.

«Lavora mentre viaggia in prima classe, mentre prova un vestito griffato, mentre degusta uno champagne. La pagano per essere sé stessa, al contrario delle modelle che hanno un contratto. Oggi le case di moda, le compagnie aeree, gli hotel di lusso, i ristoranti, i brand della gioielleria sono disposti a pagare da 5.000 a 50.000 euro per un post in cui un influencer indossa un capo, si fotografa nel letto di una camera d’albergo o davanti a un piatto, sfoggia un orologio, taggando i relativi marchi».

Ha conquistato 17,7 milioni di seguaci. Donald Trump è fermo a 15,3.

«È in gamba. Ha capito le potenzialità di Instagram, diventando imprenditrice digitale. Niente, comunque, a confronto con Kim Kardashian, più celebrity che influencer seguita da 151 milioni di persone, che guadagna cifre iperboliche».

Ma chi la paga avrà un ritorno?

«Qui subentra, soprattutto in Italia, il senso d’inferiorità delle imprese nei confronti della tecnologia. Spesso i direttori marketing, per non apparire superati, si fanno prendere per il naso da ragazzotti che s’improvvisano influencer».

Siamo sicuri che nell’abbigliamento detti legge Instagram anziché «Vogue»?

«Io dico che la moda morirà, se non la smette d’inseguire i social. “Vogue” ha molta più autorevolezza nel decidere lo stile. Ma i designer si sono prostrati ai piedi degli influencer».

Da 40 anni pianifica la pubblicità sui giornali. Perché continua a farlo, anziché buttarsi sui social?

«Ho dovuto aggiungere anche quelli e i siti. Però al fatto che Instagram dia impulso alle vendite non ci credo».

Nel 2006 tolse la tv ai suoi figli di 11, 9 e 6 anni per salvarli dai troppi spot. Oggi come si regolerebbe con Instagram?

«Allora il televisore era un mobile in salotto, potevi controllarlo. Ora sarebbe difficile privarli del telefonino. Resta valido l’insegnamento di don Milani: “Un bambino che si occupa di cose più grandi di lui è sempre un imbecille”. Ho nostalgia della Rai in bianco e nero, di Giovanna la nonna del Corsaro nero e dei Racconti del faro con Fosco Giachetti».

Lei scrive che «si sfugge al kitsch di Instagram solo uscendo da Instagram». Sbaglia: si sfugge non entrandoci.

«Che sia un grande laboratorio del cattivo gusto, è fuori discussione. Penso alla Gioconda sulle tazze da caffè. Penso alla copertina di un libro Adelphi, l’epitome dell’eleganza, che postata su Instagram diventa triviale. Però, se ci riflette bene, i social li ha inventati il cervello umano. Da che cosa fuggivamo quando ci siamo accorti che tutto quello che avevamo non era più sufficiente? Perché la stampa, il cinema, la tv, la radio non ci bastano più? Perché le nostre sinapsi sono andate in cerca di connessioni globali, virtuali?».

Lo chiede a me? L’esperto è lei.

«Non ho la risposta».

Nel suo libro ci sono otto screenshot del suo amico Oliviero Toscani.

«Collage delle immagini di Instagram ottenuti pigiando due tasti dell’iPhone. Oggi che non serve più la tecnica, perché tutti fotografano, sarebbe tempo di pensare alla qualità. Ma nessuno lo fa».

Due sono su Gesù e sul Dalai Lama.

«Cristo ha solo 41.000 follower in Instagram, benché con il bollino blu che lo identifica come “personaggio pubblico”. Papa Francesco si sforza di avvicinarsi al gergo giovanile, ha persino definito la Madonna “influencer di Dio”, ma non si rende conto che i social segnano l’emancipazione degli uomini dalla religione. Il mondo non è più considerato una creazione divina. Il Dalai Lama affascina signore snob e ragazzi alternativi che il cattolicesimo non riesce ad agganciare. La litania “Nam Myoho Renge Kyo” appare più cool della recita del rosario».

I profili di Gesù su Instagram sono quasi tutti parodistici e blasfemi.

«Un’esperienza che mi ha sconvolto. Le immagini sacre raccolgono solo insulti, commenti volgari, bestemmie. Invece per il Dalai Lama massimo rispetto».

Pietà per i vivi, ma non per i morti.

«Su Instagram non si muore mai. Uno degli screenshot di Toscani è dedicato a Jackie Kennedy, celebrata come se fosse in vita. Ho visto commenti entusiastici persino sui mocassini che indossava il defunto più famoso d’Italia. Non c’è pace per i ricchi. L’ossessione della morte coincide con il tentativo di superarla, nell’accertata impossibilità di abolirla».

Ma lei vorrebbe per sé un ovale smaltato su una lapide o una foto online?

«Sono all’antica: una croce di pietra che invecchia sotto la pioggia».

Influencer da romanzo. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 da Corriere.it. Un tempo c’era il libraio, figura di riferimento a cui chiedere consigli sul romanzo in grado di toccare le giuste corde, o sul giallo più intricato da leggere con l’attitudine di un detective. Oggi, a determinare il successo di un lavoro editoriale, e a mandare i romanzi sold out, ci sono le «book influencer»: bastano trenta secondi di recensione scanzonata — ma arguta — su Instagram, e il gioco è fatto. Corteggiate dalle case editrici, seguite da migliaia di utenti, promuovono la bellezza delle storie che scorrono sulla carta, approfittando della potenza di social network e blog. Francesca, Elena ed Ilenia, milanesi d’adozione, sono note in Rete come affidabili dispensatrici di dritte libresche. Per loro, quello della book influencer, è un vero e proprio lavoro. «Ho iniziato a tradurre narrativa e a coltivare con un po’ più di raziocinio le mie molte presenze social, partendo da un blog — racconta Francesca Crescentini, in arte Tegamini —, poi tutto si è trasformato in un sistema più vasto di chiacchiere, curiosità, scrittura e narrazioni che tengo in video, davanti alla macchina del caffè».

Francesca Crescentini, 34 anni, un marito, un figlio tutto boccoli di nome Cesare, il gatto Ottone, e numerose «t shirt cialtrone» che indossa per presentarsi al suo vasto pubblico (su Instagram la seguono in 83 mila), legge voracemente e poi recensisce pile di libri. «Leggo ovunque, ma tra i miei luoghi preferiti ci sono i Giardini della Guastalla e il divano di casa. Quello dell’influencer di libri è un vero lavoro in un settore fatto di aziende che richiedono competenze e ruoli specifici, che non sempre corrispondono al livello di romanticismo che attribuiamo alle professioni letterarie».

Elena Giorgi. Nel dietro le quinte organizzative dei grandi eventi musicali e culturali milanesi c’è la sua instancabile operosità, ma Elena Giorgi, 43 anni, emiliana d’origine, a Milano in pianta stabile da 12 anni, ha anche dato ascolto alle sue passioni. Da quello per la lettura è nato un secondo lavoro. «Anni fa, per gioco, ho iniziato a condurre alcuni incontri con scrittori in libreria, e il pubblico mi diceva che ero stata così convincente da far venire voglia di leggere ciò che avevo presentato. Mi sono detta: perché non ampliare la platea e condividere sui social il piacere di leggere?». Così ha aperto una sorta di salotto letterario online, dal nome La Lettrice Geniale, in cui racconta di nuovi titoli in libreria ed autori emergenti. A volte Elena la si trova in diretta dal soggiorno di casa, altre da una baita di montagna, altre ancora di persona, nella piccola libreria milanese La Scatola Lilla, dove tiene il gruppo di lettura Absolute Beginners. «Mi rende veramente felice — racconta — sentirmi dire “grazie a te ho scoperto questa piccola casa editrice”».

Ilenia Caito. Pochi caratteri scritti a corredo di una foto e brevi video sono in grado di indirizzare le vendite, grazie alle condivisioni degli utenti, il passaparola ai tempi dei social. Ilenia Caito, 34 anni, barese d’origine e milanese per scelta, ogni giorno cela il suo volto dietro un nuovo libro di cui parlare, e lo pubblica su Instagram dove è conosciuta come lalibraiamisteriosa. Anche lei racconta l’origine di questa passione: «Per me i libri sono ponti più che rifugi e ho sempre voglia di raccontarli. I libri — aggiunge — sono l’unica costante della mia vita. Ho lavorato in note librerie cittadine, ma un giorno ho pensato che sarebbe stato utile fare la libraia online». E tra un romanzo divorato sul tram 12 per andare a casa, e nei vecchi bar di quartiere, lalibraiamisteriosa organizza serate di lettura in cui raduna anche 150 persone. «Ho dritte per tutti: racconti per la nonna che faceva la sarta, per l’amico fervente non-lettore, e anche su come ricominciare a leggere con maggiore costanza», racconta divertita Ilenia. Insomma, ce n’è per tutti i gusti e per tutte le tipologie di lettore a cui dare consigli preziosi. «Se immagino una gioia — conclude — penso a me che divento la Chiara Ferragni dei libri».

Nicola Pinna per “la Stampa” il 25 novembre 2019. È diventata famosa per i suoi balletti ma non si considera una ballerina. I grandi marchi la chiamano per promuovere i loro prodotti ma lei non si definisce una influencer. «Mi piace essere fotografata ma mica sono una modella. E poi ho già pubblicato due libri però non sono una scrittrice». Quello di Elisa Maino è un lavoro che esiste ma ancora non ha un nome: assicura redditi a molti zeri ma nessuno è in grado di definirlo precisamente. A 16 anni si divide tra i compiti a casa e le ore di studio, tra la dose quotidiana di immagini da offrire in pasto ai follower e gli eventi con i fan, le presentazioni, i dibattiti e persino le ospitate tv. L' hanno definita la regina italiana di Tik Tok e il record di oltre 4 milioni di seguaci nel nuovo social dei giovanissimi non le basta. «Uso anche Instagram, perché ogni social ha una caratteristica diversa. Su Tik Tok posso sfogare la mia passione per la danza, sull' altro quella per le foto».

Conosce un po' i suoi follower? Sa che vita fanno?

«Ci sono diverse fasce d' età, diciamo che tra Tik Tok e Instagram mi seguono persone dagli 8 anni ai 24. Millennial e non solo insomma. Sono ragazzi semplici, che cercano un modello a cui ispirarsi, nei social vanno alla caccia di messaggi positivi».

Sembra che i social siano diventati l' unica finestra sul mondo per i giovanissimi. È per questo che è sempre più diffusa la tendenza di passare le giornate in casa?

«Tra computer, serie tv e smartphone in casa si possono fare molte più cose di un tempo. Per conoscere il mondo spesso non c' è bisogno di uscire. Possiamo interagire con persone lontane e così la casa diventa un luogo ancora più importante. Quando Disney farà partire la sua piattaforma la tendenza a passare più tempo in casa si estenderà anche ai più giovani».

Una tendenza che condivide?

«Non è solo una tendenza, d' inverno è anche colpa della pioggia. Comunque io ho tante cose da fare in casa: le foto per Instagram, i balletti per Tik Tok, studio, faccio i compiti e guardo le serie tv. Però riconosco che uscire e confrontarsi con gli altri è la cosa più bella del mondo».

Tik Tok consente di condividere solo video, senza contenuti. Non vede il rischio che i ragazzi perdano la capacità di confrontarsi?

«No, penso che sia solo un modo nuovo di comunicare, non per forza meno efficace o di minor valore culturale».

L' eccessiva dipendenza da social, unita alla tendenza a passare più tempo in casa, ha ridotto la necessità di avere un confronto reale con gli altri?

«Bisogna ammettere che le chat stanno paradossalmente isolando le persone. I messaggi diventano l' unico modo di interagire. Quando ci si incontra capita che non si abbia nulla da dire e che ci si ritrovi tutti con lo sguardo rivolto verso lo smartphone».

Non è molto più facile interagire con migliaia di persone via smartphone che parlare con degli sconosciuti in un bar?

«In effetti il dialogo reale rischia di metterci in difficoltà. Quando mi capita di discutere con qualcuno, puntualmente succede che non voglia il confronto reale. Con i messaggi ci sono il tempo di riflettere e lo schermo che protegge. Uscire di casa è più complesso se si è abituati alla comunicazione via social».

Carole Hallac per “la Stampa” il 25 novembre 2019. A casa si lavora, si guardano film, si cena con gli amici, si fa palestra. Insomma si fa tutto (o quasi) senza bisogno di uscire. In un mercato con un numero crescente di lavoratori indipendenti, le quattro mura domestiche diventano infatti ufficio, ma anche spazio per prendersi cura di sé e socializzare. Il nostro rapporto con la casa sta cambiando insieme con l' evolvere delle nostre abitudini. A guidare la tendenza sono i Millennial che, secondo uno studio della società di previsioni Wsgn, negli Stati Uniti trascorrono a casa il 70% del tempo in più rispetto al resto della popolazione. Un fenomeno emerso nel corso della recente conferenza Next Design Perspectives, organizzata da Altagamma al Gucci Hub di Milano, dove speaker internazionali hanno discusso del futuro del design. Istruttori e parrucchieri I consumatori di oggi - ha osservato Lisa White, direttore di Lifestyle, Interiors and Future Innovations di Wsgn - portano dall' esterno nei loro spazi personali non solo il cibo ma anche il cinema con lo streaming e le ore di fitness virtuali. Un esempio è Mirror, schermo Lcd simile a uno specchio che connette a vere e proprie lezioni di yoga o spinning guidate da un istruttore. Anche i servizi di bellezza bussano ormai alla porta, basta pensare all'app americana Glamsquad, con cui prenotare parrucchiere o estetista a domicilio. D' altronde - spiega Claudia d' Arpizio, partner della società di consulenza Bain & Company - gli ambienti lavorativi assomiglino sempre più a quelli casalinghi, con spazi comuni come cucine e sale conferenze alternati a piccoli uffici per chi ha bisogno di concentrarsi. Allo stesso tempo, la casa ha spazi sempre meno delimitati: mette la cucina al centro e crea spazi lavorativi più sofisticati. Più che un singolo mobile, ora si cercano soluzioni per l' ambiente residenziale complessivo, e crescono i servizi di affitto (globale) di arredamento.

Attività scaccia-ansia. E se passiamo più tempo in casa, anche la cura degli spazi personali aumenta. Secondo White, attività come spazzare i pavimenti ora portano la pace interiore. E fanno adepti. In Inghilterra, Sophie Hinchliffe su Instagram ha già collezionato tre milioni di follower per la sua dedizione alle attività domestiche, che aiuterebbe a combattere l' ansia. I prodotti di pulizia per la casa sono sempre più simili a prodotti di bellezza, e le aziende usano le stesse fragranze per i detergenti per il corpo e per quelli per la casa. Puntando anche sull' aromaterapia. Suzy Batiz, fondatrice di Supernatural, è diventata una delle donne più ricche d' America proprio grazie alla popolarità di uno spray per il bagno fatto con oli essenziali. Le aziende lo hanno capito e trasformano comuni prodotti per la casa, come una scopa, in design. Insomma, la vita domestica torna ad attrarre. Soprattutto i Millennial, che non solo passano più tempo in casa da single ma anche in famiglia: il 21% di loro scegli infatti di rimanere con i propri bambini rispetto al 17% della Generazione X, quella dei genitori nati fra il 1960 e il 1980.

Beauty influencer: ecco perché sono tutti uguali (bianchi, con viso a cuore e naso piccolo). Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019  da Davide Urietti su Corriere.it. Occhi a mandorla, viso a forma di cuore, naso piccolo e pelle bianca bianca. La rivista di moda Paper ha analizzato i cento beaty influencer più seguiti su Instagram e risultato è stato «inquietante»: hanno un look identico. Per molti non sarà sorprendente: chi è abituato a scrollare la home più volte al giorno avrà infatti notato che i maggiori influencer sono tutti sostanzialmente uguali. Un esempio? Basta pensare a Huda Kattan, l’influencer con più follower al mondo in fatto di makeup, oppure a Nikkie de Jager e Jaclyn Hill. Anche i colleghi uomini rispecchiano certi canoni, come James Charles, Manny Gutierrez o Thomas Halbert. Paper, dopo aver identificato le caratteristiche principali, ha quindi iniziato a chiedersi: perché? L’autrice dell’articolo, Sophie Bishop, ha notato quanto gli influencer su Instagram rappresentino una realtà ben lontana da quella che era stata prospettata agli inizi degli anni Duemila. La possibilità di diventare star del web o microcelebrità, infatti, era considerata democratica, quindi alla portata di chiunque ci avesse provato con il giusto impegno e i giusti mezzi. La stessa piattaforma di Youtube aveva uno slogan, poi eliminato, che invitava gli utenti a trasmettere loro stessi: l’avvento di Internet avrebbe fatto il resto, consentendo di avere intere legioni di fan. Ma è davvero così? Paper, in realtà, rivela che questa nicchia specifica, quella dei beauty influencer, non solo è simile al suo interno, ma la bellezza di chi ne fa parte rispecchia quella delle star più tradizionali. Secondo Sophie Bishop, infatti, rappresentano ideali estetici ben chiari: bianchi ed europei. 

L'influencer non influenza più. Panorama il 25 ottobre 2019. Qualche giorno fa ha fatto letteralmente il giro del mondo il fatto che un'università italiana avesse aperto un corso di laurea in influencer, questo strano e redditizio mestiere per cui, se per qualche motivo hai molti follower sui social media, se sei una personalità online, ti pagano per promuovere un prodotto o un servizio con un post o un video su Instagram. Qualcuno si è scandalizzato, ma secondo me sbagliando bersaglio: quando si studia non si sbaglia mai e questo è effettivamente un fenomeno da studiare. Basta farlo in fretta, perché non è detto che fra tre anni, quando arriveranno i primi laureati, gli influencer ci saranno ancora. I segnali di crisi sembrano inequivocabili. Secondo un'indagine pubblicata dal Wall Street Journal, la capacità degli influencer di ingaggiare i propri follower verso un determinato brand è in netto calo in tutti i settori: la percentuale di persone che mettono un like a un post sponsorizzato su Instagram, in un anno è scesa sotto il 5 per cento, per attestarsi in media attorno al 3,5 per cento. Sono statistiche importanti perché nel frattempo il mercato degli influencer è diventato una cosa seria: quest’anno potrebbe chiudersi a quota 8 miliardi di dollari, che sono ancora pochi rispetto agli investimenti totali in pubblicità, ma sono quasi quindici volte quello che si spendeva nel 2015. Le agenzie pubblicitarie ormai hanno un listino prezzi ufficiale che varia in base ai follower: si va dal nano influencer, meno di 10 mila follower, che costa 500 dollari a post; alla “celebrity”, che ha decine di milioni di follower e il cui post può costare alcuni milioni di dollari, come ha rivelato l’avvocato della cantante Ariana Grande (165 milioni di follower), in un curioso contenzioso legale: un ditta di abbigliamento per teenager, non potendosi permettere il suo ingaggio, ha fatto ricorso a una sosia. La ditta nel frattempo è fallita, ma quello che rischia di fallire è il mercato degli influencer. Il problema non è tanto quello, annoso, per cui i follower te li puoi comprare a botte di mille per volta (si va dai 16 dollari Instagram ai 49 per YouTube). Il problema è la crisi di rigetto fra i follower veri. Nessuno qui vuole idealizzare una età dell’oro di Instagram, che è pur sempre il social della vanità, ma all’inizio era un luogo dove persone vere postavano cose in un certo senso autentiche. Provavano a venderti un'immagine idealizzata di sé stessi. Adesso dietro quei sorrisi stampati provano a venderti qualunque altra cosa.

Elisabetta Ambrosi per "il Fatto quotidiano” il 22 ottobre 2019. Che saranno mai 3.900 euro all' anno, tanto ammonta la retta, se poi c' è la possibilità di diventare nientemeno che un potentissimo influencer, uno di quelli che, semplicemente cambiandosi d' abito su Instagram, è in grado di guadagnare milioni di euro? A promettere questa fulgida carriera arriva un vero e proprio corso di laurea dell' niversità telematica eCampus, che assegna proprio il titolo di laurea in Influencer. L'ateneo spiega che il nuovo percorso fornisce le competenze per affrontare "il nuovo marketing, quello social, 'influenzale'" andando a colmare "il vuoto formativo attuale", anche per evitare "mancanza di rigore e utilizzo di cattive pratiche che penalizzano chi aspira al ruolo di influencer". L' idea, che ha scatenato varie polemiche - oltre a spingere il Codacons a chiedere al Ministero dell' Istruzione di capire se questo corso di laurea sia davvero tale - non è in realtà nuova, visto che già l' Università Autonoma di Madrid aveva lanciato l'anno scorso un corso in Intelligence Influencers: Fashion and Beauty. E proprio qui sta il punto. Ammesso che abbia senso una laurea per diventare "influenzatore" - d' altronde in Italia esiste la laurea in Verde ornamentale, Tropical rural development, Scienze dell' Allevamento, Igiene e Benessere del Cane e del Gatto, comunque infinitamente più sensate - e ammesso che il successo dei più noti influencer venuti dal nulla derivi da preparazione e correttezza e non dal contrario (vedi l' abuso di marchette nascoste), ci si aspetterebbe almeno che il corso portasse dritto all' obiettivo. E infatti all' università madrilena si apprende soprattutto a ottimizzare il proprio blog e la pagina Instagram, a creare il proprio personal branding, a difendersi da troll e hater; così come si impara a pensare in maniera creativa, evitare di diffondere stereotipi, fare foto e video per renderli commerciali e artistici, produrre contenuti editoriali, fare storytelling; infine gestire la propria reputazione online, monetizzare i propri contenuti e molte altre cose altre cose concrete. Invece cosa troviamo nel corso dell' ateneo, sponsorizzato da Cristiano Ronaldo? Esami come Semiotica e filosofia dei linguaggi, Sociologia dei processi economici, Etica della comunicazione, Organizzazione di eventi e ufficio stampa: un minestrone psico-socio-giuridico che tanto assomiglia, infatti, ad altri corsi della stessa Facoltà, Scienze della Comunicazione (messa tra l' altro, chissà perché, dentro Giurisprudenza, come d' altronde Biologia è inserita in quella di Psicologia). Il tutto però venduto come il percorso per diventare influencer di successo (e alto reddito). Insomma, c' è di che dubitarne e anzi, è probabile che si imparerebbe più marketing a studiare, piuttosto, come l'università eCampus (finanziata da una Fondazione presieduta dal fondatore del CEPU e Grandi Scuole) vende i corsi ai suoi iscritti. Anzi, meglio non dirlo. Non sia mai che il prossimo anno arrivi un corso di laurea, a pagamento, per "diventare esperto di marketing lavorando per noi". Con il sonno del Miur, tutto è possibile.

Da ilmessaggero.it il 22 ottobre 2019. Chiara Ferragni pubblica un video nel quale si mostra mentre è alle prese con la pole dance. Le sue movenze però non sono propriamente sinuose, tant'è che l’influencer appare molto impacciata. Nonostante tutto questo, il video è diventato virale e tantissimi fan hanno apprezzato il fatto che la fashion blogger si mostri anche nelle sue difficoltà. È di pochi giorni fa l'annuncio, da parte dell'Università telematica eCampus, del primo percorso formativo in Italia specifico per chi desidera intraprendere la professione di "Influencer", vera e propria professione intesa come complesso e ambizioso progetto di business nel quale le leve del marketing tradizionale incontrano le più efficaci strategie digitale.

Roberto Vivaldelli per ilgiornale.it il 22 ottobre 2019. Una notizia che ha letteralmente diviso il web e l'opinione pubblica. Ma chi sono lgi influencer? Come spiega Andrea Cuomo su Il Giornale, si tratta di una persona che, godendo di un grande seguito sui social network e in particolare su Instagram e su Youtube (come poi questo consenso sia stato guadagnato è spesso materia inespugnabile per intelligenze medie come la nostra) viene utilizzata dalle aziende come testimonial per pubblicizzare alcuni prodotti e per accostarli a un determinato stile di vita considerato evidentemente desiderabile dai loro follower. Un'attività ovviamente pagata, spesso così lautamente da trasformare il (o la) blogger in una star milionaria. Come Chiara Ferragni, la superstar e regina delle influencer italiane. Un noto "influencer" è anche il fuoriclasse della Juventus Cristiano Ronaldo: secondo Business Insider, CR7 guadagna di più dall’essere un influencer di Instagram che giocando con la vecchia signora del calcio italiano. Ronaldo, infatti, ha portato a casa 47,8 milioni di euro solo da post Instagram pagati e questo soltanto nell’ultimo anno, secondo uno studio di Hopper HQ pubblicato su Buzz Bingo, che indica il 34enne come la persona con il più alto guadagno della piattaforma. Il suo salario annuale alla Juventus, per il quale ha firmato nel 2018, è di 34 milioni di dollari secondo Goal.com, cioè 14,7 milioni di dollari in meno di quello che guadagna per i suoi post su Instagram. L’influencer più pagata in assoluto? Come riporta Money.it, è Kylie Jenner, che guadagna fino a 1.200.000 di dollari per singolo post sponsorizzato. Al 2° posto troviamo un’altra giovanissima celebrity americana: Ariana Grande. La cantante ha più di 158 milioni di follower e un singolo post sul suo profilo Instagram vale quasi 1 milione di dollari. Cifre che ci fanno capire come l'attività di influencer possa diventare un potenziale enorme per le aziende di tutto il mondo, così come un rischio - se si sbaglia ad ingaggiare un qualcuno che può compromettere l'immagine dell'azienda stessa. Secondo l’ultimo Global Fraud and Risk Report pubblicato da Kroll, divisione di Duff &Phelps, l’attività sui social media è stata un fattore rilevante nel 27 per cento degli incidenti significativi subiti dalle aziende globali negli ultimi 12 mesi. La ricerca, condotta da Forrester Consulting, ha coinvolto 588 top manager in tutto il mondo. Di questi il 63 per cento dei leader, quasi i due terzi degli intervistati, hanno citato i social media tra le priorità principali per lo sviluppo di una strategia di difesa delle loro organizzazioni. Il rapporto rivela che, in questo momento, le aziende si trovano ad affrontare uno scenario di rischio ancora più esteso, essendo chiamate a contrastare le minacce digitali emergenti e ad affrontare questioni normative e reputazionali complesse. Ecco allora che anche i brand ambassador e gli influecer non sono immuni da un’attenta due diligence - ossia l'attività di investigazione e di approfondimento di dati e di informazioni - che analizzi abitudini, post passati, dichiarazioni sui temi sensibili per l’azienda che intende scritturarli. Tra gli intervistati, infatti, il 78 per cento ha risposto al sondaggio dichiarando di aver fatto ricorso alla due diligence, lo scorso anno, nei confronti di queste figure. Il motivo è chiaro: prevenire possibili figuracce nelle quali l'influencer può trascinare un'azienda. Con risultati potenzialmente devastanti. Perché chi di social ferisce di social perisce. Esempio classico quello uno dei più grandi flop commerciali ai tempi degli influencer e dei loro cachet milionari: il disastro del Fyre Festival, ideato dal rapper Ja Rule, promosso da 400 tra modelle, surfisti e star della tivù e fallito miseramente. “Il tema influencer è molto critico per le aziende - spiega Marianna Vintiadis, Head of Southern Europe di Kroll – Il brand viene fortemente associato alla figura che si sceglie ma che non essendo un dipendente diretto non può essere controllato e non è detto sia sempre in linea con le policy e con i valori aziendali. Ecco allora che il comportamento di un’influencer può influire positivamente o negativamente su un brand. Se per esempio la figura di riferimento dovesse pubblicare un post fuori luogo o non in linea con i valori di un determinato prodotto, questo potrebbe causare forti danni reputazionali e conseguentemente economici”. Per essere certi, dunque, che il testimonial scelto non nasconda scheletri nell’armadio o possa incappare in comportamenti sconvenienti le aziende si rivolgono a investigatori specializzati che passano in rassegna post, vita, uscite pubbliche, dichiarazioni e modalità di interazione. "Se un influencer è troppo impulsivo nel rispondere ai commenti, se lo fa con toni spropositati va prestata attenzione – continua Vintiadis -. Parte dell’analisi necessaria mira a capire quale è stata l’evoluzione del comportamento sui social nel tentativo di prevenire scandali e danni futuri”. Il danno reputazione è oggi più che mai oggetto di attenzione da parte delle aziende. Un danno che risente sempre più della diffusione di fake news. L’84 per cento delle aziende si sente minacciato dal rischio di manipolazione del mercato perpetrato tramite diffusione di fake news che sono alimentate nella maggior parte dei casi proprio dai social media che vanno per questo monitorati e presidiati. “Le fake news son un fenomeno globale – spiega Marianna Vintiadis, Head of Southern Europe di Kroll - ma il contesto in cui si sviluppano può fare la differenza. Ad esempio, nei Paesi in cui sono presenti una popolazione giovane e informatizzata e media con standard editoriali deboli, le fake news passeranno più facilmente dall’online all’informazione mainstream e le parti coinvolte difficilmente riescono ad avere la meglio in una controversia gestita sul piano giudiziario. Poter contare invece su una industria editoriale dove questo tema è regolato attraverso normative specifiche rappresenta senza dubbio la più efficace tutela anche per le aziende rispetto a questo pericolo”. Dalla ricerca di Kroll emerge infine il timore da parte delle aziende di un cyber attack globale che possa portare una crisi economica di portata mondiale. “Anche in Italia – commenta Marianna Vintiadis –, è ben presente il timore di un cyber attack globale, come ha dichiarato oltre il 66% degli intervistati su una media globale del 68%, ed è significativamente più elevato quello del furto di informazioni interne, che raggiunge l’89% contro il 73% globale. Interessante notare come anche nel nostro Paese il ruolo dell’Internal Audit sia cruciale per il contrasto del rischio cyber (26% contro il 28% globale) e che sia in crescita il ricorso all’istituto del whistleblowing, sebbene resti ancora di alcuni punti sotto la media globale (9% rispetto al 13%). Un dato peculiare dell’Italia, infine, riguarda il timore del rischio connesso alla contraffazione del marchio, con danni subiti dal 23% degli intervistati contro una media globale del 17%”.

SOGNATE UNA CARRIERA DA INFLUENCER? Tiffany Hsu per Nytimes.com il 19 giugno 2019. Il bacio tra Bella Hadid e Miquela Sousa voluto in uno spot di Calvin Klein del mese scorso, ha colpito molti spettatori che lo hanno trovato offensivo. La top model si identifica come eterosessuale e lo spot ha suscitato le lagne di chi ha accusato Calvin Klein di ingannare i clienti con un finto bacio lesbo. Alla fine il marchio è stato costretto a scusarsi, ma quello che appare essere sfuggito ai tanti, non è scappato all’occhio attento di chi si occupa di pubblicità. Hadid, almeno, è umana. Tutto ciò che riguarda Sousa, meglio conosciuta come Lil Miquela, è un artificio: la frangia dritta, l’origine brasiliana-spagnola, lo stuolo di bellissimi amici. Lil Miquela, che ha 1,6 milioni di follower su Instagram, è un personaggio generato da un computer. Approdata sui social nel 2016 e costruita al pc da una compagnia di Los Angeles sostenuta dai soldi della Silicon Valley, appartiene a un gruppo crescente di social media marketer noti come influencer virtuali. Ogni mese, più di 80.000 persone ascoltano le canzoni di Lil Miquela su Spotify. Ha lavorato con il marchio di moda italiano Prada, ha rilasciato interviste a Coachella e ha sfoggiato un tatuaggio “realizzato” da un artista che ha tatuato Miley Cyrus. Fino all'anno scorso, quando i suoi creatori hanno orchestrato una trovata pubblicitaria per rivelare la sua identità, molti dei suoi fan pensavano fosse una ragazza di 19 anni. Ma Lil Miquela è fatta di pixel, ed è stata progettata per attirare potenziali acquirenti. Il suo successo ha sollevato una domanda per le aziende che desiderano connettersi con i consumatori che passano sempre più tempo online: perché assumere una celebrità, una top model o anche una importante influencer per commercializzare un prodotto quando puoi creare da zero l'ambasciatore ideale del marchio?

È quello che ha fatto l'etichetta di moda Balmain lo scorso anno quando ha incaricato l'artista inglese Cameron-James Wilson di progettare un "mix eterogeneo" di modelli digitali, tra cui una donna bianca, una donna di colore e una donna asiatica. Altre società hanno seguito l’esempio di Balmain. Le simulazioni di esseri umani esistono da anni. Hanno fatto i croupier a Las Vegas, fatto musica nel gruppo dei Gorillaz e vissuto una vita pseudo-reale nel videogioco Sims. Ma ultimamente sono diventati più realistici e più coinvolgenti. Fable Studio, che si autodefinisce "la società degli esseri virtuali", ha creato Lucy, un personaggio cartone animato in grado di leggere e rispondere alle reazioni degli spettatori in tempo reale. La compagnia dice che crea personaggi digitali "con i quali puoi costruire una relazione emotiva". Xinhua, l'agenzia di stampa del governo cinese, ha presentato l'anno scorso un giornalista virtuale, in grado di "lavorare 24 ore al giorno". Coca-Cola e Louis Vuitton hanno usato personaggi dei videogiochi nelle loro pubblicità. Soul Machines, una società fondata dal premio Oscar Mark Sagar, ha prodotto insegnanti generati al computer che rispondono agli studenti umani. Il mese scorso, YouPorn ha seguito la stessa tendenza con Jedy Vales, un avatar che promuove il sito e interagisce con i suoi utenti. Edward Saatchi, che ha fondato Fable, ha predetto che un giorno gli esseri virtuali avrebbero soppiantato gli assistenti digitali domestici e i sistemi operativi dei computer in aziende come Amazon e Google: «Alla fine, sarà chiaro che il confine tra Miquela e Alexa è in realtà molto sottile». Gli influencer virtuali hanno un vantaggio per le aziende che li usano: il loro mondo è meno regolamentato rispetto alle loro controparti umane. E le persone che li controllano non sono tenuti a rivelare la loro presenza. La Federal Trade Commission ha riconosciuto che «non ha ancora specificamente affrontato l'uso di influencer virtuali», ma ha anche detto che le aziende che li utilizzano per la pubblicità dovrebbero garantire che «ogni affermazione comunicata sul prodotto sia veritiera e non fuorviante». In un certo senso, gli influencer virtuali non sono così lontani dai loro predecessori della vita reale. Non è un segreto che gli umani che promuovono i marchi sui social media spesso danno una visione della vita quotidiana più brillante e più felice della realtà. Ma quando l'esistenza stessa di un ambasciatore di marchi è discutibile - specialmente in un ambiente costellato di ingannevoli deepfakes, bot e frodi - cosa succede alla verità nella pubblicità? Bryan Gold, l'amministratore delegato di #Paid, che collega gli influencer alle aziende, ha detto che gli influencer virtuali potrebbero portare le aziende in «un'area pericolosa. Come possono i consumatori fidarsi di un messaggio?». Ma le preoccupazioni che ha un influencer umano – mantenersi sempre pronti per l’obiettivo di una macchina fotografica o venire a patti con i troll per fare felice il marchio per il quale lavorano - non colpiscono gli esseri virtuali che non necessitano mai di un giorno di riposo. «Ecco perché i brand amano lavorare con gli avatar - non devono fare 100 take - ha detto Alexis Ohanian, co-fondatore di Reddit e il nonno dell'influencer virtuale Qai Qai - I social media, fino ad oggi, sono stati in gran parte il dominio dei veri esseri umani che sono finti. Gli avatar sono il futuro». KFC ha recentemente introdotto un nuovo Colonel Sanders sui social media. Ha la barbetta, addominali tatuati, un copricapo degno di un idolo degli adolescenti e bicipiti in mostra sotto a una giacca bianca perennemente sbottonata. «È stata la nostra opportunità di divertirci facendo pubblicità -  ha dichiarato Steve Kelly, direttore digitale e dei media di KFC - Ma l'amore attorno agli influencer virtuali è molto reale». Tuttavia, la presenza crescente di esseri generati al computer nella pubblicità può essere scoraggiante, in un mondo in cui si manipolano facilmente video di Nancy Pelosi e di Mark Zuckerberg. «È un momento interessante e pericoloso, visto la potenzialità dell’A.I. di falsificare qualsiasi cosa» ha detto Ohanian. Lil Miquela ha “lavorato” per due anni prima di rivelare di essere un prodotto della società segreta, Brud. La registrazione commerciale dell’azienda è in California a un indirizzo di Silver Lake, ma i lavoratori, che devono firmare accordi di non divulgazione, hanno rivelato che la società opera fuori dal centro di Los Angeles. Brud si autodefinisce "uno studio che crea mondi attraverso personaggi digitali" e afferma che Lil Miquela è "reale come Rihanna". A capo c’è Trevor McFedries, a cui Lil Miquela ha fatto riferimento in diversi post come figura paterna. Prima di co-fondare Brud, McFedries era conosciuto come Yung Skeeter, un D.J., produttore, regista e musicista che ha lavorato con Katy Perry, Steve Aoki, Bad Robot Productions e Spotify. Ha contribuito a raccogliere milioni di dollari di finanziamenti da titoli come Spark Capital, Sequoia Capital e Founders Fund, secondo TechCrunch. La scorsa estate, l'account Instagram di Lil Miquela è stato hackerato da una donna di nome Bermuda, una sostenitrice di Trump che ha accusato Lil Miquela di "scappare dalla verità." A Lil Miquela non è rimatso che rivelare tutto: «La mia identità è stata una scelta fatta da Brud per vendermi ai marchi» ha scritto in un solo post. Il personaggio ha giurato che non avrebbe mai perdonato Brud. Alcuni mesi dopo, lo ha fatto. Quanto ci fosse di reale in quello che è successo non è dato saperlo, ma i follower hanno seguito con passione il dramma che, secondo tanti, era stato scritto a tavolino in ogni particolare da Brud. Tuttavia, secondo i dati di Captiv8Mentre, soprattutto nel campo della moda gli influencer virtuali non hanno lo stesso appeal. «Un avatar è fondamentalmente un manichino in una vetrina - ha dichiarato Nick Cooke, uno dei fondatori della Goat Agency, una società di marketing - Un vero influencer può offrire raccomandazioni peer-to-peer». Potrebbe esserci ancora speranza per gli umani.

FOLLOWERS TRUCCATI. Striscia la notizia il 27 settembre 2019. Marco Camisani Calzolari ci parla di una pratica piuttosto diffusa sui social, quella di accumulare social con pratiche poco trasparenti. Fare l'influencer è redditizio, come dimostrato da Chiara Ferragni e Gianluca Vacchi, motivo per cui sempre più persone cercano di arrivare a numeri astronomici di seguaci per poter essere così pagati dalle aziende per i loro post. Peccato che dietro le migliaia - a volte milioni - di follower non si nasconda un pubblico reale, ma spesso si tratti di semplici strategie e tecniche per gonfiare i propri dati.

Da Corriere.it il 10 ottobre 2019.

Laurearsi come Influencer. Fashion week, abiti di lusso, viaggi per il mondo: chi non si è mai chiesto, almeno una volta, come fosse fare cambio per un giorno con la vita di un influencer? Sono figure chiacchieratissime, a volte ammirate (specie dai loro milioni di follower), a volte criticate, come nel caso dello stilista Valentino, che sostiene che siano solo in grado di «diffondere il cattivo gusto». In ogni caso, si tratta oramai di una vera professione, e negli ultimi tempi diversi enti si sono interessati e stanno cercando di renderla più istituzionale e stanno ragionando su come regolamentarla. L’ultimo caso è la nascita di un corso di laurea mirato alla figura di influencer: l’università eCampus ha lanciato il percorso Influencer nel corso di laurea di Scienze della Comunicazione, con l’intento di colmare il vuoto formativo attuale e la richiesta di queste figure da parte delle aziende, che è sempre più alta.

La proposta. Il nuovo percorso Influencer del corso di laurea in Scienze della Comunicazione unisce le competenze e gli strumenti per lavorare nel «nuovo marketing», ossia quello che avviene sui social network. A regnare, nel nuovo campo del marketing digitale, sono gli influencer: figure che hanno un grande seguito sui social e che riescono così ad innalzarsi a opinion leader (motivo per cui le aziende e i marchi oramai scelgono sempre loro come testimonial dei loro prodotti).

Gli obiettivi. Il corso mira a formare la figura professionale dell’influencer. Attualmente chi si professa influencer, viene dal mondo delle celebrities, oppure dalla televisione, ma alcune e alcuni, specialmente i pionieri della professione, sono riusciti ad emergere «dal nulla», cioè senza prima essere famosi. Ma dal momento che ora i social pullulano di queste figure, l’università eCampus ha pensato di istituire un corso di laurea per contribuire a differenziare chi ha anche competenze di marketing.

La didattica. Il percorso di studi, si inserisce in un corso di laurea triennale. Il primo anno si studiano materie come semiotica e filosofia dei linguaggi, estetica della comunicazione, informatica, tecnica, storia e linguaggio dei mezzi audiovisivi. Il secondo anno sono previsti esami di psicologia e sociologia della moda, ma anche diritto dell’informazione e della comunicazione o la sociologia della comunicazione e dell’informazione. L’ultimo anno prevede la partecipazione a laboratori tematici, che vanno dalla scrittura istituzionale e pubblicitaria alla lettura dell’immagine, e si conclude con tirocini formativi e di orientamento.

Gli sbocchi occupazionali. Il corso di laurea è pensato sia per chi vorrebbe intraprendere la strada di influencer, sia per chi già la svolge ma vuole approfondire alcuni temi o prepararsi meglio su alcuni ambiti. Gli esami uniscono sia le competenze necessarie per lavorare nella pubblicità che nel mondo della comunicazione, e quindi comunque sarebbero utili anche per chi volesse lavorare a contatto con queste figure, senza necessariamente aspirare a diventare la nuova Chiara Ferragni.

TUTTE INFLUENCER PE' MAGNA’ GRATIS. Da Il Messaggero il 30 luglio 2019. "Io vi sponsorizzo sul mio profilo Instagram e voi mi offrite la cena". Potrebbe riassumersi così la richiesta a un ristorante di Mazara del Vallo (il Principe Granatelli) di Valentina Pivati, ex corteggiatrice di Uomini e Donne, famosa - o quasi - per essere stata la scelta di Marino Catanzaro (tronista), oggi influencer con 176mila follower. "Buonasera, mi chiamo Valentina Pivati  - ha scritto in un post destinato al ristorante - e grazie ad un programma televisivo sono cresciuta sulla piattaforma social, in particolare su Instagram, iniziando così un lavoro di influencer. Ad agosto sarò in Sicilia e mi chiedevo se vi interesserebbe, in cambio di pubblicità, ospitare me ed il mio compagno per una cena. In attesa di una vostra risposta porgo cordiali saluti. Valentina". La richiesta ha suscitato qualche risata nello staff del locale. I gestori del "Principe Granatelli" hanno ripubblicato il messaggio della influencer sulla propria pagina facebook rifilando un secco 'NO': "Il nuovo modo per farsi le vacanze a sbafo", avevano scritto. Poi il post è stato rimosso, forse per delicatezza, affidando la spiegazione a un altro scritto. «Sul precedente post la situazione è un pò sfuggita di mano e ci teniamo a fare le dovute precisazioni - spiegano dal Granatelli -. Abbiamo cancellato volutamente un post da 10000 visualizzazioni in poco meno di 10 ore. Un post diventato subito virale in un contesto in cui tutto può fare audience, tutto può entrare nella gogna mediatica e tutto fa business, nel bene o nel male. Ci teniamo a precisare che siamo sempre alla ricerca di persone con cui collaborare, con modalità che possano apportare un valore aggiunto a tutte le persone coinvolte. Ciò significa che non basta essere un “influencer” ed avere 100,000 followers su Instagram ma è più importante decidere assieme come poter collaborare in maniera virtuosa. Ci teniamo a rispettare l’etica del nostro lavoro e di quello altrui. Ci scusiamo se in qualche modo abbiamo urtato la sensibilità di qualcuno e non escludiamo in futuro di lavorare con blogger ed influencer che condividono i nostri stessi principi morali. Con affetto, il team di Principe Granatelli». E così alla povera Valentina non resterà che pagarsi la cena, o abbassare un po' l'asticella, magari cominciando con una pizza. In attesa, ovviamente, di incrementare i suoi fan.

Valentina Pivati, commessa e influencer: «Ma non siamo degli scrocconi». Pubblicato giovedì, 01 agosto 2019 da Roberta Scorranese su Corriere.it. Sono le otto e un quarto di sera e Valentina Pivati ha appena timbrato il cartellino che segna la fine del suo turno di lavoro come commessa in un supermercato vicino a Cassano Magnago (Varese) dove abita. Una cena, una doccia e forse c’è posto anche per «l’altro lavoro», quello che, però, le richiede un salto spazio-temporale: deve trasferirsi nelle storie di Instagram. 

Valentina è stata una «corteggiatrice» nella trasmissione Uomini e donne, ma soprattutto è una influencer. Quella che nei giorni scorsi ha fatto parlare di sé dopo che il proprietario di un ristorante ha reso pubblico il messaggio nel quale la 26enne proponeva una cena gratuita per due in cambio di «visibilità» tra i suoi 176 mila follower su Instagram. «Messa così — racconta al Corriere — sembrava che io stessi chiedendo l’elemosina: niente di più assurdo. Ho il mio lavoro sicuro al supermercato e non lo lascio mica per qualcosa di passeggero come la visibilità sui social. Ho la macchina nuova, comprata con sacrificio, la casa di proprietà: sono soddisfatta così». Valentina sembra l’esempio perfetto dell’evoluzione degli influencer: non solo profili celebri e ormai più famosi dei grandi imprenditori, ma c’è pure un fiorire di micro-star che si creano un piccolo cosmo di affezionati, magari puntando su nicchie (orologi, gioielli, cosmetici fatti in casa, tutorial per la cura dei bambini). E anche i micro influencer possono guadagnare somme interessanti: Pivati conferma che alcuni prendono anche 1.300 euro per pubblicare appena tre storie (brevi passaggi di immagini o video). Anzi. Come illustra un rapporto di InfluencerDB (piattaforma che analizza questi mondi), sono proprio quelli con un numero consistente ma non esagerato di follower (5-10 mila) che negli ultimi mesi si sono confermati più stabili e appetibili, quelli che cioè riescono a smuovere meglio le emozioni di chi li segue. «Il punto è che spesso si fa confusione: questo genere di visibilità non è ancora bene codificato — dice Pivati —. Io non sono il tipo che si fa la vacanza gratis in cambio di qualche foto sui social network». Anche perché da un po’ di tempo anche l’Autorità garante della concorrenza e del Mercato sta cercando di fare luce su post, storie e foto online e l’ultima delibera sugli influencer raccomanda che la pubblicità sia chiaramente «riconoscibile come tale». Vale sia per quelli guidati dalle agenzie specializzate (che concordano pacchetti di foto o video con i brand) sia per quelli che si muovono in autonomia, proponendosi alle aziende. Pivati sottolinea che i post presi di per sé lasciano il tempo che trovano. «Piuttosto cerco progetti interessanti, che possano crescere e farmi crescere. Ho un cervello e lo uso». Per dire: qualche tempo fa, finito il lavoro al supermercato, Valentina ha preso la macchina ed è andata a trovare una ragazza di Piacenza che ha un negozio di abbigliamento. Hanno stretto un accordo. «Certo, in questi casi ti regalano abiti e scarpe e questo in fondo è già tanto a fine mese se hai un’entrata fissa». Pagandoci le tasse: Pivati ha ben due partite Iva aperte. Una serve per uno shop online che lei vorrebbe far crescere, assieme a una socia, fino a creare una vera e propria collezione di abbigliamento. L’obiettivo che ha in mente sin da quando è finita la sua avventura televisiva. Ma qualcuno potrebbe chiedersi: come si fa a mettere d’accordo un lavoro (quello al supermercato) fatto di turni non proprio comodissimi, orari da rispettare e la comprensibile stanchezza serale con le foto levigate, i capelli perfetti e la luce giusta che fa risaltare una camicetta? «Semplice — risponde Valentina — riduco le ore di lavoro sui social. Ecco perché non mi si vede nelle storie a tutte le ore e non posto una quantità enorme di foto». E la televisione? Acqua passata? «Certo. Peraltro io non volevo fare la corteggiatrice ma la tronista. Poi hanno insistito e mi sono detta: ma sì, proviamo anche questa esperienza. Sono arrivata alla fine ed è andata bene. Anche per questo ci vuole cervello».

Tommaso Labate per corriere.it il 31 luglio 2019. Una ragazza di cui fino a mezz’ora fa ignoravo l’esistenza, Valentina Pivati, «ex corteggiatrice del programma Uomini e Donne» (cito tra virgolette perché non capisco bene che cosa voglia dire, nel senso che conosco il programma ma non al punto da capire che cosa faccia, in quello show, una corteggiatrice), comunque questa ragazza, che ha un profilo su Instagram con un centinaio di migliaia di follower, scrive un messaggio a un ristorante di Mazara del Vallo, provincia di Trapani, probabile meta delle sue imminenti vacanze estive col fidanzato. Nella e-mail c’è scritto: «Buonasera, mi chiamo Valentina Pivati e grazie a un programma televisivo sono cresciuta sulla piattaforma social, in particolare su Instagram, iniziando così un lavoro di influencer. Ad agosto sarò in Sicilia e mi chiedevo se vi interesserebbe, in cambio di pubblicità, ospitare me e il mio compagno per una cena. In attesa di una vostra risposta porgo cordiali saluti». Piccola pausa. Non conosco lo standard di e-mail a cui siete abituati voi, il tono e il modo in cui gli sconosciuti solitamente vi si approcciano; per il mio, di standard di messaggi ricevuti, questa di Valentina è una richiesta decisamente cortese, tutt’altro che arrogante, fondamentalmente semplice. Non che abbia particolare simpatia per chi fa il lavoro di influencer (tendo a preferire una ricercatrice in biologia molecolare o un fattorino di Deliveroo, come ho scritto nel mio libro «i Rassegnati») ma, tutto sommato, quella di Valentina mi pare un’offerta di collaborazione piuttosto basica, decisamente sincera e senza pretese: mi offri una cena (tu, ristorante, di lavoro prepari cene) se io ti faccio pubblicità (io, influencer, di lavoro faccio pubblicità)? Facile facile. A casa mia, per esempio, una proposta del genere contempla due reazioni. «Sì, grazie, vi aspettiamo»; oppure «no, grazie lo stesso, se volete venire a trovarci come clienti normali sarà un piacere ma la vostra pubblicità non ci interessa». E invece no. Il ristorante di Mazara del Vallo, di cui non scrivo il nome per non fargli pubblicità (e non gliela farei manco se me ne offrisse 20, di cene, in posti del genere non metto piede neanche pagato), si arroga il diritto di ripubblicare il messaggio di Valentina Pivati con tanto di diniego alla sua proposta, sottoponendola alla gogna di decine e decine di utenti di Facebook che le danno della scroccona, della poveraccia, di tutto di più. Salvo poi cancellare il messaggio, ma ormai il danno era fatto, per pubblicarne un altro di scuse pelose («Abbiamo cancellato volutamente un post da 10.000 visualizzazioni in poco meno di 10 ore»), precisando che «siamo sempre alla ricerca di persone con cui collaborare, con modalità che possano apportare un valore aggiunto a tutte le persone coinvolte» e che «ciò significa che non basta essere un influencer ed avere 100.000 followers su Instagram ma è più importante decidere assieme come poter collaborare in maniera virtuosa». Stavolta, però, non hanno «deciso insieme» a Valentina Pivati se poteva o meno portare un valore aggiunto; non hanno «deciso assieme» se i suoi centomila follower potevano essere la base per poter collaborare in maniera virtuosa.  L’hanno sputtanata, così, a gratis. Facendo leva sulla disperata follia generale di questi tempi. E cioè che se sei disoccupato, se sei un contratto a termine non rinnovato, se sei vittima della burocrazia, se sei laureato con 110 e lode in chimica ma sei costretto a portare le pizze, se fai la baby sitter ma in tasca hai un posto da ricercatrice senza assegno, se sei tutto questo e anche di più, di questi tempi, l’influencer è una merda e quindi evviva chi la sputtana così, gratis. Io, con questa cosa, non sono d’accordo. Pur stando dalla parte di chi è disoccupato, di chi ha una laurea in chimica ma porta le pizze, pur stando dalla parte della baby sitter ricercatrice, riesco a stare dalla parte di Valentina Pivati. In quel ristorante, mai. Mai e poi mai. Spero condividiate, se siete d’accordo, questo piccolo messaggio.

L'influencer si propone, il ristoratore dice no. Scatta la gogna sui social ma perdono tutti. Valentina Pivati sbaglia toni. Il locale doveva risponderle in privato. Andrea Cuomo, Giovedì 01/08/2019, su Il Giornale. La cena delle beffe: tutti a digiuno, ma con la camicia schizzata di vergogna. Perché la vicenda di Valentina Pivati e del suo goffo tentativo di mangiare gratis in un ristorante peraltro nemmeno ricordevole è una di quelle che racconta molto dell'epoca contemporanea. E nessuno ne esce bene, nessuno: non lei che fa la figura della scroccona social, non il ristoratore che la mette alla gogna mediatica ignorando qualsiasi elementare norma di privacy, non gli odiatori in servizio permanente effettivo, che quella gogna non vedono l'ora di azionarla. Clac! Orbene: la Pivati è una influencer, cioè una tizia belloccia che - potendo contare su un qualche succedaneo di gloria (pare sia stata una corteggiatrice di Uomini e donne, qualsiasi cosa voglia dire) - pubblicizza prodotti e locali infilandoli nelle proprie stories e nei propri post sui social giusti. Possiamo trovare la pratica più o meno elegante (non lo è) ma è un fatto che si tratti di un nuovo tipo di impiego, remunerato a volte con soldi sonanti, a volte con uno scambio merci. Ci sono persone come Chiara Ferragni che di questo muliebre talento hanno fatto un business milionario. Gli affari sono affari, e le anime belle al profumo di mammola sono come il giapponese che combatte nella foresta quando la guerra è finita da un pezzo. Di cosa stupirsi, dunque? Si è stupito eppure qualcuno davanti al computer del ristorante Principe Granatelli di Mazara del Vallo, nel Trapanese, leggendo il messaggio della Pivati: «Buonasera, mi chiamo Valentina Pivati e grazie a una trasmissione televisiva sono cresciuta sulla piattaforma social, in particolare su Instagram, iniziando così un lavoro di influencer. Ad agosto sarò in Sicilia e mi chiedevo se vi interesserebbe, in cambio di pubblicità, ospitare me e il mio compagno per una cena. In attesa di una vostra risposta porgo cordiali saluti. Valentina». Una mail dopotutto cortese, un copia-e-incolla spedito chissà quante volte, impastato semmai di un fastidioso tono burocratico. Ma alla fine una proposta di collaborazione come tante altre, non differente dall'offerta di un aspirapolvere, che il titolare del locale - invece di rispondere sì grazie o no grazie o le faremo sapere - decide di ripubblicare su Facebook senza peritarsi di cancellare il nome della malcapitata ma anzi aggiungendo il commento: «Il nuovo modo di farsi le vacanze a sbafo». Una vendetta sui recensori online, sui critici che non capiscono, sui clienti che chiedono il parmigiano sulla spigola? Vai a sapere. Fatto sta che il signore (usiamo il termine per pura convenzione) si accorge di aver scatenato un putiferio e cancella il post, sostituendolo con un messaggio in cui ammette che «la situazione è un po' sfuggita di mano», ma precisando che «non basta essere un'influencer e avere 100mila followers su Instagram ma è più importante decidere assieme come poter collaborare in maniera virtuosa». Ognuno fa le sue scelte. La Pivati vive instagrammando la sua vita sempre dal lato del codice a barre, il ristoratore mazarese preferisce a un po' di reclame social al costo di due menu degustazione uno sputtanamento gratis. Basta saperlo.

TREMATE, LE STREGHETTE SON TORNATE. Emanuela Grigliè per “la Stampa” il 27 giugno 2019. Sognano il successo di Chiara Ferragni e molto meno il matrimonio. Subordinano la maternità alla realizzazione personale. Vivono il sesso e soprattutto il piacere come un diritto acquisito, masturbazione compresa, senza sensi di colpa. Faticano a distinguere la vita virtuale da quella reale. Sono le primissime giovani donne veramente libere, grazie alle battaglie delle nonne femministe di cui ignorano le imprese e che anzi guardano con una certa diffidenza. Lo spaccato sulle adolescenti metropolitane italiane viene da una ricerca del Consultorio del Minotauro, nato a Milano nel 2012, e a cui si rivolgono circa 100 famiglie l'anno. Nei primi anni l' attenzione degli specialisti del centro si è concentrata soprattutto sui maschi (oggi l' adolescenza è sposata molto in avanti, va dalla prima media fino all' inizio dell' università) e sul fenomeno molto maschile dei ragazzi «ritirati» che colpisce oggi in Italia, si stima, almeno 100mila teenager che scelgono di rinchiudersi nella loro stanza. La domanda successiva è stata chiedersi come, di fronte a una figura maschile (anche paterna) sempre più evanescente, sia evoluta la costruzione del sé nella loro coetanee. «Allevate da mamme transizionali, con nonne che hanno vissuto le grandi battaglie femministe, le adolescenti di oggi ritengono ovvie le conquiste delle due generazioni precedenti e danno per scontato che un ruolo pubblico non è prerogativa dei maschi. Sono le più determinate e le più brave negli studi», ci spiega Elena Paracchini, psicologa del Minotauro. «Non solo non sono più disposte a occupare il ruolo della compagna che sta un passo indietro, ma neanche lo vivono con senso di colpa, che è stato pedagogicamente eliminato. Sono state cresciute perché non si vergognino, siano sicure di sé e desiderose di prendersi tutto quello che possono». Altro grande tema che ha molto shakerato le loro esperienze è stata la convivenza esistenziale tra fisico e virtuale, in un mondo in cui tra l' altro il senso di comunità, soprattutto nelle città, è scomparso. «Hanno sviluppato il loro sé sociale non nel piccolo gruppo degli amici, ma in rete», aggiunge Paracchini. «Le ragazze si muovono con disinvoltura sui social, soprattutto su Instagram, il meno controllato dai genitori. Mettono una cura pazzesca nell' addomesticare e vendere la loro immagine, sono delle artiste. Un tempo le teenager erano impacciate davanti all' obiettivo, oggi sanno cogliere il loro aspetto migliore. Si costruiscono un' immagine virtuale che si sovrappone a quella reale. La loro vita è una sfilata continua. Cambiano però i riferimenti estetici. Basta modelle anoressiche, oggi i tratti della seduttività sono ostentati. Non per piacere al maschio, ma per il consenso delle altre femmine. Chiara Ferragni è il modello forte, non solo bella, ma intraprendente, che sa tenere testa agli uomini». La realizzazione professionale è una priorità. «Nei loro discorsi la maternità non viene esclusa a priori, ma viene dopo la realizzazione di sé. E non è più un compito mio in quanto femmina ma condiviso alla pari col padre. L' altare non è più la meta». Essere indipendenti è il mandato che ricevono dalle loro madri, che in generale vengono promosse come efficacia genitoriale. E che in molti casi hanno saputo insegnare alle figlie che il piacere sessuale è un diritto legittimo. A complicare le cose Internet, con fenomeni pericolosi come il sexiting e il dating on line in grande crescita. «I primi rapporti sessuali avvengono in media all' inizio del liceo. Ma spesso da relazioni che nascono online. Se un tempo gli annunci per trovare un partner erano roba per sfigati, oggi le app di incontri sono usate da tutti. Il problema è che gli adolescenti sono sì grandi conoscitori della tecnologia ma anche molto ingenui, non si rendono conto dei rischi che corrono quando si scambiano foto sessualmente esplicite». Oggi le ragazze dichiarano di attraversano molto spesso un periodo saffico. «Lo fanno con molta spavalderia e facilità a differenza di quelle ragazze che si sentono di avere una diversa identità sessuale - spiegano i ricercatori del Minotauro -. Abbiamo capito che succede un po' perché oggi la società lo permette, ma soprattutto per ottenere popolarità nel gruppo». Per quel che riguarda l' attivismo politico, i dati sono ancora pochi. Interessano i temi ambientali, come già i Fridays for Future e Greta Thunberg insegnano. Ma non è un caso che siano soprano le giovani donne oggi a essere in prima fila quando si c' è da battersi per il cambiamento. Del resto lo diceva già, tra le altre cose, il (controverso) libro Cheap Sex: The Transformation of Men, Marriage, and Monogamy del sociologo Mark Regnerus, uscito negli Usa lo scorso anno. Si sta radicalizzando un abisso tra le nuove generazioni nei due sessi: le donne più istruite e politicamente per l' innovazione, i maschi conservatori. Chiusi nelle loro camerette.

PER OGNI INFLUENCER CI SONO MIGLIAIA DI “DEFICIENTERS”. Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 20 luglio 2019. Belle Delphine è un' influencer dai capelli rosa, gli occhi da cerbiatta ed il sorriso ammiccante, ma a fare notizia non sono tanto i suoi connotati quanto il suo spirito imprenditoriale che, qualche giorno fa, l'ha spinta a fare di un semplice bagno in vasca un vero mercato. Attraverso il suo profilo Instagram da oltre 4 milioni di seguaci, la ragazza ha proposto l'acquisto di numerosi vasetti contenenti l' acqua dentro la quale si era immersa per dare riscontro all' igiene quotidiana. I bizzarri feticci, venduti al prezzo di 30 dollari ciascuno, sono letteralmente andati a ruba. Belle ha sponsorizzato l'articolo attraverso un video nel quale raccomanda di non bere l' acqua, ma di usarla solo per "scopi sentimentali". I follower aspettano già il prossimo bagno.

SIAMO CIRCONDATI DA "INFLUENCER": ORA TOCCA AI BABY.  Francesca Visentin per il “Corriere della sera” il 22 maggio 2019. Giovani e famosi, corteggiati dalle aziende, coccolati da sponsor e multinazionali, coperti di soldi da chi li vuole testimonial di qualsiasi cosa. Se postano, è subito delirio di like . Le griffe se li contendono. I «baby influencer» sono i nuovi ricchi. Non lavorano, ma guadagnano. A 14-15-16 anni fare la star sul web è considerato un gioco. C' è chi balla e canta imitando gli artisti famosi e parodiando i brani, chi s' inventa modi nuovi per fare tendenza, tipo il «ballo con le dita» che spopola su TikTok. O chi scrive diari e mini-storie su blog e Facebook, raggiungendo numeri di lettori che uno scrittore «tradizionale» di successo si sogna. Sembra strategia, ma spesso è casualità. Tra un mare di adolescenti che si divertono in Rete, ogni tanto qualcuno vince. E da un giorno all' altro si trasforma in web-star. Com' è successo a Marta Losito, 15 anni, di Casale sul Sile (Treviso), che balla e canta in video perché si diverte. L' ha sempre fatto, come tanti. Tutti su TikTok a rifare le canzoni degli idoli pop e ammiccare con smorfie e faccine. Da due anni, però, Marta ha tre milioni di follower. È una web-star, sposta folle adoranti ovunque vada, su YouTube è seguita da 500 mila fan e su Instagram da un milione: mettendo insieme i vari social, quasi 5 milioni di ragazzini tra i 6 e i 18 anni impazziscono per lei. Da poco è uscito anche un suo libro #Nonostante (Mondadori), subito tra i più venduti in classifica. E ai firmacopie, i fan intasano le librerie. Tanti follower, tanto guadagno, una bella responsabilità da gestire se hai 15 anni. «Non mi piace parlare di soldi e di quanto guadagno - chiarisce subito Marta -. Continuo a fare quello che mi piace, a gestire i soldi ci pensa la mia famiglia. È giusto così, con tutto quello che hanno fatto per me. Gli unici sfizi che mi concedo sono i viaggi, adoro viaggiare, mi sento cittadina del mondo». Se deve citare un personaggio che l' ha ispirata, Marta non ha dubbi. «Chiara Ferragni mi piace molto. È il mio idolo. Spero di incontrarla presto. Adoro il suo modo di vestire, spesso mi ispiro a lei». Il caso vuole che, come la Ferragni, anche Marta abbia un amore «molto social». «Il mio fidanzato Valerio Mazzei l' ho conosciuto in Rete. Anche lui è famoso e ha tanti follower. Abbiamo iniziato a chattare, poi ci siamo innamorati. Siamo i piccoli Ferragnez - ride Marta -. Una coppia popolare, come Chiara Ferragni e Fedez. I follower vedono in noi l' amore perfetto. Ma il nostro è un amore vero, non un amore social. Tra un mese festeggiamo il primo anniversario». Ora pure Valerio ha scritto un libro, Valespo , insieme a un altro baby-influencer, Edoardo Esposito (Sespo). Giovani e famosi. Come si arriva al successo? «Non so perché piacciono i miei video rispetto a quelli di un' altra - dice Marta -. Credo sia la mia semplicità che conquista. Creo empatia». Aprendo TikTok sono migliaia i ragazzini belli e spigliati che cantano e ballano. Cosa fa la differenza? Difficile capirlo. Di colpo la vita di uno di loro cambia. Dalla cameretta di casa ai viaggi, le interviste, la tivù, i libri, il branding di abiti o oggetti. Com' è successo a Marta, Valerio, Edoardo. Da «grande» Marta vuole fare l' attrice. «Recitare è la mia passione». Una vita che è come un sogno. Ma qualche spina non è mancata: «Sono stata presa di mira dai bulli, mi ridicolizzavano e demolivano sui social. Ho sofferto. Poi i follower sono cresciuti, hanno superato gli hater, ho imparato a ignorare le cattiverie e chi mi prende in giro.

·         Gli influencers ideologici.

 La democrazia non è Francesca. Alessandro Sallusti, Venerdì 10/05/2019 su Il Giornale. Francesca è una studentessa di un liceo di Milano. Ieri, alla Camera, che ha ospitato ragazzi provenienti da tutta Italia nel Giorno della memoria per le vittime del terrorismo, Francesca ha strappato l'applauso dell'Aula (e di Di Maio) quando, nel suo discorso, ha detto che «i valori fondanti la convivenza civile paiono messi in discussione perfino da chi riveste alte responsabilità di governo». Non ha fatto nomi, ma il riferimento a Matteo Salvini e alla Lega appare ovvio e immaginiamo ci si riferisca alla linea dura nei confronti dell'immigrazione e dell'illegalità. Una ragazza ha il sacrosanto diritto di dire ciò che crede, e anche noi pensiamo che Salvini stia «mettendo a rischio i valori fondanti della democrazia», ma per altri motivi. Per esempio, ostinandosi a governare contro l'indicazione ricevuta dagli elettori del Centrodestra, che mai più immaginavano di vederlo pappa e ciccia con Di Maio, suo acerrimo nemico per tutta la campagna elettorale, leader di una forza politica settaria, giustizialista e sostanzialmente comunista che ora, ovviamente, gli si sta rivoltando contro. I «valori fondanti» non sono a rischio per il rigore in tema di sicurezza, ma lo sono stati, e continuano ad esserlo, per via di una immigrazione fuori controllo e per una illegalità diffusa e impunita che si è impossessata delle periferie delle nostre città. I «valori fondanti» sono a rischio perché si vuole impedire a un editore di destra, farneticante fino a che si vuole, di partecipare al Salone del libro (con un volume su Salvini) e, contemporaneamente, non si batte ciglio se a Barbara Balzerani, brigatista rossa che partecipò al sequestro e all'uccisione di Aldo Moro, si spalancano le porte di università e convegni per tenere le sue lezioni. È vero, come dice Francesca, la democrazia scricchiola, ma il mio consiglio è di non confondere cause ed effetti. E c'è un modo con cui, soprattutto se giovani, si può dare una mano a salvarla. Alla prima occasione votiamo per chi le libertà le vuole ampliare e non restringere, per chi crede che la solidarietà non possa essere disgiunta dalla legalità, che la competenza venga prima della capacità mediatica, per chi sa che deve tenere i conti in ordine a tutela di tutti e sa che l'Europa va cambiata, non abbattuta. Così si salva la democrazia, non con la santa ingenuità dei ragazzi.

NEL VUOTO DI PENSIERO ANCHE LE PISCHELLE DIVENTANO ORACOLI. Paolo Bracalini per “il Giornale” l'11 maggio 2019. È una delle ultime tendenze in fatto di politica: la giovane che dice banalità ma siccome è giovane allora diventano pensieri profondi che fan riflettere. La sceneggiatura funziona a certe precise condizioni: meglio se la giovane promessa è una femmina, se è sotto i 25 anni o meglio ancora sotto i 20 più è giovane e maggiore ammirazione genera -, se esprime ovvietà da scuola dell' obbligo, ma soprattutto se manifesta una vibrante preoccupazione per il dilagare di qualche fenomeno considerato di destra (vanno bene fascismo, razzismo, xenofobia, nazionalismo ma anche solo una scarsa attenzione ai tempi ambientalisti è bene accetta). Dopo Greta Thunberg, la sedicenne svedese che spiega al mondo che è meglio non inquinare sennò si sciolgono i ghiacciai, alla Camera hanno scovato un altro oracolo in erba, Francesca Moneta, studentessa della IV C del liceo statale Virgilio di Milano. Ben indottrinata dai professori per far bella figura su parlamentari e autorità presenti alla cerimonia per il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo, la ragazza ha letto un compitino che ha impressionato molto l' emiciclio, specie nei settori dalla sinistra al M5s. Argomento del temino: ma quanto è fascista Salvini. Applausi «scroscianti», riportano le agenzie, per i tre minuti di discorsetto sul pericolo che corre la democrazia italiana con la Lega al governo e Salvini ministro: «Stiamo vivendo un periodo particolarmente difficile della nostra storia. I valori democratici fondanti la convivenza civile paiono a volte essere messi in discussione, perfino da chi riveste alte responsabilità di governo. Parole e gesti violenti amplificati a dismisura dai social media, diffondono un clima di diffidenza e di odio nella società civile, screditando le istituzioni democratiche, nazionali ed europee, che sono nostre e che dovremmo tutelare e difendere strenuamente». Un attacco al governo che viene però applaudito da Luigi Di Maio, ai ferri corti con Salvini e quindi ben contento di approvare pubblicamente la denuncia della teen-ager. Quasi commossa l' ex ministra Pd Barbara Pollastrini («Ringrazio per la bellezza, e la speranza, quelle scolaresche così impegnate e attente all' oggi, con l' intervento così forte della studentessa Francesca Moneta»), meno il forzista Maurizio Gasparri («Ha utilizzato la prestigiosa tribuna istituzionale con intenti sbilanciati»). Ma è la teenager-crazia, una moda non solo italiana. Greta Thunberg è un fenomeno mediatico internazionale, pur avendo scoperto solo l' acqua calda. Al punto che spuntano già le anti-Greta, come la quindicenne svedese Izabella Nilsson Jarvandi che ha subito attirato l' attenzione non solo perché pure lei è svedese ma perché si definisce «una giovane attivista politica contro il globalismo, che cerca la verità e la giustizia per la mia amata Svezia». Poi ci sono le Grete locali, come Alice, 9 anni, di Nettuno, spaventata perché «il mondo è come la frutta, sta andando a male», e poi c' è un' altra «Greta italiana» da cui imparare come comportarsi, tale Miriam Martinelli, che va solo con i mezzi pubblici (anche perché a 16 anni, guidare l' auto è difficile) e rischia la bocciatura perché non le interessa «andare a scuola quando il pianeta muore». In Cile ha subito sfondato Camila Vallejo, già poco più che ventenne, in quanto «astro nascente del comunismo cileno» e poi molto fotogenica, il che non guasta. Ma pure Ramy Shehata, il 13enne che salva i bambini sul pullman di San Donato, è diventato un guru in tema di ius soli. Anche maschietti vanno bene, purché omologati.

L'antifascismo di moda: si impenna solo se si vota. Boom di notizie con la parola «fascista» in ogni campagna elettorale. La prova che è strumentale. Giuseppe Marino. Domenica 12/05/2019, su Il Giornale. C'è la prova del nove: l'antifascismo è un juke box che suona a gettone. Quando arriva la campagna elettorale, metti la monetina e intona «bella ciao». A urne chiuse, torna a impolverare i libri di storia. Basterebbe constatare che i movimenti politici «neri» che infiammano le polemiche sono minoranze da zero virgola alle elezioni per dimostrarlo, ma la grancassa progressista si ostina a gonfiare il pericolo costante imminente che torni Lui. Da sempre a sinistra c'è la simpatica usanza di etichettare come fascista chiunque voti a destra per emarginarlo e aumentare l'esangue consistenza della minaccia, tanto che il Giornale, nel lontano 1974, è nato proprio assumendosi il compito di reagire a questa infame pubblicistica. La differenza è che ormai il gioco è scoperto, perché a sinistra non resta altro che questa infida colla identitaria per tenere insieme il nulla delle idee. Per avere una controprova dalla portata scientifica necessariamente limitata, ma dalla regolarità incredibilmente costante, è bastato contare quanti lanci di agenzia stampa (facendo riferimento alla più importante, l'Ansa) contenenti la parola «fascismo» siano stati messi in Rete ogni mese per verificare l'assunto. Ne è risultato un accuratissimo antifascistometro, un perfetto misuratore di «caccia alla camicia nera» che si impenna puntualmente solo quando si avvicinano appuntamenti con le urne. I numeri sono inequivocabili, basta sovrapporli ordinariamente al calendario delle elezioni. La coincidenza dei dati è da dimostrazione matematica. A febbraio 2018, quando infuriava la campagna elettorale più importante, quella per le politiche, i lanci di agenzia contenenti la parola «fascismo» sono stati ben 430. Il 4 marzo, chiuse le urne, il pericolo imminente è magicamente svanito, nonostante il centrodestra avesse vinto le elezioni, pur non raggiungendo la maggioranza necessaria a governare, e per di più con uno spostamento a destra dovuto all'affermazione della Lega. Eppure a marzo i lanci di agenzia black scendono ad appena 54: un calo secco dell'87 per cento. E pensare che fino al giorno prima i principali media sembravano intenti a raccontare le ultime ore di Weimar. Nei mesi seguenti l'andamento delle notizie e delle polemiche a sfondo antifascista rimane straordinariamente regolare: per molti mesi l'antifascistometro rimane a livello 50-60, con picchi negativi in agosto e a Natale: si vede che i neopartigiani non fanno le vacanze intelligenti. Frequenze leggermente più elevate si affacciano soltanto in alcuni mesi del 2018 e 2019. Basta consultare il calendario delle elezioni e si scopre che coincidono con il voto in Friuli e Molise (aprile 2018, due Regioni e 84 lanci), Val d'Aosta (regione piccola, solo 63 lanci in maggio), una tornata di rinnovi di consigli comunali (a giugno, pochi capoluoghi e quindi solo 69 lanci). Per tornare a livelli apprezzabili di «notizie fasciste» bisogna aspettare settembre-ottobre, con la ripresa delle ostilità politiche e la tornata elettorale in Trentino Alto Adige, da sempre molto connotata di accenti nazionalisti. A gennaio si riparte con le campagne elettorali per l'Abruzzo, ma tra fine febbraio e marzo si concentrano i voti in Sardegna e Basilicata e soprattutto il voto per le primarie del Pd, occasione in cui le fazioni interne hanno fatto ampio ricorso all'arma polemica più amata a sinistra: la gara a chi è più antifascista. E infatti i lanci risalgono alla grande, toccando quota 147. Nei mesi successivi si scatena la campagna per le europee ed è un crescendo, tanto che nei primi dieci giorni di maggio, data alla quale si ferma la nostra misurazione, i lanci sono ben 119, il che proietta il risultato del mese a livelli appena inferiori alle Politiche, rispettando anche la naturale proporzione di peso dei due appuntamenti. Spesso le polemiche sono teleguidate dall'alto. Ma non servono Grandi Vecchi della propaganda. Gli antifascisti possono contare su un popolo sempre più sparuto, ma ben disposto a operazioni nostalgia. E su intellettuali affamati di pubblicità da pagarla con la svendita dei valori che sostengono di difendere.

·         Piero, Angela il Grande.

Piero Angela dopo l’incidente: "Ho un po’ di problemi, spero di recuperare a breve". Piero Angelo rivela che tra qualche giorno toglierà il gesso al braccio sinistro, poi spera di poter recuperare in breve tempo: "Credo di aver superato tutti gli ostacoli". Luana Rosato, Mercoledì 04/12/2019 su Il Giornale. Solo qualche settimana fa, Piero Angela faceva preoccupare i fan in seguito ad una caduta in casa che gli ha procurato la rottura del braccio sinistro e contusioni alla spalla, al polso e all'avambraccio. Il divulgatore scientifico della Rai, però, è in fase di ripresa e contattato dalla trasmissione radiofonica I Lunatici, ha spiegato che tra qualche giorno toglierà il gesso, poi inizierà la riabilitazione. “Come sto? Ho un po' di problemi, la settimana prossima mi tolgono il gesso, poi spero di recuperare in poco, anche se ci vorrà tempo – ha raccontato Piero Angela, ammettendo di aver avuto non pochi problemi in questi giorni - . Sono cose lunghe e fastidiose. Per fortuna a essersi rotto c'è il braccio sinistro, mi sono reso conto di quante cose non si possono fare senza un braccio”. “Ora, per esempio, dormo su una poltrona – ha svelato - . Da quando mi sono rotto il braccio la notte non riesco ad alzarmi, ho comprato una di quelle poltrone reclinabili che si allungano e diventano un letto. Funziona bene”. Angela, che il prossimo 22 dicembre spegnerà 91 candeline, si sente tutto sommato in buona forma. “Speriamo bene, qui non si sa mai, ma credo di aver superato tutti gli ostacoli – ha scherzato lui - . La testa funziona. Mia sorella ha 92 anni e sta perfettamente, non ha nessun problema. Spero che la genetica sia quella, che ci aiuti. Quando si perde anche solo di poco la capacità di capire o di ragionare è terribile”. “Il mio lavoro mi porta a scrivere, leggere, parlare. Devo sempre far di compito, sia scritto che orale – ha aggiunto - .C'è sempre questa tensione, ci si mantiene in allenamento". Data l’età, però, Piero Angela non nasconde di rivolgere, di tanto in tanto, un pensiero alla morte. “Da quando ho compiuto 90 anni me lo chiedono. La morte è una grande scocciatura. È una mancanza di vita – ha detto ai microfoni della radio - . Noi moriamo ogni notte quando ci addormentiamo. La sofferenza, soprattutto fisica, ma anche psicologica, è la cosa che può turbare. Ognuno di noi si augura una buona morte”. Il divulgatore scientifico riesce, quindi, a scongiurare i pensieri più brutti pensando ad un detto di Leonardo: “Penso sempre a un detto di Leonardo, ‘così come una buona giornata porta a un buon dormire, così una vita spesa bene porta a un buon morire'. Lui si è spento con questa visione. Una filosofia pacificante”.

Dagospia il 4 dicembre 2019. Da I Lunatici Radio2. Piero Angela è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. Piero Angela ha parlato del suo stato di salute: "Come sto? Ho un po' di problemi, la settimana prossima mi tolgono il gesso, poi spero di recuperare in poco, anche se ci vorrà tempo. Sono cose lunghe e fastidiose. Per fortuna a essersi rotto c'è il braccio sinistro, mi sono reso conto di quante cose non si possono fare senza un braccio. Ora, per esempio, dormo su una poltrona. Da quando mi sono rotto il braccio la notte non riesco ad alzarmi, ho comprato una di quelle poltrone reclinabili che si allungano e diventano un letto. Funziona bene. Speriamo bene, qui non si sa mai, ma credo di aver superato tutti gli ostacoli. La testa funziona. Mia sorella ha 92 anni e sta perfettamente, non ha nessun problema. Spero che la genetica sia quella, che ci aiuti. Quando si perde anche solo di poco la capacità di capire o di ragionare è terribile. Il mio lavoro mi porta a scrivere, leggere, parlare. Devo sempre far di compito, sia scritto che orale. C'è sempre questa tensione, ci si mantiene in allenamento". Piero Angela ha aggiunto: "Sono uno che pensa positivo. Vedo in continuazione in televisione, nei giornali, nelle conversazioni, che c'è tanto pessimismo, aggressività. Io sono per costruire. Forse questo è dovuto all'esperienza della scienza, che cerca sempre di capire, costruire, fare, inventare. Fenomeni paranormali? Se ci fosse uno spillo che si muove di un millimetro contraddicendo le leggi della fisica sarebbe un avvenimento straordinario di cui tutti parlerebbero. Purtroppo non è così. Manca il fenomeno. Abbiamo messo in palio un milione di euro per chiunque sia in grado di dimostrare una qualunque forma di fenomeno fuori dalla legge della fisica. Ma nessuno l'ha mai incassato". Sulla paura nei confronti della morte: "Da quando ho compiuto 90 anni mi chiedono se ho paura della morte. La morte è una grande scocciatura. E' una mancanza di vita. Noi moriamo ogni notte quando ci addormentiamo. La sofferenza, soprattutto fisica, ma anche psicologica, è la cosa che può turbare. Ognuno di noi si augura una buona morte. Penso sempre a un detto di Leonardo, 'così come una buona giornata porta a un buon dormire, così una vita spesa bene porta a un buon morire'. Lui si è spento con questa visione. Una filosofia pacificante". A proposito di futuro del pianeta: "Non abbiamo mai vissuto così bene. Abbiamo cibo, cure, reddito, lavori meno pesanti. Negli ultimi 150 anni c'è stato un cambiamento pazzesco. Quando è nato mio padre nel 1875 l'80% della gente lavorava nei campi, a mano. Viveva di stenti, non c'erano cure, l'analfabetismo era a livelli incredibili. Noi oggi abbiamo tante cose e ci lamentiamo. Le tecnologie dovrebbero essere bilanciate, affinché non portino dei danni. Abbiamo una bacchetta magica che ha migliorato la vita di tutti, ma bisogna saperla usare. Pensate al problema della plastica: è semplicemente dovuto al fatto che questa plastica invece di essere buttata in mare dovrebbe andare nei rifiuti e non rientrare più nel ciclo. Le isole di plastica nell'oceano non sono frutto della plastica in sé. E' la gente che la butta via. Il problema non è mai dell'oggetto, ma dei comportamenti. E su questo non si fa quasi niente. A iniziare dalle scuole, per arrivare a televisione e magistratura. Servono leggi severe. Quando si è sporchi fuori, non si è puliti dentro".

Piero Angela: "Guardando Superquark un bambino scoprì che non avrebbe passato i 15 anni". di Redazione Tvzap il 18 giugno 2019. Il divulgatore scientifico di Rai1 ha parlato della sua trasmissione, arrivata ormai al 24esimo anno di vita, e della responsabilità che comporta andare in televisione. “Della tv rimpiango l’attenzione che c’era nell’usare il suo grande potere. Una volta, un papà mi ha scritto: ‘Il mio bambino ha scoperto che non supererà i 15 anni guardando il suo programma’. Da allora metto ancora più attenzione nel non ferire la sensibilità di nessuno, quell’episodio mi fece soffrire molto”: questa la rivelazione choc di Piero Angela, che ha sottolineato una volta di più come sia importante avere un uso responsabile del mezzo televisivo. Un aneddoto che svela un lato del conduttore di Superquark (giunto alla sua edizione numero 24, con quelle di Quark si sale a ben 38: la nuova edizione parte mercoledì 26 giugno su Rai1, dalle 21.25) che raramente il pubblico ha potuto vedere e che ultimamente ha potuto sbirciare un po’ di più anche grazie alle ospitate del conduttore negli altri programmi Rai.

Superquark va in onda ormai da ventiquattro anni, Quark addirittura 38, senza mai un attimo di stanca e sempre rivelandosi programmi molto attuali. Angela ha la sua spiegazione: “Le scoperte scientifiche non finiscono mai e quindi c’è sempre qualcosa di inedito da raccontare“, spiega nel corso di un’intervista con Tv Sorrisi e Canzoni, concessa al numero in edicola da martedì 18 giugno. Negli anni, il 90enne presentatore si è guadagnato, grazie alla sua attività di divulgatore, un enorme credito presso il pubblico come alfiere di scienza e cultura ma il conduttore svela che non smette mai di meravigliarsi: “Cosa può stupirmi? Molte cose. Lo sviluppo dell’elettronica e dell’informatica, per esempio. Quando cominciai si pensava che alla gente normale non servisse il computer“, racconta. E si professa sempre molto fiducioso nel progresso tecnologico: “Penso che ci sia molta fantasia apocalittica in giro e che le macchine non si ribelleranno mai”.

Piero Angela e l’episodio della malattia infantile. Tra i cambiamenti che ha visto verificarsi nel corso del tempo e della sua lunga e fortunata carriera, il divulgatore Rai per eccellenza ammette che, oltre allo sviluppo tecnologico, anche un altro tema si è pian piano imposto all’attenzione pubblica: “L’ecologia. Una volta nessuno pensava ai rischi ambientali“, svela. Del passato, però, Angela rimpiange la maggior delicatezza con cui veniva dosato il potere del mezzo televisivo e raconta un aneddoto molto personale: “Un episodio mi ha fatto soffrire molto. Avevamo mandato in onda un servizio su una malattia infantile. Nel parlarne, un esperto diceva che chi ne è affetto non raggiunge l’età adulta. Qualche giorno dopo è arrivata la lettera di un papà che scriveva: "Il mio bambino ha scoperto che non supererà i 15 anni guardando il suo programma". Da allora metto ancora più attenzione nel non ferire la sensibilità di nessuno”.

Piero Angela, 15 cose che non sai sul padre di Quark:

1 – Piero Angela ha ricevuto 8 lauree honoris causa, l'ultima in 'Scienza e tecnologia dei materiali' a Tor Vergata (Roma) il 5 aprile del 2016). Nella foto è con il Premio Nobel per la medicina 1986 Rita Levi-Montalcini.

2 – Ad honorem sì, ma "conquistate sul campo" no: Angela, nonostante avesse iniziato studi di ingegneria, non si è mai laureato. Ha un Diploma di Liceo Classico conseguito a Torino.

3 – Ha cominciato a suonare il piano a 7 anni ed è un eccellente pianista jazz. Qui in un'esibizione nel 2008 a Domenica In.

4 – Prima di dedicarsi al giornalismo si esibiva con il nome di Peter Angela. Qui nel '53 nella trasmissione radiofonica "Trampolino".

5 – Ha cominciato la carriera giornalistica in televisione nel 1954 come corrispondente da Parigi e parla benissimo il francese. Qui sta intervistando l'attore americano Cornel Wilde.

6 – Nel 1976 è stato il primo conduttore del TG2, che proprio nel 2016 compie 40 anni. Qui intervista Fausto Coppi.

7 – Il suo programma Quark, capostipite della serie di programmi di divulgazione scientifica più longeva della tv (Il mondo di Quark, Super Quark, Pillole di Quark, Speciale Superquark) è andato in onda la prima volta il 18 marzo del 1981, ossia più di 35 anni fa.

8 – E' tra i fondatori del Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale, il CICAP, che indaga l'effettiva esistenza dei presunti fenomeni paranormali.

9 – Gli è stato dedicato una nuova specie di mollusco raccolta nel Mar Cinese Orientale: la “Babylonia pieroangelai”.

10 – Nel 1994 gli astronomi Andrea Boattini e Maura Tombelli nello scoprire un asteroide lo chiamarono 7197 Pieroangela.

11 – Lui stesso è stato protagonista di una scoperta: nel 2009 Piero Angela ha trovato un nuovo autoritratto di Leonardo da Vinci presente nel libro 'Il Codice del volo degli uccelli'.

12 – Ha scritto il soggetto e ha partecipato alla sceneggiatura di un film avente per tema la minaccia della guerra atomica: 'Il giorno prima' (1987) diretto da Giuliano Montaldo con Ben Gazzara e Burt Lancaster.

13 – Ha ispirato il personaggio di Piero Papera, conduttore della trasmissione SuperQuack, apparso nel 2002 sul settimanale Topolino.

14 – Ha ricevuto sette telegatti, di cui uno alla carriera il 22 gennaio 2008.

15 – Ha scritto 38 libri, tra saggi e opere di divulgazione scientifica.

·         Mughini & Company. Gli Influencers della Cultura.

Caro Angela, Le Cose non stanno così. Pubblicato domenica, 14 aprile 2019 da Ernesto Galli della Loggia su Corriere.it. Gentile Alberto Angela, da quanto tempo non legge un libro di storia? Da parecchi anni, si direbbe, se si sta a un’intervista che lei ha dato a Repubblica qualche giorno fa. Nella quale si legge: «Quando apriamo un libro di storia troviamo date, re, battaglie, imperi e poi basta. Sfugge completamente la realtà e cioè che la storia è fatta di piccole storie. In questa serie (s’intende quella da lei curata), ogni epoca la vedremo attraverso una famiglia: ogni volume racconta di un padre, una madre, di figli, zie, ed esplora la loro vita quotidiana, i cibi, le strade, i commerci, i modi di vestire, come un padre si rivolgeva ai figli, come avveniva un matrimonio. Non è quello che tutti vorremmo sapere?». Ma certo! Peccato che sono decenni – almeno sette od otto ma forse di più, caro Angela – che gli storici di professione che proprio degli sciocchi non sono hanno avuto le sue stesse curiosità e si sono messi a fare ricerche e a scrivere libri per soddisfarle. Ha mai sentito parlare, tanto per dire, di storia sociale, delle Annales, di storia delle donne? Pensi che negli anni 80 del ’900 l’editore Einaudi varò addirittura una collana che s’intitolava «Microstorie» e che aveva proprio il taglio che lei auspica: raccontare il micro, storie minute di vita, per spiegare il macro. E guardi che da molto tempo perfino il più triviale manuale scolastico è pieno (pure troppo) di «Gli antichi romani a tavola», di «Come si viaggiava nel Medio Evo» de «La moda e la Rivoluzione francese». E così via sociostoricizzando. Pure troppo, ho scritto, perché vede, i re e le battaglie, anche se a lei non garbano, una certa importanza tuttavia ce l’hanno, dal momento che spesso decidono di quella cosa non proprio insignificante che è il potere: chi lo esercita, in quale modo, se con la Gestapo o con il Parlamento, con quali idee e propositi. Capisco che raccontare che cosa succedeva se uno si ammalava di peste nel Trecento appaia più avvincente (e soprattutto più adatto all’«audience» tv) che spiegare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: ma bisogna pur ammettere che senza la dichiarazione suddetta (e senza la vittoria francese nella battaglia di Valmy) anche tante cose di quelle che lei è così bravo a raccontare sarebbero andate in modo assai diverso o forse non ci sarebbero neppure mai state. Voglio dire insomma che la divulgazione è una cosa molto importante – in specie se come il suo caso è di alta qualità, e non lo dico per farle dei complimenti di cui non ha certo bisogno – una cosa molto importante la quale proprio perciò comporta tuttavia grandi responsabilità. Ad esempio di non spacciare merce per così dire taroccata, di non far credere di raccontare chissà quali mirabolanti novità quando viceversa si parla di cose da tempo acquisite al sapere dalla ricerca professionale. Anche questo infatti – non le sembra? – alla fine è un modo per svalutare la ricerca stessa e i suoi addetti, per abbassarne l’immagine e la considerazione agli occhi dei più. Se una sua trasmissione proclama di rivelare cose mai sapute prima o quasi, di fare storia in un modo prima mai visto, che figura ci fanno i cosiddetti competenti? Che li manteniamo a fare con il pubblico denaro? si chiede la gente. Anche la divulgazione poi dovrebbe preoccuparsi di non indulgere (addirittura fingendo poi di fare il contrario!) al conformismo culturale. Oggi questo spinge a credere che l’unica storia meritevole di attenzione sia quella cosiddetta «materiale», quella che nella sua versione più corrente ama trattare, che so, di com’era fatta un’abitazione di Pompei, di quali alimenti sono giunti dall’America o al più di come funzionava la tratta degli schiavi. Mentre la storia cosiddetta politica – la storia delle lotte accese dalle grandi visioni del mondo per decidere le forme e il ruolo del potere e delle istituzioni – sarebbe invece una noiosa e inutile anticaglia. Ho il sospetto, caro Angela, che anche lei, dopo tutto, la pensi più o meno a questo modo, e se non lei molto probabilmente la stragrande maggioranza dei suoi spettatori. Il punto è che così, però, il passato rischia di ridursi a una serie slegata di curiosità e di stranezze, a un seguito di episodi strabilianti e quasi da fiction. E che per questa via, dunque, non solo non si riesca più a vedere alcun nesso profondo, alcun quadro d’insieme, ma si finisca anche per alimentare il disinteresse per i complicati retroterra storici del presente, l’ignoranza di essi e delle complicate vicende delle nostre società. In sostanza la premessa per l’antipolitica: anche se sono sicuro che non è certo questo che lei vuole. Con un augurio di buon lavoro.

Da adnkronos.com il 10 dicembre 2019. Giampiero Mughini è "scrive bellissimi libri che non vende" e "occupa il posto della soubrette". Alba Parietti, su Instagram, si esprime così riaccendendo lo scontro con lo scrittore dopo il round andato in scena a Vieni da me. Mughini, scrive Parietti in un lungo post su Instagram, "offende da anni senza mai , argomentare solo sulla base di pregiudizi, io argomento senza offendere. Semplicemente mi difendo e difendo la memoria storica che mi è stata lasciata in eredità da una famiglia di intellettuali antifascisti. Se vogliamo poi, Carofiglio, Elena Ferrante, Claudio Magris, non mi sembra di averli visti con me fare le 'sfere' dalla D’Urso. O trovati alla Vita in diretta a parlare di Albano. Mughini sarà un grande intellettuale che scrive bellissimi libri, sicuramente, ma putroppo non li vende, occupa il posto della "soubrette"". "Poi -prosegue- non si lamenti se la soubrette che vende anche più di lui, scrive libri che hanno pure una buona critica e recensione da intellettuali più accreditati di lui: Gad Lerner, Ferraris, Elvira Serra ecc ecc. I libri non basta scriverli, bisogna anche che qualcuno li legga e soprattutto li compri. Mi sono macchiata, secondo Mughini che da sempre mi critica, mi offende, mi tratta come la bella scema senza motivare e argomentare mai. Pur di darmi addosso ha attribuito l'intera riuscita della liberazione dal nazifascismo agli Americani, giusto per mortificare il mio povero papà Partigiano e antifascista". "O la questione dei 9 miliardi a cui rinunciai che lui mette in dubbio -dice facendo riferimento alla proposta di Mediaset respinta-. Io oso pensare, io oso scrivere, avere pure critiche decisamente lusinghiere e non rimanere ghettizzata. Oso pensare, oso documentarmi, oso progredire, oso usurpare il ruolo di persona pensante a uno scrittore, come lui, mentre lui che io non mi permetto di giudicare, occupa spazi in trasmissioni che si dedicano a pettegolezzi e intrattenimento leggerissimo". "Per uno che aspira a paragoni alti non credo che Neruda , Tolstoj, Pasolini si sentirebbero a loro agio in trasmissioni televisive in cui lui è giornalmente. Si chiama coerenza. Sono io che voglio fare l’intellettuale e non ne ho le competenze o Mughini che aspira al ruolo di soubrette senza averne il phisique du role? La sentenza a chi leggerà "Da qui non se ne va nessuno" e potrà giudicare con cognizione di causa , scevro da pregiudizi e munito di onestà intellettuale indispensabile per essere una guida morale come lui si ritiene", conclude.

Giampiero Mughini e Alba Parietti, lite a Vieni da Me: "Vali quattro soldi", "Sai chi era mio padre?" Libero Quotidiano il 10 Dicembre 2019. A Vieni da Me Giampiero Mughini e Alba Parietti non se le sono di certo mandate a dire. Durante il programma di Raiuno condotto da Caterina Balivo, il giornalista ex direttore di Lotta Continua ha risposto a una domanda sulla soubrette: "Non penso che Alba Parietti sia la grande pensatrice del nostro secolo, che lei pensa di essere. Come quando parla della seconda guerra mondiale". Una dichiarazione non gradita dalla showgirl che ha ben pensato di replicare con una telefonata in diretta. "Faccio molta fatica a mantenere la calma… - esordisce lei -. Non accetto che Mughini dica che non conosco la storia della Seconda Guerra Mondiale, non è un argomento qualsiasi. È un tema che fa parte delle ragioni della mia vita". E ancora: "Mughini ha fatto la Seconda Guerra Mondiale? Ha partecipato? In che veste? Mio padre partigiano, antifascista, la Resistenza l'ha fatta non solo combattendo a rischio della propria vita. L'ha fatto anche da bambino non indossando la divisa da Balilla e prendendo botte. Mughini dice che la resistenza non sarebbe servita a niente senza gli americani". Ma il botta e risposta non finisce qui, perché Mughini definisce quello di Alba "un comizietto da quattro soldi". A riportare la pace in studio, solo la sigla che sancisce una momentanea tregua.

Alba Parietti ancora contro Giuseppe Mughini: "Ecco a cosa vorrebbe ridurre le donne". Libero Quotidiano l'11 Dicembre 2019. Alba Parietti contro Giampiero Mughini, atto II.  Dopo la lite a Vieni da me di Caterina Balivo, la Parietti rincara la dose in radio, a La Zanzara. “Non sopporto il fatto che una persona debba essere per forza intellettualmente disonesto e sputtanare gli altri senza motivo, cosa che fa da anni, tra l’altro senza argomenti…”. "Mi attacca da anni senza argomentare". aggiunge, "solo sulla base di pregiudizi tra l’altro machisti, maschilisti. Sono anni che dice che io non capisco nulla, che sono una non in grado di esprimere concetti”.  Secondo Alba, viene attaccata perché donna: "E’ proprio da Mughini. Perché io credo che Mughini faccia parte di una categoria di persone per cui le donne dovrebbero stare relegate e ghettizzate dentro certi ruoli. A lui da fastidio che io esprima delle idee, dei pensieri di senso compiuto, senza offendere mai, perché non ho mai offeso né lui né altri”.  Mughini si pone dunque come fosse superiore agli altri?: “Beh, lo dice in modo esplicito. Come Sordi: Io so’ io e voi non siete un cazzo”. Ma perché ce l’ha con te, te lo sei spiegato?: “Questo bisognerebbe chiederlo a lui o al suo psicologo. Io non sono in grado di dare una risposta. Ieri ha messo in dubbio anche la storia che io abbia rifiutato nove miliardi da Berlusconi. Prima l’ha detto, dopo se l’è rimangiato. Altrimenti ero pronta a querelarlo. Se non fosse vero il primo a smentire tutto sarebbe stato Berlusconi stesso”. “Evidentemente – prosegue – lo infastidisce che ci siano persone che sono in grado, pur non avendo probabilmente la sua così raffinata cultura, di fare meglio di lui le cose che lui fa. Perché lui scrive ma i libri bisogna anche venderli, oltre che scriverli. Vende poco? I dati sono evidenti”. Vende più il tuo libro?: “Anche qui i dati sono evidenti. Ma il punto non è questo. E’ assurdo che che lui dica che io non posso argomentare senza portare degli argomenti”. Poi parla delle Sardine: “Fossi a Roma andrei in piazza pure io con loro. Mi piace che scendano in piazza, in tutte le piazze, civilmente e con il sorriso, per dire che c’è un’altra Italia che non vuole l’esclusione, per dire che non sono tutti contro gli immigrati, per dire che in Italia non tutti la pensano come Salvini”. 

Dagospia l'11 dicembre 2019. Da La Zanzara – Radio 24. “Non sopporto il fatto che una persona debba essere per forza intellettualmente disonesto e sputtanare gli altri senza motivo, cosa che fa da anni, tra l’altro senza argomenti…”. Così Alba Parietti a La Zanzara su Radio 24 contro Giampiero Mughini dopo il litigio l’altro giorno su Rai 1. Perché dici intellettualmente disonesto, chiedono i conduttori: “Per il semplice fatto che una persona mi attacca da anni senza argomentare solo sulla base di pregiudizi tra l’altro machisti, maschilisti. Sono anni che dice che io non capisco nulla, che sono una non in grado di esprimere concetti”. Ma mica lo dice perché sei donna, dicono ancora Cruciani e Parenzo: “Per me sì. E’ proprio da Mughini. Perché io credo che Mughini faccia parte di una categoria di persone per cui le donne dovrebbero stare relegate e ghettizzate dentro certi ruoli. A lui da fastidio che io esprima delle idee, dei pensieri di senso compiuto, senza offendere mai, perché non ho mai offeso né lui né altri”. “Come fa a dire – prosegue ancora la Parietti - che io non conosco la storia, soprattutto la Seconda Guerra Mondiale quando io ho appena scritto un libro su questo, peraltro studiando, andando sui luoghi della Resistenza, documentandomi da quando sono nata”. “Lui – prosegue – esprime sempre una sorta di senso di superiorità, come se io non fossi in grado di parlare di queste cose. Ma i grandi intellettuali, come lui crede di essere, per esempio non li trovo mai…come Carofiglio, Ferrante, Magris, non mi è mai capitato di vederli con me in televisione a parlare di Al Bano e Romina dalla D’Urso, andiamo tutti molto felici e contenti. Quindi andiamo lì a fare le soubrette tutti quanti. Ci sono stati dei grandi intellettuali che andavano ovunque, però non disprezzando gli altri. Un grande intellettuale tanto per incominciare dovrebbe stare al passo con i tempi e adeguarsi ai linguaggi e non parlare con quel birignao ridicolo, con quelle giacche ridicole con cui si presenta sempre”. Mughini si pone dunque come fosse superiore agli altri?: “Beh, lo dice in modo esplicito. Come Sordi: Io so’ io e voi non siete un cazzo”. Ma perché ce l’ha con te, te lo sei spiegato?: “Questo bisognerebbe chiederlo a lui o al suo psicologo. Io non sono in grado di dare una risposta. Ieri ha messo in dubbio anche la storia che io abbia rifiutato nove miliardi da Berlusconi. Prima l’ha detto, dopo se l’è rimangiato. Altrimenti ero pronta a querelarlo. Se non fosse vero il primo a smentire tutto sarebbe stato Berlusconi stesso”. “Evidentemente – prosegue – lo infastidisce che ci siano persone che sono in grado, pur non avendo probabilmente la sua così raffinata cultura, di fare meglio di lui le cose che lui fa. Perché lui scrive ma i libri bisogna anche venderli, oltre che scriverli. Vende poco? I dati sono evidenti”. Vende più il tuo libro?: “Anche qui i dati sono evidenti. Ma il punto non è questo. E’ assurdo che lui dica che io non posso argomentare senza portare degli argomenti”. Poi parla delle Sardine: “Fossi a Roma andrei in piazza pure io con loro. Mi piace che scendano in piazza, in tutte le piazze, civilmente e con il sorriso, per dire che c’è un’altra Italia che non vuole l’esclusione, per dire che non sono tutti contro gli immigrati, per dire che in Italia non tutti la pensano come Salvini”. 

Stefania Rocco per tvfanpage.it il 17 dicembre 2019. “Non potrà mai esserci un scontro tra noi perché a questo livello non scenderò mai”: così Giampiero Mughini, prima ancora che Alba Parietti aprisse bocca, ha commentato lo scontro in divenire con la showgirl nello studio di “Live – Non è la D’Urso”. Dopo la telefonata in diretta da Caterina Balivo, i due si sono rivisti faccia a faccia nella trasmissione condotta da Barbara D’Urso. La questione è uno scontro improbabile il cui unico fine consiste nel determinare chi dei due sappia di più di partigiani e Resistenza durante la Seconda guerra mondiale.

La famiglia di Alba Parietti che ha fatto la Resistenza. “Mi spiace molto che Mughini non abbia argomenti, tanto per cambiare. L’ho sempre considerato un intellettuale raffinato e al suo livello di cultura non posso aspirare. Lui gratuitamente ha sempre sminuito la mia carriera. La cosa che mi preme di più è che come cittadina che ha avuto genitori antifascisti, io mi arrogo il diritto di potere parlare della storia della mia famiglia” ha esordito Alba rivendicando il diritto di parlare della storia italiana, anche in virtù del contribuito fornito dalla sua famiglia alla Liberazione dal fascismo. “Mughini ha contestato anche il fatto che io potessi parlare della Seconda guerra mondiale, che non ha fatto nemmeno lui. Io credo di averne titolo in quanto depositaria di diari di persone che hanno fatto parte della Resistenza. Negare la mia capacità di dare una lettura della Seconda Guerra mondiale mi pare un negazionismo assurdo e fuori luogo”. È sull’utilizzo di certi termini che Mughini articola la sua risposta: Mi sento male di fronte a ciascuna parola che sento perché non ha contenuto. Tutto è nato da una maledetta puntata del MCS dove eravamo un gruppo di amici a parlare del più e del meno. Nel mezzo di questa chiacchierata, lei entra con una tiritera in cui non credo ci sia granché. Si parla di resistenza e poi lei conclude con una affermazione che non ha alcun valore, che sono stati i partigiani che hanno liberato l’Italia. Parla di negazionismo, che è un termine che viene utilizzato per definire la corrente di pensiero che nega la Shoah.

Gli insulti tra i due, poi la pace. Il confronto tra i due prosegue sul piano degli inulti reciproci. Alba lo accusa di essere un uomo “violento e misogino con aspirazioni da soubrette”. Mughini replica azzardando un riferimento poco elegante alle labbra chirurgicamente ritoccate dalla Parietti. Poi conclude: “Non sai nulla, hai imparato 4 sciocchezze a memoria. Non avevo voglia di fare questo confronto, non è un confronto”. La pace scoppia inaspettata pochi minuti dopo quando, terminato il ring, i due si siedono l’uno accanto all’altra ripromettendosi di leggere i rispettivi libri prima di giudicarsi nuovamente.

Scontro Mughini e Parietti, volano parole grosse e offese personali. Durissimo scontro a "Live non è la d'Urso" tra Giampiero Mughini e Alba Parietti, tra offese personali, e attacchi sulla seconda Guerra Mondiale. Roberta Damiata, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Scontro durissimo a “Live non è la d’Urso” tra Alba Parietti e Giampiero Mughini, faccia a faccia per la prima volta dopo essersi attaccati via social e con una telefonata nella trasmissione della Balivo. I due, su posizioni completamente diverse, dopo un’inizio pacato, quasi negando la diatriba “Non potrà mai esserci un scontro tra noi perché a questo livello non scenderò mai”dice Mughini, esplodono nel peggiore dei modi, dicendosene di tutti i colori. L’argomento su cui si scontrano duramente è la seconda guerra mondiale, e Mughini racconta quando da Maurizio Costanzo è cominciata la loro diatriba: "Tutto è iniziato al Maurizio Costanzo Show - spiega Mughini - dove parlavamo tra amici, lei è arrivata con una tiritera parlando di Resistenza e dicendo cose che non stanno nè in cielo nè in terra. Ha detto che la Resistenza ha salvato l'Italia. Non sei in grado. La Resistenza è stato importantissima, ma non hanno vinto loro la guerra». Sentendosi toccata Alba, per niente intimorita risponde a tono: «Mi dispiace che Mughini non abbia argomenti. L’ho sempre considerato un grande intellettuale. Io non posso aspirare al suo livello. Lui invece ha sempre sottostimato me. Io ho tutto il diritto di parlare, di averne titolo in quanto depositaria di diari di persone che hanno fatto parte della Resistenza. Negare la mia capacità di dare una lettura della Seconda Guerra mondiale mi pare un negazionismo assurdo e fuori luogo”. Le “offese” reciproche vanno poi sul personale, con Mughini che la attacca dicendole: “Stai zitta, sei il nulla - e continua dicendole - Io però non sono stato sotto i ferri di un chirurgo del silicone” toccandola in maniera poco educata sui ritocchi estetici di cui la Parietti non ha però mai fatto mistero. La cosa indigna molto tutte le altre donne presenti soprattutto la Mussolini che commentando la scena non si rende conto di avere il microfono aperto e dice “Che figura di merda”. Alba ha bisogno di un bicchiere d’acqua perché non riesce neanche a rispondere “Sei un violento e misogino con aspirazioni da soubrette dovresti vergognarti”. I toni si accendono ancora davanti ad un parterre di opinionisti, soprattutto femminili, che fremono per poter rispondere a quelle che verranno poi considerate delle parole fuoriluogo e maschiliste. E così si interrompe l’incontro-scontro tra i due che vanno a sedersi in mezzo agli altri. Ma Alessandra Mussolini non ci sta, e ad alta voce dice a Mughini: “Io neanche ti saluto” e da opposta fazione si alza in piedi per abbracciare Alba Parietti mostrandole un’estrema solidarietà femminile, che viene molto apprezzata. “Vedere la Parietti che si abbraccia con la Mussolini è tanta roba” commenta Barbara d’Urso, ma è proprio ora che avviene il “miracolo televisivo” quando Mughini si alza e porge la mano ad Alba. I toni si abbassano e sfumata la rabbia, i due si abbracciano a favore di telecamera: “Abbiamo deciso che prima leggeremo i nostri rispettivi libri e poi nel caso riprendiamo a litigare”, commentano riportando la pace, ovviamente temporanea, in studio.Giampiero Mughini per Dagospia il 23 dicembre 2019. Caro Dago, non so te che hai una bella e vitale famiglia, ma per me la parola Natale non ha alcun significato. Da sempre. Nella mia famiglia originaria eravamo talmente poveri che non ci potevamo permettere neppure l’Albero di Natale o qualcosa di simile. Poi sono venuto a Roma, dove ho vissuto per 27 anni da solo. Poi è entrata nella mia vita Michela (nonché i nostri due setter, Bibi e Clint) ma a Natale lei va a Milano a godersi la sua vera famiglia, le due figlie e i quattro splendidi nipoti e si porta appresso Clint e Bibi. Quanto ai cosiddetti regali di Natale non ne faccio né ricevo alcuno, o per meglio dire a Michela ho fatto in settembre il regalo che doveva valere come regalo di Natale. Semmai, e siccome mi tengo in gran conto, un regalo me lo sono fatto da me. Quei diavolacci della libreria Pontremoli di Milano hanno scovato una delle pochissime copie preparatorie del libro/diario di Fidel Castro che Valerio Riva aveva come pedinato per anni e anni a trarne un libro della Feltrinelli, al tempo in cui Giangiacomo era pazzo di amore per la gens che aveva conquistato il potere a Cuba. Un libro che in definitiva non venne mai alla luce. Ne sopravvissero alcune copie pronte per la stampa, con le annotazioni ai margini di Valerio, che ricordo qui con affetto da quanto era geniale e rompicoglioni. Ebbene quella copia/cimelio me la sono regalata. Per il resto, l’ho detto, per me Natale vale come il 15 giugno o il 15 agosto o il 15 settembre, un giorno da vivere e senza aggiungere altro. Forse un giorno più difficile di altri perché la pizzeria di fronte a casa mia resta chiusa; peccato perché sarebbe stata un’ottima soluzione per la cenetta del 24 a sera. Una cenetta che negli anni avevo fatto spesse volte a casa di Carlo e Marina Ripa di Meana, due amici come non ne avrò mai più nella vita. Quanto agli auguri di Natale, li faccio a te Dago, che hai creato questa palestra di libertà che è il tuo sito, dove appaiono testi e scorribande corsare che non avrebbero diritto di cittadinanza altrove, a cominciare da queste mie “versioni” che avranno sì e no quindici lettori. Altri auguri non ne faccio, o solo a pochissimi. Ad Aldo Cazzullo, uno dei pochi e fidatissimi miei amici, ho scritto che è “mostruosa” l’agevolezza con lui passa da un editoriale di prima pagina sulla politica spagnola a un’ampia e succosissima intervista a Checco Zalone (il quale, sia detto tra parentesi, ha tutto il diritto di far ironia su Dio e i santi). Quando ricevo degli auguri in forma standardizzata _ nel senso che sono stati mandati come a una mailing list _ li cestino immediatamente. Come cestino immediatamente tutti ma proprio tutti i messaggi i post le foto di chi comincia col farti gli auguri per poi esibire e vantare e promuovere qualcosa della sua cita e del suo lavoro. Quanto al mio vivere i giorni di festa, me ne verrà qualche difficoltà perché la mia colf e com’è nel suo diritto se ne sta in vacanza. Pagherò in nero, alla faccia del fisco, un paio d’ore a un’altra mia collaboratrice domestica che verrà a rassettarmi l’indispensabile. Che è pochissimo. Sto finendo di leggere Il colibrì di Sandro Veronesi, uno il cui talento lo avevo individuato fin dal tempo in cui faceva un umile lavoro redazionale nello scantinato della Mondadori di via Sicilia. Appena lo finisco comincio un libro che credo sia formidabile a capire il gran casino del nostro Mediterraneo (affare Libia docet), il Breviario mediterraneo di Predrag Matvejevic, di cui Claudio Magris dice che è “un libro geniale e fulmineo”. Auguri, Dago.

ALBA, STAI BONA…GA! Antonello Piroso per “la Verità” il 20 maggio 2019. Stefano Bonaga, docente di antropologia filosofica all' Università di Bologna (dove è nato nel 1944), predilige il low profile: «Non voglio sembrare uno che se la tira, montando in cattedra a dispensare precetti». Gli spiego che non mi rivolgo solo all' agit prop che nel 1968 era alla testa della protesta giovanile, ma anche al pioniere del Web che portò Internet gratis ai bolognesi già nel 1994.

Antonio Gramsci aveva il pessimismo dell' intelligenza ma l' ottimismo della volontà. Lei?

«Adattandolo al mio stato attuale, quell' aforisma lo declinerei così: "Disperazione della ragione, velleitarismo della volontà"».

Si riferisce al governo gialloblù, alla sinistra perduta, al Pd zingarettiano?

«Il Pd appare un partito fermo, che riproduce sé stesso e le vecchie logiche d' apparato. Più che pensare al Che fare? di Lenin, bisognerebbe attrezzarsi per rispondere al quesito Come fare?. Riorganizzare la potenza sociale, la cittadinanza attiva, i corpi intermedi. Invece si insegue la destra sul terreno della leadership, del consenso, della governabilità fine a sé stessa».

Senza consenso non si governa.

«Se il consenso di cui si va a caccia è quello prestato al pifferaio magico di Hamelin, bisogna sapere che ha il respiro corto. Oggi la società non è più stratificata in classi sociali a compartimenti stagni, con interessi convergenti e omogenei al loro interno. È frammentata e magmatica. Con una provocazione, si dovrebbe rispolverare il paradigma regolativo del Manifesto del Partito comunista di Marx e Engels: "A ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le proprie possibilità"».

Pensavo si riferisse a «Un fantasma si aggira per l' Europa»: la sinistra.

«La dicotomia destra-sinistra hanno voluto darla per superata, dobbiamo ringraziare l' azione instancabile in tal senso di Matteo Renzi, il Rottamatore di persone e di principi, basti pensare a come ha legato il referendum costituzionale ai destini del governo e suoi personali. Rimediando una débâcle per la quale vedo che non è ancora riuscito a elaborare il lutto».

Oggi sarebbe la destra a essere vicina al popolo.

«Mi faccia fare il filosofo: dobbiamo distinguere il populismo ontologico da quello fenomenologico, anche se entrambi svuotano di significato lo stesso concetto di sovranità popolare».

Non mi rifili una supercazzola.

«Me ne guardo bene. La natura intrinseca, in sé, del populismo è la depoliticizzazione del corpus sociale: l' impegno si esaurisce nel mandato elettorale, la croce sulla scheda ogni tot tempo, in realtà si delega all' uomo solo al comando, che sul piano di ciò che appare diventa culto del capo, amplificato dalla propaganda e dall' individuazione-ossessione per un "nemico esterno", l' ebreo, il "negro"».

Ma non ritiene che se oggi ci sono «questi qua» è perché prima di loro c' erano «quelli là», i governi del presidente, i patti del Nazareno?

«Nei processi storici tutto si tiene, e i sismografi della politica dovrebbero essere in grado di allertare la "protezione civile" prima dell' arrivo dello tsunami, perché poi è troppo tardi. Non dimenticando che se Renzi e il suo Giglio magico sono stati il colpo di grazia per la sinistra (perché al contrario di quello che riteneva lui in una società liquida devi avere un partito "solido", non fluido a sua volta), la Lega ha governato a lungo con Silvio Berlusconi, solo agli occhi delle anime belle Matteo Salvini la può spacciare per nuova».

Nel Sessantotto lei era un leaderino del movimento studentesco, un Rudi Dutschke in salsa emiliana.

«Acqua passata».

Contestatore ma studioso. Laurea a pieni voti in filosofia. Tesi su?

«Visto che me lo chiede. Lo strutturalismo di Louis Althusser, grazie alla quale ottenni poi una borsa di studio a Parigi, dove conseguii il dottorato con Gilles Deleuze».

A fine anni Ottanta è consigliere comunale eletto come indipendente nel Pci, poi assessore.

«Nella giunta di Walter Vitali, tra il 1993 e il 1995. Scelsi i "rapporti con i cittadini e innovazione"».

E s' inventò Internet «per il popolo». In anticipo sul volume Essere digitali di Nicholas Negroponte, profeta del Web.

«Negroponte parlava della Rete come di nuova tecnologia, io mi permisi di dirgli che la consideravo la scoperta di un Nuovo mondo. Per me significava apertura ai saperi, la possibilità di un "cervello sociale". Scoprii che il Cineca, il Consorzio interuniversitario che è un centro di calcolo a livello mondiale, si era allacciato al cavo transoceanico che portava Internet in Europa. Imposi la definizione di cittadini, non di "clienti" del servizio: protagonisti di un circolo virtuoso con l' amministrazione e le istituzioni, cui sottoporre direttamente le proprie istanze».

Liscio come l' olio.

«Mica tanto. Su Iperbole (così si chiamava il progetto: Internet per Bologna e l' Emilia Romagna) in Comune fioccavano i sarcasmi, lo chiamavano "il sarchiapone". I provider commerciali ci fecero causa per presunto monopolio e abuso di posizione dominante, ma persero. Le associazioni di categoria non vedevano l' utilità del "giocattolo" (gli albergatori mi dissero: "Ma noi il computer l' abbiamo già"), 30.000 bolognesi aderirono invece subito con entusiasmo».

Ne ha fatto tesoro Beppe Grillo.

«Nei suoi spettacoli a inizio 2000 distruggeva i computer a martellate. Poi si è convertito.Continuando a sbagliare: prima perché non ci credeva, poi perché si è convinto che il Web si autolegittimi. La Rete non ti dà dignità solo per il fatto di esserci, gli haters, i pettegoli, i rompicoglioni rimangono tali...».

Ne deduco non sia molto social.

«Non ho lo smarphone ma un Nokia da 19 euro, faccia lei. La Rete è uno spazio vuoto riempibile all' infinito, quindi è un universo definito da ciò che ci metti dentro. Un processo che deve essere di empowerment, di allargamento, miglioramento e crescita delle capacità. Le grandi rivoluzioni non sono mai state tali perché puntavano banalmente a soddisfare un bisogno, chiedendo alle persone: "Cosa volete?", ma perché le mettevano in condizione di dispiegare le proprie potenzialità, cioè il "cosa potete"».

Il M5s si è imposto proprio con questo programma. I gilet gialli italiani.

«Non scherziamo. I grillini non sono un partito di massa, ma solo dei raccoglitori di masse di opinioni. Le manifestazioni oltre confine le seguo dall' inizio perché ho una fidanzata francese che ha partecipato a tutte le manifestazioni di protesta a Parigi. È una mobilitazione non virtuale di persone in carne e ossa che non vogliono più essere rappresentate, ma presentarsi. Rivendicando la loro dignità con Emmanuel Macron: siamo citoyens, e tu ci devi rispetto».

Si è appena chiuso il Salone del libro di Torino, segnalato dal caso dell' editore vicino a Casapound escluso all' ultimo momento per «apologia di fascismo».

«Mi chiedo: com' è possibile che il ministro dell' Interno (che ha giurato sulla Costituzione e che dovrebbe sapere che il combinato disposto tra questa e le altre norme in materia, a cominciare dalla legge Scelba, non lasciano spazio a dubbi) scelga di essere pubblicato da un editore con problemi giudiziari, fotografato mentre partecipa a scontri di piazza?».

Ha detto che ignorava la circostanza.

«Ha detto la stessa cosa anche quando ha abbracciato allo stadio un capo ultras pluripregiudicato. Bell' esempio di ministro informato. Mi chiedo quanto Salvini possa andare avanti a fare il furbetto del quartierino, lisciando il pelo all' estrema destra».

Lei non vuole apparire ma negli anni Novanta la relazione con Alba Parietti non fu esattamente clandestina. E lei aveva una decisa influenza sulla signora: le impedì di firmare un contratto da 9 miliardi di lire con Canale 5.

«Ancora con 'sta storia? Ne ha sempre parlato solo lei. Una volta commentai: "Alba soffre di incontinenza mnesica, emette ricordi", aggiungendo una battuta che taluni presero per vera: "Qualora anch' io facessi esondare la mia memoria, la accuserei di avermi fatto perdere 115 milioni di euro al Superenalotto perché mi è apparsa in sogno dicendomi di cambiare tre numeri sulla schedina"».

All'ultimo Festival del cinema di Venezia, dove cura gli incontri di «filmosofia», era a un dibattito con l' attrice hard Valentina Nappi, argomento: il desiderio. Quando ho digitato su Google: «Bonaga Nappi», il primo risultato è stato (lo trascrivo edulcorandolo): «La pornostar contro il filosofo: "Voglio eiaculargli in faccia"».

«A me?».

No, si riferiva a un suo collega.

«E a chi?».

Diego Fusaro.

«Ah (pausa). Uno Sgarbino "marxillo" facciale...».

La minaccia della signora era peraltro contenuta in un articolo per il sito della blasonata rivista «de sinistra» MicroMega.

«Grazie della notizia. In ogni caso, quel dialogo è stato... un caso: il confronto doveva avvenire con una delle registe del collettivo del porno di Roma, che si è presentata con lei al seguito. Impressioni? Tutt' altro che stupida o ignorante. Ma un' esibizionista d' arroganza sì».

Antonio Gnoli per “la Repubblica” il 6 maggio 2019. Sostiene di avere una memoria da elefante. Gli chiedo per farne cosa. Per ricordarmi di tutte le offese subite, risponde. Sono tante? Domando. Mi guarda da un punto in penombra della stanza dove siamo e dice che un altro al posto suo avrebbe perso il conto. Giampiero Mughini ha 78 anni e un carattere di non facile decifrazione. O meglio: tutto in lui indurrebbe a pensare al temperamento orgoglioso che facilmente scivola nell' ira. Mi rendo conto che il personaggio possa apparire antipatico a coloro che praticano l' arte dell' understatement e che la sua popolarità tragga forza e riconoscibilità dall' essere proprio così: teatrale, vistoso ( perfino nel vestire), gestuale e a tratti ruvido. Ma sono convinto altresì che una voce dentro di lui, non quella metallica e assertiva, ci implori di credere a un altro Mughini: meno aspro, più dolce, più dubbioso e tollerante. Non so se sia davvero così acceso il contrasto, ma quello che noto in lui è una lealtà di fondo mista a un' ossessione che lo porta a fare costantemente i conti con il proprio passato. Nel quale scava e si tormenta come in quest' ultimo libro Memorie di un rinnegato, appena pubblicato da Bompiani.

Com' è il rapporto con la tua memoria?

«Eccellente, non dimentico soprattutto gli insulti».

Rinnegato ti chiamò Marco Bellocchio, in che occasione?

«Eravamo in uno studio televisivo. Io facevo le domande, lui doveva rispondere. Gli chiesi, visto il suo coinvolgimento nel Sessantotto, se c' era niente di quel periodo che avrebbe messo in discussione. Poteva darmi una risposta meditata. Glissare. Scelse l' insulto: meglio aver partecipato a quei cortei piuttosto che essere diventato un rinnegato. Era evidente l' allusione a me».

Perché era evidente?

«Perché l' anno prima, cioè nel 1987, era uscito Compagni addio, un mio bilancio sulle penose e tragiche vicende che riguardarono quegli anni. Sui cattivi maestri, molti dei quali non fecero mai autocritica. Personalmente mi dimisi presto dal Sessantotto ».

Come fosse una professione?

«Non si distingueva poi tanto tra la vita privata e l' impegno. Vivevo a Catania quando, più che ventenne, fondai insieme ad altri Giovane Critica, una rivista che all' inizio si occupava di cinema e che in seguito allargò lo sguardo al mondo della politica e ai fermenti che avrebbero condotto al Sessantotto».

In che anno nacque la rivista?

«Alla fine del 1963. Ricordo un abbonamento sostenitore che ci arrivò da Luciano Della Mea, fratello di Ivan. Fui sorpreso perché Luciano, nonostante fosse un intellettuale importante, viveva in grandi ristrettezze economiche. Ringraziandolo del gesto, gli rispedii i soldi. Diventammo amici. Per me fu un fratello maggiore. Anche se il rapporto tra noi si ruppe. Non ci sentivamo più da tanto, quando nel 2000 ricevetti una sua lettera che mi ferì profondamente».

Cosa c' era scritto?

« Commentava l' Italia di fine millennio, sciatta, miserabile e deludente. E concludeva con due righe sprezzanti: mentre questo paese va in pezzi tu te ne stai acquattato e sazio in un angolo. Acquattato? Sazio? Sentii quell' offesa bruciarmi. Gli rispedii la lettera senza alcun commento. E poi, un anno e mezzo dopo, Luciano è morto. Di tutte le fratture quella fu la più dolorosa».

Forse avresti dovuto accettare la provocazione, capire cosa l' avesse motivata.

« Mi chiedo tuttora il perché della mia reazione. Da tempo avevo seppellito il mio passato, denunciando tutte le cazzate che avevamo fatto a sinistra. Mi ritrovai solo e frustrato. Una condizione in qualche modo simile a quella che avevo vissuto nell' infanzia».

Spiegati meglio.

«Sono figlio di due separati. Oggi è normale ma nella Catania della fine degli anni Quaranta ero visto alla stregua di un paria».

Che età avevi quando i tuoi genitori si separarono?

«Cinque anni, il tempo che era durato il loro matrimonio. Si conobbero in treno, mio padre vedovo, già con due figli e mia madre giovanissima. C' erano tra loro vent' anni di differenza».

Fu questa la ragione della separazione?

«No, penso che alla fine mia madre non sopportasse più la sua durezza. Decise lei di rompere e puoi immaginare cosa significava quella scelta per una donna ancora giovane, in un posto come Catania. Le voci, le allusioni, i sorrisetti. Ho odiato quella città».

Come vivevate?

«Male. Papà non passava soldi. C' erano le 60 mila lire di pensione del nonno, che era stato professore di stenografia. Giravo con un solo paio di scarpe. Buone per la festa, per i giorni feriali, per giocare in strada. Non ci potevamo permettere né il telefono né il frigorifero né il televisore, che andavamo a vedere da certi cugini ricchi. In casa non c' era un libro. Provavo vergogna per la mia vita».

Frequentavi tuo padre?

« Andavo a pranzo da lui tre o quattro volte al mese. Poi un giorno mi disse: tu sai che la mamma ha un uomo? Allora ero timidissimo. Ma trovai il coraggio per dirgli che era nel suo pieno diritto. Mi guardò stupito e non disse più nulla».

Cosa faceva tuo padre?

« Le sue origini erano toscane. Fervente fascista, lavorò per un' azienda legata alla Fiat, che a un certo punto lo spedì a Catania. Decise di cambiare lavoro e aprì un piccolo studio da commercialista. A un certo punto cominciò a passarmi una paghetta di 6 mila lire al mese che negli anni del boom divennero 30 mila. Spendevo quasi tutti i soldi in libri.

Cominciai a leggere seriamente dopo i 19 anni. Feci l' università prima a Catania e poi a Roma, dove mi laureai tardi. Ci fu anche una fuga a Parigi, dove vissi per due anni. Fu quello il periodo al quale faccio risalire il mio atto di nascita. Poi nel 1970 decisi di abbandonare definitivamente Catania per andare a vivere a Roma».

Che città incontrasti?

«Bellissima con le sue trattorie abbordabili, i suoi vicoli, e l' eterno barocco. Ma dovevo mantenermi. Non avevo soldi. Portavo con me una macchina da scrivere che mi era stata regalata da mio fratello. Era chiaro il mestiere che volevo fare. Cominciai a scrivere per la rivista Astrolabio. Ogni articolo mi veniva pagato 25 mila lire. In redazione c' era anche Tiziano Terzani. A un certo punto ci liquidarono perché considerati troppo di sinistra. Tiziano partì per l' Oriente. Io mi imbarcai nell' impresa del manifesto. Ma anche lì non è durata a lungo».

Perché?

« Per un dissidio con Lucio Magri. Voleva un giornale che si autocelebrasse. Io volevo un giornale vero. Spiegai le mie dimissioni con una lettera a Luigi Pintor».

Di nuovo in mezzo alla strada.

«Di nuovo la miseria. Per quanto la città in quegli anni potesse essere a buon mercato, non ce l' avrei fatta a sopravvivere. Mio padre morì nel 1973. Nonostante tutto fu un duro colpo. Avevo cominciato ad apprezzarlo. Lui, fascista, non disse mai nulla delle mie scelte politiche di sinistra. Anzi, quando la rivista Giovane Critica cominciò ad avere problemi finanziari, fu il ragionier Mughini a prendere in mano l' amministrazione e a far quadrare i conti. Quando morì, il giornale La Sicilia pubblicò due pagine di necrologi su di lui. Scoprii, con mia sorpresa, che fu anche un uomo amato e apprezzato».

Te lo sei portato dentro.

«Per me c' è un prima e un dopo la sua morte».

Un dopo cosa vuol dire?

«Provai a fare i conti con l' intolleranza che in quegli anni si viveva nel nostro paese. Rigettai tutta la muffa ideologica del marxismo- leninismo, le aberrazioni del maoismo e mi avvicinai a quegli intellettuali che avevano capito la lezione del 1956. Non ho mai avuto tessere, ma ho quasi sempre lavorato per giornali e riviste di sinistra: Mondoperaio che fu il mensile politico secondo me più bello a cavallo degli anni Settanta e Ottanta; Paese Sera prima con Arrigo Benedetti poi con Aniello Coppola. Godendo di grande libertà. Ma l' esperienza più bella e formativa l' ho avuta con Claudio Rinaldi, che ha diretto tutti e tre i grandi magazine. È stato il migliore direttore della mia generazione. Quante belle cose ancora avrebbe potuto fare se la morte non se lo fosse portato via».

La tua storia, diciamo tra politica, saggistica e giornalismo in che modo si concilia con la televisione?

«Mi pagano e io do valore al denaro. Consentendomi di dire tutto quello che voglio».

Davvero ti senti libero?

«Ho scelto di fare una televisione popolare. A me non interessava il programmino notturno in cui ti avvolgi in profonde elucubrazioni mentali. Per me fare la televisione in fasce normali di ascolto è stato come entrare in un luogo che non è casa mia, che non somiglia a casa mia e che si rivolge a un pubblico che non è quello che di solito frequento privatamente e al quale mi rivolgo con un linguaggio abbordabile, senza smentire di una virgola quello che sono stilisticamente».

Ti soddisfa davvero questa autoassoluzione?

«Perché non dovrebbe? E poi non mi sto giudicando, né assolvendo. Lascio agli altri il compito di farlo».

Le tue frequentazioni televisive non ti hanno reso un po' pittoresco?

«Cosa vuol dire pittoresco?»

Sei vivace, riconoscibile, plateale. Televisivamente puoi aspirare alla maschera "Mughini".

«La televisione non è tutta uguale. Ci sono un linguaggio e dei tempi che devi rispettare. Per me è stata anche una scuola formidabile».

In che senso?

« Nello scrivere, per esempio, ho tenuto conto di quello che avevo sperimentato in televisione. Poi tu dici: pittoresco. Penso che alla fine ognuno risponda di se stesso. E sono pronto ad affrontare qualsiasi "processo di Norimberga"».

Non ho dubbi. Anche se penso che nella tua vita, nel modo con cui hai chiuso certi rapporti, fino ai tuoi approdi televisivi, ci sia una forte componente teatrale.

« Non ci ho mai pensato. Forse è un retaggio della mia sicilianità ».

Pesano le tue origini?

« Moltissimo. Nel senso che le detesto. E credo di avertelo spiegato».

So che sei anche un collezionista.

«Lo sono diventato. Ho collezionato tra l' altro un intero catalogo in edizione futurista composto da 53 libri. Di lì altre avventure nel Déco e nel Liberty».

Ti piace il Novecento?

«Un grande secolo, nel bene e nel male».

Cosa ti attrae del collezionismo?

«L' aspetto conoscitivo e soprattutto quello erotico. Erotismo di testa, beninteso».

Applicabile anche alle donne?

«Nella mia vita le donne hanno contato più per la loro assenza che per la presenza. Tranne Michela, che è la compagna con cui vivo ormai da anni, l' unica reale, le altre sono state immaginazione, scacco, sopravvalutazione. Frutto appunto di un erotismo di testa».

Ti senti un privilegiato?

« Non ho mai goduto di privilegi: né di casta né frutto di compromessi. Nella mia vita ho cercato solo di arrancare. Beccandomi anche un paio di depressioni».

Quando?

«La prima a cavallo tra il 2014 e il 2015. Improvvisamente ebbi la sensazione di stringere sabbia tra le mani. Fui sorpreso. Spaventato. Da quella tristezza così invasiva. Farmi una doccia era un problema. Mangiare un boccone di riso era come avere un montone nel piatto. Leggere libri era impossibile. Scrivere non ne parliamo. Fu un momento buio della mia vita. Poi la seconda depressione è arrivata nel 2017. L' ho curata con i farmaci. E ne sono uscito abbastanza presto».

Temi che possa arrivarne una terza?

«Gli esperti dicono che è possibile. Sono come una sentinella che aspetta l' arrivo del vuoto. Vedi, c' è una parte di me divorata da un pessimismo assoluto. Non mi aspetto niente da nessuno. Forse anche questo è un tratto della mia sicilianità».

Torni mai in Sicilia?

«Da quando è morta mia madre, nel 2000, non sono mai tornato. Non c' è nulla più che mi lega a quella terra. Se non il ricordo di quella donna che ancora mi fa soffrire».

Perché?

« Anche mia madre cadde in depressione. Alla fine non parlava più, non comunicava più. Al telefono le chiedevo come stava, la imploravo di dirmi qualunque cosa. Ma lei taceva. La misi in una casa di riposo dove avrebbero potuto accudirla. Morì dopo due mesi. Per lungo tempo ho vissuto con un senso di colpa atroce. Ma che potevo fare?»

Che cos' è la morte degli altri?

«È la metafora della tua morte. Ricordo che andavo a trovare Antonello Trombadori a casa. Era già molto malato. Gli parlavo della politica, del Pci, delle manifestazioni. Dei compagni che aveva conosciuto, amato, detestato. E lui mi disse: Giampiero non ti seguo, scusa. Ecco, la morte è anche questo, perdere l' attenzione per tutto quello che hai creduto dovesse essere o rimanere importante».

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 settembre 2019. Caro Dago, pur non essendo su nessunissimo tra i canali detti “social”, e pur non avendo nessuna attitudine allo scambio “social” ora per ora e giorno per giorno, ricevo non pochi post o non so come altro chiamarli. Da gente che conosco, ma anche da gente che ho visto un’unica volta in vita e magari di sbieco, e anche da gente che non conosco affatto. Una ragazza che avevo incontrato parecchi anni fa, e poi ci eravamo visti un paio di volte, e io avevo pensato che le facesse piacere ricevere un mio libro che era appena uscito, glielo mandai, e lei mi mandò un messaggio in cui commentava negativamente la prima pagina del libro, ossia la dedica. Poi non l’ho mai più sentita né vista, salvo adesso che ricevo un giorno sì e l’altro pure una sua istantanea da qualche parte e in qualche luogo. Tutti mandano immagini di sé, luoghi che stanno guardando, ambienti dove loro si stanno muovendo e dove qualcuno li sta osannando. Non so perché li mandino, forse solo perché faccio parte di una loro mailing list. Ricevo da gente che non vedo più da vent’anni inviti alla presentazione di un loro libro, e in questi casi penso quasi sempre alla necessità di una legge che in qualche modo proibisca agli italiani di scrivere dei libi, dato che ne escono quasi 70mila l’anno, di cui la metà e passa non vende una sola copia. Tutti sono entusiasti di sé a giudicare da come si promuovono, da come sorridono al mondo, da come si fotografano, da come mettono in primo piano le eventuali pietanze che stanno per addentare. Io resto di stucco, dato che di me stesso non ho proprio nulla da promuovere o da raccontare. Proprio nulla. Quel pochissimo che mi accade, mi accade nella stanza dov’è il mio computer e da dove ti sto scrivendo, caro Dago. Ma anche quando incontro delle persone, il più delle volte sto in silenzio perché non ho nulla di interessante da dire, a cominciare dalla politica italiana di oggi, a proposito della quale non ho parole. Mi piace ascoltare, questo sì. Ascoltando si impara, ne sai di più sulla commedia umana. Se qualcuno arriva a cena a casa mia, lo ascolto volentieri. Ultimamente è venuta una mia (cara) amica che non vedevo da tempo. Mi ha parlato a lungo di sé, e mi ha fatto piacere che lo facesse. Mi a chiesto quale fosse l’argomento del libro che sto scrivendo. Le ho detto che non intendevo annoiarla con queste inezie. Dio mio, come invidio la Ferragni. Una che ne fa un’epopea anche della ciabatte che indossa per andare al bagno. Quella sì che è vita e che ne vale la pena.

Giampiero Mughini per Dagospia il 30 agosto 2019. Caro Dago, stamane dopo aver comprato i giornali e molto molto prima di passare agli articoli sul nascituro governo italiano, mi sono precipitato sulle bellissime pagine che il Venerdì di “Repubblica” dedica al nostro indimenticabile Gianni Brera. Tre ricordi su tutti. Ero uno studente universitario nella Catania dei primissimi anni Sessanta e leggevo “Il Giorno”, che andavo a comprare nell’edicola vicino casa mia dove i quotidiani pubblicati in “Continente” arrivavano attorno alle dieci e trenta del mattino. Ho come impressa nella mente l’immagine di me seduto sul marciapiede che aspetto il mio amore dei vent’anni all’uscita del suo liceo, l’ex convento dei Benedettini dove Federico De Roberto aveva ambientato la notevole parte del suo “I Vicerè”. Nell’attesa avevo in mano la copia del “Giorno” che avevo appena comprato e ne stavo leggendo il primo articolo, voglio dire l’articolo che sempre leggevo per primo pur in un quotidiano zeppo di gioielli giornalistici, da Alberto Arbasino a Giorgio Bocca a Gianni Clerici. Ovviamente l’articolo di Brera. Nel leggerlo, ricordo, avevo le dita sudate dall’ansia di star aspettando quella ragazza bionda che mi piaceva così tanto. Il secondo ricordo, doveva essere il 1976 o il 1977. Da giornalista del “Paese Sera” ero andato a Milano a intervistare Brera, di cui era appena uscito un libro. A intervista finita lui volle invitare a pranzo me e un su amico fotografo di cui non ricordo il nome, dannazione. Durante quel pasto consumammo tre bottiglie di champagne, ho detto champagne e non spumante. Terzo ricordo, doveva essere l’inverno del 1990 o del 1991. Avevo ricevuto una telefonata di Aldo Biscardi che mi invitava (per la prima volta) al suo “Processo del lunedì” dopo essersi scusato di non averlo fatto prima (eravamo stati colleghi al “Paese Sera” negli anni Settanta), e questo perché si era dimenticato quanto io amassi il calcio. Andai tutto contento, innanzitutto perché sapevo che ci avrei trovato Brera. E difatti me lo ritrovai seduto vicino a me, che aveva accanto un bicchierino di carta da cui sorseggiava il whisky. Vederlo e ascoltarlo era per me una festa. Tanto che mi lasciò di stucco il fatto che a fine puntata una segretaria di redazione mi desse da firmare un contratto da cui risultava che mi ero guadagnato 500mila. Ero andato da Biscardi convintissimo che fosse gratis la gioia di avere accanto Brera. E poi c’è un quarto ricordo, adesso che ci penso. Ero lì in seconda fila nella sala romana dove Eugenio Scalfari stava annunciando la nascita del suo quotidiano, un progetto che ai miei occhi fa di Scalfari il più grande direttore di quotidiani del Novecento italiano. (Una volta ho scritto che Scalfari era il più ricco giornalista italiano d’Europa, e lui se la prese a male. Io volevo fargli un complimento, assolutamente un complimento.) Quella mattina Scalfari pronunciò che due sarebbero state le caratteristiche del suo quotidiano, mai mettere una foto in pagina e mai occuparsi sport, mai. Era il 1976. Nel 1982 Scalfari assunse con un contratto principesco Brera a farne la firma di punta delle pagine sportive del giornale, pagine sportive che a tutt’oggi - da Gianni Mura a Maurizio Crosetti - sono fra le più belle del giornalismo italiano. Tutto qui. Giampiero Mughini

Mughini: «La mia generazione mi ha lasciato solo». Pubblicato martedì, 23 aprile 2019 da Aldo Cazzullo su Corriere.it. «Tutto quello che mi è accaduto quarant’anni fa è dentro di me infinitamente più vivo e presente che non quello che mi è accaduto l’altro ieri». Sarebbe potuto essere questo l’incipit del bellissimo libro che Giampiero Mughini annuncia come il suo ultimo (Memorie di un rinnegato, Bompiani, dal 24 aprile in libreria). Oppure l’incipit sarebbe potuto essere un altro tra molti passaggi di un’opera sofferta, che in effetti conclude un lungo ciclo in cui a ogni occasione l’autore ha lanciato un grido di richiamo alla propria generazione, nella speranza di ritrovare una sintonia, un’appartenenza, un abbraccio che con rarissime eccezioni — tipo le cene mensili con Ernesto Galli della Loggia, a consigliarsi libri che di solito l’altro ha già letto — appaiono irrimediabilmente perduti.  Giampiero Mughini, «Memorie di un rinnegato», in libreria dal 24 aprile per Bompiani (pp. 192, euro 16)Anche perché Mughini ha giudizi severi come questo: «Quando alcuni di coloro che Marino aveva indicato come autori o responsabili del delitto si misero a farfugliare che non ricordavano dov’erano quando seppero dell’omicidio Calabresi, pensai che stessero sprofondando nel disonore da quanto era palmare la loro menzogna. Ci sono tre immagini che la mia generazione conserva, ciascuna scolpita nel marmo della memoria. Il momento in cui Miriam Campanella telefonò nella casa dove stavamo facendo una riunione di redazione di “Giovane critica”, a dirci che avevano ucciso John F. Kennedy. Il momento in cui sotto le finestre della mia casa romana di via della Trinità dei Pellegrini passò un’auto, da cui un ragazzo della Federazione giovanile comunista munito di un megafono annunciava che non lontano da casa mia era stato trovato il cadavere di Aldo Moro. Il momento in cui seppi dell’assassinio di Luigi Calabresi». Ecco, l’assassinio del commissario. È solo uno dei tanti spunti del libro. Ma si capisce bene che l’autore lo considera uno dei nodi della propria vita. Non a caso questa autobiografia intellettuale — e morale — si apre con il biglietto di poche righe con cui Mughini restituisce una lettera che considera offensiva a Luciano Della Mea, che un tempo gli era stato fratello maggiore. E l’autore — con un paio di pantaloni di pelle rossa comprati a Parigi — era nella casa pisana di Della Mea, il giorno del comizio di Sofri in morte di Franco Serantini, l’anarchico figlio di nessuno picchiato a sangue e lasciato morire in carcere. «A un certo punto smise di piovere, tant’è vero che Della Mea e io decidemmo di avviarci verso piazza San Silvestro ad annusare i residui del comizio — si legge nelle Memorie di un rinnegato —. Avremo fatto dieci-quindici minuti a piedi. Non cadeva più una sola goccia d’acqua. Man mano che ci avvicinavamo a piazza San Silvestro vedevamo rifluire i ragazzi che avevano partecipato al comizio di Lotta continua. Se Sofri e Marino avevano avuto l’agio di incontrarsi e parlare, in quel momento? A mio parere, sì. E anche se questo non ci dice affatto che cosa si siano detti davvero i due, se davvero Marino abbia chiesto una sorta di autorizzazione morale a partecipare a un omicidio e se davvero Sofri gliel’abbia data». Sofri aveva chiesto a Mughini di fare il direttore responsabile di «Mo’ che il tempo s’avvicina», un periodico di Lotta continua, cui Mughini mai lavorò ma che gli costò ventisei processi (tre le condanne): da liberale, pensava che nessuna voce dovesse essere soffocata. Ma ancora oggi a quelli di Lotta continua non perdona di aver ripubblicato — pochi giorni dopo il delitto Calabresi —, sul loro giornale divenuto quotidiano, il passo di Senza tregua di Giovanni Pesce in cui il capo dei Gap uccide il colonnello Cesarini, «un bruto, una specie di gigante, capo della repressione alla Caproni»; «pazzesco — conclude Mughini —, e come se ci fosse una qualche parentela possibile tra il feroce e gigantesco repubblichino e il commissario trentaquattrenne, di cui Adriano Sofri riconoscerà trent’anni dopo che lui non c’era nella stanza al quarto piano della questura di Milano da cui l’anarchico Giuseppe Pinelli cadde innocente nella fatale notte del 15 dicembre 1969». Ma sarebbe sbagliato schiacciare la lettura delle Memorie di un rinnegato su quella tragedia, per quanto dolorosa. Il vero filo rosso è la solitudine esistenziale dell’autore, scelta, rivendicata, ma anche subìta come una condanna, con il carico di sofferenze che la solitudine comporta. In nessuno dei giornali in cui l’autore ha lavorato sostiene di essersi sentito davvero a casa, in nessuno si è «tolto l’impermeabile», per usare la sua espressione. Quando c’è un direttore che lo stima e lo valorizza, la direzione dura sempre troppo poco, come accade a Lamberto Sechi all’«Europeo» o a Claudio Rinaldi prima all’«Europeo» poi a «Panorama». Con Indro Montanelli è innamoramento, finito quando Mughini firma sull’«Indipendente» di Vittorio Feltri. I suoi coetanei non gli perdonano la stima per Craxi, l’apertura alla nuova destra dei primi anni Ottanta — l’abbraccio con Benito Paolone già capo dei fascisti di Catania, l’amicizia con Giano Accame, l’intervista tormentata con Pino Rauti —, il rifiuto di unirsi alla piazza antiberlusconiana. Certo non aiuta a ricucire il successo televisivo, legato alla trasmissione di grande ascolto con Loretta Goggi (Mughini porta nel preserale di RaiUno le storie di Tommaso Landolfi e Jean Moulin) e poi ai talk sportivi al fianco di conduttori molto seguiti, da Aldo Biscardi a Pierluigi Pardo. Un successo che in fondo a Mughini non interessa, se è vero che dalle pagine più pop delle Memorie subito si fugge a Parigi alla ricerca vana di un libro — una delle manie intellettuali dell’autore — poi rinvenuto anni dopo su Amazon: l’autobiografia di un resistente comunista francese, che a Nantes uccide a freddo un ufficiale tedesco, consapevole di provocare una rappresaglia che porterà a morte 48 francesi innocenti. Perché sulla storia di Mughini incombe la memoria della guerra dei padri, la guerra civile quella vera, da rivisitare nei suoi dogmi e anche da tenere come punto di riferimento per misurare l’immensa distanza che la separa da quella mimesi, da quella ginnastica, da quella farsa per quanto sanguinosa, in cui negli anni Settanta una parte di quella generazione finì per giocarsi la vita.

Vittorio Feltri affonda Giampiero Mughini: "Criticami pure, ma sui numeri non rompermi i coglioni. Libero Quotidiano l'11 Maggio 2019. Ho ricevuto un libro edito da Bompiani, un'azienda seria. Titolo Memorie di un rinnegato. Autore un grande giornalista antipatico e talvolta smemorato, Giampiero Mughini, una bella carriera incompiuta nonostante sia stata arricchita da una trentina di saggi non tutti banali, altri formidabili. Normalmente quando mi capita sotto gli occhi il volume di un collega sfoglio le prime pagine, poi lo abbandono annoiato, e non ne scrivo. Stavolta, con l' opera di Mughini, ho fatto una eccezione. In un paio di pomeriggi l' ho letta tutta perché mi sono sentito a casa, nel mio fetido ambiente pregno di parole al vento, di errori, di analisi pressappochistiche, le stesse in cui mi sono esercitato in anni e anni di mestiere. Mughini mi ha sbattuto in faccia varie verità e talune balle. Ovvio, anche la sua memoria in qualche caso è ferrea e talvolta vacilla. D' altronde, i ricordi sono selezionati dai sentimenti più che dall' esigenza di ricostruire la storia. Giampiero ricorda la sua vita nelle redazioni nelle quali ha collaborato con grandi e piccole soddisfazioni, accanto a gente illustre e opaca. Riga dopo riga della sua bella prosa limpida, non ricercata, ho riscoperto particolari riguardanti l' andazzo di tante pubblicazioni settimanali e quotidiane che avevo almeno in parte dimenticato. Giampiero è onesto e generoso e parla bene di coloro che hanno lavorato con lui, riconoscendone i meriti e trascurandone i demeriti, più numerosi dei primi. In sostanza la sua narrazione onnicomprensiva è bonaria eppure lucida: ci presenta il passato per quello che fu, disastroso eppure eccitante, sia dentro che fuori dalle stanze maledette del giornalismo, che pure ho frequentato con amore e disgusto. Contesto il titolo del libro. Giampiero non è un rinnegato. È stato ed è uno scrittore di talento dissipato, un siciliano capace di tenere la penna in mano e di cogliere le sfumature della realtà. È falso che io non lo abbia considerato tra i migliori fichi del bigoncio, al contrario gli ho riservato il rispetto dovuto ai fuoriclasse, ciò che impedisce di stringere rapporti troppo confidenziali. Egli ha vergato capitoli definitivi, rammento quelli dedicati ai cretini di sinistra che pareggiano quelli di destra, cioè persone che non avendo un pensiero proprio lo prendono a prestito dai signorini à la page. Già, esistono anche una moda politica e una culturale che insieme producono il conformismo, il politicamente corretto, il pensiero unico opponendosi al quale un individuo è estromesso dal consorzio civile.

FORTUNA O SFORTUNA. L' esistenza di un uomo, per quanto colto e aperto, non è sempre coerente, talora è addirittura contraddittoria. Quella di Mughini non fa eccezione benché alla fine risulti totalmente accettabile sul piano intellettuale. Costui ha avuto la fortuna o la sfortuna di non dirigere alcun periodico o quotidiano e ciò gli ha risparmiato un dolore: quello di constatare che guidare un branco di scribi, in genere individualisti e presuntuosi, è una impresa sovrumana che comporta una fatica mostruosa.

IL RIMPROVERO. Ecco perché mi consento di dirgli che tutto sommato gli è andata bene. Giampiero mi "rimprovera" di aver imparato da Enzo Biagi a farmi strapagare per svolgere le mie mansioni. C' è del vero in ciò tuttavia non la verità intera. Infatti nessun editore ti regala soldi se non li meriti e per meritarli bisogna saper far quadrare i conti. Io i bilanci li ho sempre avuti in ordine. Giacché non ho mai badato alle pippe ideologiche, pertanto ho sovente incrementato le vendite e, quindi, gli incassi. Sul resto ho sorvolato. A proposito, caro amico, ti sei confuso. Quando accenni alla mia direzione dell' Europeo sostieni che essa non portò benefici alla tiratura. Non è così. Trovai il periodico a 79 mila copie e due anni dopo lo lasciai a 140 mila. Non fu facile. Più avanti viceversa mi dai atto di aver incrementato la diffusione. Delle due, l' una. Vale la seconda. Infine ti segnalo che, allorché sostituii Montanelli al vertice del Giornale, raddoppiai le copie: in poco tempo esse passarono da 115 mila a 250 mila. Accolgo ogni critica sul piano della qualità dei risultati, ciononostante se si tratta di numeri non mi dovete rompere i coglioni. Quelli sono e nessuno, nemmeno tu, li puoi discutere. Verificali. Vittorio Feltri

Giampiero Mughini per Dagospia il 14 marzo 2019. Caro Dago, come altri italiani educati a un diverso e più antico uso della lingua, sono un po’ in imbarazzo di fronte all’uso di termini che hanno fatto irruzione nelle abitudini correnti del linguaggio e della comunicazione. Su tutti l’uso della parola “influencer”, di cui ho il sospetto che sia una sorta di trabocchetto semantico. Chi diavolo siano questi e queste “influencer” io non ne ho la più pallida idea. Una volta me ne sono trovata di fronte una in uno studio televisivo. Il conduttore continuava a usare questa parola magica, come a indicare chissà quali opere e attività della nostra eroina. Ne frattempo sfilavano su uno schermo televisivo delle immagini di questa fanciulla che ne garantivano il curriculum, ossia immagini che evidenziavano il suo deretano e altre luoghi del suo corpo. Premesso che non provavo il benché minimo interesse per il suddetto caso umano, ho chiesto alla fanciulla in che modo e su chi si esercitasse la sua “influenza”. Non mi pare che lei arrivasse a formulare una frase compiuta, balbettò qualcosa di indistinto e la cosa finì lì. Ho letto sui giornali che nelle settimane scorse i giocatori della Juve si sono incontrati per una festa non ricordo dove, alla quale erano state invitate una sessantina di “influencer” donne. Anche lì mi chiedo che cosa e come influenzassero gente come Matuidi, il brasiliano Alex Sandro, il dottor Giorgio Chiellini, quel nostro portierone polacco con cui condivido due dei tre esemplari di un cappottone super pop che ho comprato a Roma un paio d’anni fa (il terzo esemplare ce l’ha Renato Zero). Ecco, dubito che il nostro portierone si lasci influenzare dalla prima venuta nell’acquisto di un cappottone. Forse lui e le “influencer” hanno dibattuto su come meglio affrontare un calcio di rigore. Può darsi. Ci sono difatti donne - non molte, io ne conosco due o tre e a parte la grandissima Emanuela Audisio che oltretutto è stata una ottima giocatrice di tennis da tavolo - che di calcio se ne intendono davvero. Vedo che tu, e fai benissimo, non tralasci occasione per alludere alle gesta e alle immagini di Taylor Mega, una che più “influencer” di così si muore. I tacchi alti, il bikini ridottissimo e poco altro addosso, le labbra su cui è intervenuto un chirurgo d’assalto, le pose studiatissime anche se un po’ gelide da quanto le si legge in volto che sta calcolando l’Iva sulla sua prestazione in corso, accidenti se tutto questo non è un “influenzare” alla grande. Laddove noi che siamo stati ventenni un mezzo secolo fa avremmo usato tutto un altro verbo. Eccitare? Attizzare? Fare uscire gli occhi dalle orbite? Cose così che evidentemente non hanno alcun fascino, nessunissimo charme, nessuna misteriosità semantica. Tutta robetta che solo confermerebbe quanto siamo e fuori moda vecchi noi ventenni d’antan. Vecchissimi. Ai nostri tempi le “infuencer” non c’erano proprio. Immagini che ci “influenzassero, sì qualcosa emergeva da riviste che quando le compravo le avvolgevo entro a una copia de “le Monde Diplomatique”. Foto cento volte meno attizzanti, meno influenzanti delle attuali e fulgide “influencer”. O forse no. Pose di fanciulle di cui avrei detto allora che erano delle “puttanelle” molto invitanti. Lo avrei detto fra me e me, apprezzandole e dando il risalto che meritano in una corretta lingua italiana.

Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia il 28 marzo 2019. Caro Dago, per quel che è dell’eventuale decenza intellettuale di quanti a suo tempo sproloquiarono a voce e per iscritto a difesa della virginea innocenza del delinquente di diritto comune Cesare Battisti (al quale ovviamente nessuno deve augurare di “marcire in carcere” e bensì un giorno di uscirne diverso), ti confesso che mi cadono le braccia. Mi cadono le braccia da quanto ho letto di Christian Raimo, di un’editrice francese che credo parente del grande Eric Losfeld, dell’ostinata e cieca Fred Vargas, peraltro una notevole scrittrice di “noirs”. Qualche parola di circostanza, qualche banalità di circostanza, non un cenno in punta di fatto e di sostanza. Non sapevano nulla di nulla di nulla. Si nutrivano tutti del fantasma psicotico secondo cui le potenze del Male in Italia avevano organizzato una gigantesca repressione degli idealisti quale Battisti i quali volevano così tanto una società migliore in cui i Poveri fossero felici. Idiozie allo stato puro che niente hanno a che vedere con la storia e l’identità della sinistra e bensì unicamente con la storia dell’imbecillità. Piccola cronaca, piccoli personaggi. Quanto alla storia della sinistra italiana e delle sue identità (una storia che in questo terzo millennio non ha più alcuna ragion d’essere, morta e sepolta com’è la sinistra ottocentesca e i suoi derivati), resta invece cruciale la vicenda legata all’omicidio del commissario Luigi Calabresi. E difatti vedo che una donna che in me suscita solo simpatie, la cantante Paola Turci (ciao, Paola), quella vicenda l’ha più che sfiorata in una sua recente intervista. Al modo suo l’ha detto, che lei non ritiene affatto che quel commissario trentatrenne e padre di tre figli sia stato assassinato da un commando di “compagni”, da un commando di Lotta continua. Appunto. La montagna che fa scandalo nella storia della sinistra italiana non sono i quattro cialtroncelli che giuravano sull’innocenza del prode Battisti e bensì gli ottocento galantuomini (c’erano tutti ma proprio tutti gli eroi della sinistra italiana del tempo) che firmarono un appello in cui non c’erano dubbi che Calabresi fosse stato il torturatore e l’esecutore dell’innocentissimo ferroviere anarchico di nome Giuseppe Pinelli. Tanto che ne venne un’atmosfera propizia a che un commando di Lotta continua passasse all’azione, quella mattina di maggio del 1972. Fecero festa dappertutto nelle sedi e nei circoli di Lotta continua, quella mattina. Nando Adornato ha raccontato che nel suo liceo di Torino tutti i suoi compagni di classe esplosero nell’applauso alla notizia dell’omicidio. Nel mondo della Lotta continua milanese uno solo si levò a dire che quello era un omicidio e basta, il futuro avvocato Luciano Pero, che ho rivisto e riabbracciato qualche giorno fa. Lo riempirono di insulti a tal punto che lui poco dopo si dimise da Lotta continua. E quando apparve la notizia della “confessione” di Leonardo Marino, del suo dettagliatissimo racconto di come e chi erano andati ad aspettare Luigi Calabresi che usciva da casa per andare al suo ufficio di via Fatebenefratelli, Dario Fo a lungo riempì teatri che plaudivano a come lui spiegava tutte le bugie che Marino aveva raccontato, insufflato anche lui dalle Potenze del Male. Non sapevano nulla di nulla, in realtà. Non sapevano che a metà del 1972 Lotta continua venne squassata da una discussione interna accesa da quanti volevano che l’intera organizzazione scegliesse la vita della “lotta armata”. Capeggiata da Adriano Sofri, vinse la metà della organizzazione che quella scelta non la volle fare. L’altra metà se ne andò a costituire Prima linea, una gang feroce tanto e quanto le Brigate rosse. E comunque l’omicidio Calabresi era stato il punto di inizio di tutto. Sta parlando uno che a lungo ha creduto all’innocenza di Lotta continua (quella di Sofri è un’altra e più complessa questione). Poi ho letto per tre volte il tomone dov’era la sentenza di primo grado che condannava i militanti di Lotta continua. Non ci poteva essere dubbio su chi aveva architettato l’azione e su chi aveva sparato, il compagno Ovidio Enrico Bompressi, quello di cui inizialmente Marino non voleva fare il nome. Ho poi scritto un libro sull’argomento che in tutto e per tutto si meritò solo e soltanto un gran pezzo di Aldo Cazzullo che partiva dalla prima pagina del “Corriere della Sera”. Null’altro, mai un invito, mai una sollecitazione a una discussione. Avevo appena pubblicato un libro dalla Einaudi Stile libero e incontravo qualche volta Severino Cesari, uno dei giganti della recente storia editoriale italiana, un intellettuale che stimavo quanto pochi altri. Si rammaricava che io stessi scrivendo quel libro su Calabresi e con quegli argomenti. Gli chiesi se sapeva qualcosa del processo, delle sentenze, degli atti dei vari processi. No, mi risposte che non sapeva nulla e che non aveva letto nulla.

LA LOTTA CONTINUA. Adriano Sofri per “il Foglio” il 27 aprile 2019. Ieri trovo due interviste a persone che parlano anche di me. Uno è Giampiero Mughini, sul Corriere. Lo ha fatto spesso. C’è un’evoluzione. Aveva detto più volte di ritenere che io, senza essere mandante di niente, sapessi però chi erano gli autori dell’omicidio di Luigi Calabresi. Sbagliava, ma dev’essere stata dura per lui. A me non sarebbe stato facile rassegnarmi all’idea che qualcuno stesse in galera perché “sapeva”. Ora Mughini dice al memorialista Aldo Cazzullo che, dopo la fine di un famoso comizio pisano in memoria del martoriato ragazzo Franco Serantini, aveva smesso di piovere e dunque lui pensa che sia stato possibile che io avessi col mio accusatore, Leonardo Marino, il breve colloquio da lui evocato, benché non possa sapere che cosa effettivamente ci fossimo detti. Un testimone a carico. Chiesi a Mughini di testimoniare per me (31 anni fa) poiché aveva ricordato in quel 1972 (47 anni fa) di essere stato a Pisa, di essersi spostato da un comizio del Pci al nostro, e di aver preso quella pioggia forte. Ora non solo il suo ricordo è cambiato, ma è cambiata anche la pioggia. Io non avevo mai preteso di non poter avere un colloquio con qualcuno (e figurarsi per una bazzecola come un mandato a uccidere) perché pioveva: l’avrei potuto avere anche sotto una tormenta sul Cervino. Avevo ricordato la “pioggia battente” di cui tutti i giornali del giorno dopo e le fotografie del giorno stesso testimoniavano, solo perché Marino aveva detto che non ricordava che avesse piovuto. C’è di peggio: Mughini dice che “Adriano Sofri riconoscerà trent’anni dopo che il commissario non c’era nella stanza al quarto piano della questura di Milano da cui l’anarchico Giuseppe Pinelli cadde innocente nella fatale notte del 15 dicembre 1969”. Nient’affatto. Non ho mai “riconosciuto” questo, ho scritto, molto chiaramente, chiudendo un mio libro su Pinelli, che “non so” se Calabresi fosse o no nella sua stanza. Oggi, dopo che è emersa una notizia enorme come quella della presenza nella Questura di Milano di Silvano Russomanno, il vice capo degli Affari Riservati, e della sua squadra, il mio “non so” è ancora più diffidente. Se ne riparlerà, allo scoccare dei cinquant’anni. La seconda intervista del giorno è una “lunghissima” conversazione di Giammarco Aimi con Piergiorgio Bellocchio, per Linkiesta. L’ho letta con gran piacere, come tutte le cose di Bellocchio e forse di più, ora che si dice vecchio e spiantato. Mi descrive, in una parte dell’intervista, pregi e difetti, come si dice, e mi sono divertito per la curiosità che si prova a capire come ci vedono gli altri, specialmente un altro proverbialmente non ruffiano come Bellocchio. Non dirò di riconoscermi per intero nella sua descrizione: Io è Un altro. Quanto a me, non saprei riconoscere a lui un solo difetto, non perché io sia ruffiano, ma perché lo trovo una persona senz’altro ammirevole, e gli voglio bene. Devo correggere due (lusinghiere?) sue opinioni. La prima, che io, sospinto dalla notorietà della galera, abbia “guadagnato un po’ di soldi”: lo rassicuro, sono povero almeno quanto lui. La seconda, che al tempo in cui facevo il leader e tante ragazze “ronzavano attorno”, me le sia “fatte tutte”. No: fui mediocre. Non si è mai all’altezza della propria reputazione, né della propria imputazione.

Daniele Capezzone per la Verità il 29 aprile 2019. Sono in libreria per le edizioni Bompiani le Memorie di un rinnegato. Il «rinnegato» sarebbe Giampiero Mughini, che - invece - non rinnega proprio nulla: anzi, rivendica un rigoroso percorso intellettuale. E la conquista - anche dolorosa - della solitudine, di una scomoda e orgogliosa indipendenza. Al punto da usare quell' insulto (lasciamo ai lettori la curiosità di scoprire chi gliel' abbia scagliato contro) quasi come un segno distintivo.

Disse Graham Greene: «Partiti, nazioni, istituzioni tradiscono. Un' azione morale può solo essere individuale, e, come tale, limitata e fallibile». È così?

«Assolutamente. A questo si riduce l' essenziale: quello che hai fatto, la coscienza e la responsabilità che ne hai».

L' ultimo Pasolini, descrivendo la sua estraneità ai conformismi di destra e di sinistra, diceva: «Scontento tutti, mi inimico tutti, sono costretto a tenere relazioni complicatissime, fatte di spiegazioni continue». Si riconosce un po'?

«Mah, io vivo così appartato che non devo render conto a nessuno. Non mi sento in dovere di dare spiegazioni. Certo, può capitare di sentirmi offeso, per esempio da cose chiaramente lontane da ciò che sono. Di recente, in un libro, si parlava di me come di "uno che viene da Lotta continua". Ma quando mai? Non ho avuto altro rapporto con loro se non, in spirito liberale, l' aver offerto la mia firma affinché il loro giornale potesse uscire».

Lei infatti firmò per consentire l' uscita di giornali assai lontani dalle sue idee, beccandosi la bellezza di 26 processi.

«Mi parve normalissimo farlo. C' era e c' è una legge idiota, che impone un direttore responsabile iscritto all' albo Adriano Sofri venne da me a chiedermi di farlo.

Pier Paolo Pasolini e Marco Pannella lo fecero prima di me per un tempo breve. Io invece molto a lungo: smisi - credo - quando cessarono le loro pubblicazioni».

Nel libro lei torna sull' assassinio di Luigi Calabresi, e rinnova la sua opinione sulla reticenza del gruppo dirigente di Lc. Lascio da parte le questioni giudiziarie. Ma perché è così difficile per alcuni fare i conti con mesi di campagne politiche di rara e feroce aggressività?

«A onor del vero, l'ammissione morale Adriano Sofri l' ha fatta.Certo, colpisce rileggere quel suo editoriale pubblicato all' indomani della morte di Calabresi. Testualmente c' era scritto che la morte del commissario "rincuorava il proletariato". Ecco, tuttora mi lascia sgomento pensare che un operaio dell' Alfa Romeo o della Pirelli potesse essere rincuorato dalla morte - colpito alle spalle - di un uomo di 34 anni con tre figli, di cui uno doveva ancora nascere.A meno che».

A meno che?

«A meno che un ragionamento del genere non venisse da chi aveva deciso o autorizzato quell' azione».

Perché in una parte della sinistra e in un certo ceto intellettuale è così forte il ricorso all' arma del disprezzo? È difficile ammettere che anche un' opinione diversa sia rispettabile e in buona fede?

«È davvero difficile da capire, tanto più perché molti di loro vengono dalla mia stessa radice, da un bagno di libertarismo. E cos' è il libertarismo? È la consapevolezza che siamo tanti, diversi, e che le sfumature del grigio arrivano a 200. Non è che ogni volta che si incontra "l' altro" si debba pensare che rappresenti la summa del male esistenziale. Non l' ho mai pensato. La cosa più grave, il "reato" più pesante che posso aver attribuito a qualcuno è essere cretino. Non più di questo».

Lei incarna un approccio opposto. Il suo libro del 1991, ripubblicato l' anno scorso, su Telesio Interlandi (un innominabile, il direttore della Difesa della razza), pur senza alcuno sconto, mostra che le personalità sono sempre sfaccettate, mai unidimensionali.

«Per l' appunto. Davanti a ogni persona, devi cercare di capire, situarla nel mondo reale. Com' era, com' erano gli altri italiani Si era dentro una dittatura? Certamente. A onor del vero, la più soffice rispetto alle altre dittature (nazismo e stalinismo) di quel lungo periodo. Ma - dicevo - devi ricostruire la fisionomia di un uomo reale, i suoi torti, le sue caratteristiche. Non un mostro: a meno di ritenere che fossero mostri quasi tutti gli italiani di allora. Ma mio padre, che era fascista, non era un mostro».

È possibile un' analisi senza «demonologie» della dittatura fascista?

«Per esempio, occorrerebbe riconoscere che quella classe politica era tutt' altro che banale: vogliamo citare Giovanni Gentile, Alfredo Rocco, Alberto Beneduce, Giuseppe Bottai? Ma pensiamo anche al 25 luglio: i protagonisti arrivano a quella riunione (Dino Grandi raccontò di avere due bombe a mano in tasca) non sapendo se ne sarebbero usciti vivi, o se sarebbero finiti in gattabuia.

Misero in minoranza Benito Mussolini, restituirono la sovranità al re, che era stato zitto perfino davanti alle leggi razziali».Nel libro c' è il racconto di molte lunghe amicizie, ma anche di alcune rotture definitive. È difficile ricucire il tessuto di un rapporto umano, quando si è lacerato?

«È difficile, non lo si può negare. È avvenuto a tanti di quelli che sono stati esposti nella vita pubblica. Pensiamo al Manifesto: tanti di loro avevano militato per 30 anni nel Pci, eppure i rapporti con gli ex compagni erano difficili e dolorosi Molti erano ingraiani: e ruppero con una figura adamantina come Pietro Ingrao».

Perché sottovalutiamo così tanto il «fattore umano», quel labirinto di invidie, ambizioni, colpi bassi, che così spesso ci trova smarriti e impreparati?

«In effetti è incredibile. Penso ai lunghi anni di passione trascorsi a Catania. Tramite un caro amico, l' anno scorso ho ricevuto dei messaggi in cui altri, che pure ritenevo amici, discutevano di un mio libro come se fossi un estraneo totale, uno scrittore rumeno o un intellettuale spagnolo».

Che spiegazione dà?

«Non so, se io parlassi di loro, si coglierebbe anche dalla più piccola sfumatura che conservo affezione e memoria Invece la realtà è che, specie in questo mondo giornalistico, è più facile essere rivali che amici. Lo percepisco con tutti e cinque i sensi».

C' è futuro per la carta stampata? Nel mare dell' informazione online, un' opinione forte scritta può essere un frangiflutti, o almeno una boa?

«Penso di sì. Io stesso al mattino leggo cinque quotidiani, e mi sento quasi in colpa perché vorrei leggerne sette o otto Non riesco a immaginare un mondo senza carta stampata. Sarà una nicchia, ma la "preghiera del mattino" ci sarà ancora a lungo».

Però lei, come un abile pianista, tocca molti tasti. I suoi articoli sono stracliccati su Dagospia. Anche online è possibile andare oltre la scontatezza.

«Tengo moltissimo alle cose che scrivo per Dagospia, dove godo di libertà assoluta. Certo, non vai proprio oltre la scontatezza se su Instagram sei una giornalista e metti una tua foto ammiccante Non farò nomi neanche sotto tortura, però confesso di essere sbalordito da chi fa queste cose».E poi la tv, popolare (con Loretta Goggi) e ultrapopolare (con Aldo Biscardi, con Pierluigi Pardo).

Come riesce a entrare in luoghi tanto diversi da questa sua cattedrale di libri dove stiamo parlando, e farsi capire da un pubblico vastissimo?

«Quando sei in tv, di fronte non hai nulla, in apparenza. E invece c' è una porzione di gente che non conosci e che non ti conosce, che non ha vissuto la tua vita né tu la loro Ecco, la sfida è, senza tradire ciò che sei, curare che - attraverso la semplicità, la snellezza, la concisione - la comunicazione arrivi. A molti critici televisivi a cui non è mai capitato di scrivere su di me una parola di simpatia, vorrei dire: venite voi, provate a vedere se è tanto facile».

Come si pone davanti al problema della soglia di attenzione dello spettatore tv?

Da giovanissimo, un cinico regista Usa mi disse che la soglia era di «10 secondi se parli, di 20 se piangi, di 30 se sanguini».

È così brutale?

«Non siamo troppo lontani Certo, in quei primi 10 secondi devi acciuffare al collo l' ascoltatore. Non ci mette niente ad andarsene, gli basta premere un tasto in un secondo».

Nel libro ironizza sulla facilità con cui si usa il termine «opinionista».

«Sento parlare di opinionisti anche a proposito di persone che - diciamo - fanno rumore con la bocca, o che hanno semmai altre brillantezze, tipo far ridere o avere delle bellissime gambe femminili Spero che il pubblico sappia distinguere tra macchiette e chi invece si sforza di costruire un ragionamento. Poi il punto vero è il dilagare dei talk show, perché non costano. Di fatto La 7 riempie il palinsesto quotidiano pagando solo i conduttori».

Trova improprio che a volte il parterre sia costruito con «maschere» di cui si sa già la posizione?

«Infatti Io ad esempio, costruisco la mia posizione man mano che ragiono. Non posso dirti prima cosa dirò».

Nel libro riserva parole di autentica ammirazione per Lamberto Sechi e Claudio Rinaldi.

«Due maestri di giornalismo.Quando Sechi venne all' Europeo, aveva un qualche sospetto sul fatto che io fossi amico di chi c' era prima di lui, ma mi affidò subito un pezzo, e dopo neanche un mese e mezzo mi aumentò lo stipendio. Quanto a Rinaldi, è stato un talento eccezionale, il più grande direttore della mia generazione. Avrebbe certamente diretto Repubblica, se non fosse stato per la malattia che l' ha portato via Era la lealtà fatta persona. Gli dicevi: facciamo questo? Poteva risponderti di no. Ma se diceva sì, ti chiedeva subito: "Quante pagine ti servono?"».

Mughini: “Di quel pandemonio non rinnego nulla di nulla...”. Giornale Off il 16/04/2019. E’ un rinnegato. Non lo dice di sé, lo dicono. “Lui” è Giampiero Mughini, “loro”, coloro che gli danno di rinnegato e che vengono scoperti nella pagine della sua ultima fatica letteraria, “Memorie di un rinnegato”, appunto, uscita per Bompiani. Daniele Capezzone l’ha intervistato sul quotidiano “La Verità” e, fra amarezze (“ho ricevuto dei messaggi in cui altri, che pure ritenevo amici, discutevano di un mio libro come se fossi un estraneo totale […] in questo mondo giornalistico, è più facile essere rivali che amici”), confidenze profetiche (“al mattino leggo cinque quotidiani, e mi sento quasi in colpa perché vorrei leggerne sette o otto. Non riesco a immaginare un mondo senza carta stampata. Sarà una nicchia, ma la “preghiera del mattino” ci sarà ancora a lungo”) econsiderazioni sul Fascismo (“[…] devi ricostruire la fisionomia di un uomo reale, i suoi torti, le sue caratteristiche. Non un mostro: a meno di ritenere che fossero mostri quasi tutti gli italiani di allora. Ma mio padre, che era fascista, non era un mostro”).Giampiero Mughini è un intellettuale scomodo, non tanto e non solo per le sue affermazioni controcorrente, ma soprattutto perché, a dispetto del titolo del suo ultimo libro, lui non rinnega nulla. E forse questo gli è valsa una certa solitudine e forse anche una certa sensazione di inutilità a spiegare certi dati di fatto, come ad esempio il fatto che lui non fosse “uno di Lotta Continua”, ma semplicemente il firmatario affinché il giornale Lotta Continua potesse uscire. Intanto vi proponiamo questa sua intervista (di Davide Brullo, pubblicata dai nostri amici di “Pangea”) in cui, a proposito del ’68, non si smentisce dal suo essere “À rebours“.

Dettaglio oracolare. Numero 20 di Giovane critica. “Primavera 69”. Copertina. Faccione oleografico di Stalin, a mo’ di ‘santino’. Dai capelli perfettamente lucidi – degna parrucca di Elvis – s’eleva un fumetto: “Sarei splendido con le basette!!”. Il dettaglio ci dice l’incanto del ‘contesto’. Ragazzi sagaci, che leggono e che sanno (dalla copertina medesima s’innalza, verticale, sulla costa, la promessa dell’approfondimento: “due diverse concezioni della costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria”), devoti al ribaltamento dei valori, che spiantano i ‘potenti’ e i potentati – dai politici ai padri, dai parlamenti all’istituto familiare – con un guizzo, direi, ‘dada’, da lingua fuori. Il Sessantotto. Ora. Gli anniversari vanno usati come una cassa di vodka, strabiliandosi di malinconia. Oppure come barattoli di latta sulla testa del vicino di casa: vince chi li disintegra – barattolo&vicino – con una fucilata. Eppure. Ha ragione Giampiero Mughini, che nel suo personale mémoire e reportage a posteriori e anamnesi storica, Era di maggio (Marsilio 2018, pp.128, euro 16,00; indicativo il sottotitolo: “Cronache di uno psicodramma”) esordisce così, “Già trascorsi cinquant’anni, porco mondo. Cinquant’anni che non la smettiamo di ruminarci sopra. Su quelle tre inaudite settimane di un dolce e furibondo maggio parigino”. Nel cuore di quell’inaudito, a Parigi, 50 anni fa, Giampiero Mughini, 27 anni – allora – da Catania – guai a dirgli “catanese” – direttore e fondatore di Giovane critica, “una delle riviste che hanno covato e modellato il Sessantotto” (parole sue), come si dice, c’era. Così, con lungimiranza ironica (esempio: nel capitolo Quando mi arrivò la lettera della Br, per ‘Br’ s’intende “Bionda Ragazza”), senza la marcetta dell’accademico o il valzer del nostalgico, Mughini ci penetra in quei giorni, ne allestisce per noi, con nomi e tensioni e cagnara (tra situazionisti, maoisti, anarchici, “le sfumature di rosso non erano cinquanta ma duecento”), la scenografia. Proprio questa è la parola. ‘Scenografia’. Il Sessantotto francese, in fondo, fu un memorabile coup de théâtre. Mughini insiste ferinamente sulla dimensione ‘teatrale’ dei maggio francese, sulla sua natura di happening – che andava tanto di moda, allora – di mobilitazione free jazz, di colto fancazzismo (un paio di capitoli, Marxisti? Sì, ma alla maniera di Groucho Marx e Non avevamo nulla da dire, volevamo dirlo a tutti i costi, sono piuttosto indicativi). Una fotografia blocca un ragazzo, riccamente vestito, che impugna un sampietrino. La dida di Mughini è esplicita: “Un ragazzo che potrebbe essere un ballerino da quanto è elegante sta lanciando un pavé”. Dalla messa in scena, poi, s’è passati al fenomeno di massa; dalla boutade al tradimento; dal ribaltamento dei valori alla riabilitazione delle poltrone; dalla lotta d’amore alla lotta armata. Anche dentro queste ferite – e sulla distanza tra cosa è diventato il Sessantotto francese e cosa è stato quello ‘all’italiana’ – Mughini penetra, con tenace libertà.

Arriviamo al Sessantotto. In diversi passaggi del libro metti in rilievo la dimensione ‘teatrale’ del maggio francese. Ne cito alcuni. “Che ci fossero delle bellissime ragazze lì nel bel mezzo dei cortei era un formidabile strumento di comunicazione e attrattiva massmediatica”; “Nelle prime settimane di maggio gli scontri e le violenze di strada ebbero a Parigi l’andamento di una pièce teatrale”; “eravamo tutti degli splendidi attori”; “Uno che fra cento anni guardasse quella foto, penserà che si tratti dell’embrione di una rivoluzione socialista o non penserà piuttosto a una perfetta rappresentazione teatrale?”. Allora, cosa è stato il ’68 francese? Una meravigliosa ‘messa in scena’?

«È stato innanzitutto uno show, sì, uno spettacolo teatrale sublime e irriproducibile. Lungo quei viali infiniti di una delle città più belle del mondo, scorrazzavamo i 130mila studenti universitari provenienti da tutta Europa. Nei cortei c’erano neri americani alti così, sudvietnamiti piccoli così, tedeschi come Dany Cohn Bendit, italiani che venivano da Torino o da Bologna o da Catania (il sottoscritto), ragazzi e splendide ragazze del nord Europa».

Parole tue. “Di quel pandemonio che vi sto raccontando non rinnego nulla di nulla, né un gesto né una parola”. Ora, però, ti dici “Un liberale che di risposte compatte ai problemi dell’oggi non ne ha nessuna, uno che preferisce tirarsi indietro e sorridere dell’imbecillità talmente diffusa”. Insomma, abiti la contraddizione coabitando con un egotismo antagonista?

«Non rinnego nulla delle parole o dei gesti che ho fatto in quelle tre settimane del “joli mai”. Detto questo non sono più uno studente acerbo alla ricerca di un destino e di un’identità e bensì un cittadino repubblicano dell’Italia del terzo millennio che trema d’angoscia per il futuro del suo Paese. Un futuro le cui topografie possibili nulla hanno a che vedere con quelle degli anni Sessanta».

Chi ha fatto il ’68, alla fine? I giovani, i figli di papà, gli operai, i partiti? Tu scrivi: “Le sfumature di rosso non erano cinquanta ma duecento”. Che cosa significa? Chi è il personaggio emblematico del Sessantotto?

«Non c’è un personaggio emblematico del Sessantotto francese. Ce ne sono molti. Ci sono i militanti dei “groupuscules” trockisti e maoisti, c’è un Cohn-Bendit per tre quarti anarchico e per un quarto marxista alla maniera della scuola di Francoforte (Adorno, Marcuse), ci sono quelli irrorati dalla cultura e dagli atteggiamenti situazionisti (i cui libri sono i più venduti del tempo), ci sono i tantissimi comprimari quale il sottoscritto, uno cui le giornate del “joli mai” divennero improvvisamente più luminose. Ci sono i figli dei ministri gollisti e ci sono studenti che s’erano guadagnati una borsa di studio e che mangiavano al prezzo di pochi franchi alla Cité Universitaire. E poi ci sono gli operai che lavoravano alla catena di montaggio della Renault, e quello è tutto un altro discorso».

Il Nome della Rosa, quando eravamo nani sulle spalle dei giganti…, scrive Angela Azzaro il 13 Marzo 2019 su Il Dubbio.  A quasi 30 anni dalla pubblicazione, il bestseller di Umberto Eco torna nella serie tv trasmessa il lunedì dalla Rai. Ma l’effetto non è più quello degli esordi: adesso i grandi che ci hanno preceduto vengono fatti fuori dalla logica di “uno vale uno”. Se questo articolo fosse un “giallo” la vittima sarebbe la cultura, il serial killer lo scoprirete a poco a poco. Ma iniziamo con il giallo vero, il best seller Il nome della rosa che da romanzo questa volta è diventato una serie tv, diretta da Giacomo Battiato. Fa un certa impressione vederla. Non solo perché è fatta bene e nonostante una certa lentezza continua ad avere uno share molto alto: l’ultima puntata ha raggiunto il 19,86 per cento, due punti circa in meno della scorsa settimana, ma pur sempre due punti in più della terribile edizione di quest’anno dell’Isola dei famosi. Ciò che colpisce è però soprattutto un’altra cosa: si è travolti dalla mole di cultura che la storia immaginata da Umberto Eco mette in gioco. Si guarda la fiction e si vede un mondo. Si assiste a dei dialoghi e si intravede un’intera biblioteca, osservi con attenzione il volto di John Turturro nella parte di Guglielmo da Baskerville e ti sembra di toccare l’intera storia della filosofia. Siamo nel mondo dei segni, degli indizi, degli intrecci. Così ogni volta ti colpisce un particolare, la chiave, la tua personale chiave per entrare in una realtà che non c’è più. Guglielmo da Baskerville è un francescano, è intriso di sapere, con un linguaggio forbito. Tra le tante citazioni che fa, recita la celebre frase del filosofo Bernardo di Chartres, vissuto un paio di secoli prima dell’epoca in cui è ambientato Il nome della Rosa: «Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti». La storia del romanzo è ambientata nel 1327, e la disputa – che è anche il cuore della trama – è tra chi vuole restare fermo nel passato e chi invece intravede il futuro, a partire dal valore della ragione contro le credenze irrazionali. Guglielmo arriva nel monastero benedettino per affrontare gli inviati della curia papale che rifiutano la modernità. Il Medioevo è descritto come un’epoca ricca di fermenti, di passato, ma soprattutto di futuro. Per questo Guglielmo da Baskerville cita l’aforisma dei nani e dei giganti. Siamo nani ma quando saliamo sulle spalle dei giganti siamo più alti di loro, possiamo vedere anche più lontano. Ma per fare questo si deve essere riconoscenti a chi ci ha preceduto, studiare e amare la conoscenza. Il Medioevo descritto da Eco, rivisto oggi, sembra il futuro. Un futuro che oggi, a volte, appare sempre più lontano. Il romanzo Il nome della rosa viene pubblicato nel 1980, un anno dopo vince il Premio Strega. Da allora è stato tradotto in 40 lingue e ha venduto 50 milioni di copie. Secondo alcune classifiche è da considerarsi uno tra i cento romanzi più importanti di sempre della letteratura mondiale. Eco pare un po’ si infastidisse di tanto successo. Era convinto che i suoi romanzi successivi fossero migliori. Ma il pubblico è sempre rimasto fedele alla sua prima invenzione, insieme giallo, romanzo storico, filosofico, di iniziazione. Tra i più grandi semiologi mondiali, Eco sa come disseminare la narrazione di tracce, segni, rimandi. E la mole di cultura citata, si aziona attraverso il più classico degli espedienti: nel monastero benedettino avvengono delle strane morti su cui Guglielmo da Baskerville è chiamato a indagare. Dietro al mistero c’è il secondo libro della Poetica di Aristotele, dedicato al comico e al riso. In un’epoca ancora buia, il comico è avvertito come una minaccia. Fa paura. Ma la cultura del protagonista vince sulle tenebre. Il film realizzato nel 1986, protagonista Sean Connery e diretto da Jean Jacques Annaud, costa 17 milioni di dollari e ne incassa 77 milioni. Un successo. Il film arriva poco dopo il romanzo, è una replica fedele anche dal punto di vista del rapporto con il pubblico. Secondo alcune interpretazioni, Eco attraverso il Medioevo mette in scena gli anni 70: i francescani che sostengono le tesi pauperiste sono i giovani che combattono per il cambiamento, i dolciniani (seguaci di Fra Dolcino, un predicatore poi accusato di eresia) sono coloro che usano le armi, la curia è il potere che resiste al cambiamento. Un po’ banale, vista la grandezza dell’affresco, ma anche un po’ vero. Oggi la serie tv, pur raccontando la stessa storia, fa venire in mente altre letture. La disputa tra cambiamento e resistenza è quella che vediamo ogni giorno. Da una parte c’è chi vuole affossare la cultura e pretende di azzerare tutto (uno vale uno) e chi invece resiste e continua a ricercare il secondo libro della Poetica di Aristotele. C’è chi si sente un nano sulle spalle dei giganti e chi invece pensa di abbattere quei giganti e di sostituirsi a loro. Guglielmo da Baskerville è sì un francescano, ma la sua critica al potere è collocata dentro il culto del sapere. Il Medioevo descritto nella serie tratta dal romanzo Il nome della rosa non uscita tanto un interesse storico o filosofico. Anche questo, certo. Ma prevale soprattutto un altro sentimento. Quello della nostalgia per il tempo che fu. Il tempo in cui viveva Umberto Eco e la sua intelligenza, il tempo in cui la cultura era un motore essenziale dello stare insieme, della politica, della scuola, dell’informazione. La nostalgia di quando eravamo ancora nani sulle spalle dei giganti. Ma l’assassino è facile da trovare (e allora non tutto è perduto).

Vogliamo maestri, non influencer. I pensatori sono in via d'estinzione, soppiantati dai professionisti dell'autocitazione via selfie, scrive Marcello Veneziani il 20 febbraio 2019 su Panorama. Dove sono finiti i Maestri? Ci sono ancora, cosa dicono, dove si annidano? E come chiamarli, oggi, Influencer, come Chiara Ferragni o la Madonna secondo il Papa? Facile dire che mancando un pensiero, dispersi gli intellettuali, sparito ogni orizzonte di attesa, i Maestri sono finiti insieme ai loro insegnamenti. Sono finiti pure i Cattivi Maestri che come angeli ribelli all’ordine divino si fecero demoni, insegnando la via dell’inferno come riscatto degli oppressi. Spariti pure loro. Non a caso, l’unico italiano riconosciuto tra i cento pensatori globali che hanno lasciato un segno, secondo la rivista Foreign Policy, non è un filosofo, ma un fisico, Carlo Rovelli. Allora, è proprio finita, dobbiamo rassegnarci a scegliere tra Fabrizio e Mauro Corona? No, ragioniamoci su. Innanzitutto, definiamo una buona volta il Maestro, anche nella variante di Guru, Ideologo, Vate. Chi è maestro? Non solo chi trasmette un sapere ma chi diventa un punto di riferimento, un modello a cui ispirarsi, un faro che non esprime solo una teoria o a compiere una ricerca ma rischiara una via. Maestro è uno che ti cambia la vita o almeno lo sguardo con cui vedi la vita. Uno che leggendolo, ascoltandolo, trasforma il tuo modo di pensare e di vedere le cose. Era facile al tempo delle ideologie e dell’Intellettuale organico, trovare Maestri e maestrini. Oggi di quel ramo ne sono rimasti forse un paio, ma sono ai margini.

Uno è il Cattivo Maestro per eccellenza, Toni Negri, pensatore e latitante, teorico di Autonomia operaia e del comunismo, autore di un’opera che ha sfondato nel mondo, Impero seguito poi da Moltitudine, due opere no global di un internazionalista che sogna ancora la rivoluzione del proletariato.

L’altro, più defilato e meno distruttivo, è Mario Tronti, di cui è uscito ora Il popolo perduto (ed. Nutrimenti), che piange il divorzio tra la sinistra e il popolo e la perdita di quel mondo comunista legato alle sezioni e alle assemblee.

È ormai su un pianeta diverso un loro antico sodale, Massimo Cacciari, che in tv si è sgarbizzato e in filosofia si è ritirato in una sfera mistica & catastrofica. Parallelo il cammino di un altro non-Maestro, Giorgio Agamben.

Restano sullo sfondo i Vecchi Maestri Globali, ovvero quei pensatori che fanno filosofia per le masse partendo dall’antropologia e dalla sociologia, come Edgar Morin e Marc Augé, Hans Magnus Enzensberger e Serge Latouche, fino a ieri, Zigmunt Bauman e Umberto Eco. Non-luogo, Terra-Patria, Modernità liquida, Decrescita felice, Perdente radicale, Ur-fascismo, sono paroline-mantra entrate nel gergo corrente e nel minimo alfabeto degli Acculturati aggiornati. Per il resto, l’era dei social offre a ciascuno la possibilità di un selfie e di eleggersi a maestri di se stessi per auto-acclamazione, facendo zapping nella rete, cogliendo qua e là spunti e citazioni.

Maestri riconosciuti in senso religioso ormai sono solo in ambito esotico, extra-occidentale: sono guru o para-guru che vengono dall’Oriente o che parlano nel nome di tradizioni religiose e più spesso di sincretismi. Sulla scia di Osho, Sai Baba e altri santoni. I maestri più veri preferiscono restare nascosti, poco accessibili se non per iniziati; vanno cercati, e non pescati nei media o nei social. Un segno evidente di scristianizzazione è che non ci sono Maestri d’ispirazione cristiana, e che a dettare le regole, anche nelle classifiche dei libri, siano gli stessi Papi, come Bergoglio e Ratzinger. Più defilati sono gli scrittori della Chiesa come don Vincenzo Paglia, Gianfranco Ravasi e altri prelati che sfidano i tempi e le librerie. Dopo i santi, finirono anche i maestri? E nel mondo conservatore, nel versante «destro» o alternativo alla globalizzazione? Resiste da decenni il maestro della Nouvelle droite Alain de Benoist con una produzione incessante di saggi.

Su altri versanti regge il filosofo inglese Roger Scruton, da lontano il pensatore russo Aleksandr Dugin. Non mancano le zampate del vecchio Regis Débray, già marxista e ora antiglobal col suo Elogio delle frontiere. A loro si aggiungono il matematico e filosofo Olivier Rey che racconta la marcia infernale del progresso in Dismisura; Fabrice Hadjadj, ebreo tunisino convertito al cattolicesimo, autore di Mistica della carne e Risurrezione. Ma sfonda il muro dell’attenzione globale Michel Houellebecq, che ora spopola con Serotonina, ma che fu maestro di denuncia della civiltà in pericolo con Sottomissione. Poi ci sono i numerosi maestri di passaggio, i guru provvisori, legati a un’opera, esplosi nei social, meteore luminose e poi presto opache. Se l’America resta il centro del mondo, i maestri hanno una prevalenza europea, anzi francese. E da noi cosa resta?

Finito il tempo dei Pasolini e dei Bobbio, dei Del Noce e Zolla, la filosofia sembra ormai isterilita e intenta a proclamare il suo suicidio. Nella filosofia svetta il pensiero degli eterni di Emanuele Severino. O tra i maestri che aprono le porte del sacro al tempo profano, torreggia Roberto Calasso. Sono maestri riluttanti, che non cercano discepoli, che si annodano al filo impersonale della Tradizione o del suo surrogato, l’Editoria raffinata o che vivono la siderale solitudine dell’Essere che pensa il Destino. In un’epoca egocentrica e autoreferenziale, i maestri sembrano ormai vintage, antiquariato, se non archeologia. Mancano i maestri perché mancano i discepoli.

Eppure, proprio il caos globale, l’assenza di dei, la solitudine e lo spaesamento, la vita insensata, richiedono oggi più di ieri pensatori guida, modelli di riferimento, figure autorevoli, supplenti del sacro e del pensiero che aiutino a trovare una via, una casa, una visione del mondo e della vita. Maestri che non detengono la verità ma che suscitano almeno il desiderio di cercarla...

Alessandro Barbero: «Io, influencer a mia insaputa». Pubblicato mercoledì, 10 aprile 2019 Alessandro Chetta su Corriere.it. Il professor Alessandro Barbero è un influencer, uno di quei divi che appassionano la gente dal pulpito di internet «influenzandone» le idee. Non coi selfie o le foto dei piatti gourmet ma con lezioni su Annibale e Napoleone lunghe anche 3 ore. Affàbula anche dal vivo, sì, ma la platea della Rete è sterminata. Una missione online però a sua insaputa, al contrario del filosofo Diego Fusaro, piemontese come il nostro, che invece è fenomeno web consapevolissimo. Barbero, sessant’anni il prossimo 30 aprile, non ha account Instagram né profilo Facebook (lo aveva, l’ha abbandonato): sono i fan, ma chiamiamoli estimatori, a pubblicare su YouTube a manetta i video dei suoi interventi in giro per l’Italia (e in tv). Una nuvola di filmati tale da insediare persino Alberto Angela. Numeri di visualizzazioni alla mano, se il figlio di Piero è un Augusto della divulgazione storica, il vercellese Barbero è come minimo un Cesare.  Domanda lecita: se il prof parla di Carlo Magno e Fra’ Salimbene da Parma, cosa vuoi che possa influenzare qualcuno? Errore grave. Gli esempi sarebbero tanti: cold case storici come Caporetto e Vittorio Veneto (fu codardia/fu vera gloria?) oppure l’Unità d’Italia o ancora busillis su vicende medievali e romane (Costantino furbastro o angelo?). Su tante questioni il nostro espone la sua scienza in materia che però può divergere dal pensiero di altri storiografi. E qui scatta la dimensione da influencer nei confronti di centinaia di migliaia di appassionati (crescono ogni minuto). A chi ascolta quelle lectio, Barbero inocula il seme del dubbio su tanti episodi cruciali della Storia.

Professore, lei sostiene che Garibaldi è un eroe da tenersi caro e che lo «ius primae noctis» è una fake news. E noi le crediamo ciecamente. È dunque un influencer pur non avendo profili social. Concorda?

«In effetti i video diffusi sul web sono tanti: mi invitano ad intervenire in molte manifestazioni. E il profilo, beh, ce l’avevo. Poi mi sono stufato».

Lei sì, i suoi fan no: si moltiplicano pagine quali «Barbero quello vero», «Barbero noi ti siamo vassalli»…

«Ce ne sono una marea. Ma alla mia non sono riuscito a star dietro e non mi pareva il caso di farla curare da altri. Non scopro nulla dicendo che il meccanismo social ti prende prima che tu te ne accorga. Non se ne esce mai. Avevo i sensi di colpa quando non controllavo il profilo da una settimana. Così ho inteso recuperare tempo per la vita privata».

Sarà contenta sua moglie.

«Decisamente, ora sto un po’ di più con lei».

E suo figlio.

«No, lui adesso ha trent’anni, fa il giornalista a Parigi».

Però gli «accolli», come direbbe Zerocalcare, sono ancora parecchi.

«(ride) Conosco Zerocalcare, mi manca il vocabolo ‘accollo’ (impegno indesiderato, ndr), ma credo di intuire…Sì sono ospite di festival, conferenze, seminari ma sempre con grande piacere».

Festival di Sarzana, Teatro di Roma, Archiginnasio, Stark Audiofilm, Alexxya: questi sono appena un ventesimo degli account che hanno caricato suoi video.

«Eh, gliel’ho detto, giro molto».

Studia il Medioevo, folgorato da Marc Bloch, ma la interpellano su qualunque periodo storico, come mai?

«È un interessante aspetto della divulgazione di oggi. Gli storici hanno il proprio campo d’azione ma col tempo hanno compreso che di fronte al grande pubblico si possono affrontare tanti argomenti. Conta conservare una visione d’insieme e aver chiaro come destare l’interesse di chi viene ad ascoltarti».

Per i 150 anni dell’Unità Barbero era gettonatissimo. Forse perché piemontese?

«Credo che la colpa sia degli anniversari. Nel 2011 si risvegliò in maniera intensa l’attenzione sul Risorgimento, anche per interrogarsi su che nazione siamo oggi».

I neoborbonici, influencer anche loro, ce l’hanno con lei?

«Non con me, piuttosto con la verità storica. Il passato può essere anche usato come pretesto per costituire movimenti che annebbiano il cervello. Con alcuni di loro discuto di questi argomenti (l’annessione del Sud Italia e la conquista garibaldina, ndr) ma spesso si sbatte contro un muro di fanatismo; con altri però ho scoperto che un minimo si può dialogare».

Non è sempre detto che una lezione di Storia venga filmata. Invece le sue 100 volte su 100. E se si accorge di aver sbagliato un nome o una data?

«No, guardi, anche per questo motivo non mi rivedo mai! Una volta mi accorsi di essere incappato in un’imprecisione durante la registrazione di "Passato e Presente" su Rai Storia e chiesi ai montatori di eliminarla. Con YouTube sarebbe impossibile».

L’ultimissima arrivata è una clip in cui parla della Magna Charta a Vercelli, dove insegna all’Università del Piemonte Orientale.

«Perfetta occasione per ricordare un illustre figura, il cardinal Guala Bicchieri, in genere poco noto e invece capace di legare il proprio sigillo a una pietra miliare europea». 

Giusto sui saluti, notiamo che il video della Magna Charta ha superato i 18mila clic. In due settimane. Un manoscritto bassomedievale reso più sexy di uno sfogo Instagram di Fabrizio Corona. Historia magistra social.

Grillo, Celentano, Benigni, stelle sbiadite. Le ultime uscite in tv o in teatro dei tre big non catturano più la folla come una volta. Uscire di scena in tempo non è virtù di tutti, scrive Mario Giordano il 10 aprile 2019 su Panorama. San Marino, qualche sera fa. Beppe Grillo sale sul palco, scruta la platea e scuote la testa: «Qui in mezzo ci sono delle poltrone vuote». In effetti: ci sono delle poltrone vuote. Possibile? Il comico comincia a rimpiangere i tempi che furono. «Una volta io riempivo il palazzetto di Rimini». In effetti: una volta riempiva i palazzetti, mica solo quello di Rimini. Ora invece è al cinema teatro Nuovo di Dogana della Repubblica di San Marino. E non riesce nemmeno a fare il tutto esaurito. Anzi teme contestazioni, al punto da distribuire a tutti i presenti mandarini: «Così se volete lanciarmeli...». Si è scritto, e si scrive sempre molto, su Beppe Grillo dal punto di vista politico. Quello che ha detto di Di Maio, quello che ha detto di Toninelli, quello che pensa sul governo. Ed è, ovviamente, tutto molto importante perché resta il fondatore del Movimento Cinque stelle e le sue posizioni inevitabilmente hanno una ricaduta sull’agenda dei palazzi. Ma la scena di San Marino, commentata dallo stesso comico con amarezza, apre uno squarcio invece su un altro aspetto, che normalmente passa in secondo piano: quello artistico. Un po’ in declino, evidentemente. Beppe Grillo che torna a fare gli spettacoli e trova le platee con le poltrone vuote. Beppe Grillo che riempiva i palazzetti di risate e adesso riempie i teatri di provincia con punte di nostalgia. Beppe Grillo che faceva i pienoni e adesso interrompe gli spettacoli per le contestazioni. Questo declino, sicuramente, sarà influenzato anche dalla scia di veleni che ha portato con sé il passaggio in politica. Ma non si può fare a meno di pensare che forse si è chiusa anche un’epoca dal punto di vista artistico. D’altra parte, sempre nei giorni scorsi, ha fatto effetto un’altra scena, alla cerimonia del Premio David di Donatello. Roberto Benigni era stato chiamato per consegnare il riconoscimento alla carriera a Tim Burton. E il conduttore, Carlo Conti, è stato costretto a chiedere per il comico toscano l’applauso e la standing ovation da parte di una platea che, d’istinto, si è mostrata assai fredda nei suoi confronti. Alcuni giornali hanno parlato di «umiliazione» di Roberto Benigni: «Entra in studio, non si alza nessuno» hanno chiosato. Siccome non c’è il due senza il tre, si potrebbe aggiungere il caso di Adriano Celentano, afflitto dall’influenza più lunga della storia dell’umanità. Il suo Adrian, programmato in prima serata su Canale 5, è stato sospeso dopo quattro puntate, ufficialmente in modo provvisorio, per una malattia del Molleggiato. Ma poi la malattia è stata prolungata fino a quest’autunno, quando è stata riprogrammata la messa in onda del cartoon. Quest’ultimo doveva essere un po’ il testamento spirituale del cantante-showman. Ma il pubblico, evidentemente, non lo ha accolto con lo stesso entusiasmo con cui lui lo aveva preparato. Grillo, Benigni, Celentano. Si tratta evidentemente di storie e situazioni molto differenti fra di loro, piene di sfumature, di scelte, di percorsi di vita e di spettacolo che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altro. Si tratta di professionisti lontanissimi e diversissimi, per mille aspetti. Ma non può non colpire la linea rossa che li lega: sono stati tutti grandi campioni, hanno fatto la storia dello spettacolo e della tv, dagli anni Settanta in poi hanno occupato stabilmente la scena, ci hanno deliziato, divertito, emozionato, fatto arrabbiare. Hanno, comunque la si pensi, toccato le corde della nazione, raggiungendo un pubblico vastissimo, smuovendo milioni di persone, inchiodandole con le loro performance. E adesso, all’improvviso, si trovano senza pubblico. Senza applausi. Senza audience. È la caduta degli dei dello show. Si spengono le luci. Forse non sulla loro carriera (sono così abili che sapranno ancora far parlare di sé), ma sicuramente su un’epoca. I mattatori degli ultimi decenni si trovano all’improvviso, per la prima volta, non in sintonia con il Paese. E questo, ancor prima che dire qualcosa a loro, forse dovrebbe dire qualcosa a noi. Perché è la dimostrazione evidente di come oggi tutto viene rapidamente divorato, consumato, bruciato. Viene bruciato persino ciò che ci pareva immortale, ciò che ha resistito ai decenni, ciò che è passato come culto da padre in figlio. Di colpo anche il mostro sacro cade. Di colpo appare fuori dal tempo. E ci spiazza un po’, ci fa sentir all’improvviso vecchi. Non foss’altro perché non riusciamo nemmeno a ricordare il nome dell’ultimo youtuber di successo.

·         Ritratto di Mauro Corona.

ODE A MAURO CORONA. Alessandro Giuli per ''Libero Quotidiano'' il 23 giugno 2019. Il momento più bello della sua carriera tivù è quando si è collegato mezzo brillo e tutto ammaccato dal suo rifugio in provincia di Pordenone: «Erano in tre, due li ho stesi a cazzotti ma alla mia età diventa faticoso fare a botte nei bar» Questo è Mauro Corona, anzi è l' autoritratto occasionale d' un poeta delle montagne che si finge Yeti ma è un mostro di sensibilità e bravura. Grandissimo dissimulatore, eccelso bevitore (la sua condizione naturale prevede una certa dose di alcol nelle vene), ha appena divorziato idealmente da Bianca Berlinguer per via d' una birra trangugiata davanti alle telecamere di Cartabianca. O forse per noia sopraggiunta a forza di giocare a Sandra e Raimondo ogni martedì sera: lui fra le montagne, avvinazzato per contratto e rivestito ogni volta d' una divisa della Forestale per attrarre l' attenzione sulla necessità di ripristinare il glorioso corpo; lei in studio a Saxa Rubra a stuzzicarlo su ogni aspetto possibile della cronaca politica, sfidando la sorte di quel suo menefreghismo da artista, l' insofferenza dello scrittore alpino e le altitudini interiori di chi sa modellare il legno ma è costretto a commentare decreti sicurezza e nomadismi vari. Una coincidentia oppositorum durata sin troppo a lungo, secondo alcuni, e tramontata quando lui ha realizzato che da quelle parti non c' era più posto per uno che è sopravvissuto mangiando escrementi. E così, dovendo scegliere tra la sovrabbondanza del ripetersi e la sottrazione del ritrarsi, ha provocato il caso per azzuffarsi in diretta con Bianca e annunciare il proprio addio a "lei che legge solo Donna Moderna". Coerentemente michelangiolesco, peraltro, poiché la filosofia di Corona sta tutta nell' adagio scultoreo (ereditato dal nonno intagliatore?) che compare sul suo sito: «Vivere è come scolpire, occorre togliere per vedere dentro». E Mauro ha tolto se stesso dal pasto settimanale di Raitre, anche se non è dato sapere in quale altro format sia destinato prima o poi ad approdare. Geometra per mancanza di soldi, arrampicatore votato ai misteri della solitudine, sciatore con la passione spericolata per il bob (se li costruiva da solo quando era ragazzino), circa vent' anni fa Corona si è anche autoiniziato alla scrittura di genere naturalistico e ha funzionato a meraviglia. La furbissima Daria Bignardi ne scoprì il talento televisivo e lo trascinò armato di birra chiara alle sue Invasioni barbariche su La7: nacque così il personaggio, il tipo o se volete un perfetto carattere stilizzato per impersonare il buon selvaggio a beneficio dei salotti più delicati. Lui si è subito lasciato usare, fingendo di stare al gioco altrui mentre inscenava la propria maschera con finta vanità d' artista burbero. Certo, incazzoso lo è davvero ma con una destrezza rara: nei collegamenti dall' antro domestico, complice l' inevitabile ritardo audio, è sufficiente una sovrapposizione di voci per scatenarlo come una furia. Il che avviene tuttavia con una sospetta ripetitività, ormai ritualizzata in un bozzetto da sceneggiatura: interno notte, Corona viene interrotto e brandisce la clava. A proposito di strumenti offensivi improvvisati, resta memorabile nel suo curriculum la volta in cui interpretò alla lettera l' ultima versione della legge leghista sulla legittima difesa: era l' estate di due anni fa, alcuni ragazzi entrarono nella sua abitazione e mandarono in mille pezzi la vetrata del suo studiolo usando una delle sue sculture in bronzo; Corona li ha inseguiti a piedi nudi con l' accetta: «Se li avessi presi ci sarebbero stati tre morti, perché li avrei ammazzati senza pietà». Un' esagerazione assoluta, ma perfettamente in linea con la sensibilità di un altro grande scrittore boschivo, Ernst Jünger, secondo il quale l' inviolabilità del domicilio si fonda sul padre di famiglia che si piazza sulla soglia di casa con la scure in mano. La verità è che Corona non è né un tipo contemporaneo né un attaccabrighe qualsiasi. Si definisce «un carpino con la scorza dura e tenace come quella del corniolo»; e tanto basta per ammirarlo a debita distanza. Come piace a lui.

Nanni Delbecchi per il “Fatto quotidiano” il 21 giugno 2019. Clamoroso a Carta Bianca. Mauro Corona meditava l'abbandono della trasmissione della Berlinguer, e Bianchina, come la chiama lui, l'ha subito accontentato, segandolo all'istante. Al cuor non si comanda, ma spiace veder scoppiare una coppia così affiatata, erede di Fazio-Littizzetto, perdere uno dei rari personaggi emergenti del video impegnato in un'impresa notevole, il riciclaggio dello scrittore in pagliaccio. Gli scrittori in Tv sono spariti, i libri pure a parte quelli di Vespa, ma questo Bukowski per principianti fa eccezione grazie a un paradosso molto italiano. Spregia la civiltà, gli sorridono i monti, scolpisce la pietra, intaglia il legno, si nutre di bacche, radici e valpolicella; però non perde occasione di vantarsene in diretta. La scalata - catodica - dell'eremita a favore di telecamera comincia nel 2003, quando si presentò da Daria Bignardi in bandana e canottiera; da allora lo si è visto arrampicare su ogni canale nei più svariati look in compagnia dell'ultimo volume (ne pubblica un paio all' anno). Con Carta Bianca è arrivata la consacrazione, Berlinguer gli ha dato lo stesso spazio che Giletti dà a Salvini. Ora tutto questo rischia di finire, ma forse non è detta l'ultima parola. L'amore non è bello se non è litigarello. Certo, in caso di riappacificazione dovrà essere lei a fare il primo passo. Non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno, ha dichiarato lui, e gli crediamo. Corona è uomo tutto di un pezzo. Al massimo, alza il gomito.

Mauro Corona. Andrea Conti per Il Fatto Quotidiano il 12 giugno 2019. Che i rapporti tra Bianca Berlinguer e lo scrittore e alpinista Mauro Corona fossero burrascosi, non è un mistero. Diverse volte a “Cartabianca”, in onda su Rai Tre ogni martedì, i due sono spesso sono arrivati ai ferri corti. Stavolta però a due puntate dalla fine la misura sembra colma. All’inizio della puntata di ieri sera niente lasciava presagire che la conduttrice e lo scrittore sarebbero arrivati ad un punto di rottura. Infatti Corona ha esordito ricordando il padre di Bianca Berlinguer, Enrico storico esponente del Partito Comunista, scomparso 35 anni fa. “Tutti gli abbiamo voluto bene. Ci ha lasciato un ricordo dolce e struggente. E nessuno lo ha dimenticato”, ha detto Corona e Bianca si è commossa. Poi durante il confronto tra i due in cui si è parlato di lavoro, licenziamenti e disoccupazione, Corona ha cambiato all’improvviso argomento con una premessa: “Ora parlo io, lei è furba e poi mi blocca”. Ed ecco che ancora una volta ha preso le difese del Corpo Forestale italiano: “Lo hanno macellato ed è scandaloso. Voglio parlare con Zingaretti”. Ma Bianca Berlinguer ha specificato che è il presidente della Regione Lazio e non c’entra nulla con certe decisioni. Non contento Corona ha affondato il colpo: “Lei Bianchina ha detto che venendo qui mi ha reso famoso, ci ho guadagnato e penso che ci ha guadagnato anche lei”. A quel punto la Berlinguer ha risposto a tono: “Guardi che non ho mai detto queste cose, le sta dicendo lei. E poi sul problema della forestale, ma sa quanti altri problemi ci sono in tutta Italia? Non c’è solo questo. Se stasera è venuto con questo stato d’animo, arrivederci!”. Mauro Corona allora ha annunciato: “Mancano due puntate, ma mi sa che la finiamo qui” e a sorpresa ha bevuto la birra in diretta. Bianca Berlinguer, sorpresa in volto, lo ha rimproverato, ma Corona ha fatto riferimento, senza citarla, a Mara Venier che da Fabio Fazio ha bevuto un bicchiere di vino. “Intanto in questa trasmissione non si viene a bere in diretta e ognuno si regola come vuole nelle altre trasmissioni, lei è stato molto maleducato nei miei confronti e non solo”. Martedì prossimo Corona sarà presente in collegamento? C’è chi giura di sì, con scuse annesse. La soap opera continua.

NON HO “CARTABIANCA”. Giulio Pasqui per Il fatto Quotidiano il 18 giugno 2019. “Pronto? Sono sulle Dolomiti, a faticare”. Comincia così, dalle sue amate montagne, la chiacchierata con Mauro Corona. Lo scrittore/alpinista/scultore da qualche tempo è anche un volto televisivo. “Ma non mi definisca una star televisiva, la prego”, precisa lui. Eppure il suo impegno stagionale, ogni martedì sera a CartaBianca, su Rai3, l’ha reso un personaggio televisivo a tutti gli effetti.

“Sono semplicemente un povero diavolo che ha combattuto la vita e che è capitato lì per vanità. Ma, se vuole saperlo, non vedo l’ora che finisca. Non credo di perseverare in futuro. Credevo che la Rai, o comunque la televisione in generale, fosse l’osteria buona dell’Italia dove si potessero dire le cose con libertà… invece scopro che bisogna essere molto politicamente corretti. Siccome io il collare non lo voglio, credo che l’esperienza si concluda qui. Ci sono ancora le ultime due puntate della stagione, poi basta”, assicura l’uomo con all’attivo oltre 300 vie di scalata nelle Dolomiti d’Oltrepiave.

Corona, c’è qualcosa che l’ha infastidita?

“Penso che la mia sparata con una birra in mano sia meno grave di coloro che hanno detto che Falcone e Borsellino se lo sono cercata. Ho portato una birra per un amico che compiva gli anni dopo che la signora Mara Venier ha bevuto un bicchiere di vino da Fazio: allora perché non può farlo anche Corona? Ma sa, le polemiche mi scivolano addosso come acqua tiepida. Mi dispiace invece che sia passata sottogamba tutta la storia infame e vergognosa della soppressione del corpo forestale dello Stato. Ecco, io martedì ho chiesto alla Berlinguer di concedermi una domanda a Zingaretti e lei si è incazzata. Ma io i piedi in testa non me li faccio mettere da nessuno. Quando uno ha mangiato escrementi per sopravvivere poi non ha più paura di nessuno, chiaro?”.

Ha mai ricevuto pressioni in Rai?

“Questo mai. Ma le sembro uno che riceve pressioni io? Ora le spiego com’è nata la storia di CartaBianca”.

Racconti.

“Mi hanno chiamato a inizio stagione per una puntata e hanno visto che funzionavo. Poi hanno provato una seconda volta, una terza, e funzionavo ancora. Sa perché? Perché i pagliacci che dicono la verità piacciono e fanno ascolto. In questa Italiota mediocre, calciofila e ferrarista, uno che finalmente si esprime come in osteria ma con educazione – finché non viene provocato – fa ascolti. Così mi hanno proposto di fare tutto l’anno con loro: ho accettato per vanità, ma anche con la speranza di poter parlare della montagna ferita, della montagna che non ha lavoro, dei paesi che muoiono, dei problemi che ci sono quassù. Lì avrei voluto toccare qualche nervo scoperto, avrei voluto parlare di questi temi. Mica esistono solo Cortina e Courmayeur”.

Non le hanno dato questa possibilità?

“Ogni mia richiesta, ogni mia tentata visibilità ai temi della mia montagna che sta morendo, è stata elusa con una risata. Io mi sono rotto anche le palle di parlare di questi migranti in tutte le puntate. Ho già detto tutto quello che dovevo dire: aprite i porti, vergognatevi di chiuderli, accoglieteli. Ma ora non c’è altro da aggiungere: ci si ripete, ci si ripete… io voglio soltanto parlare dei temi che mi stanno a cuore. Accetterei di fare di nuovo Carta Bianca solo se mi venisse data la possibilità – per iscritto – di poter parlare della terra estrema, dove si fa fatica ad arrivare a fine mese, dove i problemi sono all’ordine del giorno. Non tollero che mi si chiuda la bocca”.

C’è chi dice che il suo rapporto televisivo con Bianca Berlinguer sia caratterizzato da dialoghi surreali e stabiliti a tavolino come in una sit-com.

“Le baruffe che ho fatto lì sono state tutte autentiche, lo garantisco. A volte sono caduto in intemperanze e reazioni, che definirei naturali, soltanto perché non sopporto chi interrompe o chi parla sopra all’altro senza consentirgli di finire un discorso. Ma io non studio nulla a tavolino. Sa perché sono convinti del contrario? Perché vogliono affondare la lancia contro la Berlinguer. Non lo fanno soltanto i suoi avversari politici ma anche gli stessi della sua corrente. Vogliono danneggiarla e si attaccano a tutto. Questa è l’Italietta mediocre delle piccole vendette, dell’odio, della mancanza di larghe vedute. E’ l’Italietta da massaia che si sviluppa anche nei mezzi di comunicazione, purtroppo”.

Ma lei e la Berlinguer siete amici? Qual è il vostro rapporto a telecamere spente?

“Guardi, con la Berlinguer mi sarò sentito due volte al telefono. La terza volta, questo inverno, abbiamo litigato. Forse mi aveva detto di essere più attento e di essere meno irruento, non ricordo con precisione. Fatto sta che a me non si dice cosa devo o non devo fare. Dopo quella baruffa lì, non l’ho più sentita”.

Salvini ha detto: “A Erto, nel paese di Mauro Corona, la Lega arriva al 55,3%, quindi conto di festeggiare con un bicchiere di rosso dall’amica Bianca Berlinguer il prima possibile…”.

“Guardi che io, non essendo un ruffiano, mi sento spesso con Salvini tramite messaggini. Non dicono tutte le settimane, ma quasi. Se riesce a fare quello che ha promesso a me sta anche bene. A guidare l’Italia non è mica una squadra di calcio a cui bisogna fare il tifo: se uno fa qualcosa di buono a me sta bene”.

Ma la televisione aiuta a vendere i libri?

“Una volta, sì. Quando andavi da Fazio vendevi molto. Oggi la televisione non aiuta più, ma aiutano i premi, come lo Strega, che guarda caso sono pilotati dalle case editrici. Lo sanno ben tutti. Il mio libro Nel Muro, che è tra l’altro un racconto terrificante sulla violenza sulle donne ed è di un’attualità sconcertante nonostante sia ambientato nel secolo scorso, non è stato messo allo Strega. Questi soloni dicono di leggere 170 libro in tre giorni per tirare fuori 12 finalisti, ma a chi la danno a bere? Ma manco nelle loro vite hanno letto 170 libri. Mi sento in trappola e con me qualche milione di italiani. Il potere decide tutto: che sia di destra o di sinistra, che siano le banche, i finanzieri o le case editrice. Siamo in balia”.

L’imitazione di Crozza l’ha mai offesa?

“Guardi, io sono uno che non ride quasi mai, eppure con Crozza mi faccio di quelle risate. Quell’imitazione è grandiosa. Grandiosa. C’è chi mi ha detto: “Perché non lo denunci?”. Ma perché dovrei denunciare Crozza? Mi ha fatto una pubblicità strepitosa. Ci sono persone che pagherebbero per essere imitati…. Anzi, le dirò di più, quando non mi imita sono quasi avvilito. Non so quando, ma prima o poi faremo una gag insieme”.

Quale sarà il suo rapporto con la televisione in futuro?

“Ho provato a combattere la mia battaglia televisiva, ora basta. Altro che muro di gomma, il muro di gomma almeno ti respinge, sano e salvo. Questo è un muro che ti inghiotte e ti frantuma. Penso che la mia faccia abbia invaso anche troppo le cucine degli italiani. Ho quasi 69 anni e non ho voglia di perdere tempo. Quello che mi resta da vivere voglio passarlo sulle mie montagne a fare scalate, leggere libri e a volte scriverne qualcuno”.

Da vvox.it il 19 giugno 2019. «Da stasera Mauro Corona non sarà più con noi. Una decisione inevitabile dopo aver sentito parole tanto sgradevoli». Bianca Berlinguer annuncia così in diretta la fine della collaborazione tra CartaBianca e lo scrittore che ieri, in un’intervista, aveva dichiarato: «non vedo l’ora che finisca. Ci sono ancora le ultime due puntate e poi basta». «Io penso che nessuna trasmissione televisiva abbia dato tanto spazio a questi temi, naturalmente sempre all’interno di una discussione che doveva comunque riguardare l’attualità politica e questi erano anche i termini del nostro accordo – continua Berlinguer -. Nella stessa intervista ha anche detto che non vedeva l’ora che queste due ultime puntate di Carta Bianca finissero per non partecipare più alla nostra trasmissione. A questo punto, vista la sua scontentezza così esplicitamente dichiarata, sono stata io ad anticipare la fine della sua presenza. Se mancano la fiducia e il rispetto reciproco proseguire sarebbe inutile e falso». «Anche se qualche volta ci sono state delle incomprensioni o discussioni tra di noi, io sono sempre stata felice di aprire questa trasmissione con lui. Un momento spontaneo, mai preparato e mai studiato a tavolino. Tutto è sempre stato lasciato all’improvvisazione perché sapevamo che la spontaneità era la forza del nostro rapporto televisivo che tanto è piaciuto a una parte importante del pubblico», ha concluso Berlinguer.

CartaBianca, Bianca Berlinguer sotterra Mauro Corona: "Dice che mangia escrementi? Perché lo ho cacciato". Libero Quotidiano il 19 Giugno 2019. Un momento attesissimo, all'ultima puntata della stagione di CartaBianca su Rai 3: le parole della conduttrice, Bianca Berlinguer, su Mauro Corona, l'opinionista-montanaro allontanato dalla trasmissione dopo le sue intemperanze. Ufficiale, insomma: l'esperienza di Corona a CartaBianca è terminata. E la Berlinguer ha spiegato la vicenda, con parole molto forti: "Da stasera Mauro Corona non sarà più con noi. A chi ha visto la scorsa puntata sa che a un certo punto si è messo a bere una birra in diretta provocando il mio sconcerto e costringendomi a chiudere prima del tempo il collegamento dopo avergli detto esplicitamente che si era comportato in modo scorretto e maleducato. Corona ha poi telefonato il giorno dopo dicendo che voleva essere presente in trasmissione anche per scusarsi per quanto accaduto. Naturalmente io subito ho accettato perché è successo anche nel passato (…) Io sono sempre stata felice di aprire questa trasmissione con lui… momento spontaneo, mai preparato, e mai come qualcuno ha scritto studiato a tavolino". Insomma, stando alle parole della Berlinguer il caso si poteva anche chiudere. Ma "stamattina Corona - ha ripreso Bianca Berlinguer -  in un’intervista pubblicata dal magazine de Il Fatto Quotidiano ha dichiarato che a CartaBianca gli è stato impedito in tutta questa lunga stagione di parlare delle cose che gli stanno più a cuore, cioè dello spopolamento della montagna, dell’impoverimento di paesi di quell’area d’Italia e soprattutto dell’accorpamento della guardia forestale all’arma dei carabinieri". Troppo, per la conduttrice, che picchia durissimo: "Io penso che nessuna trasmissione televisiva abbia dato tanto spazio a questi temi, naturalmente sempre all’interno di una discussione che doveva comunque riguardare l’attualità politica, e questi erano i termini del nostro accordo - rimarca -. Nella stessa intervista ha poi dichiarato che lui non avrebbe voluto partecipare, non vedeva l’ora che queste due ultime puntate di CartaBianca finissero per non partecipare più alla nostra trasmissione e che mai sarebbe tornato se non avesse avuto la certezza scritta di parlare solo di alcuni dei problemi della montagna, che si era stufato di stare qui con noi perché non gli è mai stato consentito di fare un discorso lungo. Ha detto che ha mangiato escrementi per tutta la vita e quindi non si fa mettere i piedi in testa da nessuno". Parole, quelle di Corona, che spingono la Berlinguer ad allontanarlo senza appello: "A questo punto, vista la scontentezza di partecipare a CataBianca così esplicitamente dichiarata, sono stata io a decidere di anticipare la fine della sua presenza alle nostre due ultime trasmissioni di quest’anno. Ho ritenuto giusto dopo aver sentito parole tanto sgradevoli nei confronti CartaBianca concludere questa collaborazione. Una decisione che mi dispiace davvero molto (…) ma che si è resa inevitabile perché se mancano la fiducia e il rispetto reciproco proseguire, oltre che inutile, suonerebbe falso e io questo (…) non lo vorrei mai", ha concluso la conduttrice.

Da “Un giorno da Pecora – Radio1” il 24 giugno 2019. “Bianca Berlinguer e Cartabianca? Le voglio bene, le chiedo scusa in pubblico, a lei e agli italiani, se ho offeso qualcuno col mio linguaggio. Sono disponibile ad andare all'ultima puntata della trasmissione, per chieder scusa a lei e agli italiani”. Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Mauro Corona, scrittore e alpinista, in riferimento alla fine della sua collaborazione con la trasmissione Cartabianca.

Com'è nato questo distacco?

“Ho rilasciato un'intervista al Fatto Quotidiano, Bianca Berlinguer se l'è presa per quello che ho detto e ha pensato bene di epurarmi. Lasciamo stare Berlusconi e l'editto bulgaro, che di editti ce ne sono stati anche ora...”

Lei non avrebbe voluto finisse così.

“Mi sarebbe piaciuto fare le ultime due puntate, chiedendo scusa per le mie intemperanze. E comunque auguro alla trasmissione di andare avanti e bene, non ho rancori di nessun tipo. Mi è dispiaciuto molto di questo gesto che definisco di epurazione”.

Cosa non le è piaciuto del suo ruolo all'interno del programma?

“Avrei voluto esser utilizzato per raccontare i problemi della povera gente, della montagna, dei paesi che muoiono, la mia figura mi pareva più adatta a certi temi. E' vero che la 'Bianchina' mi ha lasciato parlare ma non fino in fondo”.

Ha risentito in privato la Berlinguer?

“Ieri lei ha provato a chiamarmi - ha detto Corona a Un Giorno da Pecora - e io le ho risposto una prima volta, un po' arrabbiato, e le ho detto che aveva già chiarito martedì scorso. Poi mi ha richiamato e non le ho risposto”.

Le piacerebbe andare domani in trasmissione, dunque, per la chiusura stagionale?

“Certo, molto, io non sono uno che si vendica”.

Forse se avesse lasciato parlare la conduttrice di Cartabianca, ieri al telefono, le avrebbe fatto questa proposta.

“Ieri mi parlava di chiarimenti, non mi aveva detto nulla a riguardo”.

Non è che sul suo allontanamento c'entra qualcosa la birra che lei avrebbe bevuto in diretta?

“Era in un sacchetto di carta, poteva anche non essere birra. Non ho bevuto per cinque anni, ora bevo qualche birra ma pare che io non faccia altro che alzare il gomito”.

Cartabianca, Mauro Corona torna da Bianca Berlinguer: "Ho un caratteraccio, gli errori mi hanno aiutato". Libero Quotidiano il 26 Giugno 2019. Pace fatta tra Bianca Berlinguer e Mauro Corona. Galeotta l'ultima puntata di martedì 25 giugno di Cartabianca in onda su Rai 3. "Una sorpresa per i telespettatori che tengono molto a questa presenza" annuncia la conduttrice di Rai3 che, inaspettatamente, si collega con lo scrittore. Corona, ospite fisso della trasmissione per un'intera stagione, aveva deciso di non partecipare più al programma due settimane fa quando, bevendo una birra in diretta, aveva mandato su tutte le furie la Berlinguer. "C'è stato un litigio, l'abbiamo raccontato – spiega la Berlinguer – era legato non solo alla birra, ma a un'intervista di cui mi sono molto dispiaciuta per alcune dichiarazioni. Però ci tenevamo a chiudere questa edizione avendo Mauro Corona presente. Ha dato il suo contributo in questa trasmissione che è andata bene ed è cresciuta negli ascolti" ha commentato. La giornalista fa riferimento a una dichiarazione rilasciata da Corona in cui raccontava di "non vedere l'ora di finire il programma". "Sono molto felice di tornare. Mi sarebbe dispiaciuto troncare questo dialogo. Ho un caratteraccio lo so, anche le trasmissioni hanno a che fare con la persona umana, la quale a volte non controlla le situazioni. Alla base c'è sempre la persona che può avere delle fuoriuscite. Anche questi errori mi hanno insegnato qualcosa. Mi hanno migliorato, ho capito che alla base di tutto ci sono le buone maniere e la buona educazione" ha spiegato lo scrittore, per l'occasione vestito di bianco. Ora che le cose sono tornate alla normalità chissà se Corona non comparirà anche nella prossima edizione. 

CartaBianca, Matteo Salvini interrompe Bianca Berlinguer: la battuta su Mauro Corona, lei non la prende bene. Libero Quotidiano il 26 Giugno 2019. Nella puntata di martedì 25 giugno, a CartaBianca su Rai 3,era la serata dei siparietti. Sallusti, Mauro Corona. Un momento di alleggerimento c'è stato anche durante l'intervista di Bianca Berlinguer con Matteo Salvini. A un tratto la Berlinguer è stata interrotta dallo stesso Salvini con una battuta: "Se vuole, io posso restare qui, almeno fino a quando non arriva Mauro Corona...". "Mi dispiace", ha detto Bianca, "ma Corona non verrà. Un giorno dovrò farvi incontrare in questo studio". "Ogni tanto qualche birra la bevo anche io", ha detto il vicepremier, riferendosi all'episodio contestato a Corona. La conduttrice si è dunque affrettata a chiarire che la birra non è il motivo dell'epurazione di Corona dalla trasmissione di Raitre: "Guardi, la birra non c'entra", ha tagliato corto un poco stizzita. La giornalista e lo scrittore, comunque, a fine puntata si sono felicemente ricongiunti. Meno male.

·         Marco Paolini non si perdona.

Marco Paolini: «Quella notte in cui ho ucciso una donna. Non riesco a perdonarmi». Pubblicato giovedì, 20 giugno 2019 da Gian Antonio Stella su Corriere.it. Quasi un anno dopo la tragedia, patteggiata una condanna a un anno di reclusione per omicidio stradale, pena sospesa con la condizionale, Marco Paolini racconta cosa successe quel giorno. Quando sulla A4 Milano-Venezia, vicino a Verona, tamponò con l’auto che guidava l’utilitaria di due amiche, buttandola fuori strada. Gravemente ferita, Alessandra Lighezzolo, che aveva 53 anni, aveva due figli e mandava avanti un negozio di abbigliamento per bambini, non ce la fece. Due giorni dopo morì. Da allora, il regista e attore vive col peso di avere causato una perdita irrimediabile. E ricorda passo passo... «Era il pomeriggio di martedì 17 luglio dell’anno scorso. Il sabato prima avevo finito uno spettacolo, Il calzolaio di Ulisse al Teatro Romano di Verona. Tre serate, precedute da un intenso periodo di prove. Era andata bene. A parte la tosse».

Cioè?

«Arrivava mentre ero sul palco. Ogni tanto. Disturbava. Ero molto infastidito. Me la tiravo dietro da tempo. Finito lo spettacolo, pensavo, dovrò occuparmene. Una tosse secca. In testa. Pensavo fosse legata a un reflusso gastrico. O allo stress. Complicato dal fatto che ciclicamente ho attacchi di un’asma cronica. Tenevo duro rinviando le visite mediche a dopo».

Insomma, finalmente tornavi a casa...

«No. La domenica ero andato direttamente in Trentino, nelle valli Giudicarie, per un seminario di due giorni con un amico e collega. Lo consideravo, con qualche passeggiata, un momento di decantazione. Sono rimasto lì fino a martedì mattina. Quando finalmente sono partito per tornare a casa e stare qualche giorno con la mia famiglia».

Che ore erano?

«Forse l’una e mezzo. Forse le due. Lungo la strada, scendendo, verso Rovereto ho avuto un paio di colpi di tosse. Quelli che per un attimo ti mandano in apnea. “Madonna, ho pensato, piàn!” Prima di entrare in autostrada mi sono fermato a mangiare un panino. E sono ripartito. Rinunciando alla fumatina con la pipa per non stuzzicare la tosse...».

E alle quattro e mezzo del pomeriggio stavi tra Verona Sud e Verona Est...

«C’era molto traffico. Impossibile correre. Si andava in colonna. Viaggiavo sulla corsia centrale. A un certo punto mi è tornato un attacco di tosse. E lì, come ho potuto rivedere nei fotogrammi di un filmato delle telecamere fisse di Autostrade, mi sono spostato sulla corsia di destra. E di colpo mi sono visto addosso alla macchina di Alessandra Lighezzolo e Anna Tovo. Loro erano su una 500, io su una station wagon. Un camion, in confronto. L’ho speronata. E l’ho vista volare sulla strada di sotto, sulla tangenziale. Dietro una siepe. Rovesciata. Per fortuna il traffico di sotto si fermò quasi subito. Senza ulteriori tragedie. Eravamo lungo una piazzola d’emergenza. Mi sono fermato, ho dato l’allarme. Tutto intorno sembrava normale».

In che senso?

«Il traffico in autostrada continuava come nulla fosse successo». 

Si disse che tu avevi in mano il cellulare...

«No. Non stavo telefonando. E neppure ricevendo messaggi. Dato l’allarme la prima cosa che ho fatto è stata quella di consegnare appunto il telefonino alla Stradale. Loro hanno potuto confrontare tutti i dati. L’ultima telefonata l’avevo fatta a mia moglie qualche minuto prima per dirle che arrivavo».

Alla giornalista dell’Arena, a botta calda, dicesti che l’avevi appena posato, il cellulare...

«Intendevo quello che ho detto prima. Ricordo, quello sì, il rumore del cozzo contro l’utilitaria. E ricordo di aver ammesso subito che era stata colpa mia. Che ero io, il responsabile. Io ad avere sbagliato. Una signora di là della siepe, vedendomi molto agitato, mi gridò di non muovermi. Il resto, scusa, preferisco non raccontarlo. Ero lì, bloccato, stupito di non essermi fatto assolutamente niente mentre avevo gravemente ferito altre persone. Era una cosa che mi rendeva furibondo. Era ingiusto. Spaventoso».

La sproporzione...

«Si. Insopportabile. Tutti sappiamo che cose così possono succedere. Che una distrazione, un errore, una svista possono creare danni irreparabili. Tutti gli amici hanno provato a tenermi su ripetendomelo. Ma non hai modo di prepararti a questo. Quando succede... Undici mesi dopo quel giorno non è cambiato molto. Posso provare a capire me stesso. Ma non riesco a perdonarmi».

Perché hai deciso, oggi, di rompere il silenzio?

«C’è una sentenza. A mio carico. E c’è scritto nero su bianco: “omicida stradale”. Capisco la parola usata dal legislatore. La capisco. Bisogna rendere le persone consapevoli del rischio che fanno correre agli altri quando guidano. È giusto. Ma la parola “omicida”...».

È pesantissima da portare addosso.

«E non ha fine. La condanna a un anno di carcere con la condizionale, la sospensione della patente e il resto sono quanto prevede la legge. Ho ammesso di avere torto, ho patteggiato. Ma sono sicuro che le vittime di questo incidente che ho provocato non saranno dello stesso avviso. Li capisco. Se io pensassi a qualcuno che mi ha portato via la donna che amavo nessuna pena mi sembrerebbe adeguata… Farei fatica ad accettare una cosa così accaduta a causa della negligenza... Perché questa è la mia colpa: ne-gli-gen-za. Avevo già vissuto, in qualche modo, un’esperienza simile».

Cioè?

«Tanti anni fa facevo teatro con una compagnia di ragazzi, la notte tornavamo tardissimo. Uno di questi amici, una notte, aveva travolto una moto guidata da un poveraccio che aveva sbandato. Quando lo seppi, dissi a me stesso: fai in modo che non ti succeda mai. Ho la patente da quando avevo 18 anni. So che la stanchezza fa parte della vita. Da anni, se sono stanco, mi fermo e faccio una sosta. Anche due. Per sgranchirmi le gambe e fare quegli stupidi esercizi che si fanno nei piazzali degli autogrill. Andando in montagna ho imparato che gli incidenti capitano più spesso sulla strada del ritorno, quando già ti senti un po’ casa. Mi sono sempre detto: mai dare troppa confidenza alla strada di casa. Eppure...».

Eppure?

«È successo lo stesso. Ero sulla strada di casa».

La cosa più difficile?

«Tante. Ma lasciamo stare. È inevitabile che io, non potendo sparire dato il lavoro che faccio, parli di me. Ma tutto ciò è grottesco. Perché parlando di me...».

...parli di te vivo...

«Esatto. Parlo di una cosa fantastica. La vita. E dentro la vita anche le cose più orribili ti fanno attaccare alla vita. Anche se dentro non riesco a perdonarmi… Non ce la faccio. So che tra me e me devo ancora fare un discorsetto. Non posso perdonarmi da solo. E non ho fretta di arrivarci. Non c’entra con la giustizia del tribunale. Con la sentenza. Con l’omicidio stradale. Il fatto è che quando ti rendi conto che una cosa è irreversibile... Insomma, niente è più come prima».

Hai provato a incontrare le famiglie?

«Ho scritto privatamente a loro. Pur immaginando di essere, per loro, non voluto e molesto. Non ho ricevuto risposta. Capisco. L’avrei fatto anch’io. Poi ho scelto il silenzio. Ho pensato che qualunque cosa avessi detto sarebbe stata poco rispettosa nei confronti delle famiglie. Volevo anche non salire sul palcoscenico...».

Hai avuto il dubbio di chiudere?

«Se avessi fatto un altro mestiere, in quel momento, sarebbe stato meglio. È l’unico momento della mia vita in cui ho maledetto quello che faccio. Perché il mio mestiere è un atto pubblico. Non posso starmene da una parte e scrivere un libro... È un atto pubblico. È un problema. Non solo salire sul palco e dire qualcosa che fa ridere la gente ti pesa. Anche dire qualcosa di intelligente ti pesa. Ti chiedi se sei ancora credibile. Non ti senti più come prima. Il mio lavoro non consente la maschera. Vado lì io. Col mio nome, il mio cognome, la mia storia... E la gente viene a teatro per vedere me. Ascoltare le mie storie».

E alla prima risata ti senti stonato...

«Ti ripeto: non solo. Anche provocare qualunque tipo di emozione, non solo il riso, pesa. È vera? È falsa? E la commozione? È dovuta alla storia raccontata o alla ricerca, fosse pure involontaria, di chiedere al “tuo” pubblico un po’ di commiserazione o complicità? “Poareto” e “maledetto” sono due parole legate. Si sarebbero potute usare tutte e due con me, sul palcoscenico. E avrebbero potuto essere tutte due legittime. Ma un conto sono io, un altro il mio lavoro».

Quindi?

«Il primo istinto è stato di dire a me stesso: “Tasi!” Taci. E ho cancellato tutte le date programmate in tempi brevi. Unica eccezione, impossibile da spostare perché coinvolgeva troppe persone in una data speciale, la commemorazione in cima al monte Tomba della Grande Guerra, a cento anni dalla fine della carneficina, in una pièce teatrale con Simone Cristicchi, “Senza vincitori né vinti”, scritta anni fa a quattro mani da Francesco Niccolini e dallo stesso Mario Rigoni Stern».

Uno sfogo, però, uscì...

«Un errore. Un giornalista salì al monte Tomba per seguire le prove. Mi fidai. Colpa mia. Anche perché avevo giurato a me stesso che non avrei parlato di questa tragedia causata da me fino alla chiusura del processo. E finché non avessi cercato ancora una volta, con un’altra lettera scritta e riscritta dieci volte senza mai trovare le parole giuste, di parlare con le famiglie».

Ancora niente?

«No. È una scelta che rispetto. Ripeto: anch’io al posto loro, probabilmente, farei lo stesso. Spero che nel tempo... Chissà...»

Hai ripreso a lavorare, comunque.

«Cosa dovevo fare? L’unico modo per sparire era di cambiare mestiere. Ci ho pensato. Mi sono risposto di no. Questo ho, di lavoro. Non ne ho altri. Credo sia anche una questione di rispetto di me stesso. Non sarebbe stato giusto scappare. Ho cercato di andare avanti. Avendo chiaro che niente sarà più come prima. Ho eliminato tutti i lavori in cui ero solo, ho rispettato le date in cui lavoravano altre persone».

Una decisione obbligata...

«Ho “scelto” di farlo. Perché mi sono reso conto che più tempo avessi passato a tormentarmi nella mia stanza e più difficile sarebbe stato riprendere. Non avevo alternative. Ho una famiglia. Un bambino».

Se n’è accorto, il piccolo?

«Ha quattro anni. Ma come possono immaginare tutti i genitori ha capito tutto. Tutto. Ha messo insieme una sua storia. Ogni tanto esce una parola più grande della sua età. Uno sguardo come dire “ci sono io, non preoccuparti”».

Il tuo pubblico come ha reagito?

«Ho cercato di distinguere. Di fare il mio lavoro come prima. Hai il magone? Te lo tieni. Sarebbe intollerabile salire sul palco personalizzando i tuoi sentimenti privati a uso delle persone. Ho trovato molti che ci tenevano a farmi sapere della loro comprensione. Ma si chiudevano subito. Forse perché si accorgevano che mi chiudevo a riccio. Non so come dirlo: mi pare sproporzionato venir a consolare chi la vita ce l’ha. Queste persone lo fanno con la miglior intenzione. Probabilmente lo farei anch’io. Ma è difficile accettare gesti di comprensione quando hai la consapevolezza di aver causato una cosa irreversibile. Ogni selfie è stato una sofferenza».

La tosse?

«Dopo qualche tempo un medico dell’ospedale ha avuto un’intuizione. Abbiamo controllato. Avevo un polipetto in gola. Mi hanno operato. Era poco più che una piuma piantata in gola. Combinata con l’asma mi aveva reso quel periodo durissimo. Ora pare tutto a posto».

Certo che tornare a fare il teatro civile...

«Ecco. È ovvio che chi fa il mio lavoro a volte prende posizioni nette. Denuncia. Accusa. Avere commesso un errore così grave ha messo in discussione dentro di me la legittimità di puntare il dito. Da che pulpito! Come fai ad esercitare una funzione critica? Forse non lo puoi fare più. Forse devi stare zitto. Forse la tua pena è il silenzio».

Come per i vecchi brigatisti?

«No, non credo. Le mie scelte teatrali sono però condizionate. Non perché io tema il giudizio degli altri. È il mio giudizio su me stesso che ha subito un duro colpo». 

Nel tuo errore non sei stato malmenato come altri...

«È vero. Da nessuno. Si vede che negli anni un po’ di rispetto me lo sono guadagnato. Sono però poco social quindi non so se sul Web mi abbiano rovesciato addosso veleni. È tutto secondario davanti al peso di non poter restituire la cosa più importante. “Omicida stradale”. Anche se non te lo scrivono sulla patente, ogni volta che incappo in un controllo dei documenti (all’aeroporto, in treno…), mi sembra di vederlo scritto negli occhi di chi li sta verificando. Non sento il bisogno di cancellare questo, sento di dovermi riscattare. Spero di aver tempo per farlo».

Maurizio Caverzan per “la Verità” il 21 giugno 2019. La scoperta dell' imperfezione. La propria, insospettata, imperfezione. La scoperta della propria fallibilità. La presa di coscienza del proprio limite, di non essere impeccabili. Se si è onesti con sé stessi, può essere un' esperienza dolorosa. Macerante. Ancor più se si è una star del cosiddetto teatro civile. Una persona che ha fatto tante denunce pubbliche che hanno lasciato il segno. L' intervista che ha concesso ieri Marco Paolini a Gian Antonio Stella del Corriere della Sera è, a suo modo, un documento di che cosa sia l' uomo moderno. L' uomo contemporaneo, con tutte le sue migliori intenzioni. Le più apprezzabili. L' uomo d' oggi, che basta a sé stesso.

L' uomo autosufficiente. E, al contempo, un documento della nostra fragilità, della nostra precarietà. In quanto uomini e basta. Uomini qualsiasi. Riassumo la storia per chi non la conoscesse. Poco meno di un anno fa, il 17 luglio 2018, tornando da un seminario in Trentino, l' attore e regista Marco Paolini ha causato un incidente sull' autostrada A4 Milano-Venezia nel tratto tra Verona sud e Verona est. Distratto da un colpo di tosse che in quel periodo lo perseguitava ma che non aveva ancora fatto in tempo a curare, cambiando corsia, la sua station wagon ha urtato una 500 provocandone il ribaltamento e, due giorni dopo il ricovero in ospedale, il decesso di Alessandra Lighezzolo, 53 anni, una delle due persone che erano a bordo, madre di due figli. Da allora la vita di Paolini è cambiata. È cambiato il suo modo di fare l' attore, di salire sul palco, di rapportarsi al pubblico. Lui, il drammaturgo implacabile di tanti memorabili spettacoli, a teatro, in tv, al cinema (Il racconto del Vajont, Il Milione, I-Tigi Canto per Ustica, Il sergente, La macchina del capo, La pelle dell' orso ecc. ecc.). Non tanto e non solo perché c' è una sentenza a suo carico in cui è scritto nero su bianco «omicida stradale», con la condanna a un anno di reclusione, pena sospesa con la condizionale. No, la questione è più profonda. L' attore ha da subito ammesso la sua colpa, di essere stato lui a causare l' incidente, vincendo lo stupore di essere totalmente incolume pur avendo ribaltato un' altra macchina. «Tutti sappiamo che una distrazione, un errore, una svista, possono provocare danni irreparabili. Tutti gli amici hanno provato a tenermi su ripetendomelo. Ma non hai modo di prepararti a questo.

Quando succede. Undici mesi dopo quel giorno non è cambiato molto. Posso provare a capire me stesso. Ma non riesco a perdonarmi». Ecco. Riuscire a perdonarsi è la cosa più difficile del mondo. Un' ascesa verticale nel profondo della coscienza. Un' impresa impossibile. L' eterna e impari lotta con il proprio orgoglio. La scoperta della propria inadeguatezza: quando hai sbagliato, commettendo qualcosa di irreparabile. La morte di una persona, tolta definitivamente ai suoi cari. Tutto causato da una semplice «ne.gli.gen.za», sillaba Paolini. Che, onestamente, non si fa sconti. Come non è abituato a farli agli altri, dal palco. La questione è questa. Una distrazione, un colpo di tosse, ti sveglia improvvisamente dall' idea che puoi sempre farcela. Ora non puoi più.

Come fai a perdonarti? L' attore ha scritto alla famiglia della donna morta. Senza ottenere risposta. Ha pensato anche di cambiare mestiere. È dura affrontare il pubblico, provare a far ridere la gente, magari lanciarsi in qualche monologo fustiga costumi con dentro un groppo così. Per un periodo ha cancellato tutte le date, almeno quelle in cui recitava da solo. Poi ha ripreso, pian piano, pensando che quello è il suo lavoro e non ne ha altri e sarebbe ingiusto con sé stesso rinunciare. Però la questione si ripresenta. Come un virus nel retropalco della coscienza: «È ovvio che chi fa il mio lavoro a volte prende posizioni nette. Denuncia. Accusa. Avere commesso un errore così grave ha messo in discussione dentro di me la legittimità di puntare il dito. Da che pulpito! Come fai ad esercitare una funzione critica? Forse non lo puoi fare più. Forse devi stare zitto.

Forse la tua pena è il silenzio». Durissima per un attore, un drammaturgo, un uomo del teatro civile. Il palco ti ha abituato a essere un punto di riferimento, il terminale positivo delle domande del pubblico che paga il biglietto e riempie le sale. Sei una star. Vivi inevitabilmente dentro una bolla. Di invulnerabilità. Di infallibilità. La star è il superuomo per antonomasia. Il prototipo dell' uomo moderno autosufficiente. È abituato a questo. Sul palco non si può sbagliare, con tutti gli occhi addosso. E se si sbaglia, comunque, nulla è così irreparabile. Ma fuori, quando muore una persona per una tua distrazione? Come fai a perdonarti? Forse puoi solo imparare a modulare diversamente le denunce. A puntare meno l' indice. A moderare le accuse con uno sguardo meno spietato e più compassionevole. Forse. In attesa della compassione che solo Dio può avere nei tuoi confronti. Perché, carissimo Marco Paolini, l' ultima, subdola, rivincita del nostro orgoglio e della nostra presunzione, è proprio pensare di poterci perdonare da soli. Impossibile. Noi da soli siamo imperdonabili a noi stessi, soprattutto se siamo abituati a vincere. Solo un Altro che è morto in croce per noi, può farlo. Più che un' affermazione, il mio è un augurio. Perché, diversamente, senza un Altro che ci perdona, il nostro errore e il nostro male restano irredimibili.

P.s. Chissà, magari prima o poi, la famiglia di Alessandra Lighezzolo risponderà alle sue lettere. Non è detto, ma non è decisivo. Lo è che siano state scritte.

Il marito della donna uccisa da Marco Paolini: «Non lo perdono, forse un giorno lo incontrerò». Parla Massimo Meggiolaro, marito di Alessandra Lighezzolo, commentando l’intervista al Corriere nella quale Paolini ha detto di non darsi pace per aver investito la donna. «Mi sarei aspettato che ci contattasse». Benedetta Centin il 22 giugno 2019 su Il Corriere della Sera. Le sue orchidee, da undici mesi, fioriscono rigogliose senza che nessuno se ne prenda cura. I suoi libri lasciati per casa, le sue creme mai spostate da dove le aveva lasciate, i lunghi capelli rossi avvolti sulla spazzola, fanno credere che nulla sia cambiato. È come se Alessandra Lighezzolo «possa rincasare da un momento all’altro di ritorno dal suo negozio», racconta il marito Massimo Meggiolaro, che possa risplendere il suo grande sorriso, che possano tornare i suoi intensi abbracci in cui i due figli, Edoardo e Guglielmo di 22 e 20 anni, amavano perdersi. Ma il cuore della nota commerciante di Arzignano, 52 anni, ha smesso di battere a due giorni dal terribile incidente avvenuto il 17 luglio 2018 sull’autostrada A4, tra Verona Sud e Verona Est. La Fiat 500 su cui viaggiava con l’amica Anna Tovo alla guida è stata tamponata dalla station wagon dell’attore bellunese Marco Paolini. Un urto violento che ha fatto volare l’utilitaria oltre il guardrail, sulla tangenziale, a ruote all’aria. «Non riesco a perdonarmi» ha detto pochi giorni fa in un’intervista al Corriere della Sera Paolini, raccontando di quel colpo di tosse che gli aveva fatto deviare la traiettoria, spiegando di come la parola «omicida stradale» lo perseguiti.

Signor Meggiolaro, ha letto l’intervista di Paolini? 

«Mi sono sforzato di farlo, da undici mesi a questa parte faccio fatica ad aprire i giornali perché mi vengono in mente le foto dell’incidente e penso a quanto ha sofferto Alessandra. Quella di Paolini la considero un’intervista riabilitativa, l’attore è lui, noi siamo solo vittime, mia moglie in primis».

Che effetto le hanno fatto quelle parole?

«Avrei preferito il silenzio, se Paolini si sente in grado di andare avanti lo doveva fare senza farsi intervistare. Avrei preferito che prima chiarisse con noi, che parlasse a noi».

Un incontro tra voi non c’è mai stato, giusto?

«No, lui non era in tribunale a Verona a maggio per il patteggiamento, a meno che non si fosse nascosto io e i miei figli non lo abbiamo visto. Poteva essere un’occasione per vedersi, accennando a un incontro. A margine dell’udienza ho chiesto al suo avvocato di fargli avere la foto di Alessandra».

Paolini vi ha scritto due lettere alle quali dice di non aver avuto risposta, comprendendo comunque il vostro silenzio...

«Sì, è vero, una a distanza di qualche giorno dalla morte di mia moglie, una dopo la chiusura del processo. Scrive che “non è la fine di questa storia” e che spera di incontrarci».

Lei pensa che potrà accadere?

«Vedersi? È una possibilità che non escludo, ma saremo io e i miei figli a decidere dove, quando e come. Ad oggi non lo riteniamo opportuno. Certo, il 2 maggio, pochi giorni prima della sentenza, era sul palco del Comunale di Vicenza e visto che era a pochi chilometri da noi avrebbe potuto…».

Contattarvi?

«Ce lo saremmo aspettato sì, un contatto.. E allora forse lo avrei accompagnato in cimitero dove ci sono le ceneri di Alessandra, ma non solo. Certo ho trovato di cattivo gusto che sia venuto a Vicenza, così come che ad appena tre giorni dal funerale di Alessandra si sia esibito, infrangendo già dall’inizio un silenzio che sarebbe invece stato dovuto a mio avviso».

Paolini dice di aver maledetto il suo lavoro in quel momento...

«Non aveva meditato il ritiro dalla scena? Io ho continuato a lavorare, mi sono occupato dei figli, della chiusura del negozio di mia moglie, delle pratiche burocratiche legate alla sua morte. Ma sto vivendo per inerzia, anche se è brutto da dire, quell’incidente ha distrutto tutto per me e i miei figli».

Il 17 luglio sarà passato un anno... 

«Sì, un anno in cui io sono rimasto al punto che ho lasciato. Con guanti e borse di Alessandra ancora nella sua auto, creme e libri per casa che mi fanno pensare che possa ancora tornare dal negozio, quel negozio che era stato rimesso a nuovo da solo 48 ore quando c’è stato l’incidente. Eravamo molto uniti da una vita, trent’anni, ventisei di matrimonio. Dio sa quanto vorrei averla qui..».

Paolini imputa la tragedia a una negligenza, all’attacco di tosse...

«Lui sa cosa è successo e se dovessimo incontrarlo ce lo dirà di persona, ce lo spiegherà, affronteremo la questione. Si è occupato di molte tragedie, ora ne ha provocata una in prima persona e lo sa che è una tragedia per noi, siamo ancora tutti sotto shock».

Il procedimento giudiziario intanto è già chiuso...

«Sì, un anno con il beneficio della pena sospesa ma il senso di giustizia è limitato per noi, pur sapendo che queste sono le pene previste dal codice penale in caso di omicidio stradale».

Pensate di perdonarlo?

«No, non ora, ci ha tolto tutto, ma non escludo che col tempo potrei riuscire a perdonarlo».

I figli invece sono perentori.

«Perdonarlo? Non se ne parla, non sappiamo nemmeno se avremmo voglia di incontrarlo. Ci ha tolto mamma, la donna della nostra vita, non è più niente come prima ora. Bisogna viverla sulla propria pelle per capire».

·         Rampini: il rinnegato comunista.

Federico Rampini a Piazzapulita contro la sinistra: "I nordafricani spacciano? E loro provano compassione". Libero Quotidiano il 16 Novembre 2019. Pure Federico Rampini bacchetta la sinistra. Lui, da ex giornalista del Partito Comunista Italiano ai tempi di Enrico Berlinguer, racconta a Piazzapulita un'amara verità: "All'epoca Bologna era la vetrina della sinistra. La sinistra che teneva all'ordine, alla buona gestione. Oggi se torno a Bologna e devo alloggiare vicino alla stazione, ho paura a uscire dopo le 22 di sera". Le situazioni di degrado sono ovunque, perché "questa è una sinistra diversa". Per Rampini la sinistra "abbraccia la cultura del permissivismo, per cui gli spacciatori di droga sono meritevoli di compassione, soprattutto se sono nordafricani, perché chissà quanto degrado c'è dietro". E così il popolo si sente abbandonato da una forza politica "diventata una macchina di potere, che si è allontanata dalle sue radici". 

"Ecco perché la sinistra perde". E i dem "massacrano" Rampini. Federico Rampini ammette che la sinistra ha abbracciato il permissivismo dimenticando il popolo che vive nel degrado. Le parole non sono piaciute a Livia Turco che ha risposto al giornalista. Gabriele Laganà, Venerdì 15/11/2019, su Il Giornale. L’attacco più duro contro la sinistra, in particolare quella che gestisce il potere in Emilia-Romagna in modo ininterrotto da decenni, arriva non da Matteo Salvini o da qualche altro esponente del centro-destra bensì da Federico Rampini, giornalista di Repubblica. Rampini, intervenuto al programma di La7 Piazza Pulita, ha commentato le due manifestazioni svoltesi a Bologna, quella della Lega e degli anti-leghisti. Nel suo intervento, il giornalista ha sottolineato che la crisi della sinistra ha motivi ben precisi che non possono essere sottovalutati. L’essersi staccata dal suo popolo e l’aver dimenticato la questione sicurezza abbandonando chi vive in situazioni di degrado sono i fattori che hanno creato scompiglio devastato l’identità di quell’area politica. Il giornalista ricorda i tempi in cui Bologna, realtà che conosce bene fin dalla giovinezza grazie al suo lavoro, era la vetrina del modello messo in piedi dal vecchio partito comunista: “La città meglio amministrata in Italia e in Europa con servizi sociali fantastici di cui andavamo fieri”. Ma quelli, sottolinea Rampini, erano anche i tempi in cui lo stesso Pci si occupava della sicurezza dei cittadini e di far rispettare le regole. Oggi, invece, la situazione è radicalmente diversa. Il giornalista ammette che quando si trova in città e dorme in un albergo nei pressi della stazione, ha paura di uscire di sera perché si sente insicuro. Questo, per Rampini, è il grande disastro compiuto dalla sinistra. Quest’ultima, infatti ha abbracciato il permissivismo senza se e senza ma con tutti quelli che delinquono, perché magari i criminali come gli spacciatori, ancor di più se nordafricani, da chissà quale degrado sociale sono mossi. Ciò però porta dimenticare il popolo che vive in quelle situazioni difficili e di abbandono. La sinistra, per Rampini, ha dimenticato proprio quel popolo che era la sua base perché in pratica, dopo tanti anni di potere, si è fatta establishment. Una realtà difficile da digerire ma ammessa anche dai simpatizzati di Bologna che sostengono come il Pd sia diventata una macchina di potere che si è allontanata dalle sue radici proprio nella regione più rossa d’Italia. Le parole schiette e frutto di grande onestà intellettuale proferite da Rampini non sono piaciute a Livia Turco che su Huffingtonpost ha scritto di essere sorpresa dalle frasi sulla retorica del buonismo della sinistra. La Turco, cresciuta alla scuola del Pci, ricorda di aver contribuito a fare una legge organica sulla immigrazione “che parlava di regole, di diritti e doveri a partire dalla stella polare della dignità umana. Mi occupo tutti i giorni di immigrazione da cittadina e la gente di sinistra che incontro non fa parte di salotti ma lavora nelle scuole, negli ospedali, nei servizi sociali e nelle periferie” e aiuta chi ne ha bisogno, sia italiano che straniero. Per la Turco il dovere di giornalisti come Rampini sarebbe quello di raccontare questo popolo, ringraziarlo e farlo conoscere così da abbattere muri e far crescere legalità. Inoltre, bisogna “chiamare a raccolta popolo e intellettuali a ragionare su come costruire l’Italia e l’Europa della convivenza, su come rendere concreto il motto europeo della unita nella diversità”. Ma non solo. Per l’ex ministro“una sinistra coraggiosa chiede che si aprano canali regolari dell’ingresso per lavoro come richiesto da alcuni settori della nostra economia, cerca di togliere dalla illegalità le migliaia di persone con la regolarizzazione ad personam, abroga i decreti sicurezza di Salvini, costruisce una nuova legge quadro sulla immigrazione” e creare le condizioni per far incontrare e conoscere italiani e immigrati. La Turco, inoltre, sostiene che bisogna opporsi all’odio dimostrando che “insieme si può”. Il suo messaggio, ovviamente, non può terminare senza un attacco a Matteo Salvini, politico che divide e a cui “bastano gli slogan e i selfie”.

Il saggio di Rampini, l’errore della sinistra. Ha dimenticato i «penultimi». Pubblicato sabato, 01 giugno 2019 da Aldo Cazzullo su Corriere.it. Inesorabile, implacabile, ogni anno arriva l’appuntamento con la serata della consegna degli Oscar. L’attendo con ansia quando vedo che la data si avvicina. So già che cosa mi riserva. Tutti i media progressisti — americani, mondiali — quella sera danno il peggio di sé. Un’orgia di banalità politically correct, una discesa verso gli inferi dell’ipocrisia. Le star di Hollywood lo sanno benissimo, hanno imparato a manipolare la dabbenaggine dei commentatori. Ogni celebrity ha i suoi addetti alle relazioni esterne, che ne curano anche l’immagine “valoriale”; la passerella degli Oscar viene usata per mandare messaggi che provocano l’orgasmo dei media progressisti. Di volta in volta, l’attrice o l’attore verranno edotti dagli esperti di comunicazione, istruiti in anticipo. Bisogna sapere se quell’anno va più di moda il cambiamento climatico o il razzismo, gli immigrati o le molestie sessuali. La star deve avere bell’e pronto il suo discorsetto sugli orsi polari, o le violenze della polizia americana contro i neri, o gli abusi sulle donne (meglio se attrici), o il dramma dei morti annegati nel Mediterraneo...». «La notte della sinistra» (Mondadori, pagine 180, euro 16)È un Federico Rampini che non ti aspetti. Di solito, leggendo i suoi libri, si impara sempre qualcosa. È così anche questa volta (molto belle, ad esempio, le immagini su un Paese da oltre cento milioni di abitanti di cui non si parla mai, l’Etiopia). Ma La notte della sinistra (Mondadori) è anche un’invettiva. Con punte di amara ironia; come il passaggio sugli orsi polari interscambiabili con i bambini annegati, che torna in altre pagine del libro, come memento della spregiudicatezza delle star progressiste di Hollywood (e dei loro uffici stampa). È un libro di grande coraggio intellettuale. Qualcuno, in buona o in malafede, l’ha frainteso — o ha finto di fraintenderlo — e ha concluso: Rampini è diventato di destra. È vero il contrario. L’autore non rinnega la militanza giovanile, e neanche lo sguardo con cui ha seguito le vicende degli ultimi decenni, nei molti luoghi dove la vita e il mestiere l’hanno portato: la Bruxelles dell’Europa nascente, la Parigi di Mitterrand, la Milano di Mani Pulite, la San Francisco della new economy, la Pechino e la New Delhi del boom di Cindia, la New York di Obama e ora di Trump. Ma proprio per questo Rampini è giustamente indignato per quello che la sinistra è diventata. E per i suoi errori, che l’hanno portata a perdere il popolo. Pendere dalle labbra dei miliardari dello spettacolo — e dai padroni della rete che accumulano denaro e potere senza neppure pagare le tasse — è solo uno degli abbagli gauchisti che hanno spalancato le porte alla Brexit, a Trump, ai fenomeni che l’autore cerca di capire, rifiutando di liquidarli frettolosamente come «fascismo alle porte» e «peste nera». Perché a eleggere Trump sono stati gli operai bianchi del Michigan, della Pennsylvania, dell’Ohio che per due volte avevano eletto il primo presidente afroamericano della storia. «Razzisti anche loro?» si chiede Rampini. Federico Rampini (Genova, 1956), editorialista de «la Repubblica» Demonizzare l’avversario, ecco un altro errore. Tutto è colpa di Trump, pure il rischio dell’estinzione delle balene (almeno secondo Ian Buruma). E appena si scopre che non è stato Trump ma la polizia messicana a far scrivere un numero — in pennarello — sul braccio dei bambini alla frontiera, non è stato Trump ma Clinton ad avviare la costruzione del Muro, non è stato Trump ma Obama ad avviare la pratica orrenda di separare i figli dai genitori, ecco che l’argomento alla gran parte dei media non interessa più. Denunciare questo non significa essere trumpisti; al contrario, significa segnalare il pericolo che un grande comunicatore come Trump si avvalga dell’evidente parzialità del sistema dell’informazione, per dire agli elettori: vi stanno ingannando, loro sono l’élite, voi il popolo; e io sto con voi. Esattamente quel che è accaduto nella campagna elettorale del 2016, e sta accadendo ancora. Ma l’errore più grave della sinistra è stato non accorgersi che, preoccupata degli ultimi — per buon cuore o anche per autocompiacimento —, si stava scordando dei penultimi. Degli americani — e degli italiani — poveri. Degli operai che hanno perso il lavoro, o dei «nuovi operai», il commesso di Amazon, il centralinista dei call center, i giovani precari che si sentono e a volte sono davvero scavalcati da migranti arrivati clandestinamente e disposti a lavorare molto in cambio di poco, magari in nero; del resto, se sono entrati in un Paese violando le sue norme, perché dovrebbero rispettarle in seguito? Ricorda Rampini che i messicani o gli africani non sono certo venuti in America o in Italia per comprimere i diritti e i salari dei lavoratori; ma un’immigrazione senza controllo è destinata inevitabilmente a comprimere i diritti e i salari dei lavoratori. Non a caso i due presidenti-icona del progressismo del XX secolo, Franklin Delano Roosevelt e John Fitzgerald Kennedy, fecero una politica molto dura sull’immigrazione, chiudendo di fatto le frontiere; mentre i capitalismi d’assalto di frontiere non vogliono sentir parlare, perché hanno bisogno di manodopera a basso costo. Rampini fa giustizia di molti luoghi comuni. Non è più vero che «gli immigrati fanno i lavori che i nostri giovani non vogliono più fare». Non è vero neppure che «gli immigrati ci pagheranno le pensioni»; perché anche loro invecchieranno e avranno diritto a una pensione, ma a quel punto serviranno altri immigrati che lavorino per pagare la loro, e quindi se davvero la Social Security o l’Inps devono dipendere dalle migrazioni, allora le migrazioni devono continuare all’infinito. A chi abbia giovato, ad esempio, la carovana dall’Honduras messa in piedi da organizzazioni umanitarie come sfida a Trump, è evidente: ha giovato a Trump, che anche così ha salvato la maggioranza in Senato nelle elezioni del novembre 2018. Ma siamo sicuri che l’emigrazione giovi ai Paesi poveri? Certo che no. «Aiutarli a casa loro» non è una formula di destra, ricorda Rampini. E cita l’esempio del Malawi: metà dei medici formatisi nel Paese africano sono ora a Londra; questo agevola la sanità inglese e i suoi pazienti, ma distrugge la possibilità del Malawi di darsi un sistema sanitario efficiente.

RAMPINI, UN COLTELLO CALDO NEL BURRO DELLA SINISTRA. Federico Novella per “la Verità” il 10 giugno 2019. «Una volta la sinistra si affidava a Umberto Eco e Pier Paolo Pasolini: oggi l' eroina della sinistra è Asia Argento. È una perversione che non posso accettare». Federico Rampini è diventato di destra? «No, anzi. Rivendico l' appartenenza alla sinistra classica. Il fatto è che quando il popolo vota a destra, gli opinionisti di sinistra dicono che sta impazzendo, che si lascia incantare, che sta diventando fascista. Questo mi ricorda una battuta di un comunista doc come Bertolt Brecht: "Se il popolo non mi sostiene, cambiamo il popolo"». Persino lui, di fronte alla deriva benpensante su spread, fascismi, immigrazione e femminismo, ha perso le staffe. Anzi, le bretelle. E pensare che, dalla capigliatura sparata alla erre morbida, fino alla montatura degli occhiali, Rampini già a prima vista parrebbe l' incarnazione dell' intellettuale radical chic. È significativo che sia proprio il corrispondente di Repubblica, una vita spesa a raccontare il mondo, da New York a Pechino, da San Francisco a Parigi, a incaricarsi di demolire pezzo per pezzo i luogocomunismi nostrani. Nel suo ultimo libro, La notte della sinistra (Mondadori), Rampini fa un ragionamento spietato: se la sinistra vuole guarire, occorre prima diagnosticarne le malattie croniche.

Perché i progressisti sono confinati nelle isole pedonali dei centri storici?

«La missione della sinistra è diventata quella di proteggere gli ultimi, cioè quelli che tentano di attraversare il Mediterraneo. Così facendo, abbiamo voltato le spalle ai "penultimi", agli italiani, quelli che abitano nelle periferie. Attirano meno solidarietà, e anzi ci sembrano un po' volgari, un po' cafoni, non particolarmente simpatici. È una forma di snobismo».

Oggi lo slogan non è più «Avanti popolo», ma «Occhio allo spread»?

«Dopo Bill Clinton e Tony Blair, siamo diventati liberisti. Ma non mi convince la sinistra che fa da cassa di risonanza delle agenzie di rating e delle banche d' affari».

Se si consegna allo spread, la socialdemocrazia butta via la sua storia?

«Fino a qualche anno fa eravamo molto critici nei confronti dell' establishment. Mi sono riletto un' intervista di Pier Carlo Padoan: chiedeva meno sacrifici e più flessibilità. Ho seguito per otto anni Barack Obama: lui criticava severamente la logica dell' austerity e di questo ordoliberismo germanico che condanna l' Europa alla depressione».

Poi è arrivato l' altro idolo progressista, Emmanuel Macron. Simpatizzare con lui pensa sia stato un errore?

«Macron è senza dubbio un sovranista puro. Un tipico nazionalista francese. Il suo europeismo è un' impostura: lo si vede da come tratta l' Italia sull' immigrazione, a Ventimiglia, a Bardonecchia, o sul dossier Fiat-Renault. Se può prendere a ceffoni l' Italia lui lo fa sempre volentieri».

Andare al traino di Jean Claude Juncker quando attacca il governo italiano significa svendere gli interessi nazionali?

«Juncker? Una delle più grandi vergogne d' Europa. Abbiamo consentito di far nascere paradisi fiscali come il Lussemburgo nel cuore del continente. È paradossale che l' Europa se lo sia scelto come capo della Commissione europea».

E dunque cosa dovrebbe fare il governo Conte di fronte a un richiamo europeo sul debito?

«Non drammatizzo la possibile procedura d' infrazione. È un gioco delle parti, ma parti deboli. È debole - e isolata - l' Italia. È debolissima l' Europa. Mi piacerebbe vedere un' Italia che lotta per un' Unione diversa, per un ritorno alla crescita, con un progetto alternativo alle rigidità estreme del patto di stabilità».

Senza tagliare i ponti, dunque.

«All' Italexit non ci crede più nessuno. Del resto la Brexit è stato uno spettacolo talmente angosciante che nessuno vuol più imboccare quella strada. Il disastro inglese a qualcosa è servito».

Tornando in Italia. A ogni campagna elettorale scatta l' allarme fascismo e razzismo. Dopo le elezioni, chi ha suonato l' allarme resta suonato nelle urne. Che spiegazione si dà?

«È il vezzo di una sinistra intellettualmente pigra, che non educa i giovani a studiare bene la storia. Non avendo idee forti da proporre, ci si rifugia in automatico nella vecchia retorica».

È un vizio che viene da lontano?

«Da quando avevo 20 anni si parla di ritorno del fascismo in Italia. Ti ricordi cos' era l' Italia degli anni Settanta? Le stragi, le bombe sui treni: eppure il fascismo non tornò, neanche allora. Oggi alcuni fascisti ci sono, e vanno condannati: ma non c' è alcun rischio fascismo dietro l' angolo. Chiediamoci piuttosto perché vaste parti del popolo italiano si spostano verso destra».

Avete lasciato alla destra il copyright sulla parola «Italia»?

«Prendi il Pci di Enrico Berlinguer. Aveva il 36% dei voti: record indiscusso. Ci definivamo un partito "nazionalpopolare", e non c' era nessun pudore a usare questo termine. Anzi, ne andavamo orgogliosi. Aveva ascendenze gramsciane».

Oggi invece si magnifica la futura Italia multietnica.

«Questa è una banalità. Siamo già multietnici. Ci sono tanti immigrati perfettamente integrati. Ma ciò non toglie che ogni Paese ha il diritto di stabilire le regole di accesso e di appartenenza alla propria comunità nazionale. Altrimenti emerge la sensazione di aver perso il controllo delle frontiere, e questo crea già di per sé un senso di insicurezza».

Anche la parola «paura» è un termine tabù per la sinistra?

«I cittadini devono essere compresi e coinvolti: non possiamo dire agli italiani che è così e basta, che il futuro non dipende da loro. O peggio ancora, che l' immigrazione è meravigliosa e non dobbiamo fare i razzisti».

Mi metto nei panni di Laura Boldrini: gli immigrati svolgono i lavori che gli italiani non vogliono più fare.

«Attenzione, perché nella storia sono sempre stati gli industriali, i ricchi, a volere frontiere aperte. Sia per gli scambi commerciali, sia per la manodopera a basso costo. Negli anni Cinquanta la sinistra meridionalista capì che l' emigrazione verso il Nord Italia era anche un impoverimento del Sud. Oggi invece abbiamo quest' idea di aiutarli, accogliendoli. È una follia: non è mai stata un' idea di sinistra».

Frontiere aperte significa lavori da fame?

«Diciamo che se i padroncini schiavisti dell' agricoltura campana fossero costretti a pagare dieci volte tanto per la raccolta dei pomodori, magari qualche studente napoletano di lettere e filosofia potrebbe accettare l' offerta».

Mi metto nei panni di Tito Boeri: gli immigrati ci stanno pagando le pensioni.

«Sì, però quando poi invecchieranno, cominceranno a "consumare" pensioni, anziché finanziarle. Sul lungo periodo, non basterà l' attuale livello di immigrazione, servirà un continuo flusso migratorio per mantenere in equilibrio la previdenza. Questo flusso cambierebbe la composizione etnica della società italiana. Come minimo dovremmo chiedere un parere ai cittadini».

Abbiamo alternative?

«Ci sono diversi modelli al mondo: il Giappone ha una popolazione più vecchia della nostra, e ha scelto di affrontare queste sfide senza il contributo dell' immigrazione. Ma non possiamo mettere gli italiani di fronte al fatto compiuto, magari con la solita arroganza dei tecnocrati che dicono: sappiamo qual è il vostro bene, tacete e accettate. Niente è ineluttabile, su ogni questione il popolo sovrano ha il diritto di pronunciarsi».

Perché dice che i primi a credere alle frontiere sono i migranti stessi?

«Coloro che vengono dal Sud delle Americhe, o dalle zone subsahariane, ai confini ci credono tantissimo. E sognano di stare dalla parte giusta, dove esiste uno Stato di diritto. L' ideologia no border è irreale da questo punto di vista».

Matteo Salvini fa bene a chiudere i porti?

«Credo sia solo una battaglia simbolica, marginale rispetto al problema. Da una parte e dall' altra quella dei porti è diventata una guerra di bandiera. Così come Donald Trump si è inventato un muro con il Messico che però esisteva già: lo costruì Bill Clinton e lo ampliò George W. Bush con i voti dei democratici».

Una volta la sinistra italiana si ispirava a Pasolini e Umberto Eco. Oggi, a Greta Thunberg?

«Greta mi piace molto. Ciò che non accetto è l' uso ideologico delle star di Hollywood. Quando Asia Argento diventa un' eroina della sinistra, allora proprio non ci siamo più. Eravamo il partito di Elsa Morante, Rosa Luxemburg, Hannah Arendt. Il femminismo che da Simone de Beauvoir finisce ad Asia Argento è una perversione del politicamente corretto».

Chi rappresenta meglio l' anima della sinistra oggi in Italia?

«Francamente sono un po' a corto di nomi».

Dopo questa intervista il tribunale balneare di Capalbio la condannerà per alto tradimento. Con interdizione perpetua dall' ombrellone.

«In effetti ho avuto scontri aperti con alcuni colleghi e amici. Mi sorprende positivamente l' atteggiamento di Repubblica, che continua ad accogliermi come voce fuori dal coro. Ai tempi del centralismo democratico del Pci chi era fuori linea veniva espulso. Oggi, per mia fortuna, non sono stato ancora scomunicato».

Da Libero Quotidiano il 15 aprile 2019. Federico Rampini (giornalista di sinistra), ospite di Massimo Gramellini a Le parole della settimana su Rai 3 attacca il Pd in diretta, lasciando esterrefatti gli ospiti in studio. Rampini infatti boccia completamente la politica pro-immigrati della sua parte politica: "Pur di fare opposizione al governo la sinistra è diventata il partito dello straniero. Applaudono il presidente francese Emmanuel Macron prendendo per buono il suo europeismo quando sulla Libia sta facendo delle porcherie difendendo solo i suoi interessi e applaudono Juncker". Una critica feroce la sua che fa impallidire Gad Lerner: "Guardare la sua faccia in studio", commenta Giorgia Meloni su Twitter, "è tutta un programma. Da non perdere".

LE ALTRE RAMPINATE SULLA SINISTRA:

PARLA ANCHE DEL SUCCESSO DI CASAPOUND NELLE PERIFIERIE: ''NON È CHE È TORNATO IL FASCISMO, È CHE CERTI MOVIMENTI SONO GLI UNICI CHE DIFENDONO I PENULTIMI, OVVERO GLI ITALIANI POVERI''.

''LA SINISTRA RADICALE E LE DESTRE PUTINIANE HANNO SEMPRE DESIDERATO CHE L'AMERICA SMETTESSE DI IMPICCIARSI DEI FATTI DEL MONDO. ORA L'ISOLAZIONISTA TRUMP ESAUDISCE IL DESIDERIO: VIA DALLA SIRIA, PACE COI TALEBANI, ZERO INTERVENTI IN VENEZUELA E LIBIA. VI LAMENTATE? QUEL CHE VIENE DOPO LA "QUASI" PAX AMERICANA È IL TRIONFO DEL CAOS'' - GLI USA ORMAI SONO INDIPENDENTI PER GAS E PETROLIO. PER QUESTO TRIPOLI PUO' PURE BRUCIARE".

''NON VEDO UN FUTURO PER LA SINISTRA ITALIANA SE SI OSTINERÀ A ESSERE IL PARTITO DEI MERCATI FINANZIARI E DEI GOVERNI STRANIERI, IN NOME DI UN EUROPEISMO BEFFATO PROPRIO DA TEDESCHI E FRANCESI. BASTA RACCONTARCI CHE SIAMO MORALMENTE SUPERIORI E CHE LÀ FUORI CI ASSEDIA UN'ORDA FASCISTA. È SUPERFICIALITÀ, MALAFEDE, IGNORANZA DELLA STORIA…''

Federico Rampini per ''la Repubblica - Affari & Finanza'' il 28 maggio 2019. Donald Trump ha presentato finalmente la sua proposta di riforma dell' immigrazione. Da un certo punto di vista, è la montagna che partorisce il topolino. Naturalmente se uno guarda solo la Cnn o legge solo il New York Times, pensa che sia un progetto ignobile, da respingere con orrore. Il riflesso pavloviano dei media d' opposizione è scattato, automatico, e per trovare delle analisi lucide bisogna cercarsele con attenzione. (Se ne trovano però. Finalmente un pezzo della sinistra americana - incluse firme prestigiose come Thomas Friedman e David Frum, sul New York Times e The Atlantic - comincia a ragionare sull' immigrazione, con paragoni storici e analisi sul campo). La verità è che quel progetto di legge al suo centro ha qualcosa di banale. E' il ritorno ad un sistema di selezione degli immigrati fondato sui loro talenti e abilità professionali. Apriti cielo: discriminazione! Ma questo è il sistema in vigore da tempo nel civilissimo Canada, governato non da un sovranista bensì da un illuminato liberal-progressista. Né la sinistra canadese lo ha mai condannato. Inoltre quel sistema di quote funzionò a lungo negli Usa, proprio quando la sinistra era più forte. D' altronde anche in Europa, chi fa la fatica di analizzare i flussi migratori, si accorge che i paesi nordici dalla Germania alla Scandinavia operano implicitamente un tipo di selezione simile: da loro finiscono molti più medici siriani e ingegneri informatici pakistani, di quanti ne rimangano in Italia. Il problema vero, per usare uno slogan spesso frainteso e strumentalizzato, è se così facendo "li aiutiamo a casa loro". Se i paesi più ricchi scelgono quali immigrati gli servono, e decidono di privilegiare quelli che hanno più competenze, il risultato qual è? E' di prosciugare ulteriormente di talenti i paesi più poveri. Ho ricordato, nel mio libro "La notte della sinistra", che la metà dei medici del Malawi lavorano nella sola città di Londra. Per loro è una fortuna. Per il sistema sanitario inglese, anche. Un po' meno per gli abitanti del Malawi. Né ci si può consolare - come fanno alcuni economisti - guardando alle rimesse degli emigrati. Se le rimesse fossero un volano di sviluppo, il nostro Mezzogiorno negli anni Cinquanta sarebbe diventato la Florida. L' idea di regolare i flussi scremando la fascia qualificata si limita a trasferire l' effetto-concorrenza alle professioni intellettuali: quelle che non votano per Trump. In questo senso, si potrebbe dire che c' è un calcolo politico perfido. Se l' America fa come il vicino Canada, e comincia ad assegnare i visti soprattutto a medici e informatici, "finalmente" la pressione al ribasso sulle retribuzioni colpirà le élite professionali anziché i metalmeccanici del Midwest. Ma non sarà certo di aiuto ai paesi di partenza. Non è mai accaduto nella storia, che l' emigrazione abbia arricchito le terre d' origine.

Se i comunisti si scoprono fascisti. Michel Dessi il 17 maggio 2019 su Il Giornale. Salvini non è il nuovo Duce. Basta con queste cazzate, avete rotto! Lo dico a tutti quei “compagni” che, da qualche settimana, non fanno altro che esasperare il clima politico nel nostro Paese. Altro che Salvini e i suoi slogan contro gli immigrati e le navi delle ONG. Sono loro che alimentano odio e rancore. Accusano, puntano il dito e censurano, come nel caso di Chiara Giannini e del suo “Io sono Matteo Salvini”. Ma chi sono i veri fascisti? Sono loro, i sinistroidi, gli unici in questi mesi a mettere un limite alla libertà. Di scegliere e pensare. O meglio, ci provano. Inutilmente. Non c’è comizio di Matteo Salvini che non venga preso di mira dai “moscerini rossi” che, pieni di odio, vorrebbero mettere il bavaglio al “ministro della malavita” (così lo chiamano). Cantano cori e offendono. Urlano, si sgolano tentando (invano) di coprire la voce di chi parla. Provocano persino i pensionati (magari con quota 100) che, indecisi su chi votare, vanno ad ascoltare i comizi del “capitano”. Certo, non va proprio giù ai “rossi di sera” che Salvini sia il Vice Premier di questo Governo. Salvini, piaccia o no, è stato democraticamente eletto. (Traduco per i compagni dei centri a-sociali: ha incassato i voti, tanti voti. La gente lo ha preferito a voi, alle vostre bandiere rosse e alla vostra “bella ciao”). Eppure, imperterriti, continuano nella loro missione: portare scompiglio e disordine. D’altronde questo è il loro unico scopo. Contestare. Sempre, a prescindere. Il problema non sono le lenzuola colorite, piene di insulti contro la Lega e Salvini appese ai balconi delle città (male ha fatto chi ha ordinato ai vigili del fuoco di rimuoverne uno), ma è la violenza. Quella che abbiamo visto a Napoli. Una violenza che non può essere giustificata. Mai. Eppure, uno sparuto plotoncino di ragazzini arrabbiati più dei cani e di ragazze isteriche dai capelli blu e viola, ha pensato bene di lanciare con forza una transenna contro un poliziotto spaccandogli la testa. Volevano raggiungere a tutti i costi la prefettura di Napoli (il palazzo del Governo) per inveire contro Salvini. Perché? Questa non è democrazia. Non è così che si difende la libertà. La violenza porta violenza. Ma come, non erano proprio loro ad issare la bandiera colorata della Pace? Ah, sicuramente l’avranno tenuta da parte, pronta per essere sbandierata al prossimo gay pride.

Federico Rampini si è rotto dell'antifascismo, la sua lezione alla sinistra. Renato Farina su Libero Quotidiano il 17 Maggio 2019. È un giornalista di Repubblica, una prima firma, pupillo dell'Ingegner Carlo De Benedetti, e suo biografo, quello che ha descritto meglio di tutti, profeticamente, l' attuale indirizzo di Repubblica, diretta da Carlo Verdelli. Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari è tornato guida, con uno slogan al giorno, della sinistra tornata all'antica, alla steppa cosacca, alla mitologia del proletario dai nobili sentimenti barricadieri, contrapposti al becerume salviniano, uno da appendere ogni giorno, per ora simbolicamente, a piazzale Loreto. Perché? Ma certo: perché sì. A sinistra basta la parola: è fascista. Matteo è l'Uomo Nero con la sua onda del medesimo colore, cui si oppone la magnifica "onda rossa" anche nelle sue sfumature di porpora: un giorno è il sindaco di Riace a incarnarla incriminato perché «difende i migranti», un altro giorno è il cardinale elettricista, che infrange la legge per una ragione superiore alla legge, restituendo la luce come Jean Valjean ai miserabili. Di fronte a questi esempi di probità, si staglia Belzebù-Salvini, il nemico della democrazia contro cui dirigere ogni forza residua di bene: dal Pd di Nicola Zingaretti, ai Cinquestelle di Di Maio; dai cattolici delle parrocchie all' estrema sinistra situazionista di Action. Fila liscio? Non proprio. Si alza Federico Rampini a lanciare anatemi contro questo vecchiume purulento. Leggere per credere. «Se la sinistra vuol sopravvivere deve smetterla di infliggere ai più giovani delle lezioni di superficialità, malafede, ignoranza della storia. Si parla ormai a vanvera di fascismo, lo si descrive in agguato dietro ogni angolo di strada, studiando pochissimo quel che fu davvero Si spande la retorica di una nuova Resistenza, insultando la memoria di quella vera (o ignorandone le contraddizioni, gli errori, le tragedie)». Questa citazione è tratta da un libro uscito lo scorso marzo: "La notte della sinistra" (Mondadori, pagine 180, 16). Rampini aveva capito tutto sin dai primi sintomi di questo rigurgito di nostalgia da Biennio Rosso. Fantastico.

NUOVO SESSANTOTTO - Non si è fermato qui. Ha scritto ancora, anticipando i fasti sessantottini redivivi in questi giorni all' assemblea dell' Università La Sapienza di Roma per celebrare l' antifascismo. Copio da repubblica.it, 13 maggio scorso: «Mimmo Lucano è arrivato a La Sapienza "scortato" da centinaia di persone. Una marea umana che sulle note di "Bella Ciao" e con il coro "Siamo tutti Mimmo Lucano" ha accompagnato l' ingresso dell' ex sindaco di Riace nell' aula 1 della facoltà di Lettere. "In Italia c' è un clima di odio e di forte divisione. Il ministro dell' Interno è uno degli autori di questo clima di odio. Noi siamo l' onda rossa che contrasta l' onda nera che sta oscurando anche i nostri orizzonti", ha detto Lucano agli studenti». Tutto previsto nel libro di Rampini: «Mi vengono ancora in mente le orribili assemblee studentesche degli anni Settanta, dove gli estremisti, decidevano chi aveva diritto di parola e chi no. "Fascisti", urlavano a chiunque non la pensasse come loro. L' élite di quel momento (giovani borghesi, figli di papà, più i loro ispiratori e cattivi maestri tra gli intellettuali di moda) era una Santa Inquisizione che sottoponeva gli altri a severi esami di purezza morale, di intransigenza sui valori».

IL PROGETTO - Questo sta accadendo in Italia oggi. L' accerchiamento di Salvini prelude al tentativo di una sorta di golpe parlamentare di emergenza antifascista. Una maggioranza M5S+Pd+Leu contro la risorgente dittatura nera. Per questo prima Salvini rompe con gli pseudo-soci di un contratto cretino, e impedisce quella congiunzione con un forte successo alle europee, o in quindici giorni sarà strizzato dal concentrato di mass media, istituzioni, finanza mondiale. Bravissimo Rampini allora. Ricordo che nelle assemblee studentesche chi criticava la sinistra premetteva al suo intervento in assemblea questa frase: destra o sinistra in realtà qui non interessa. Importa mettere sassi nell' ingranaggio che sta triturando il confronto tra le diverse opinioni e idee politiche. Rampini ci aiuta tutti a tenere desta la coscienza dinanzi all' osceno ostracismo con cui si sta buttando fuori dal circuito democratico chi non si allinea al pensiero unico alla Mimmo Lucano. È una menzogna inoculata ogni dì, quella secondo cui il monopolio dei sentimenti e dei valori umani appartenga alla sinistra nelle varie tonalità di rosso. Conta un minimo di obiettività davanti a quanto sta accadendo in Italia. E ringraziare chi, diversamente pensante, però intravede e denuncia la medesima minaccia. Per me è una lezione di vita, quella di Rampini. Nessuna vergogna a dirlo. Una testimonianza di capacità critica rischiando l' anatema del proprio mondo. Era stato Libero, grazie ad Antonio Socci, a mettere in luce il 31 marzo scorso, in prima pagina, il coraggio di uno da cui - leggendone la biografia - non te l' aspetteresti. Ma alla fine è l' imprevisto quello che consente di imparare qualcosa. Di ribaltare gli equilibri dell' ovvio. Chi è Federico Rampini. Volto, voce e abbigliamento sono popolari. Ha 63 anni, è corrispondente di Repubblica da New York, dopo essere stato a San Francisco, Pechino, eccetera eccetera. Uno che graffia quando può, naturalmente con unghie curatissime, Donald Trump. Non c' è nulla che somigli di più di lui all' intellettuale radical-chic. Postura, chioma elettrica in piedi, per dimostrare che è trapassata da colpi di genio alla Einstein, smorfia di superiorità e bretelle accondiscendenti verso la plebe, erre morbida scuola Agnelli. Se uno immagina un comunista che non mangia ma al massimo deliba delicatamente, eppure con indifferenza, il caviale con il cucchiaino, solo Beluga iraniano però: vede lui. Il cosmopolita contro il nazionalista. La raffinatezza mondialista contro la rozzezza sovranista. Federico Rampini è - televisivamente parlando - il lato serio della medaglia del progressismo americano in Italia (quello frou-frou è Beppe Severgnini). Alla faccia del pregiudizio del sottoscritto, Rampini sta dimostrando un coraggio leonino, e una dote profetica non comune. La sinistra come fa ad esorcizzarlo? Criticandolo? Ma va'. Ha sigillato le tesi di Rampini in un acquario isolato acusticamente, le lascia rinchiuse nei suoi libri, nelle sue rubriche. Va benissimo l' etichetta che ha appiccicato a quest' uomo Il Fatto quotidiano per depotenziarne la carica esplosiva: «intellettuale cosmopolita di proverbiale eleganza dégagé». Qualunque cosa voglia dire, uno scappa. Rimediamo, come possiamo, noialtri, gente volgare. Renato Farina

Antonio Socci, la confessione di Federico Rampini sulla sinistra: "I veri fascisti siamo noi", scrive il 31 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. «Debuttai come giornalista (in nero e senza un contratto di lavoro, proprio come si usa oggi) nel 1977 alla Città futura. Era il giornale della Federazione giovanile comunista italiana». Così impietosamente Federico Rampini - oggi firma di punta di Repubblica - ricorda il suo esordio professionale nel suo ultimo libro, "La notte della sinistra", dove affonda il coltello nelle contraddizioni, nelle ipocrisie e negli errori della sua parte politica, che elenca: «dall' immigrazione alla vecchia retorica europeista ed esterofila, dal globalismo ingenuo alla collusione con le élite del denaro e della tecnologia». Il libro di Rampini in pratica demolisce la Sinistra. L' autore invita anzitutto a smetterla di «raccontarci che siamo moralmente superiori e che là fuori ci assedia un' orda fascista». Invita anche a smetterla «di infliggere ai più giovani delle lezioni di superficialità, malafede, ignoranza della storia. Si parla ormai a vanvera di fascismo, lo si descrive in agguato dietro ogni angolo di strada, studiando pochissimo quel che fu davvero... Si spande la retorica di una nuova Resistenza, insultando la memoria di quella vera (o ignorandone le contraddizioni, gli errori, le tragedie)». Poi l' autore ricorda le orribili assemblee studentesche degli anni Settanta, dove «gli estremisti, decidevano chi aveva diritto di parola e chi no. "Fascisti", urlavano a chiunque non la pensasse come loro. L' élite di quel momento (giovani borghesi, figli di papà, più i loro ispiratori e cattivi maestri tra gli intellettuali di moda) era una Santa Inquisizione che sottoponeva gli altri a severi esami di purezza morale, di intransigenza sui valori».

FILASTROCCHE. Attualmente sembra si sia disinvoltamente cambiato tutto, ma «nel politically correct di oggi sono cambiate solo le apparenze, il linguaggio, le mode. Tra i guru progressisti ora vengono cooptate le star di Hollywood e gli influencer dei social, purché pronuncino le filastrocche giuste sul cambiamento climatico o sugli immigrati. Non importa che abbiano conti in banca milionari, i media di sinistra venerano queste celebrity. Mentre si trattano con disgusto quei bifolchi delle periferie che osano dubitare dei benefici promessi dal globalismo». Le parole d' ordine e gli slogan dell' attuale Sinistra vengono demoliti con chirurgica precisione. I sovran-populisti sono accusati di alimentare la paura? «Da quando in qua» si chiede Rampini «la paura è una cosa di destra, anticamera del fascismo? Deve vergognarsi chi teme di diventare più povero? Chi patisce l' insicurezza di un quartiere abbandonato dallo Stato?». E le parole identità, patria, interesse nazionale? Rampini sconsolato scrive: «dobbiamo smetterla di regalare il valore-Nazione ai sovranisti...». A loro - dice - «abbiamo lasciato» la parola Italia: «certi progressisti» si commuovono per le grandi cause come «Europa, Mediterraneo, Umanità» mentre ritengono la nazione «un eufemismo per non dire fascismo». Solo che la liberal-democrazia è nata proprio «dentro lo Stato-nazione» e Mazzini e Garibaldi «erano padri nobili della sinistra», la quale peraltro ha «venerato tanti leader del Terzo Mondo - da Gandhi a Ho Chi Minh a Fidel Castro - che erano prima di tutto dei patrioti». La Sinistra nostrana si entusiasma solo per il sovranismo altrui. Rampini osserva: «non si conquistano voti presentandosi come "il partito dello straniero". Negli ultimi tempi in Italia il mondo progressista ha sistematicamente simpatizzato con Macron quando attaccava Salvini e con Juncker quando criticava il governo Conte». Così si conferma «il sospetto che la sinistra sia establishment, e pronta a svendere gli interessi nazionali. Ed è un' illusione anche scambiare Macron per un europeista: è un tradizionale nazionalista francese, che dell' Europa si serve finché gli è utile, ma per piegarla ai propri interessi». Su Juncker poi Rampini è durissimo ricordando che faceva parte del governo del Lussemburgo quando adottava certe politiche fiscali, cioè offriva «privilegi fiscali alle multinazionali di tutto il mondo: uno dei principali meccanismi di impoverimento del ceto medio e delle classi lavoratrici di tutto l' Occidente».

ERRORE GRAVE. Secondo Rampini «uno che ha governato il Lussemburgo» non dovrebbe essere «promosso» a dirigere la Commissione europea. L' autore trova incredibile che «opinionisti di sinistra abbiano tifato per Juncker». E poi si chiede: «Perché solo gli italiani dovrebbero vergognarsi di avere cara la propria nazione? Definirsi europeisti in chiave antinazionale, il vezzo attuale della nostra sinistra, è un errore grave: a Bruxelles né i tedeschi né i francesi dimenticano mai per un solo attimo di difendere con determinazione gli interessi del proprio paese». Il primo capitolo del libro s' intitola "Dalla parte dei deboli solo se stranieri". La fissazione delle élite progressiste per gli immigrati (che sono utilissimi a un certo capitalismo per abbattere retribuzioni e protezioni sociali) va di pari passo con la dimenticanza della stessa Sinistra per i nostri poveri e il nostro ceto medio impoverito. Qui l' analisi di Rampini si fa spietata per moltissime pagine. E fa capire perché il popolo e i lavoratori hanno divorziato dalla Sinistra e questa è diventata il partito delle élite e dei quartieri-bene: «L' Uomo di Davos ha plagiato la sinistra, i cui governanti si sono alleati proprio con quelle élite». La conclusione di Rampini è questa: «non vedo un futuro per la sinistra italiana se si ostinerà a essere il partito dei mercati finanziari e dei governi stranieri, in nome di un europeismo beffato proprio da tedeschi e francesi». Antonio Socci

I saputelli, scrive Alessandro Gnocchi, Il Giornale 13 aprile 2019. No, incredibile. Prima la sinistra ci ha fatto una testa così con Berlusconi cattivo, Salvini cattivo, l’allarme populismo, l’allarme sovranismo; e poi viva i competenti, l’Unione europea, l’euro e Matteo Renzi. Adesso torna sui suoi passi e con la stessa sicumera ci dice che l’Europa non è così buona, l’euro non è il paradiso, il sovranismo non è sbagliato se inteso come patriottismo, i competenti curano i propri affari e Matteo Renzi è stato una sciagura per la sinistra, diventata la cameriera del sistema economico «neoliberista», considerato diabolico dai post comunisti. Federico Rampini, cresciuto con Enrico Berlinguer, scopre all’improvviso un fatto di cui tutti si erano accorti all’incirca nel 1989: la sinistra non ha uno straccio di idea sul futuro. Si è rifugiata nel culto delle minoranze e dei diritti, dimenticandosi di tutto il resto, cioè dei problemi della maggioranza degli italiani. Secondo Rampini, firma di Repubblica, il Partito democratico è diventato il partito dello spread che tifa per l’Europa «a prescindere», anche quando è governata dai campioni della pirateria fiscale. Chi lo avrebbe mai detto? Beh, Augusto Del Noce aveva previsto all’inizio degli anni Sessanta la trasformazione del Pci in una sorta di partito radicale di massa; il sociologo (di sinistra) Christophe Guilluy ha realizzato circa vent’anni fa studi cruciali sul cambiamento dei partiti di sinistra, francesi o italiani poco cambia, e del loro elettorato, sempre più borghese e cosmopolita. Ma ora che queste cose ce le dice Rampini nel suo La notte della sinistra (Mondadori) siamo tutti più tranquilli. Federico Fubini, dalle colonne del Corriere della Sera, è sempre stato un sostenitore a spada tratta del progetto europeo contro i trogloditi del sovranismo e del populismo. Ora ci viene a dire che l’Europa è bella ma non bellissima e che noi italiani dobbiamo essere orgogliosi di quello che siamo e non rinunciare alla nostra identità. Chi l’avrebbe mai detto? Beh, Ida Magli aveva letto e criticato i trattati europei in diretta, alcune decine di anni fa. Ma ora che ce lo dice Fubini nel suo Per amor proprio (Longanesi) siamo tutti più tranquilli. L’autore sostiene che l’Europa deve marciare unita per resistere alla pressione di forze imperiali come la Cina. Tra trent’anni ci dirà quello che fior di storici scrivono oggi: l’Unione europea ha una dimensione politica imperiale ma con una stranezza. Al posto dell’imperatore c’è una moneta, l’euro. Infine la ciliegina sulla torta. Sta per uscire un libro che non ha paura di sferzare i poteri forti, le élite che, ignorando il pueblo, hanno causato la deriva populista. Chi è dunque questo visionario autore che arriva neanche trent’anni dopo le opere fondamentali di Christopher Lasch? Ferruccio de Bortoli, l’ex direttore del Corriere della Sera, del tutto estraneo alle élite, notoriamente escluso dal mondo del potere. Meno male che ha scritto Ci salveremo, in uscita per Garzanti. Ci vediamo tra quarant’anni per i saggi di sinistra che ci spiegheranno i danni dell’immigrazione incontrollata e la rabbia dei perdenti della globalizzazione.

“Macchè fascismo!, ormai gli Italiani non li difende più nessuno”, scrive ilgiornaleoff. il 15 aprile 2019. ilgiornale.it/2019/04/15. “La sinistra è diventata la sinistra del Fondo Monetario Internazionale e delle agenzie di rating“. “La sinistra ha smesso da tempo di occuparsi dei penultimi, italiani poveri […] e è diventata il partito dello straniero. Applaude a tutto quello che fa Emmanuel Macron prendendo per buona la favola del Presidente europeista che sta facendo in Libia delle porcherie contro l’interesse dell’Italia […]. Ho visto politici ed esponenti di sinistra applaudire a tutte le bacchettate che arrivano da un personaggio come Jean Claude Junker, che esorta l’Italia a rimanere ingabbiata nelle politiche di bilancio dell’austerity europea […]; così facendo la sinistra diventa il partito che sta sempre per gli stranieri e getta via il suo patrimonio di critica all’austerity, è una cosa inaccettabile“. E’ la notte della sinistrasecondo Federico Rampini, inviato storico di Repubblica che, ospite di Massimo Gramellini a Le parole della settimana su Rai 3, non le manda a dire alla sinistra italiana. E a proposito di CasaPound: “Non è che è tornato il fascismo, è che certi movimenti sono gli unici che difendono i penultimi, ovvero gli italiani poveri“. Un Federico Rampini quasi “trumpiano” suona il requeim della sinistra, con un Gad Lerner, anche lui ospite di Gramellini, di sale…

"Rom e immigrati? No ai Parioli". Ed è ancora bufera su Lerner. Duello tra Federico Rampini e Gad Lerner a Le parole della settimana su Rai Tre. Al centro del dibattito l'accoglienza per i nomadi e i richiedenti asilo, scrive Angelo Scarano, Mercoledì 17/04/2019, su Il Giornale. Duello tra Federico Rampini e Gad Lerner a Le parole della settimana su Rai Tre. Il giornalista di Repubblica di fatto in un suo intervento in tv punta il dito contro la sinitra che da qualche tempo si schiera sistematicamente a difesa di rom e immigrati. Una presa di posizione che di fatto, come ha ricordato ilGiornale, spiazza il panorama dei commentatori rossi, come lo stesso Gad Lerner. E così va in scena lo scontro. Rampini non usa giri di parole e affonda il colpo: "Guarda caso queste storie terribili accadono soltanto nei quartieri popolari, dove ormai il Partito Democratico prende voti. Non è ai Parioli che ci sono questi problemi di convivenza tra poveri. E se la sinistra prende voti solo ai Parioli ci sarà una ragione". A questo punto arriva, stizzito, l'intervento di Lerner che ribatte proprio sul tema dell'accoglienza per rom o richiedenti asilo: "Il problema è che ai Parioli e nelle altre zone dei centri cittadini, un edificio, un locale ha un tale valore immobiliare che nessuno mai penserebbe di destinarlo all’accoglienza dei richiedenti asilo o dei rom". Insomma tra le righe il concetto che passa è abbastanza chiaro: i risedenti dei quartiri borghesi possono giudicare chi non vuole immigrati e rom come vicini di casa, ma di certo "dato l'elevato valore degli immobili" non possono certo accogliere loro i disperati. La dittatura del radicl-chic dunque si palesa un'altra volta. Accoglienza sì, ma lontano da casa mia...

·         Intervista a Pier Paolo Pasolini.

Pasolini, 50 anni fa veniva sequestrato per oscenità Teorema. Il film che sconvolse Venezia. Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato, su Il Fatto Quotidiano il 13 settembre 2018. L’idea di Teorema, minuziosamente esposta da Pier Paolo Pasolini in un’intervista in versi, nel 1966, era quella della visita di Dio, che tutti coinvolge e domina. Una visita che esplica e rende dimostrabile la sacralità del reale; l’idea del teorema, per l’appunto. Il film venne girato a Milano, “la città più europea d’Italia”, quella dove la borghesia aveva volto più compatto e più aggiornato. In questo la sua irrealtà è completa: per dirla con Camilla Cederna, “orrende convenzioni, orrendi principi, orrendi doveri, orrenda democraticità, orrendo fascismo, orrenda oggettività, orrendo sorriso”. Pier Paolo Pasolini dipingeva così quella borghesia e in tanto orrore pensava potesse scatenarsi il miracolo e realizzarsi il teorema. Chissà se il miracolo avrebbe vanificato tanto orrore? Il film si chiude con un urlo, che è ambiguità: contempera sentimenti liberatori e raccapriccio. Il vero miracolo, comunque, è che Dio appaia, null’altro. E Dio appare, sotto le spoglie di un giovane enigmatico e bellissimo, che conquista carnalmente un’intera famiglia. Il giovane e misterioso ospite giunge alla dimora di una famiglia benestante di Milano, composta dal capofamiglia, proprietario di una fabbrica, la devota moglie che coltiva la fedeltà, il figlio vocato all’arte, incapace di “rispondere alla chiamata”, la figlia fragile e irrequieta. Vi è poi anche la servitù, e in particolare Emilia, che fa da contraltare contadino alla realtà borghese incanalata su binari rigidi e mortificatori. L’imposizione di norme comportamentali e sociali blocca inevitabilmente la libertà delle persone, che soffocano i sentimenti e si auto-impongono la prigionia del corpo. E proprio attraverso il corpo, l’ospite inizierà alla libertà tutti i membri della famiglia, intrattenendo rapporti sessuali con ciascuno di loro – con conseguenze devastanti sull’equilibrio famigliare – e lasciando quella casa in maniera improvvisa, esattamente come vi era arrivato. Il padre, Paolo, lascerà la fabbrica agli operai, si spoglierà dei suoi averi e nudo correrà nel deserto. La moglie Lucia cercherà di nuovo quella passione che l’aveva travolta con Angelo, seducendo altri giovani ragazzi, non riuscendo però a “curare” la tristezza del suo animo. Il figlio Pietro comprenderà la sua omosessualità e la sua anima d’artista, la figlia Odetta si chiuderà nella sua fragilità impazzendo, la serva Emilia, in fine, leviterà come una santa grazie al suo animo sincero. Girato nella primavera del 1968, Teorema fu presentato alla 29° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, nel settembre di quell’anno. A Venezia il clima era di violenta contestazione, con giovani cineasti che inscenavano sit-in, con interventi polizieschi non scongiurati e non scongiurabili, con conseguenti proteste e controproteste. Il film venne proiettato per i critici il mattino del 4 settembre. All’inizio della proiezione Pier Paolo Pasolini aveva chiesto ai presenti di abbandonare la sala. “Dapprincipio avevo deciso di spedire il film alla Mostra perché Chiarini mi aveva promesso che sarebbe stato un festival senza premi, senza polizia e che si sarebbe tenuta la costituente del cinema, tutte cose che non sono avvenute”: di questo si doleva Pier Paolo Pasolini. Il pubblico degli specialisti, tuttavia, non disertò la proiezione di Teorema. Nei giardini dell’hotel Des Bains, al Lido, seguì una conferenza stampa improvvisata. Pier Paolo Pasolini fu accusato di far le “capriole”: contestava, ma al tempo stesso trovava il modo di non sottrarsi agli obblighi contratti col produttore, si salvava l’anima con la contestazione senza, però, perdere d’occhio il box-office. Scavalcò con buona dialettica queste accuse, accettando le proprie ambiguità: si doveva a lui se la Mostra era stata costretta a essere quel che era, una Mostra di produttori e non di autori. Alla fine, fu così abile da risultare convincente. In ogni caso, Teorema sconcertò: in esso, si sommavano Eros e Religiosità. Per la prima volta, un nudo maschile integrale, quello di Terence Stamp, appariva sullo schermo, in un film che si negava alla pornografia: Pier Paolo Pasolini intendeva esprimere la sacralità del corpo. Lo scandalo di quel nudo, insomma, serviva a mostrare quanto fosse intollerabile la vista dell’autentico di per sé: il corpo è divino e basta; esso è epifania rituale: di fronte al suo esplicitarsi si scatena la tragedia. Sebbene premiato dall’Office Catholique International du Cinèma (Oicc), il giudizio su Teorema dell’Osservatore romano del 13 settembre 1968 fu tranchant: “La sconvolgente metafora con cui si è preteso di rappresentare il problema di un incontro con una realtà che vorrebbe essere simbolo d’una trascendenza è in radice minata dalla coscienza freudiana e marxista (…) Il misterioso ospite non è l’immagine di un essere che libera e affranca l’uomo dai suoi tormenti esistenziali, dai suoi limiti e dalle sue impurità, ma è quasi un demone”. Quello stesso 13 settembre 1968, la procura della Repubblica di Roma sequestrò il film “per oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ospitava. Il 14 ottobre successivo, intervenne analogo provvedimento della procura della Repubblica di Genova. Il processo contro Pier Paolo Pasolini e il produttore Donato Leoni, trasferito per competenza territoriale a Venezia, giunge al suo epilogo il 23 novembre 1968: dopo un’ora di camera di consiglio, il Tribunale assolvette gli imputati dall’accusa di oscenità, statuendo che “Trattandosi incontestabilmente di un’opera d’arte, Teorema non può essere sospettato di oscenità”. Lungi dal dimostrare, tuttavia, che la realtà del divino avesse coinciso con la sua rappresentazione, lo psicodramma giudiziario di Teorema, dimostrò, piuttosto, come il cinema di Pier Paolo Pasolini fosse epifania di un immenso feticismo sessuale, essendosi, in fondo, il teorema irrigidito in un enunciato.

Pasolini e le donne. Un percorso inedito nel più profondo universo femminile pasoliniano, in mostra a Berceto-Parma. Carlo Franza su Il Giornale il 26 agosto 2019. Il Museo Piermaria Rossi di Berceto (PR) ospita fino  al 15 settembre 2019, “Pasolini e le donne”, mostra promossa dall’Associazione Culturale Sentieri dell’Arte con il patrocinio di Comune di Berceto, Borghi Autentici e Regione Emilia Romagna. Curata da Giuseppe Garrera e Sebastiano Triulzi con opere provenienti dalla collezione privata di Giuseppe Garrera, l’esposizione è stata  inaugurata sabato 27 luglio alle ore 17.30. La mostra indaga il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e le donne, cioè cosa significa vivere e celebrare la diversità, e quella condizione di inadeguatezza nei confronti dei poteri e dei soprusi. Le donne hanno insegnato a Pasolini un modello di comportamento poetico e civile, l’importanza di non accettare compromessi, di restare fedeli a sè stessi. Oltre 90 fotografie originali, prime edizioni, manoscritti e documenti ripercorrono la speciale genealogia di donne di Pasolini(la madre Susanna,  ecc.): amori e amicizie che hanno costituito esempi di resistenza al mondo corrente, insegnando una poesia coraggiosa, fieramente diversa e sempre in rivolta. Il femminile, dunque, come genealogia d’intelletto, e una schiera di donne non addomesticate dalla società borghese e patriarcale. Un’esposizione intima, iconica, che attraverso scatti originali e rari permette di “vederli” questi legami, di spiare il rapporto e l’intimità di Pasolini con ognuna di queste donne, e di costituire per lo spettatore una processione di idee, di divinità, di modelli o di incarnazioni scomode del femminile. Scatti rari e originali, fotogrammi che permettono di spiare questi legami, che permettono di spiare il rapporto e l’intimità di Pasolini con ognuna di queste donne. Il femminile appunto, come genealogia d’intelletto; donne non addomesticate dalla società borghese e patriarcale. Femminile che in tutte le sue forme e contraddizioni, risulta essere un tracciante per l’intera umanità che ancora resiste all’omologazione, alla religione della merce, alla perdita della propria unicità e alla perdita conseguente del proprio corpo inteso come corpo vitale, erotico e fiammante, quello ben rappresentato nelle pellicole cinematografiche corrispondenti alla celebre Trilogia della vita (Il Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte). Riprendo le parole dello stesso Pasolini  che rivolse alla madre, in uno scritto trovato postumo fra le sue carte e sapientemente ripreso da Enzo Siciliano nel suo Vita di Pasolinidel 1978. Così Pasolini aveva scritto: «Ogni volta che mi chiedono di raccontare qualcosa su mia madre, di ricordare qualcosa di lei, è sempre le stessa immagine che mi viene in mente. Siamo a Sacile, nella primavera del 1929 o del 1931, mamma e io camminiamo per il sentiero d’un prato abbastanza fuori dal paese; siamo soli, completamente soli. Intorno a noi ci sono i cespugli appena ingemmati, ma con l’aspetto ancora invernale; anche gli alberi sono nudi, e, attraverso le distese dei tronchi neri, si intravedono in fondo le montagne azzurre. Ma le primule sono già nate. Le prode dei fossi ne sono piene. Ciò mi dà una gioia infinita anche adesso, mentre ne parlo, mi soffoca. Stringo forte il braccio di mia madre (cammino infatti a braccetto con lei) e affondo la guancia nella povera pelliccia che essa indossa: in quella pelliccia sento il profumo della primavera, un miscuglio di gelo e di tepore, di fango odoroso e di fiori ancora inodori, di casa e di campagna. Questo odore della povera pelliccia di mia madre è l’odore della mia vita». Pur nella concentrazione ed essenzialità, una particolare attenzione viene dedicata ad alcuni legami profondi con figure femminili eccezionali, ancora da scoprire e indagare, prima fra tutte Giovanna Bemporad, Laura Betti, Lorenza Mazzetti e Silvana Mauri. Carlo Franza

 “La Stampa” il 17 Giugno 2019. Il testo che proponiamo in questa pagina era uscito nel numero 11-12 del 1968 di Pirelli - Rivista d' informazione e di tecnica ed è ora raccolto nel volume Umanesimo industriale. Antologia di pensieri, parole, immagini e innovazioni , curato dalla Fondazione Pirelli e edito da Mondadori (pp. 524, 85), che raccoglie il meglio degli interventi usciti sulla storica rivista nei suoi 131 numeri dal 1948 al 1972. Tra le altre firme comprese nell' antologia, che vuole evidenziare la vocazione «politecnica» del magazine nato con l' obiettivo di saldare cultura tecnico-scientifica e cultura umanistica, quelle di Dino Buzzati, Camilla Cederna, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Leonardo Sciascia, Salvatore Quasimodo, Umberto Saba, Gianni Agnelli, accompagnate dai reportage di maestri della fotografia come Ugo Mulas, Fulvio Roiter, Enzo Sellerio, Alessandro Mendini, Arno Hammacher. Il volume sarà presentato mercoledì alle ore 19 al teatro Franco Parenti di Milano, con Marco Tronchetti Provera, Gian Arturo Ferrari, Antonio Calabrò e con la partecipazione di Ornella Vanoni.

Lietta Tornabuoni per “la Stampa” il 17 Giugno 2019. Pasolini sembra credere profondamente ed emotivamente in tutto ciò che dice, almeno nel momento in cui lo dice. Il suo discorso non è mai stracco, casuale o distratto; ma sempre attento, impegnato, impregnato di ragionevolezza e di pazienza didascalica. Appare appassionato e sincero. Questo gli dà un grande fascino oratorio e una straordinaria capacità di convinzione: come il pifferaio di Hamelin, quando parla riesce quasi sempre a influenzare il suo pubblico, ad incantarlo, a trascinarselo dietro dovunque vuole. Il conformismo borghese della casa, degli abiti, dei modi, della parte palese della sua vita, è singolare in Pasolini, che dell' odio e della ripugnanza per la classe e la mentalità borghese («un marchio d' infamia, una malattia») ha fatto la propria divisa morale, estetica e politica. Ancora di più contrasta con le sue opere recenti, nelle quali il populismo lirico, il misticismo estetizzante e il civismo emotivo sono stati sostituiti dalla violenza, dalla provocazione, dall' orrore e dalla tragedia. Anche di questo parliamo, stamattina.

«I moralisti terrorizzati». «Qualche tempo fa», racconta Pasolini, «ho avuto una grave malattia, un' ulcera che mi ha portato vicino alla morte e mi ha tenuto un mese a letto, immobile. In quel mese ho letto certi testi. E dopo, confusamente, ho scritto sei tragedie. Era il periodo della protesta violenta dei negri; l' estate precedente avevo visto la violenza nel mondo del Village a New York. Forse c' è entrato un fatto psicologico, o anche il trauma fisico. Non so. Da tutti questi elementi mi è nata l' ispirazione di un cinema che si potrebbe definire cinema della crudeltà. Cioè di film che esprimano una rivolta esistenziale irrazionale, violenta, fisica: in contrasto con la razionale rivolta marxista contro la società. Teorema porta il segno di questa violenza: è una parabola tutta sopra le righe e la seconda parte è terribile, presenta una gamma di sentimenti e di figure che imbarazzano, che urlano, che si denudano, che gridano la propria disperazione, che danno fastidio. «Lo stesso si può dire di Porcile, il mio nuovo film. Naturalmente, la stampa fascista si è sfrenata in gran spiritosaggini su questo titolo: non gli è venuto neppure in mente che i porci sono loro. Il film racconta due storie atroci: il cannibalismo e la bestialità ne sono soltanto i dati esterni. Nell' identico filone rientra il film che progetto di dirigere con Maria Callas come protagonista, Medea : crudeltà, violenza, strage, distruzione e autodistruzione. I motivi di questa scelta... Un motivo può essere il desiderio di provocare, di scuotere: e di riproporre l' orribile ma reale dimensione della tragedia in un mondo che vive nella tragedia, ma che cerca di nasconderla sotto un' apparenza di falsa civilizzazione, di razionalità e di opulenza. Ma poi ci sono altri motivi, ragioni più profonde». Teorema è l' unico dei film appartenenti a questo nuovo corso che sia stato presentato al pubblico: e subito è stato fermato dall' intervento moralizzante della magistratura. «Io non mi sento colpevole di nessun reato» dice Pasolini «e la censura mi colpisce sino a un certo punto. A me interessa fare i film, interessa che li vedano certe persone. Il resto è un problema del produttore. Naturalmente, capisco benissimo perché Teorema sia parso scandaloso. I moralisti sono terrorizzati da ogni verità sulla famiglia. I difensori dell' ordine sociale costituito non sopportano l' immagine di una famiglia straziata infelice e non "familiare" come quella del film. Io non ho nulla contro la famiglia: lei lo ha visto, vivo con mia madre. Ma debbo dire che è una struttura arcaica, il covo dei sentimenti patologici preistorici dell' uomo. I moralisti, poi, sono sempre spaventati dall' argomento teologico». [...]

«Nenni? Il più simpatico». Non diversamente da François Mauriac, Pasolini redige per un settimanale a rotocalco una rubrica personale in cui, grillo parlante informato e tempestivo, esamina gli avvenimenti e le persone del momento. Nonostante affermi di essere «un comunista dissidente, a sinistra del Pci, solo», e sia certo uno spirito indipendente, i suoi giudizi e le sue opinioni coincidono spesso con le posizioni del radicalismo, a volte addirittura con i luoghi comuni del buon senso. Nenni? «Egli mi sembra l' uomo più simpatico del mondo politico italiano». Gli intellettuali affascinati dalla rivolta studentesca? «Mi fanno così ridere certi miei coetanei che improvvisamente riscoprono la vita e ti si presentano ridendo ironici, come se tu fossi rimasto vecchio e loro fossero di colpo tornati giovani. È una luce molto tipica, quella dei loro occhi: la luce che c' è talvolta nei pazzi. Ed è proprio per questo che talvolta sono simpatici. Altre volte è una luce odiosa: ricattatoria, ostile, piena del piacere sgradevole di vederti finito, superato. È una nevrosi di ansia mal capitalizzata, che rende sicari del terrorismo». Gli omosessuali? «Anch' io ho in me un momento, superato nella coscienza ma rimasto nella meccanica fatale di un' educazione, in cui verso l' omosessualità ho un moto di avversione razzistica. Mi pare, almeno per un infinitesimo di secondo, che l' omosessualità designi in un altro un carattere di inferiorità umana e civile. Tanto è il terrore di un' opinione pubblica terrorizzante». La poesia d' avanguardia? «La trasgressione al complesso di regole che seguiamo parlando, fatta dai poeti d' avanguardia, è portata velleitariamente a tali conseguenze, da non distruggere le regole: ma da farle rimpiangere». [...]

Personaggio che «fa notizia». Curiosamente, quanto più Pasolini diventa provocatorio e incomodo, tanto più il suo pubblico si allarga. Curiosamente, quanto più lo circonda la scandalizzata deplorazione del mondo borghese, tanto più diventa, per così dire, commerciale: e commerciabile, e commerciato. Curiosamente, quanto più si accentua la sua eccentricità e diversità rispetto agli altri intellettuali italiani, tanto più Pasolini diventa un personaggio pubblico. Cioè un personaggio sempre fotografato ovunque vada, sempre consultato qualunque cosa accada o qualunque sia il problema in discussione, sempre seguito dalla curiosità, sempre considerato in qualche modo autorevole: un personaggio, insomma, che «fa notizia», che «fa opinione».

·         Letizia Battaglia.

Teresa Monestiroli per la Repubblica - Milano  il 9 dicembre 2019. «Quando sono arrivata a Milano nel 1971 ero una poveraccia, senza soldi e senza futuro. Questa città mi ha accolto e dato l' opportunità per decidere della mia vita. Avevo 36 anni e qui ho cominciato a essere una fotografa» racconta Letizia Battaglia, tornata a Milano quasi cinquant' anni dopo per presentare la retrospettiva che porta a Palazzo Reale "Storie di strada", trecento immagini che racchiudono l' intero percorso della sua carriera. «Mi proposi al Corriere della Sera e al Giorno come freelance - continua - . Presentavo i miei articoletti e tutte le volte mi chiedevano: " E le fotografie?". Così ho iniziato a scattare». Non si è più fermata. Oggi ha 84 anni, i capelli rosa shocking a caschetto, una Leica ancora al collo e l' energia di una donna che ha vissuto fuori dagli schemi, capace di fermare sulla pellicola con la stessa intensità il dolore del lutto e la spensieratezza dei bambini che giocano nelle strade di Palermo. Si commuove vedendo la storia del suo successo appesa ai muri: «Mi è venuto un nodo alla gola quando ho visto la mostra perché tutta la mia vita passa in queste stanze - commenta - ringrazio Francesca ( la curatrice, ndr.) che mi ha ricostituita e messa in ordine. Non sono foto grandiose, alcune non sono nemmeno belle, ma tutte hanno un senso». Parte da Milano, con la sequenza di ritratti di Pierpaolo Pasolini al Circolo Turati e il servizio dalla Palazzina Liberty occupata con Franca Rame fra i manifestanti, la mostra curata da Francesca Alfano Miglietti, omaggio alla grande fotoreporter dell' Ora diventata famosa per gli scatti che testimoniano le stragi di mafia, i corpi anonimi trafitti dai proiettili mescolati a quelli di giudici ammazzati, politici e presidenti di Regione come Piersanti Mattarella, assassinato da Cosa Nostra nel giorno dell' Epifania del 1980. Una scena ripresa quasi in diretta, fissando per sempre la concitazione del momento in alcuni scatti mossi di grande impatto, con l' attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella che trascina fuori dall' auto il corpo esanime del fratello. « Quel 6 gennaio camminavo con mia figlia Patrizia in via della Libertà a Palermo - racconta Battaglia nel catalogo edito da Marsilio -. C' era gente, mi avvicinai. Avevano ucciso Piersanti Mattarella. Arrivai seconda dopo il killer. Iniziai a fotografare: macchina dai vetri rotti, donne piangenti, corpo martoriato dalle pallottole. Quegli scatti in confusione sono carichi di senso». Perché è solo il senso quello che Battaglia da sempre insegue: non lo scatto perfetto, tecnicamente corretto, o il taglio originale, ma un significato che alcune volte passa perfino dalle fotografie sfuocate, tutte ambientate nell' amata Palermo, «città cui sono morbosamente attaccata, con cui sono da sempre arrabbiata ». Foto disordinate e piene di umanità formano una galleria di persone; una fiumana affolla il percorso della mostra dove il comizio di Enrico Berlinguer si mescola ai ritratti di Guttuso, Sanguineti ed Elvira Sellerio, la gioia dei bambini si alterna alle crude immagini dei ragazzini nei vicoli che puntano le pistole, in una carrellata di pranzi di famiglia, processioni religiose, funerali, sguardi profondi di bambine, baci, balli e donne che fanno la maglia. « Consiglio di fotografare da molto vicino, a distanza di un cazzotto, o di una carezza», scrive Letizia. Che pugni e carezze dispensa a sua volta in egual misura in questa esposizione imperdibile e toccante, frutto di uno sguardo carico di empatia, capace di mostrare il reale senza alcuna indulgenza. Fino al 19 gennaio 2020, ingresso 13 euro.

Letizia Battaglia. LA BATTAGLIA DI LETIZIA. Antonello Piroso per “la Verità” il 28 giugno 2019. Indomita e battagliera lo è sempre, Letizia Battaglia. Un nome e un cognome che incarnano un ossimoro. Da una parte, la gioia, la serenità, il bene. Dall' altra, la lotta, il conflitto, la guerra. Arrivata a 84 anni, la voce arrochita dalla quantità industriale di sigarette fumate ogni giorno ("Dovrei diminuirle», «Perché, quante sono?», «Cinquanta, sessanta, vorrei stare almeno nei due pacchetti, ho cominciato a dodici anni"), la più celebre fotoreporter italiana, la prima europea premiata dagli americani già nel 1985 - «no, no, non chiamatemi fotografa, sono solo una persona che scatta foto» - ha l' entusiasmo di una ragazzina nel puntualizzare, polemizzare, difendere con veemenza e crudezza i suoi punti di vista, illustrare il suo lavoro come testimonianza e impegno anche civile. Ma, come spiega lei, «per diventare bravo, bisogna essere quello che siamo: chi fa arte o scatta, deve far vibrare quello che è. Se si è cattivi si faranno foto spietate, se siamo compassionevoli, faremo foto compassionevoli». Il New York Times l'ha inserita, unica connazionale, tra le undici donne più rappresentative del 2017. In occasione della mostra «Letizia Battaglia, fotografia come scelta di vita», una grande retrospettiva a Venezia fino al 18 agosto, Marsilio ha pubblicato un volume antologico che raccoglie 300 scatti, alcuni dei quali inediti. Oggi a Roma, all' auditorium del museo Macro, verrà proiettato il documentario Shooting the Mafia, presentato al Sundance film festival di Robert Redford, dedicato a questa donna passionale e coraggiosa.

Lei sfoggia capelli di un rilucente color rosa, ma in passato io li ricordo anche verdi.

«Oh sì, li tenevo così nella foto della carta d' identità. Li ho avuti pure rossi. Per il futuro non escludo il blu. Un vezzo, ma la vita è un susseguirsi di colori. Niente trucco solo un po' di rossetto, niente lifting, mi piacciono le mie rughe, sto discretamente in salute, arrivata alla mia età ho una forza che non avevo quando ero più giovane, e sento di poter dire e fare quello che voglio, e di cose ne voglio fare ancora tante».

Però da fotografa ha sempre prediletto il bianco e nero.

«Vero. Mi è capitato di fare foto a colori, ma poi le ho messe via. Ho un animo essenziale, sono un poco drammatica, il colore banalizza, il bianco e nero ti permette di vedere, per contrasto, cose che il colore non rivela. E comunque non avrei mai potuto raccontare i morti di Palermo a colori, se lo immagina?».

Palermo c' è sempre, un rapporto viscerale.

«Certo! Palermo è me, e io sono Palermo. Qui sono nata, qui sono sempre tornata».

Perché se n' è allontanata?

«Da bambina perché papà era un marittimo, e ci portava in giro con sé. Napoli, Civitavecchia, Trieste durante la guerra, da cui ritornammo a Palermo con un viaggio di 14 giorni tipo carro bestiame. Poi all' inizio degli anni Settanta per mantenermi, visto che mi ero separata, salii a Milano».

Si era sposata giovane?

«Sì, e a 17 anni avevo già una figlia, la prima di tre, tutte femmine. Noi donne ci innamoriamo, ai nostri uomini diamo dedizione, che loro ripagano volendoci asservite e fottendoci, esaltando il proprio egoismo, arrivando all' indifferenza e alla violenza. Quando decisi che era finita, rifiutai perfino gli alimenti. Ma a quel punto dovevo ingegnarmi per campare, e cominciai come redattrice al quotidiano L' Ora».

Quindi alla fotografia non è arrivata perché sentiva ardere dentro di sé un sacro impulso...

«No, ci sono arrivata per fame. A L' Ora mi pagavano molto poco, mi trasferii a Milano, iniziai a collaborare con altri giornali, tra cui Vie Nuove, che era un periodico comunista. Io portavo l' articolo, e quelli mi chiedevano: "E le foto?"».

Lo domandano anche oggi...

«Allora mi procurai una piccola macchina non professionale e comincia a scattare, ma solo perché era necessario a sostenere la mia indipendenza. Dopo tre anni, pubblicavo sulle testate più importanti, il Corriere della Sera, Il Giorno».

Ma la sirena di Palermo era irresistibile.

«L' Ora mi chiese di tornare per occuparmi del settore fotografico del giornale. Cominciai a studiare il lavoro dei grandi professionisti, e imparando e scattando, m' innamorai della fotografia».

Diventando la fotografa della mafia, anche se la mostra a Venezia e il volume di Marsilio dimostrano che il suo occhio si è posato anche altrove: gli innamorati, le donne, l' infanzia, gli animali e le processioni religiose. Con Palermo sempre a fare da scenografia.

«Certe volte mi dico: basta parlare di mafia. Non ne posso più. Parliamo piuttosto di riscatto, di bellezza, di futuro. Ma all' inizio era così. A ogni delitto correvo sul posto e scattavo, ma non avrei voluto. Mi veniva da vomitare, continuavo a sentire quell' odore, il sangue, dappertutto, perfino dentro casa. Mi costava molto dolore. E fatica, perché in molti mi vedevano come la figlia dei fiori, una figura pittoresca vestita con colori sgargianti e con gli zoccoli. Fu grazie alle forze dell' ordine, e al commissario Boris Giuliano, che finirà pure lui ammazzato dai killer di Cosa nostra, oltre che alla qualità del mio lavoro, che vinsi le resistenze».

Come riusciva ad andare avanti ad affrontare la morte, trovandosi in mezzo a quella che lei ha definito una guerra civile tra siciliani, scatenata dai corleonesi di Totò Riina?

«Per senso del dovere, vincendo il senso di nausea. Dovevo andare oltre le mie emozioni, giravo con Franco Zecchin (suo compagno per 18 anni, ndr) sulla sua vespa per testimoniare quello che stava succedendo e condividerlo con la gente di Palermo. Scattavo molte foto, perché per il coinvolgimento emotivo mi tremavano le mani e venivano mosse o sfuocate, ma alla fine quella buona usciva sempre».

Andò così anche il 6 gennaio 1980...

«Transitammo per via Libertà, e vedemmo un piccolo capannello di persone, saranno state cinque sei, intorno a un' auto. Pensammo a un incidente, ci fermammo. Franco girò dal lato del passeggero, io da quello del guidatore e scattai infilando la macchina nell' abitacolo senza sapere sul momento di chi fosse quel corpo. E sullo sfondo un uomo con i capelli bianchi che lo sorreggeva».

Una foto che ha fatto il giro del mondo. Un' immagine che, non so perché, mi ha sempre fatto pensare alla Deposizione di Caravaggio. Quell' uomo con i capelli bianchi era il nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che teneva tra le braccia il fratello Piersanti, presidente della regione.

«Mattarella mi infonde fiducia perché con lui lì non vedremo traffico o mercimonio tra lo Stato e la mafia come è successo in passato».

Lei è da sempre sostenitrice di Leoluca Orlando, è stata anche assessore per i Verdi nella sua giunta durante la Primavera siciliana della seconda metà degli anni Ottanta, e poi deputato regionale nella sua Rete. Eppure lui a un certo punto attaccò Falcone, che fu costretto a difendersi davanti al Csm dall' accusa di tenere i dossier scottanti «chiusi nel cassetto».

«Minchiate! Erano amici, si sostenevano l' un l' altro, e quel fraintendimento fu chiarito: non furono mai nemici. Si voleva indebolire il fronte antimafia, questa è la verità».

Dopo l' estate di sangue del 1992 lei se ne andò di nuovo da Palermo.

«Amore e odio, per la mia città. In quel momento volevo morire, ma per davvero. Mi rifugiai a Parigi, dove Franco aveva un monolocale da cui quasi non uscivo. Durò un anno, poi trovai la forza di tornare».

È sempre di sinistra?

«E me lo chiede? Sempre. Ho fotografato Pier Paolo Pasolini, Enrico Berlinguer. Persone che hanno vissuto con tensione civile e distacco dal potere, di cui non subivano il fascino e non avevano la vanità, come mi ha insegnato Ezra Pound».

Ma come, mi cita un fascista?

«Innanzi tutto, io non ho i paraocchi. Secondo, era un poeta, una persona m-e-r-a-v-i-g-l-i-o-s-a. L' ho conosciuto prima di diventare fotografa, e un suo verso "Strappa da te la vanità, ti dico: strappala!", è un monito che a 35 anni ho fatto mio, mentre affrontavo un percorso di analisi freudiana. E quanto al fascismo di Pound, secondo me non capiva un cazzo, aveva una visione confusa, di ammirazione per le politiche economiche e sociali di Benito Mussolini, finì pure in manicomio, e mi dispiace che della sua figura si siano appropriate le teste rasate di CasaPound».

Ma se le chiedessi di farmi il nome di qualcuno di sinistra oggi? Che so, Nicola Zingaretti, segretario del Pd?

«Persona per bene, mi pare, ma non mi dice proprio nulla. Matteo Renzi? Ma perché, era di sinistra? Forse direi Massimo Cacciari...».

Da ultimo: perché adesso le foto di donne nude?

«Il corpo nudo femminile è pulito, sereno, autentico, senza sovrastrutture. È Palermo. Ho questa attrazione, e so che qualcuno si chiede se per caso io non sia lesbica. Se lo fossi, di certo non lo nasconderei né mi nasconderei. I miei amanti sono stati uomini, ma sa che c' è? Voi maschi non siete soggetti poi così interessanti da fotografare»

·         Intervista a Natalia Aspesi.

Off Topic - Radio24 il 5 agosto 2019. “Alla mia età prenderei un Kalasnikov e sparerei”. Così Natalia Aspesi a “Off Topic – Fuori dai luoghi comuni”, il programma estivo di Radio 24. “Ho 90 anni, vivo sola e non ho mira. Non possono darmi solo una rivoltella, voglio il Kalasnikov. E siccome sono vecchia, e quindi via di testa, non sparerei solo al negretto che mi ruba la tv in casa ma mi affaccerei alla finestra e sparerei a tutti perché la frittata mi è venuta male. Tanto non vado in galera a novanta anni. Voi giovani dovete fare qualcosa di grandioso, che ne so buttare una bomba. O forse no, questo lasciatelo alle vecchie”. “Se mi danno della radical chic sono contentissima – prosegue la Aspesi - perché essere chic è bello, e anche radicale. Poi questa parola, detta con disprezzo, vuol dire che siamo persone che leggiamo, che studiamo, che sappiamo le cose, che cerchiamo di saperne di più e non prendiamo a calci le persone che incontriamo. Non ci riempiamo la bocca di polenta davanti a tutti, noi siamo civili. Salvini vorrebbe essere radical chic, ma è difficile che lo diventi perché bisogna studiare”. E a proposito di Salvini la Aspesi aggiunge: “Mi spiace per le fidanzate di Salvini. Le donne che stanno insieme a uomini di potere di solito lo fanno perché sono affascinanti oppure ricchi. In questo caso penso a quel bambolotto con le guance gonfie, con la pressione alta che ha avuto un centinaio di bambini da un centinaio di ex mogli che sono puntualmente scappate tutte a gambe levate. Un motivo ci sarà”. “Usi Tinder?” chiedono i conduttori Alessandro Longoni, Riccardo Poli e Beppe Salmetti. “Ma siete pazzi, gli sconosciuti mi fanno orrore, non mi piacciono i giovani, neanche i vecchi. Gli unici che mi piacciono sono i gay sessantenni perché sono gentili, affettuosi, mi portano a cena o al cinema. Gli altri etero appena vedono una vecchia si gettano dalla finestra”. “Se avessi trent’anni troverei un  fidanzato facilmente, sul tram, al mercato, a una festa, dovunque. Sul tram ai miei tempi mi toccavano sempre il sedere. Tutte le ragazze avevano una mano o qualcos’altro sul sedere. Ti agitavi un po’ o ti scostavi  ed era normale perché gli uomini sono sempre stati sporcaccioni. Un maleducato che ti tocca è un villano o uno che non scopa mai. Quando per strada ci seguivano e facevano battute sul sesso non reagivo mai se non voltandomi dicendo ‘se lei è impotente non è colpa mia’. Il rapporto uomo e donna oggi non è più viziato dal sesso. Un tempo il sesso era l’unica cosa che le donne davano a un uomo o che un uomo voleva da una donna. Oggi però l’amore è diventato noioso e infatti vi sposate”.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 27 novembre 2019. E se avessero ragione i talebani, i sauditi, senza arrivare all' Isis? Se non fossero le donne ad essere in pericolo in quanto donne, ma fossero loro, le femmine, a costituire un pericolo pubblico in quanto femmine? A causa di un'arma micidiale, il loro corpo; in grado di sconvolgere il fragile corpo del maschio o per lo meno la parte meno controllabile del maschio. Ogni centimetro di nudità oltre alla caviglia, è un proiettile, quindi la necessaria difesa, non della donna ma dell' uomo, sarebbe obbligare lei a celarsi dentro chador o niqab: un talebanesimo italiano atto a salvare lui da un malsano comportamento di cui sarebbe la vera vittima, e poi magari quella strilla, lui è costretto a picchiarla o a eliminarla, e ti rovina la vita facendoti finire in prigione per qualche anno. Si vorrebbe sapere cosa hanno risposto all' Istat gli intervistati ambosessi su eventuali responsabilità maschili: o sociali. E per esempio la violenza oggi è nel linguaggio, nella politica, in strada (sulle strisce e con bastone rischi sempre di essere travolta tra insulti di vario genere porno), in ogni tipo di rapporto, nella rabbia insensata, nell' odio non solo per il diverso ma anche per l'uguale. Questa colpa del nudo è poi la più scema: ci sono ragazze tipo 80 chili, orgogliose della loro panciona nuda che se la nascondessero sarebbero più facilmente fonte di peccato virile, ci sono mariti che esibiscono felici al supermercato la loro amata in sottoveste, i settimanali di gossip mostrano solo donne di gran successo, modelli cui aspirare, sempre in tanga e posizionate in modo che la lettrice e si presume il lettore, si trovi sempre in un mare di natiche, sino forse a non volerne sapere più. Il sondaggio avrà chiesto ai soli maschi se la loro mamma anche femminista, amandoli visceralmente in quanto maschi, ha fatto loro credere di essere più forti, più importanti, degni della massima venerazione e sottomissione, rispetto alle cosiddette femminucce? Che nel frattempo crescevano più libere, amate senza necessità di traguardi, inventandosi un futuro in cui sarebbero state tutto ma non madri come la loro mamma, mentre i fratelli l' avrebbero cercata nelle altre donne vuoi madonna vuoi peccatrice, ovviamente non trovandola? Il sondaggio accenna al fatto che sono più al Sud le donne che si lasciano pestare tanto poi passa, e gli uomini convinti, a parte il loro fascino irresistibile che piega ogni ripulsa, che se una sciocchina proprio non vuole si salva, anche se lui è un lottatore di Sumo e lei una bambolina di 40 chili. A parte il sondaggio conosco non poche signore che prendono a pentolate il marito o al primo suo gesto antipatico se ne vanno in albergo e non ne vogliono più sapere: e a lui, per fortuna biologica o familiare o geografica, magari organizza vendette tremendissime, però di tipo finanziario o familiare, ma mai le darebbe quello schiaffo con cui ogni notte sogna di umiliarla. Negli anni 70-80 divennero notizia i processi per stupro e il giornalismo maschilista, terrorizzato dalle femministe, cominciò a mandare le sue cosiddette firme: le più ardite pro stuprata, le altre pro stupratore ovviamente innocente. Erano magnifiche sceneggiate, le mamme dell' accusato si accanivano contro la sporcacciona che lo aveva fatto peccare e gli avvocati rivelavano che la sedicente stuprata avendo già avuto un fidanzato non poteva essere vergine e quindi era da escludersi lo stupro, trattandosi di mero eccesso di palpeggiamento: nel frattempo le femministe creavano corsi di karate antiviolenza: se ci furono vittime maschi, la cronaca non lo dice. Intanto questa è stata una bella occasione per vagheggiare soldi dello Stato per programmi di difesa delle donne contro la violenza se non per gli uomini di dissuasione alla violenza. Non ci si pensa, pare sempre una cosa che devono risolvere le donne. Ognuno ha detto la sua compresa me e speriamo in bene.

IL MORSO DELL’ASPESI. Da Libero Quotidiano il 17 giugno 2019. Circa due anni fa, quando all'orizzonte c'erano le elezioni politiche, Natalia Aspesi - storica firma di Repubblica - disse: "Se vincono i 5 Stelle mi sparo". I grillini hanno vinto e lei, fortunatamente, è ancora tra noi. E ora la Aspesi ri-balza agli onori delle cronache per alcune frasi piuttosto terrificanti su Matteo Salvini e Luigi Di Maio. Intervistata dall'Huffington Post, infatti, ammette senza troppi giri di parole di "fantasticare ogni genere di crudeltà contro Salvini e Di Maio". Nel dettaglio, afferma: "Anziché spararmi a causa loro, pian piano, ho maturato la fantasia di sparare a loro. Devo dire che la legge sulla legittima difesa mi è venuta incontro. Nessuno può più negarmi di imbracciare un kalashnikov. Sono vecchia. Sono sola. Sono gravemente turbata dalla condizione disperata degli italiani. Ho tutto il diritto di fare una strage". Insomma, Natalia Aspesi sogna di sparare ai vicepremier e si sente in diritto di fare una strage. Farneticazioni, alle quali poi aggiunge gli ormai consueti insulti a chi vota Lega e M5s: "Più il Paese corre verso l'autodistruzione, più loro adorano i propri carnefici. È come se si fossero trasformati in tanti piccoli lemuri che si precipitano entusiasti in fondo al burrone".

Nicola Mirenzi per Huffingtonpost.it il 17 giugno 2019. Due anni fa, ci aveva detto: “Se vincono i 5 stelle, mi sparo”. Per fortuna, non è stata di parola: “Sono una vecchia strega casalinga. Ho scelto la sopravvivenza, fantasticando ogni genere di crudeltà contro Salvini e Di Maio”. Per mesi, abbiamo molestato Natalia Aspesi – la più grande campionessa vivente del giornalismo italiano – per chiederle come è riuscita a superare, considerate le premesse, il trauma del governo Lega e 5 stelle. Si è riparata dietro l’età (“ma che se ne fa dei pensieri di una decrepita come me?”), gli impegni asfissianti (“devo scrivere degli articoli difficilissimi, non posso”), le feste organizzate all’improvviso nel tardo pomeriggio (“ho invitato un sacco di gente a cena, mi spiace”), per cedere, infine, esausta: “Ma lei dà il tormento alle vecchie signore!”. Abbiamo riso molto, entrambi. “Anziché spararmi a causa loro, pian piano, ho maturato la fantasia di sparare a loro. Devo dire che la legge sulla legittima difesa mi è venuta incontro. Nessuno può più negarmi di imbracciare un kalashnikov. Sono vecchia. Sono sola. Sono gravemente turbata dalla condizione disperata degli italiani. Ho tutto il diritto di fare una strage”. La assunsero al Giorno dopo le dimissioni di Adele Cambria, unica donna in una redazione di trecento maschi. Divenne immediatamente inviata. Scavalcando una lunga fila di uomini che aspettava la promozione da anni: “Ma mica perché ero brava. Non volevano donne in redazione. Temevano gli scompigli ormonali”. Prima, c’era stato il quotidiano La Notte, nel quale esordì con un articolo su una mostra di cani a Bellagio. Poi, solo e soltanto Repubblica, una fedeltà che dura ancora oggi che sta per compiere novanta anni (il 24 giugno): “Ma si sbrighi con queste domande. Devo correre a scrivere settanta righe sull’omosessualità negli anni cinquanta. Allora sì che si divertivano”. Adesso, invece, è uno strazio: “Sono terrorizzata dagli italiani. Più il paese corre verso l’autodistruzione, più loro adorano i propri carnefici. È come se si fossero trasformati in tanti piccoli lemuri che si precipitano entusiasti in fondo al burrone”.  

Ma lei non può dire che vuole fare una strage, Aspesi!

«Non sia noioso, la prego, mi faccia almeno sognare».

D’accordo.

«Poi, sa: io ho una grande fortuna, ho i giorni contati. Fra un anno, un mese, un giorno, forse un minuto, sarò morta».

Allora perché si preoccupa tanto?

«Perché io amo questo Paese, anche se non ci sarò più nel suo futuro.

Parla come Berlusconi, “l’Italia è il paese che amo”?

«Berlusconi amava solo se stesso. È riuscito a travolgere gli italiani. Poi, però, gli italiani l’hanno abbandonato. Invece, Salvini e Di Maio sono indistruttibili. Finiranno solo quando saremo costretti a mendicare».

Rivaluta il berlusconismo?

«Provo una specie di avvilente nostalgia per Berlusconi. Ci riflettevo. Berlusconi non è stato un fascista. Non ha riportato l’odio nel paese. Non ha alimentato il sospetto per i diversi. Né il disprezzo per le donne, che sta crescendo in maniera pericolosa».

Anche questo è colpa di Salvini?

«No, ma tutti questi fascistelli con la testa pelata sono diventati tali perché hanno perso il controllo sulle donne. Non riescono a perdonargli la libertà che hanno. Credono che il fascismo sia il modo per recuperare il dominio su di loro».

Il sovranismo è solo una questione di maschi insicuri?

«Lei vuole che dopo questa intervista mi ritrovi qualcuno sotto casa che mi manganelli?»

Esagerata.

«Le donne, ormai, scappano dai ciabattoni e sono disponibili a molte avventure, inclusa quella di Tinder. L’uomo, invece, sogna ancora la donnina che gli prepara la minestra».

Ma che c’entra con la politica?

«C’entra, perché gli uomini sono furibondi. E in Forza Nuova, oppure nella Lega, il loro odio per queste donne diventa un ideale politico».

Accosta Forza Nuova e la Lega?

«Non sono mica poi tanto diverse, sa? Certo, la Lega rappresenta anche degli interessi economici molto radicati. Mentre Forza Nuova è solo un esercito di cretini che serve chi oggi è al comando. Però».

Però molte donne votano Lega. E, anzi, Chiara Giannini, nel famoso libro intervista escluso da Torino, ha scritto “Matteo è l’uomo più desiderato dalle donne dello stivale”.

«È vero, è così».

Mi prende in giro?

«No, affatto. Anche Mussolini era desiderato dalle donne italiane. Gli uomini mangioni, pancioni, ridenti e violenti sono da sempre nel sogno femminile. Poi, magari, nella vita vera le donne amano un gracilino delizioso. Però, nel sogno, c’è spesso l’uomo potente, che domina, o ha tutta l’aria di poterlo fare».

Anche nel suo, di sogno?

«Nel mio sogno, c’è George Clooney».

Conosce fascisti?

«Le racconto una storia. Avevo in casa una ragazza italiana, una quarantenne, che mi aiutava nelle faccende domestiche. Un giorno viene da me e mi chiede: “Signora, cosa pensa di Hitler?”. Io rimasi stupefatta: “Scusi, cara, ma perché mi chiede cosa penso di Hitler oggi?”».

Risposta?

«“Perché tutti i miei amici dicono che era una così brava persona e servirebbe uno come lui oggi”. “Un punto di vista molto originale, cara, perché non me li fa conoscere?”».

Come andò?

«Si rifiutarono d’incontrarmi».

Peccato. Però lei ha conosciuto l’originale, di fascismo.

«Per me, il fascismo voleva dire che ogni sabato dovevo mettermi la divisa da piccola italiana e andare alla parata della scuola».

Era divertente?

«No, per niente. Ogni volta mi sgridavano, oppure mi escludevano».

Per quale motivo?

«Perché mia madre, che era antifascista (mi ricordo che ascoltava Radio Londra nascosta con la testa sotto la coperta), mi aveva comprato le scarpe marroni. L’uniforme le prevedeva nere. Ma io avevo solo quelle. Ogni volta, una scenata».

Era tutta anti fascista, la sua famiglia?

«No, avevo uno zio che era stato anche segretario di Claretta Petacci. Scrisse un libro di memorie, stampato in pochissime copie, che fece da riferimento a tutto quello che scrissero dopo su di lei. Mi spiace molto non averne una copia».

Suo zio sarà stato inorridito da quello che le fecero, insieme a Mussolini, a Piazzale Loreto.

«Certo, fu una gesto atroce. Però bisogna ricordarsi che non si arriva alla fine di una guerra con la mente normale. Io mangiai per mesi solo patate. Noi uomini siamo delle bestie. Non dico solo noi italiani. Dico noi essere umani».

Anche lei?

«Io sono molto bestia. Le ho già detto delle crudeltà che immagino ogni giorno contro il governo. Non mi faccia essere ripetitiva».

Perché due anni fa temeva i 5 stelle, e oggi è ossessionata da Salvini?

«Perché, alla fine, Grillo è rimasto quello che è realmente: un comico. Ha scelto Luigi Di Maio, un ragazzetto piuttosto incapace, perché si voleva divertire. Non per governare l’Italia».

Salvini invece?

«Nemmeno lui, in realtà, vuole governare. Ha una paura tremenda di diventare presidente del consiglio. A quel punto, dovrebbe smettere di andare in giro a mangiare polenta e mettersi a lavorare sul serio».

L’ipotesi spaventa anche lei?

«Terribilmente. Io consiglio a tutti: “Comprate oro, prima che venga giù tutto”».

Lei l’ha fatto?

«No, perché purtroppo non ho soldi da parte».

Ma…

«Senta, mi ha detto un quarto d’ora, siamo al telefono da quarantacinque minuti. Io devo pure lavorare, sa?»

Cosa deve scrivere?

«Ma insiste?»

Solo l’ultima cosa.

«Sentiamo».

Si farebbe pagare in Mini Bot?

«Lei è pazzo? Io, se mi rifilano un Mini Bot, uccido! In questa situazione, accetto solo lingotti d’oro!»

Simonetta Fiori per la Repubblica il 27 giugno 2019.

“Ti posso chiamare per gli auguri?”.

Nel salutarla sulla porta, l' amica le chiede cautamente come regolarsi domani, giorno del novantesimo compleanno. «Cara, ti ringrazio ma non voglio telefonate. Zero. Sono due mesi che progetto come nascondermi». Una mattina a casa di Natalia Aspesi, tra centinaia di libri catalogati, le pareti di vetro sul terrazzo, la scrivania disegnata da Lloyd Wright, l' altro scrittoio dedicato alla lettura, ora sovrastato da una pila di volumi sui preraffaelliti, argomento del suo prossimo pezzo.

Perché vuoi nasconderti?

«Compiere novant' anni mi sembra impossibile. Qualsiasi festeggiamento mi fa l' effetto della prova d' un funerale. Con la differenza che al funerale non ci sarò e quindi mene frego. Mentre oggi ci sono».

Ma la vecchiaia non è anche un privilegio?

«Forse sì, ma hai la certezza di essere fuori da qualsiasi cosa. E poi interviene anche il pudore: i vecchi oggi fanno ribrezzo alla gente. Senza contare che quando dici a te stessa di avere novant' anni sai anche che tra un minuto puoi ritrovarti con la lingua di fuori e tra un mese renderti defunta.

Non è che alla mia età si muore ogni tanto. A novant' anni si muore sicuro».

Tu dici che alla tua età si è fuori dalle cose. Non è questo il tuo caso.

«Ciò che mi tiene in vita è una forma di follia. In vecchiaia ciascuno la coltiva a modo suo. La mia pazzia è la politica. Provo tale disgusto e sbigottimento per la condizione del nostro Paese che la mia unica consolazione è pensare: per fortuna quando ci sarà di nuovo il fascismo io non ci sarò».

Non sei l' unica della tua generazione a pensarla così.

«Io ho vissuto il fascismo in una famiglia modestissima e non so per quale ragione antifascista. Ricordo mia madre maestra elementare che ascoltava Radio Londra con una coperta in testa per non farsi sentire dai vicini. E alla cerimonia del sabato mi mandava con le scarpe marroni per rovinare la sfilata. Tutte stupidaggini che però fanno capire l' atmosfera che respiravo in casa».

Tu racconti di essere stata una bambina timida. Possibile?

«Sì, timidissima. Ho patito la guerra, la fame, la povertà: è naturale che un po' di impaccio ti rimanga. Poi il mestiere mi ha cambiato».

In che modo?

«Oggi non ho più paura di niente. Mi ricordo i primi tempi al Giorno , il giornale progressista diretto da Italo Pietra. A parte che allora era un lavoro da ricchi, ben pagato, macchina con l' autista, riconoscimento sociale - ogni volta che partivo per un servizio mi dicevo: speriamo che l' auto si fermi oppure speriamo di non trovare il paese. Poi quando arrivavo sul posto e venivo inghiottita in cose tremende come ammazzamenti, e magari i genitori dell' assassino mi accoglievano "sa, è tanto buono", la timidezza improvvisamente scompariva».

Poi però le ansie sono passate.

«Non credere. Se devo intervistare qualcuno, la timidezza non c' è più. Ma quando devo scrivere è rimasta l' ansia, come se fosse la prima volta. Rileggo più volte e mi dico che porcheria, ma non c' è più tempo per correggere. Ho sempre la certezza che potrei farlo meglio, ma forse è un atto di presunzione».

Come nascono i tuoi articoli? Bocca diceva che i suoi erano già nella macchina da scrivere.

«E io li trovo nel mio computer. Quando mi siedo alla scrivania non so mai cosa scrivere, non ho memoria di niente. Poi provo un paio di attacchi e mi ricordo tutto. Non so perché. È il computer che mi salva».

Deve esserci un negozietto speciale che vi ha riforniti entrambi. A proposito di Bocca, come sono stati i vostri rapporti al "Giorno"?

«Qualche volta mi riprendeva con affetto: Natalia non scrivi brutti articoli ma il tuo italiano è scadente. Fatti correggere dalla Silvia. Era fissato con sua moglie, Silvia Giacomoni. Voleva anche che mi vestissi come lei, austere gonne al polpaccio in Principe di Galles, mentre io indossavo improbabili minigonne con le mie brutte gambe».

Ma a Bocca che cosa importava del tuo modo di vestire?

«Una volta me lo disse: era molto geloso del mio modo di lavorare. Probabilmente io scrivevo cose che apparivano assurde a lui che era un maestro ma anche un uomo tradizionale. E forse mi guardava incuriosito perché ero spiritosa, chissà. Mi apprezzava e mi detestava».

Da dove nasce la tua ironia?

«Dalla mia famiglia. Io sono cresciuta senza il padre, perso a quattro anni, ma la famiglia di mia madre era numerosa e festosa, soprattutto i maschi erano superficialoni, giocavano a carte, magari mandavano a monte le finanze di casa ma ridevano sempre. Io ho ricordi di infanzia allegri. Eravamo un mondo miserando, ma nessuno di noi immaginava che ne esistesse un altro, ricco e privilegiato».

Il fatto di essere cresciuta senza padre ha contato?

«Non lo so, probabilmente se ci fosse stato sarei stata diversa. Ma mia madre diceva di portare la sua vedovanza "come la corona di una regina", si sentiva fortunata rispetto a mogli tediate da mariti tremendissimi. Così sono cresciuta con l' idea che non aver marito era la soluzione della vita. E non mi sono mai sposata».

Tu dici sempre che ti ha salvato il cinismo. È un altro dei tuoi vezzi.

«No, davvero il cinismo mi ha salvato la vita. Quando è morto l' Antonio mi sarei dovuta disperare. Avevo più di ottant' anni e finiva la mia vita di coppia che era stata bellissima. E invece no. Mi è spiaciuto, questo sì».

Tu ti sei dovuta far largo da sola in un mondo maschile.

«Purtroppo non ho mai potuto dire me too , nessuno mi ha mai molestato in cambio della carriera. Però ho imparato subito un' arte preziosa che è l' ipocrisia. In redazione ho capito che dovevo rivolgermi ai colleghi come fossero delle divinità. Aiutami tu che sei così bravo, salvami con la tua intelligenza. Ci cascavano sempre».

Ti sei salvata con la tua bravura.

«In realtà sono sempre stata molto superficiale. Io cercavo di raccontare le cose come le vedevo, non ero provvista di chissà quali strumenti culturali. E invidiavo Camilla Cederna e Lietta Tornabuoni che erano più brave di me».

Anche questo è un altro vezzo. Delle tue inchieste sul "Giorno" e delle tue cronache su "Repubblica" sono pieni i libri di storia.

«Sono state Camilla e Lietta a insegnarmi una coscienza civile. Mi fecero capire che la cronaca aveva un significato più alto del fatto stesso, che aveva un inizio, una ragione e una soluzione che alla fine è sempre politica».

Eravate amiche?

«Sì, Camilla mi incoraggiava a scrivere. Lietta mi ha insegnato il metodo - prima di scrivere un nome controlla se è corretto! - io ero molto disordinata. Lietta era una donna di una generosità pazzesca che ha sacrificato la sua vita per maschi che non la meritavano. Grande classe, bravissima, ma infelice».

Con Oriana Fallaci non c' era feeling.

«Mi detestava. Una volta approdai a Saigon da un festival di Sanremo, dettaglio che la faceva inorridire. Mi trattò con una supponenza feroce. "Ma chi è quel cretino che ti ha mandato qui? Non conosci neppure il nome dei fiumi del Vietnam...". In quel caso però aveva ragione».

Tu parli di te con un' umiltà inimmaginabile in un tuo collega di pari rango.

«Ma i maschi sono convinti di essere i più bravi. La competizione nel giornalismo non è mai tra uomini e donne, ma solo tra uomini o solo tra donne. Io chiedevo di essere paragonata a Bocca, anche a costo di perdere la gara».

Perché i Giorgio Bocca e le Natalia Aspesi non esistono più?

«Perché non c' è più bisogno della cronaca che facevamo noi. Oggi le notizie vengono dette in tre righe, non più raccontate. Alla gente non interessa più leggere quei lunghi articoli che pulsavano di vita, di storie, di personaggi. Ora ognuno s' informa come vuole. E sa le cose come vuole saperle».

Qual è stato il momento professionale più fortunato?

«Quando fui chiamata a Repubblica da Eugenio Scalfari, alla metà degli anni Settanta. Il mondo aspettava solo di essere raccontato. E io affiancavo alla fortuna professionale la mia felicità in amore».

Fu allora che incontrasti Antonio?

«Sì, siamo stati trentotto anni insieme. Io vivevo allora con un compagno, Giorgio, e lui con la moglie e i due bambini. Fu la moglie a cacciarlo di casa, mettendogli fuori le valigie con sopra il mio libro Vivere in tre: aveva capito che parlavo anche di noi. Ma se non fosse stato lei a mandarlo via, lui non se ne sarebbe mai andato: gli uomini sono così vili! Eppure Antonio mi amava moltissimo, anche se non ho mai capito perché».

Ma che dici?

«La moglie era bella, più giovane di me, di buona famiglia. Io ero l' opposto. Credo che si sia innamorato di me perché lo facevo ridere. E poi per delle ragioni che non posso dire».

Hai avuto una vita felice?

«Se la guardo oggi, dico che sono stata molto fortunata. Ma ci sono stati momenti di sofferenza. E ho patito molto anche per amore: alla nostra generazione gli uomini hanno dato un sacco di fregature».

Se oggi potessi richiamare in vita una persona con cui festeggiare i tuoi 90 anni?

«La mia mamma. È stata una eroina. Mi ha aiutato a superare tutto e forse non l' ho amata abbastanza. È a lei che continuo a raccontare la mia vita. Sai una cosa?».

Cosa?

«Quando muoio vorrei non si sapesse. Vorrei scomparire e basta. Puff. Senza necrologi noiosi, coccodrilli, cerimonie inutili. Tutto ormai svanisce in pochi secondi. E c' è sproporzione tra l' intensità dell' emozione istantanea e la memoria breve. Molto meglio sparire all' improvviso. Natalia non risponde più al telefono. E poi magari tra vent' anni, imbattendosi in qualche articolo, qualcuno dirà: ti ricordi?».

·         Piccoli tasti. Grandi firme.

PICCOLI TASTI, GRANDI FIRME. Luigi Mascheroni per Il Giornale il 3 giugno 2019. Chi ha meno di cinquant'anni lo troverà incredibile: eppure ci fu un tempo in cui i giornali si facevano senza computer, senza mail, senza Google, senza cellulari...Che tempi. Più belli? Più brutti? Senza le nuove tecnologie le giornate erano più pesanti, i tempi più lunghi, e i servizi più complicati. Eppure quelli erano giornali creativi, ricchi di servizi, battaglieri, pensati e scritti benissimo, e venduti in centinaia di migliaia di copie. I tempi d'oro del nostro giornalismo, quelli che coincidono con la diffusione e l'uso delle macchine per scrivere portatili: dal 1950 (anno in cui l'Olivetti progetta la mitica Lettera 22) ai primi anni '90 (quando i pc entrano nelle redazioni) e che ho provato a raccontare nella mostra Piccoli tasti, grandi firme che ho curato al Museo «Garda» di Ivrea (ha inaugurato venerdì, resterà aperta fino al 31 dicembre). Un'epoca segnata dalla nascita di testate rivoluzionarie, sia per la grafica sia per il nuovo ordine delle pagine e delle notizie (Il Giorno ad esempio, che nasce nel 1956). Alcune delle quali giocano un ruolo fondamentale nella battaglia delle idee (il manifesto, il Giornale, la Repubblica, tutti apparsi negli anni Settanta). Altre sono anticonformiste e irriverenti (il Borghese di Leo Longanesi, del 1950, oppure, per tutt'altro verso, Cuore, il «Settimanale di resistenza umana» dell'Unità, del 1989). Senza contare i quotidiani del pomeriggio, da Paese sera a La Notte (erano il nostro online...). Testate, vecchie e nuove, che offrivano un'informazione pluralista accompagnata da un livello eccezionale di scrittura. Come dimostrano le grandi firme che battevano sui quei piccoli tasti. Grandi giornalisti-scrittori, o scrittori-giornalisti se volete, che hanno ancora molto da dirci. Su come si trova una notizia e su come la si racconta. Senza dimenticare i colleghi che non usavano la macchina per scrivere, ma gomma, forbici e matita: come Giuseppe Trevisani, che ideò l'impaginazione innovativa del manifesto e del Giorno, o Piergiorgio Maoloni, il grafico e designer che firmò la progettazione o il restyling di tutti i più importanti quotidiani e periodici italiani del tempo. La sua prima pagina del Messaggero, il giorno dell'allunaggio, è un capolavoro. E infatti è esposta al MoMA di New York. Fu una stagione - a guardarla bene - lontanissima, in tutti i sensi. Che ebbe certo molti limiti: tante idee ma anche troppa ideologia, i medesimi conflitti di interessi di oggi, solo più camuffati (a lungo non si seppe che dietro Il Giorno c'era l'Eni, ad esempio), protagonismi eccessivi, corpi redazionali abnormi, costi di gestione altissimi e spese folli (che infatti oggi le aziende editoriali pagano con gli interessi), ma che, pure, fu straordinaria. E che ancora può offrirci suggerimenti particolarmente utili in un momento come l'attuale in cui la carta stampata vive una delle sue crisi più profonde. Tra le sale della mostra, curiosando, troverete di tutto. Le pagine del Corriere con i pezzi più belli di Buzzati, l'edizione originale della strenna Olivetti con Il deserto dei tartari illustrato da Enrico Baj, il suo capolavoro nato nelle notti di turno al giornale. E poi i numeri originali dell'Espresso con la celebre rubrica «Il lato debole» di Camilla Cederna, un lungo servizio su di lei di Panorama degli anni '80, la pagina che il Corriere le dedicò il giorno della sua morte, e là c'è anche la sua macchina per scrivere.

Rossa. Silenzio, arriva il maestro. Indro Montanelli: articoli dattiloscritti, prime pagine di giornali, una serie di caricature dei maggiori vignettisti italiani, fotografie. Di Giovannino Guareschi ci sono le copertine e le pagine di quella meraviglia che è il Candido (la doppia pagina con il disegno di Stalin all'inferno, dopo la sua morte nel marzo 1953, vale più di un trattato di filosofia politica), e le sue inimitabili vignette satiriche. Tocca poi all'inchiesta. 

Enzo Biagi e Giorgio Bocca furono due campioni. Ci sono i numeri originali di Epoca, pagine di giornali con i loro articoli e interviste-ritratto, fotografie con politici e uomini di spettacolo che incontrarono nella loro lunga carriera, i filmati dalle teche Rai delle loro trasmissioni tv. E poi gli inviati?

Ecco a voi Oriana Fallaci, con il dattiloscritto della sua intervista a Lech Walesa, pagine di giornali, fotografie in cui sembra una modella e quelle in cui è una scrittrice, ma anche la sua macchina per scrivere, i registratori, gli occhiali... e Goffredo Parise: le pagine del Corriere con i celebri reportage dal sudest asiatico, foto in giro per il mondo, un quadro-ritratto di Giosetta Fioroni, la sua compagna di una vita...

Attenzione. Si entra nella redazione cultura, così snob. Le «firme» sono quelle di Mario Soldati (dattiloscritti e pagine dell'Europeo, del Corriere e del Giorno; ma anche la rivista «per adulti» Kent, siamo nel 1968-69, con suoi racconti) e Pier Paolo Pasolini (il dattiloscritto del famoso «articolo delle lucciole» e il ritaglio del micidiale «Il PCI ai giovani» uscito sull'Espresso il 16 giugno 1968, e poi gli scatti originali del servizio di Dino Pedriali, realizzato poche settimane prima della tragica morte, nel 1975, in cui lo scrittore è ritratto davanti alla sua macchina per scrivere). Infine, lo sport. Che sui giornali arriva per ultimo ma è il primo a essere letto.

I cantori sono due. Gianni Brera, con le agende, i dattiloscritti, la pipa e tutti i suoi giornali: Gazzetta dello Sport, Guerin Sportivo, Il Giorno, il Giornale, Repubblica. E Beppe Viola: i numeri di linus con i suoi pezzi, il dattiloscritto con l'irresistibile (leggetela, per favore) «Lettera inviata alla direzione Rai» (1979), e poi i filmati delle teche Rai e le foto con Bruno Pizzul, un giovanissimo Fabio Fazio col registratore a cassetta in spalla, e Gigi Radice...

Che strano. Abbiamo citato i giornalisti, i grafici, potremmo dire anche degli infaticabili tipografi (ci sono le foto di Scalfari in tipografia con la prima copia di Repubblica, 1976, e di Montanelli con quella del Giornale, 1974), eppure manca ancora qualcuno. Forse la persona più importante. Ma no. Ci sei. Eccoti là, fra la gente con il giornale in mano, per strada, nei luoghi pubblici, sui tram... Sei tu, lettore. O almeno, lo eri.

VITA DI REDAZIONE. Tony Damascelli per Il Giornale il 3 giugno 2019. Passami gli steno. Ti mando a breve con radiostampa. Vorrei una ERRE con Milano. Controlla in zincografia se è tutto a posto. I dima sono già arrivati? Passami le pinzette del piombo e il cordino per le misure. Rullo, Neroooo. Ma che roba è? Che roba era ed è stata? Che significano quelle parole? Passami chi? Chi erano gli steno? E tutto il resto, il piombo e le pinzette, un repertorio lessicale da codici bizantini. Eppure è roba bella, roba buona, sapori e profumi di giornalismo che fu, senza scivolare troppo nella nostalgia però accarezzandola appena. Storia di ieri, carta bagnata e inchiostro nerissimo come la notte che era un tempo lungo più del giorno passato alla ricerca della notizia, tra polveri poco sottili e cronache forti. Una penna, un quaderno, a righe o (...)(...) quadretti, poi un taccuino come i detective nei film americani, schizzi, scarabocchi più che appunti, parole e pensieri raccolti su un marciapiede, in una caserma dei carabinieri, negli uffici scuri della questura, nei corridoi tristi di un ospedale, nel caldo appiccicoso di uno spogliatoio, tra mille voci urlanti e volti di cera. Bello il mestiere del giornalista, un piede sull'Orient Express e in mano una coppa di champagne mentre i vapori del treno segnalano la partenza per una nuova avventura. Balle spaziali. Bello, piuttosto, il mestiere di sfangarsela ogni giorno, senza orario, sfasciando famiglia e amicizie, inseguendo lo scoop da trasmettere al volo, da scrivere come clandestini, da rileggere a noi stessi come cantori narcisi. Niente computer, niente telefonini, niente internet, niente di tutto quello che oggi permette che la notizia venga a noi. Noi andavamo verso di LEI, Indiana Jones alla ricerca della pietra di qualunque colore essa fosse. Articoli determinati e determinativi, il pezzo, come viene definito, quasi fosse l'esito di un taglio, una parte, una quantità più o meno piccola mentre per noi era ed è ancora, il Tutto, l'Intero, il Totale, l'elaborato, lo scritto, l'opera magna. Il giornale, il punto di arrivo e non di partenza, la laurea, l'ingresso nella tribù degli eletti, l'iscrizione al circolo dei privilegiati, il senso del potere effimero, esibito con un tesserino verde o color prugna, con una Bic e una macchina per scrivere, trascinando il corpo e la mente, teatranti dall'aria affaticata, addobbati con abiti stazzonati, il repertorio dello scrittore che presume di essere affermato ma, al momento del vedo, trattasi di scrivente sconosciuto ai più. Da dove incomincio, allora? Che cosa accadeva che non accade più? Chi c'era e non c'è più, non per morte o prigionia ma perché quel tipo, quel ruolo, quella funzione sono scomparse, cancellate, eliminate, tritate dalle tecnologie che non hanno forma ma fanno sostanza, sono ma non esistono, non respirano, non maledicono, non piangono, non ridono, immagini senza sostanza. La macchina per scrivere era il giocattolo del piacere perverso. Battevi sui tasti cercando di evitare i punti interrogativi severamente proibiti da Indro Montanelli, più semplicemente, per noi de Il Giornale Nuovo, Il Vecchio o Cilindro, perché LUI diceva, chiudendo le labbra della bocca a culo di gallina: «Titoli chiari, netti senza interrogativo finale, siamo noi a chiarire e non lasciamo sospesa l'interpretazione eventuale al lettore». Il nastro della bobina, metà nero e metà rosso, sulla grigia Olivetti, saltava ad ogni lettera dell'alfabeto, quando impazziva a Marcello Marchesi venne l'idea, di fronte a quelle macchioline bizzarre, creando la frase «Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano» perché insetti sembravano, sul foglio bianco. Per le correzioni Gianni Brera sfruttava un paio di pennarelli verdi estratti dalla sua borsa tattica gonfia di ogni, pipe, toscani, sigarette. Giovanni Arpino vergava senza errori, Giovanni Mosca usava soltanto la penna stilografica. Quindi si passava alla dettatura. Da dove? Come? Un telefono, quello di casa, oppure la cabina di un albergo, di un ristorante con posto pubblico, sudori e afrori, gettoni di zinco, nichel e rame, gioielli preziosissimi a dosi industriali, oppure la ERRE di cui sopra, la telefonata rovesciata a carico del ricevente che doveva rispondere positivamente alla domanda del centralinista «Accetta?». Massì che accettava. Finalmente ecco gli steno, nel senso di stenografi, ecco i dima, nel senso di dimafonisti, usi ad obbedir tacendo, come i militi della benemerita, cuffie, registratore e via a trascrivere il dettato. Quando cadeva la linea telefonica, e come se cadeva, gli insulti decollavano nell'alto dei cieli, il mal evento si verificava spesso dall'estero, tipo Paesi dell'est là dove, senza teleselezione e simili, dovevi per forza passare dalla centrale di Mosca che, dopo il controllo di regime su chi e che cosa, dava l'ok a Praga o Bucarest, a Plovdiv o a Lodz, falce, martello e censura. Nei casi più romantici o disperati, il pezzo non veniva scritto ma sgorgava a braccio, parole pensate, parlate, riferite, emozioni che diventavano frasi, pensieri trasformati in aforismi, non avevi bisogno del cordino in spago e del conteggio delle righe, l'esperienza non ingannava le misure. Esaurita la dettatura stava ai dimafonisti e agli steno passare alla trascrizione, da qui il pezzo finiva in redazione, cartellette in doppia o triplice copia. Di poi, le ulteriori eventuali correzioni e la titolazione, sommario, occhiello, tipografia. Ma attraverso quale percorso? Fattorini, come portalettere, bersaglieri di corridoio, complici e compagnoni, prima dell'avvento della posta pneumatica, quel tubo nel quale infilare il bussolotto che percorreva curve, rettilinei, discese, per finire la corsa in tipografia. Il regno delle tute nere, camici lucidi di inchiostro, linotype e linotipisti, macchine giurassiche e uomini della notte, piombo fuso che diventava pagina sul carrello, il proto, il capo operaio di quella fucina, controllava la copia modello, un foglio biancastro, quasi trasparente, bagnato d'acqua, appoggiato con delicatezza sul telaio, il rullo, lo strillo «Nerooo» a significare che la pagina poteva infine essere letta, dopo aver sollevato il foglio, come un sacro telo. Il Direttore, il caporedattore annuivano, si andava, pronti per l'impaginazione, la stampa. Tutto questo «a caldo», prima che spuntasse il mondo tipografico «a freddo», camici bianchi, computer, cellulari, internet, social. Il passato è remoto, trapassato. Ma gli ultimi minuti del giorno restano identici, minuti di una giornata senza inizio e con un epilogo mai veramente conosciuto e finito. Perché la notizia non ha orario, quando credi di avere terminato il tuo lavoro, un secondo dopo accade l'imprevisto, un fatto, il fatto, un altro fatto e allora devi ricominciare, il telefono, i pensieri, le parole, la scrittura. Diceva Oscar Wilde «La vita è tutto quello che accade mentre ti stai occupando d'altro». Questo altro è stata, è ancora è la nostra vita. Di giornalisti.

·         Vespa Memories.

Massimo Falcioni per tvblog.it il 17 dicembre 2019. Nuovo anno, nuovo libro, solita maratona televisiva. Come da tradizione, tra la seconda metà di novembre e le prime due settimane di dicembre, Bruno Vespa diventa una presenza fissa nelle case degli italiani. In video ad ogni ora del giorno e della notte, il giornalista abruzzese salta da un programma all’altro, senza badare a orari, canali e tipologia delle trasmissioni che lo invitano. L’obiettivo è sempre il solito: promuovere il suo libro. Quest’anno però alla semplice analisi dell’attualità politica si aggiunge il fattore storico. “Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare)” costringe infatti i talk che lo ospitano a mutare parzialmente la scaletta e a indirizzare la discussione su un tema che necessita di un contorno ad hoc. Vespa è una macchina da guerra. Offre spunti, pone riflessioni, genera dibattito. Tuttavia, a volte è costretto ad azionare il pilota automatico con l’inevitabile percezione del déjà vu. Il rischio è anche quello di sovrapporsi con se stesso, visto che Vespa – qualora qualcuno se lo fosse dimenticato – per tre volte alla settimana è padrone di casa nella seconda serata di Raiuno. Il monitoraggio del giornalista parte il 12 novembre a Di Martedì, per proseguire il 14 a L’Aria che tira e il 16 a Io e te di notte. Lunedì 18 trasferta a Mediaset negli studi di Quarta Repubblica, a cui si aggiunge l’apparizione a Fuori dal coro ventiquattr’ore dopo. Doppia performance il 21 novembre: Agorà al mattino e Stasera Italia in access prime time. Il 23 novembre Vespa fa le ore piccole e spunta a Milleeunlibro di Gigi Marzullo, mentre il 25 interviene a Start su Sky Tg24 e a Povera Patria. Il 26 sveglia presto e collegamento con Mattino 5, fino ad arrivare a sabato 30 con la doppia uscita a Buongiorno Benessere e Stasera Italia. Ed ancora, il 5 dicembre si timbra il cartellino a Storie Italiane e Dritto e rovescio, domenica 8 a Non è l’Arena, il 9 a Sottovoce, il 10 a Cartabianca, l’11 a L’Aria che tira e a Vieni da me, il 13 a Pomeriggio 5, sabato 14 a Tv Talk e lunedì 16 dicembre a S’è fatta notte. Ventitré partecipazioni in trentacinque giorni. Una copertura capillare che non considera le quindici puntate di Porta a Porta andate in onda nel lasso di tempo osservato, né le interviste rilasciate nelle varie radio (che spesso godono di un canale dedicato sul digitale terrestre). Fuori dal conteggio pure la primissima trasferta di Vespa avvenuta il 6 novembre a Viva Raiplay (su Raiuno) e il servizio di Enrico Lucci realizzato per Quelli che il calcio del 24 novembre durante la presentazione romana del libro alla presenza di Matteo Salvini. Una volta tanto un’intrusione subìta.

VESPA MEMORIES. Mattia Feltri per “la Stampa” il 3 maggio 2019.

Direttore Vespa, per lei il 2019 è il cinquantesimo anno in Rai.

«Sono stato fortunato. Ho vinto il concorso 1968-69: fui primo di 23 ammessi su un migliaio. Non immaginavo di farcela, mentre mio padre ci credeva. Scommettemmo un televisore a colori poi, grazie a Ugo La Malfa che per una politica pauperistica era contrario, la tv a colori arrivò solo nel '77, e mio padre era morto. La regalai a mia madre».

Si ricorda il primo servizio?

«Quella era una Rai in cui si facevano telecronache del 2 giugno, pezzi su Salvo D' Acquisto. Il mio primo servizio fu sulla regata storica delle Repubbliche marinare, figuriamoci. Era giugno, ma già a dicembre ero su Piazza Fontana».

Come no. Lei annunciò l' arresto del colpevole, Pietro Valpreda, che poi fu assolto.

«Me ne pentii. Ma, se si va a vedere i giornali dell' epoca, era una gara linguistica a chi trovava il termine più brutale: mostro, boia. Del resto nessuno dubitava della colpevolezza di Valpreda, e per dire che il processo mediatico non è un' invenzione di oggi».

Lei per esempio fa processi in tv, coi famosi plastici. Ma ce n' è davvero bisogno?

«Non capisco: se i giornali pubblicano piantine, scene del delitto, indagano va bene. Se lo faccio io è tv spettacolo».

Forse non dovrebbe farlo nessuno.

«Questo è un altro discorso. Ma la copertura mediatica dei processi è arte antica».

Prima di piazza Fontana ci fu lo sbarco sulla Luna, raccontato nel suo ultimo libro.

«Una notte straordinaria, con la diretta di Tito Stagno e Andrea Barbato, un evento che andò oltre la cronaca, interpellava l' umanità, il senso della sua presenza nel cosmo, infatti c' erano ospiti di ogni tipo, dal regista Michelangelo Antonioni al poeta Alfonso Gatto».

È il servizio che l' ha segnata di più?

«No. È stato l' evento più importante di tutta la seconda metà del Novecento, ma lì facevo il portatore d' acqua, com' era giusto. Dal punto di vista professionale mi ha segnato il sequestro e l' omicidio di Aldo Moro. La mattina del rapimento corsi in Rai e dovetti tenere la diretta per ore, alcune decine di minuti sulla base di due righe dell' Ansa. Sono rimasto blindato in Rai per cinquantacinque giorni. Due volte sono andato al cinema e dovevo segnalare alle maschere il posto dov' ero seduto, in caso di emergenza. Poi feci anche la diretta subito dopo il ritrovamento del cadavere».

Lì la si vede sconvolto.

«Un po' sì, ma ero soprattutto trafelato perché ero corso su per le scale a dare la notizia prima che partisse la pubblicità. Però, al di là del caso Moro, l' incontro fondamentale è con Wojtyla».

Le telefonò in diretta.

«Avevamo un rapporto antico. L'ho conosciuto un anno prima che diventasse Papa: era il '77 e volevo intervistare il cardinale Wyszynski, primate di Polonia, ma fu impossibile. Mi indicarono il cardinale Wojtyla, arcivescovo di Cracovia. Cenammo a Roma, c' era Pierluigi Varvesi, allora giornalista Rai e oggi laico consacrato a Gesù. Varvesi diceva che i preti non dovevano insegnare, e Wojtyla si infuriò, dava i pugni sul tavolo: venite a vedere come si vive in Polonia con la dittatura comunista, diceva. Nella foga, bevve mezza bottiglia di Chivas. Poi andai a intervistarlo a Cracovia e ne fui così impressionato che gli dissi se non fosse ora di un Papa polacco. Forse è presto, mi rispose. In effetti servì l' intermezzo di Papa Luciani, il primo a parlare di sé in prima persona, senza usare il plurale maiestatis. Giovanni Paolo I fu indispensabile perché arrivasse Giovanni Paolo II».

Molti pensano che la Rai, quella del servizio pubblico, morì a Vermicino col piccolo Alfredino Rampi.

«Non lo so, ma ero totalmente contrario a quella interminabile diretta. Pregai il direttore Emilio Fede di sospenderla perché mi parevano tutti impegnati a lucrare sulla pelle di un povero bimbo. Pure il presidente Pertini, che fu un vero eroe della Resistenza, uno dei pochi che l' ha fatta davvero, ma a Vermicino voleva essere il primo ad abbracciare Alfredino, che invece morì. Pertini non amava i bambini, amava le telecamere. La diretta andò avanti e io me ne tirai fuori, tornai a casa».

Alla fine della Prima repubblica lei sembrava finito, invece doveva ancora cominciare.

Porta a Porta è del '96.

«Nel '93 fui messo in punizione perché ero il giornalista del vecchio regime. Pensate che, quando ci fu l' attentato a San Giovanni in Laterano, ci andai e mi imbattei in Papa Wojtyla col presidente Scalfaro e il capo della polizia Parisi. Un colpo notevole. Albino Longhi, direttore del Tg1, disse che il servizio poteva andare in onda purché non si vedesse la mia faccia. Ma, per dire come vanno le cose, poco dopo riuscii a intervistare Silvio Berlusconi, che non conoscevo, e bastò perché all' indomani fossi di nuovo in prima serata».

È un piccolo ed esaustivo trattato sulla Rai. Però fu lei a dire che la Dc era il suo editore di riferimento.

«Lo rivendico. Ci sono cose che non si possono dire, ma sono vere. La Rai è controllata dal Parlamento dentro cui c' è una maggioranza che esprime un governo. Il resto è ipocrisia. Allora poi al Tg2 c' era Alberto La Volpe e Sandro Curzi al Tg3, il primo militante del Psi il secondo del Pci, mentre io non ho mai fatto una riunione di partito».

Sono intrusivi i politici?

«Lo so che non mi crede nessuno, ma poco o niente. Ci provavano nella Prima repubblica solo quelli dei piccoli partiti perché hanno bisogno di spazio, i partiti grandi conoscevano la nostra correttezza e lo spazio dovuto».

Più che la questione dell' editore di riferimento, colpisce la necessità della Rai, e anche sua, di spettacolarizzare la cronaca per gli ascolti. Eppure ci sono due miliardi di canone. Non è un tradimento del servizio pubblico?

«No. Negli Usa c' è la Pbs, la tv pubblica, rigorosa e raffinata, ma non la guarda nessuno. Il mercato, con cui ci confrontiamo, ci impone di essere di qualità e appetibili, e secondo me ci riusciamo spesso».

La sua intervista a Riina jr ubbidì a questa logica?

«La rifarei sempre, come Enzo Biagi intervistò Buscetta e Liggio, e perché solo da quella intervista si capì in pieno l' impunità di Riina latitante».

Ma non è umiliante per lei avere a che fare con nuovi editori di riferimento che non sanno nulla?

«Assolutamente no, sarei ingeneroso. Chi ci governa, ma anche chi sta all' opposizione, è lo specchio di una generazione che sa poco, e quasi nulla del passato, e io che ho un' età e un' esperienza ho gioco facile a ricordargli il necessario».

Quanto ancora andrà avanti?

«Dipende dal buonumore del Padreterno, che fin qui mi ha molto assistito, e dalla fiducia nella mia azienda».

Chi è Federico Vespa: cosa fa nella vita il figlio di Bruno. Alice 27 Novembre 2019 su Notizie.it. Classe 1979, Federico Vespa è il primo figlio del celebre conduttore Bruno Vespa. Noto per aver seguito le orme paterni, Federico è conosciuto dagli ascoltatori di Rtl 102.5, dove svolge il suo lavoro di conduttore radiofonico. Federico Vespa chi è. Primo dei due figli che Bruno Vespa ha avuto dal magistrato Augusta Iannini (l’altro, Alessandro, è il più piccolo) Federico è conosciuto come speaker e conduttore radiofonico per Rtl 102.5. Nel 2005 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza, ma il giornalismo ha da sempre occupato una larga fetta della sua vita e così, in parte seguendo le orme paterne, è approdato in radio, dove continua a lavorare con passione. Da sempre molto riservato per quanto riguarda la propria vita privata, Federico Vespa ha scritto un libro (L’anima del maiale, il male oscuro della mia generazione) in cui tra le altre cose ha confessato di aver sofferto di depressione per un lungo periodo. “Non uscivo mai, non avevo amici, mi sentivo un agnello in mezzo ai lupi. Mi facevo schifo”, ha confessato. Da sempre molto legato sia a sua madre sia al suo celebre padre, nelle interviste ha rivelato che pur avendo con loro un buon rapporto avrebbe da rinfacciargli diverse cose riguardanti la sua infanzia: “Ho sempre rinfacciato ai miei genitori di essere cresciuto troppo con le baby sitter. So che non lo hanno fatto apposta, ma sono stati carenti. Lo sanno e lo abbiamo superato, ma io volevo una famiglia più presente. Volevo meno lusso ma due genitori più presenti con me”, ha detto.

Da huffingtonpost.it l'1 novembre 2019. “Ho passato anni a sentirmi un continuo nodo in gola. Ero l’agnello nella tana dei lupi”. A parlare è Federico Vespa, il figlio maggiore del celebre giornalista e conduttore Bruno, che nel suo libro in uscita “L’anima del Maiale. Il male oscuro della mia generazione” racconta di aver sofferto di una grave forma di depressione per vent’anni. A riportare la storia dell’uomo è Il Giornale. Federico, 40 anni, giornalista e conduttore radiofonico, è nato in una famiglia benestante. Suo padre è il giornalista Bruno Vespa, sua madre il magistrato Augusta Iannini. Nonostante questo racconta di aver vissuto dai diciotto anni con quello che lui definisce “un mostro”, la depressione, da cui solo ora è uscito. "Federico [...] ha vissuto, più o meno dai suoi diciotto anni, con un mostro dentro, la depressione. Insicurezza, ansia, ‘un continuo nodo in gola’, farmaci, anche terapie tentate e fallite, fino alla più recente, finalmente decisiva, liberatoria, che lo ha reso ‘sereno’, dopo oltre vent’anni in cui si era sempre sentito, invece, ‘l’agnello nella tana dei lupi’". E la “tana dei lupi” è il mondo che lo circonda ora, quello dei social, ma anche la realtà in cui è cresciuto, quella degli anni Ottanta e Novanta, di cui il figlio di vespa non condivideva l’entusiasmo, la leggerezza e l’ottimismo. Scrive Federico nel suo libro: “Sono nato nel 1979, mi pesa dirlo, non lo nego. [...] Un anno prima della mia nascita succedevano molte cose in questo maledetto e affascinante Paese. Paradossalmente avrei preferito essere vecchio ora ed essere stato giovane allora. Avrei almeno potuto chiedermi perché uno dei più grandi statisti che l’Italia abbia mai conosciuto, Aldo Moro, sia stato prima rapito con il sacrificio degli uomini della sua scorta, poi assassinato dopo una trattativa Brigate Rosse-Stato [...]” Federico pensa che la depressione sia il male della sua generazione. Nel suo caso il disturbo si è spesso nascosto, ma gli ha mangiato numerosi anni di giovinezza e di vita. Si legge sul Giornale: Il “disturbo ansioso-depressivo” che gli hanno diagnosticato, che per qualche anno si è pur sopito, è rimasto “in coma farmacologico” ma poi è sempre rispuntato, inesorabile, a mangiargli via anni su anni, non solo di giovinezza, ma anche di crescita, di vita, di esperienza, di amore e amori [...], di felicità, di speranza, vecchio stile e anche, come la definisce lui stesso “2.0”. Federico nel libro racconta poi di aver spesso avuto paura anche di chiedere aiuto per il suo male, perché ha sempre temuto di diventare aggressivo con le persone a lui più care proprio a causa della depressione. [...]Chiedere aiuto può fare ancora più paura della paura stessa del male, di quel sudore, quell’ansia, quel terrore di perdere il controllo e perfino, di diventare aggressivo, do fare male a qualcuno, magari a qualcuno a cui vuole bene. Il fatto è che il male, con il suo fascino inspiegabile, qualche volta funziona da anestetico, e ti mette sotto una campana che ti allontana dalla vita, dagli affetti, dalla famiglia, dai desideri e allora non ti senti più niente, non provi più niente [...]

·         Come in pace così in Guerri.

COME IN PACE COSI’ IN GUERRI (GIORDANO BRUNO). Giordano Bruno Guerri per Sette – Corriere della Sera il 22 maggio 2019. «Parliamo di tutto, ma non di d’Annunzio, nel quale mi identificano fino a confondermi, come con quegli attori che diventano tutt’uno con il personaggio che interpretano». Esordisce così, in mano un calice di rosso, Giordano Bruno Guerri (Monticiano, 1950), storico, saggista, editorialista dalla penna audace, impertinente, politicamente (s)corretta. Oltre che presidente del Vittoriale – dimora palcoscenico della “vita inimitabile” del Vate – che con piglio di condottiero, puntigliosa caparbietà di studioso e profetica follia di sognatore ha trasformato da polveroso contenitore di memorie sotto vetro a propulsore di energie culturali, proprio come chi lo ha abitato. «Una dinamo», dice l’infaticabile Guerri, maratoneta dello studio e della scrittura («lavoro moltissimo e se non lavoro sto male»).

Uomo – per sua stessa ammissione – iroso e avventuroso, che per vizio intellettuale coltiva da sempre l’arte del dubbio. E che da «libertario, liberista ed ex libertino» ha trovato nella famiglia la più alta forma di trasgressione. È diventato padre tardi, a 55 e a 60 anni...

«Sì. I figli bisogna farli da vecchi. E non solo, come scrivevo con compiaciuto cinismo in “Pensieri scorretti” (1837 aforismi per togliere la ragione a chi ce l’ha, Utet) per lasciar loro l’eredità quando più ne hanno bisogno. Ma per senso di responsabilità. A 35 o 40 anni sarei stato un padre sciagurato. Ora, maturo, ma non posato, sono diventato consapevole. E quasi saggio».

Che genitore è?

«Un vampiro; succhio l’energia di Nicola e Pietro come una trasfusione di vita».

Si vanta di avere sempre corso i pericoli...

«Per certezza dell’impunità. I lupi riconoscono i lupi».

Oggi di cosa ha paura?

«Per me, di nulla; ne ho invece molta, moltissima per i miei bambini. E di tutto, da una semplice caduta all’insensata violenza del mondo».

Prima di loro ha avuto una vita spericolata.

«Chiamatela pure trasgressiva».

Cos’era per lei la trasgressione?

«Fare quello che mi andava per aggiungere piacere al piacere».

Quando si è riappropriato del senso del limite?

«Quando mi sono accorto che il piacere si era trasformato in coazione a ripetere. E che ero arrivato ad annoiarmi di me. Ma mi sentivo prigioniero di un meccanismo dal quale non riuscivo a uscire. Decisi di andare in analisi. Lì ho capito che dovevo ricominciare a scegliere».

E ha incontrato Paola Veneto, autrice televisiva, radiofonica, teatrale.

«Mia moglie. L’amore salvifico. Venne a casa per farmi un’intervista su Pasolini. E sapendo dei miei istinti predatori arrivò accompagnata».

Cosa l’ha conquistata di Paola?

«L’intelligenza, la tenerezza verso i miei gatti. E soprattutto con lei mi sono sentito capito».

La sua famiglia vive a Lanzarote, Isole Canarie. Lei lavora a Gardone Riviera. Incontrarsi non è comodissimo...

«Trascorro con loro una decina di giorni al mese. Da Bergamo, con i voli low cost, ci impiego forse meno che arrivare a Roma. E Lanzarote è l’isola perfetta per crescere, studiare, scrivere. La scelse come buen retiro anche José Saramago. C’è ancora la sua casa. E pure quella, scavata in una colata di lava, dell’architetto-designer César Manrique, autore anche della villa da sogno di Lag-O-Mar per Omar Sharif, che la perse a carte in una notte».

Non era animale metropolitano?

«Amo New York e Rio de Janeiro. E avevo l’idiosincrasia per le isole da cui non potevo scappare a nuoto».

Qual è il ruolo dell’intellettuale?

«Seminare dubbi, contrariamente ai politici, che dispensano sempre e solo certezze. È la stessa differenza che passa tra filosofia e religione. La verità rivelata è intollerabile».

Crede in Dio?

«No».

E pensa ogni tanto alla morte?

«Mai. Ho sempre vissuto libero e incosciente, senza progettare il futuro. Ho una madre centenaria. Una sorta di patente per l’immortalità».

A dispetto dei passati eccessi?

«Un giorno, in un momento di particolare disordine come pratica quotidiana, un medico mi disse: “Lei sta consumando in una vita sola la salute accumulata in venti generazioni di contadini”. Oggi ho cura di me. Sento il dovere, peri miei figli, di mantenermi giovane e vitale».

Intelligenza fa rima con...

«Velocità. Di pensiero e di azione».

Passioni insospettabili?

«I film di fantascienza. Non quella d’intrattenimento alla Star Wars, ma la fantascienza visionaria, profetica, alla Star Trek, alla Blade Runner. Perché tutto quello che l’uomo è capace di pensare, è anche capace di realizzare. Come storico, ho l’illusione di proiettarmi nella storia del futuro». Cosa la inquieta di più della storia di oggi? «Il trionfo dell’ipocrisia istituzionalizzata».

Cosa trova insopportabile?

«Oltre ai cretini, il cinema francese: cupo, opprimente, disilluso. Ho bisogno dell’happy end. Se non c’è, ci resto male».

Gli amici del cuore?

«Roberto D’Agostino, Alain Elkann, Vittorio Sgarbi, in ordine alfabetico».

Chi avrebbe voluto essere se non fosse diventato chi è?

«Un poeta come Walt Whitman, per l’esistenza avventurosa, a tratti misteriosa, e la capacità di scrivere liriche folgoranti come quelle raccolte in Foglie d’erba. Oppure un grande rivoluzionario. Come Gesù. Che ha sradicato la cultura ebraica in cui è nato come una zolla d’erba e l’ha sventolata al sole».

Qualche rimpianto?

«Non avere avuto il talento dei grandi narratori. Che scrivono storie inventate come fossero vere. Io, invece, le storie le scrivo già vere».

L’apprezzamento più gradito?

«Di mia moglie Paola. Quel giorno che mi ha detto: “In fondo lo avevo capito che eri buono”».

Come vorrebbe essere ricordato?

«Con la formula scolpita sulle tombe di una volta: padre e sposo esemplare».

·         Il peace and love.

Christiania tradita: dal sogno hippie ai nuovi radical chic. La famosa città autogestita nata da un'occupazione abusiva nel 1971 è ormai un'attrazione turistica. Le nuove generazioni attratte dagli agi. Luigi Guelpa, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. Nella città libera di Christiania, a Copenaghen, vige un'anarchia all'acqua di rose. Il peace and love funziona a intermittenza e solo seguendo le regole, ma a distanza di sicurezza dall'immigrazione, tutt'altro che gradita. Con il tempo il quartiere è diventato un esperimento sociale di grande interesse, ma non ha mai incontrato le simpatie dello Stato, che ha tentato più volte lo sgombero senza successo. La città autogestita si è trasformata nella terza attrazione turistica della capitale danese, dopo il parco di Tivoli e la Sirenetta, ma soprattutto parte della sua identità. Tanto che nel 2009 l'allora premier Anders Fogh Rasmussen, poi segretario generale della Nato, offrì agli abitanti il riscatto del quartiere. La legalizzazione di Christiania è costata 10 milioni di euro. Sintomo di un'era in cui davvero tutto si può comprare, persino l'anarchia. Il mito di Christiania è cominciato nel 1971 con l'occupazione abusiva di una base navale dismessa di 34 ettari nel bel mezzo di Copenaghen. A prendere l'iniziativa sono stati alcuni cittadini danesi alla ricerca di condizioni di vita migliori per le proprie famiglie. Abbandonato e ricoperto da prati e alberi, il terreno era protetto da una semplice palizzata di legno. Abbattere quelle assi è stato sufficiente per provare a costruire qualcosa di nuovo. Gli anni Settanta permettevano ancora di sognare, ma non c'è voluto molto perché ai pionieri dell'occupazione di Christiania si aggiungessero gli hippies e gli anarchici, le comunità alternative più numerose di quel tempo. Il quartiere ha continuato a crescere come uno Stato dentro lo Stato, con le sue idee e le sue utopie. Visitare Christiania è come entrare in una dimensione parallela in cui le regole e le convenzioni a cui siamo abituati vengono messe in discussione. È un luogo in cui non è mai stato consentito l'accesso alle auto, in cui le droghe leggere sono da sempre tollerate, in cui il concetto di proprietà privata è quasi sconosciuto e in cui tutto sembra funzionare all'apparenza in modo armonico e secondo un principio decisionale che si basa sul consenso di tutti gli 850 abitanti. Il risultato di questo esperimento sociale è una specie di colorato e vivacissimo villaggio di provincia che trova spazio nel centro di una capitale europea. La comunità ha un asilo nido, un panificio, diversi bar e ristoranti, un maneggio, un teatro e un cinema. Esiste una fabbrica di biciclette molto trendy, esportate fino a New York, una tipografia, una radio, un laboratorio per restaurare macchine antiche. Il momento ideale per una visita è di domenica mattina, quando i bambini giocano in strada come in un luogo senza tempo e gli adulti si affrettano lentamente per lo svolgimento delle proprie attività quotidiane che mettono insieme arte, lavoro e relax. La dicitura «città libera di Christiania» può sembrare un'operazione di marketing molto ben riuscita, ma sta di fatto che questa isola è disciplinata fin dai suoi primi istanti di vita da regole ben distinte da quelle della città, dello Stato danese o dell'Unione Europea. Da qui, si viene sopraffatti dal colore e da un senso di caos ordinato e alla fine, tutte le scritte sui muri, tutti gli strani oggetti che si trovano in giro e che servono alla vita di questo mulino bianco psichedelico sembrano al loro posto. Negli ultimi anni però i problemi di sicurezza hanno cominciato ad avere più peso nell'opinione pubblica. Alcuni politici hanno promesso di chiudere il mercato della droga, ricordando quando nel 2016 uno spacciatore sparò e ferì due poliziotti. La comunità ha messo al bando droghe pesanti come l'eroina. Le decisioni vengono prese in assemblee che si dilatano in maratone di cinque ore, dato che tutti hanno diritto di parola. Dopo la sparatoria di tre anni fa, il mercato della droga era stato smantellato, ma la pausa è stata temporanea e il gioco quotidiano del gatto col topo è ripreso. «È quello che succede quando giochi a nascondino per quasi cinquant'anni, diventi molto bravo - dice Lasse Knudsen, addetto alla videosorveglianza delle pattuglie di polizia -. Le forze dell'ordine non organizzano più incursioni aggressive, perché non vogliono scioccare i turisti che vengono a guardare e a comprare. La verità è che non possono farci niente». Lo stress della vigilanza costante impone un prezzo. Alcuni dormono con una mazza da baseball accanto alla porta, cambiano regolarmente numero di telefono oppure non lo usano proprio. Anche se la popolazione di Christiania è invecchiata, c'è stato un ricambio. Sono arrivate nuove coppie con figli, attratte più dalla natura lussureggiante che dagli ideali politici. Ormai l'ambientazione bohémien sembra un po' alle spalle. Nei café di Christiania si beve cappuccino, non tè con funghetti allucinogeni. C'è sempre Pusher Street con i suoi banchi di hashish ed erba in pieno giorno, i cartelli che vietano di correre e scattare fotografie, anche se alla fine con una mancia generosa si riesce a fotografare un po' di tutto. Pochi i metri quadrati dov'è sconsigliato venire la sera. Ma nel resto del parco, con bellissime passeggiate lungo i canali, tra uccelli selvatici e boschi incontaminati, si sono trasferiti soprattutto i radical chic danesi, registi, scrittori, liberi professionisti. La loro massima ambizione? Avere più parcheggi. Non ce ne sono a sufficienza nei dintorni. «Siamo soprattutto danesi - racconta il filmmaker Lucas Nilsen - Ma ci sono almeno 200 persone che vengono dalla Germania. Gli immigrati? Non sono particolarmente graditi. Non hanno voglia di integrarsi, creano disordini e portano droghe pesanti. Copenaghen è una grande città, facciamo volentieri a meno di loro». Dichiarazione che spegne gli ultimi sussulti del tanto decantato paradiso terrestre.

·         Le atrocità del Comunismo: La giornata della memoria è un dovere.

Meloni: «Il comunismo ha provocato milioni di morti. La giornata della memoria è un dovere», scrive venerdì 8 febbraio 2019 di Federica Argento su Secolo d'Italia. Una battaglia che viene da lontano. «Fratelli d’Italia ha sempre condannato tutti i totalitarismi e ora è tempo che le milioni di vittime siano ricordate ufficialmente. La destra italiana ha più volte acceso i riflettori sui crimini dei regimi comunisti ma nonostante questo c’è ancora molto da fare. Per questo aderire alla battaglia proposta dal quotidiano la Verità per istituire una giornata della memoria è un dovere. Lo dobbiamo ai molti italiani uccisi a guerra finita; lo dobbiamo alle vittime di Katyn, alle quasi 5 milioni di vittime dell’Holodomor in Ucraina, lo dobbiamo a chi, oggi, subisce la dittatura comunista in Korea del Nord o quella di Maduro in Venezuela».

Meloni: «Una battaglia che viene da lontano». Sono parole forti e chiare quelle rilasciate da Giorgia Meloni in un’intervista al quotidiano ”la Verità”, che si è fatta portatrice di una battaglia alla quale la leader di FdI assicura «il totale sostengo dei gruppi parlamentari di Fratelli d’Italia e la disponibilità a presentare una proposta di legge in Parlamento». Una battaglia che viene da lontano per la destra italiana. «Come Alleanza Nazionale presentammo un’analoga proposta di legge a firma Gustavo Selva», ricorda il precedente Giorgia Meloni. «I tempi non erano maturi – aggiunge – speriamo che lo siano oggi. È ora che giustizia sia fatta».

Giorgia Meloni sfida Lega e Forza Italia. «Se si può trovare sostegno anche tra gli altri partiti, almeno Lega e Forza Italia? Da qualche tempo -ha proseguito- nulla è diventato scontato. In questi giorni il governo di cui fa parte la Lega si è schierato di fatto con Maduro; o nella precedente legislatura Forza Italia si è ritrovata al governo con gli ‘ex’ comunisti. I tempi? Noi non siamo come gli improvvisati del Movimento 5 Stelle. Dal momento in cui La Verità ci porterà le firme, siamo in grado di depositare il disegno di legge in pochi giorni. La discussione del ddl dipenderà dalle forze di maggioranza».

Un olocausto comunista nascosto dall’Occidente: la morte per fame, scrive giovedì 1 novembre 2018 Antonio Pannullo su Secolo d'Italia. Finalmente il cinema, l’arte e il racconto della storia si danno appuntamento a Roma il 22 e 23 di novembre per un evento culturale dedicato alla memoria dell’Holodomor , la morte per fame, nell’85esimo anniversario dell’eccidio, evento organizzato dall’ambasciata ucraina che invita l’Italia a unirsi a tutti gli Stati, ultimi in ordine di tempo Stati Uniti e il Portogallo, per riconoscere il genocidio ucraino. L’Italia non ha ancora riconosciuto il genocidio “nonostante il Paese abbia avuto a suo tempo, in questa triste vicenda, un ruolo piuttosto importante: è proprio il console italiano a Kharkov, Sergio Gradenigo, a raccontare tra i primi all’Occidente la tragedia attuata dal comunismo in Ucraina. Questa testimonianza è riportata nel volume Lettere da Kharkov. La carestia in Ucraina nei rapporti diplomatici italiani 1923-33, pubblicato dal professor Graziosi”, si ricorda in un comunicato. ”Holodomor 1932-1933. L’eccidio degli ucraini per fame. La storia dimenticata del Novecento”, è invece il titolo della rassegna che si apre il 22, alle 20.30, con la proiezione al Cinema Farnese del film Raccolto amaro di George Mendeluk, una proiezione in anteprima nazionale. Il giorno successivo, dalle 10.30 alle 14.30, al Salone Vanvitelliano della Biblioteca angelica si terrà il convegno ”Holodomor 1932-1933, la storia raccontata” a cui interverranno l’Ambasciatore d’Ucraina in Italia Yevhen Perelygin, Fiammetta Terlizzi, Direttrice della Biblioteca Angelica, Ettore Cinnella, scrittore e storico, autore del volume ”1932-1933 Ucraina. Il genocidio dimenticato”, Federigo Argentieri, della John Cabot University di Roma, Giovanni Sasso, della Società Filosofica Italiana, Giuseppina Palazzo, della Società Filosofica Italiana, Maurizio Caprara, giornalista, Corriere della Sera. L’incontro sarà coordinato da Simonetta Guidotti, giornalista TG2 Rai.

L’ennesimo olocausto dimenticato. Migliaia di persone ogni anno partecipano a Kiev alla cerimonia per ricordare i milioni di vittime del Holodomor, che significa “infliggere la morte per fame”, la gravissima carestia causata dalla collettivizzazione agricola forzata voluta da Stalin. La vicenda di questo olocausto è conosciuta come il genocidio ucraino da parte del regime comunista di Stalin. Candele accese, fiori e spighe di grano sono lasciati alla base del monumento alle vittime dell’Holodomor. Tante le bandiere gialle e blu dell’Ucraina tra i manifestanti, e non mancano mai reparti paramilitari di nazionalisti cosacchi. La ricorrenza cade in un momento molto delicato per l’Ucraina che, dopo lo stop all’accordo di associazione con la Ue, potrebbe tornare sotto l’orbita russa. Secondo alcune stime, lo Holodomor uccise tra i 7 e i 10 milioni di persone tra il 1932 e il 1933, di cui circa la metà bambini, e ci furono anche casi di cannibalismo. Una parte della popolazione, soprattutto quella russofona, considera l’Holodomor una tragica colpa del regime comunista (che provocò numerosi morti anche in regioni agricole della Russia). Per altri si trattò viceversa di un genocidio deliberato, diretto specificatamente contro il popolo ucraino. È una delle pagine più crudeli tra quelle che il Novecento ha prodotto ma, incredibilmente, è una storia dimenticata. Eppure, l’Holodomor ha mietuto, secondo diverse stime fino a dieci milioni di vittime innocenti fra la popolazione ucraina negli anni 1932 e 1933 ed è un dramma dalle proporzioni spaventose. Lo sterminio per fame.

Il fascismo, la libertà d’opinione e quel comunismo latente…, scrive mercoledì 27 settembre 2017 Giuseppe Basini su Secolo d'Italia. “Io non approvo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. L’abbiamo sentito e letto tutti un numero incalcolabile di volte, ma cosa crediamo che voglia veramente dire? Forse che siamo disposti a tollerare chi in fondo la pensa quasi come noi, oppure chi invece ha la forza sufficiente a difendersi, oppure ancora è solo una formula rituale da ripetere liturgicamente, ma di cui non si comprende né contenuto né senso ? Questa riflessione sorge spontanea (o dovrebbe sorgere) di fronte a proposte di legge come quella di Fiano sulla sanzione penale della “propaganda fascista”. Si badi bene non l’apologia di un crimine o l’istigazione alla violenza, ma la semplice “propaganda” come la vendita o l’esposizione di un busto di Mussolini, di un distintivo o di un portachiavi col fascio, nuovo o storico. “Uccidete, uccidete, soldati dell’armata rossa, non esiste Tedesco, nato o ancora da nascere che sia innocente”. Questa frase tratta da un noto scrittore sovietico di cui voglio scordare il nome é accettabile o no ? Io credo proprio di no, però non perché propagandasse il comunismo, ma perché incitava ad uccidere ed anche i bambini. Io non mi sogno affatto di vietare di credere nel comunismo, di mettere in prigione chi saluta col pugno chiuso o chi vende il lambrusco “Rosso Stalin”, ma di sanzionare semmai chi scrive sui muri “uccidere I fascisti non é reato”, indipendentemente dall’ideologia per cui lo scrive. Chi si dichiara fascista, saluta col saluto romano o va in pellegrinaggio a Predappio, se vuole ricordare le politiche sociali del regime, la sua urbanistica, l’indipendenza nazionale, l’Enciclopedia Italiana e magari qualcuno perfino il corporativismo, deve essere perfettamente e completamente nel suo buon diritto, che se invece inneggia ai campi di sterminio e all’assassinio politico va certo sanzionato, ma non perché é fascista, perché é criminale. Molti processi della Santa Inquisizione, furono criminali non perché cattolici, ma solo perché banditeschi. Si dice, a sinistra, che il fascismo va trattato diversamente, perché vietato dalla costituzione e perchè fu molto peggiore. Non é così. Anzitutto se un articolo di un testo legislativo –e massimamente di una costituzione- é contraddittorio con tutto il corpo degli altri articoli, a cominciare dai principi primi (e il divieto di un partito indubbiamente lo é), pone immediatamente il problema della sua incongruità che ne impone la cancellazione, anche se viene definito finale e transitorio. Ma poi, una volta definito finale perché conclusivo e transitorio perché momentaneo e legato al difficile momento della transizione, come si può pretendere di considerarlo ancora vigente a settant’anni dalla proclamazione della carta costituzionale? La sua decadenza é ormai un fatto compiuto e conclamato, ci si decida finalmente a proclamarla o no. Il discorso poi della maggiore tirannia esercitata dal fascismo , che ne farebbe quasi un unicum della storia, é manifestamente un assurdo. Il Fascismo non poteva strutturalmente risultare peggiore del comunismo nell’esercitare la dittatura, perchè aveva obbiettivi molto più limitati, non voleva distruggere la proprietà privata e le libertà individuali ad essa connesse ed aveva quindi una necessità di violenza organizzata in totalitarismo molto minore, tanto da essere definito da alcuni storici e politologi (ad onta di quello che lui stesso dichiarava) regime autoritario piuttosto che totalitario. Il fascismo, non avendo le ambizioni di palingenesi totale del comunismo, non aveva bisogno di stroncare, oltre ai partiti avversari, anche le resistenze delle decine di milioni di persone private della disponibilità della loro vita privata e delle loro cose, ma unicamente quelle delle centinaia di migliaia che si vedevano espropriate del loro diritto all’organizzazione sindacale, alla libera stampa, alla politica organizzata insomma. Cose assolutamente terribili, ma che non avevano il “bisogno” di un grado di violenza organizzata pari al comunismo Leninista o Staliniano, il fascismo non necessitava di essere programmaticamente repressivo come il comunismo e infatti non lo fu. E oggi pare francamente inaccettabile che gli eredi di almeno parte della tradizione comunista, propongano leggi liberticide contro i simboli e la memoria di un fascismo storico, che nessuno vuol riproporre nei suoi aspetti peggiori, allo stesso modo che nessuno rivendicava più gli aspetti peggiori del comunismo, almeno fino a quando non ci hanno fatto venire dubbi su di un comunismo di ritorno. Dato il tipo di argomentazioni utilizzate a supporto della tesi proibizionista, non si poteva non entrare almeno parzialmente nel merito , ma il punto, lo ribadiamo , non é lì . Il punto é che nessuna idea o simbologia, politica, religiosa o di qualunque natura, può essere vietata di per sè, mentre nessuna apologia del crimine può essere ammessa, indipendentemente dall’ideologia sottostante. Se si esce da questa logica, limpida, lineare, che permette la diffusione di qualunque idea, qualunque satira, qualunque analisi storica (da Charlie Hebdo a Gianpaolo Pansa), libertà e democrazia vengono poste a rischio. Se si comincia ad ammettere eccezioni, vi sarà sempre chi proverà ad estendere l’eccezione fino a farne una regola e una prassi generalmente liberticida e chiunque, di qualunque idea, potrebbe in un futuro diventarne una vittima. Non solo, ma, sul piano storico, troppe volte si é visto che la protrazione nel tempo della memoria dei crimini passati é servita per dare una copertura giustificativa di crimini presenti. Alla fine, alla base di ogni legge limitativa della libertà di opinione ed espressione, vi é sempre l’intolleranza di ogni opinione diversa dalla nostra, diversa da quello che ci piace sentirci dire e che consideriamo politically correct, che però varia da paese a paese, da epoca ad epoca, mentre la tolleranza é un valore universale da difendere sempre. Io non credo che il saluto romano possa essere considerato, dopo settant’anni, un vulnus alla democrazia, credo invece che una legge che lo sanzioni con la galera veramente lo sia. E’ facile, in tutte le epoche, seguire il conformismo, più difficile seguire i principi, credo che quelli che la pensano come me avrebbero rischiato di finire al confino, durante il ventennio, molto di più di certi antifascisti di oggi, che magari invece avrebbero virtuosamente applaudito ai tribunali speciali. Molti polemisti hanno fatto rimarcare il ridicolo di certi divieti ormai completamente antistorici, che si diffondono nuovamente e non solo da noi, basti pensare alle contestazioni in America alle statue del generale Lee o addirittura a Cristoforo Colombo (forse ci toccherà vedere come reato la difesa di Erode dall’accusa per la strage degli innocenti) e questo atteggiamento é comprensibile, data l’apparente vacuità di fronte ai reali problemi di oggi come l?ISIS e il terrorismo internazionale, ma é sbagliato, perché sono invece cose gravi, che minano alla radice le ragioni della convivenza, che deve rispettare tutti coloro che non delinquano veramente con le loro azioni. “Io non approvo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo” . Non chiedo di farlo fino alla morte (“beati quei popoli che non hanno bisogno di eroi” , diceva uno di sinistra) ma almeno con un pò di schiena diritta certamente sì ed anche a sinistra, perché non serve a niente, neanche alla cosmesi, il Renzismo senza una reale adesione ai principi di libertà . Per tutti.

Il comunismo ha fatto milioni di morti. Perché non c’è il reato di apologia? Scrive Giovanni Trotta lunedì 10 luglio 2017 su "Il Secolo D'Italia". Perché non introdurre in legge Fiano anche apologia comunismo? Storia va letta a 360gradi, non in unica direzione”. Lo scrive su Twitter Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. Insomma, Brunetta ha centrato il vero problema della legge che la maggioranza sta furiosamente cercando di approvare. Sulla vicenda interviene anche Fratelli d’Italia: “È strabiliante notare come proprio alla vigilia della pubblicazione del libro di Renzi L’Italia va avanti, il Pd alzi la canizza su una pericolosissima minaccia che si aggira per l’Europa. No, non è il terrorismo islamico, non è l’immigrazione. È il fascismo”. È quanto ha dichiarato il capogruppo di Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale, Fabio Rampelli, a proposito della legge a prima firma Fiano che inserisce nel codice il reato di propaganda fascista. “Questo è il modo del Pd di guardare avanti per il futuro dell’Italia, introdurre nel nostro ordinamento i reati d’opinione, anzi, un unico reato d’opinione perché si potrà impunemente inneggiare a Stalin e a Osama Bin Laden. La verità è che taluni personaggi del Pd restano profondamente illiberali, faziosi e comunisti dentro”, ha aggiunto il parlamentare di Fdi. “Invece di pensare ai drammi del Paese, vogliono introdurre una norma anacronistica, inutile e senza senso, vogliono cancellare la storia, una cose folle, da matti”, dice da parte sua Alessandra Mussolini, parlando della legge Fiano, sul reato di apologia del fascismo, oggi in discussione alla Camera. Per l’eurodeputata di Forza Italia “Fiano, che è uomo di Renzi, dimostra la pochezza culturale e politica di questa classe dirigente”. “Ma che senso ha una legge così – si domanda la Mussolini -. Io sarei allora un reato vivente” e arriveremo al punto che “un pelato con mascella volitiva si dovrà autodenunciare”. “Io – ricorda Mussolini – a casa ho di tutto, busti e fasci, perché fanno parte della mia storia, di quella della mia famiglia, che faccio mi autodenuncio?”. “Quando ho saputo che volevano fare questa cosa – conclude l’europarlamentare azzurra – non ci volevo credere”. “Mentre siamo invasi dagli extracomunitari e chiudono gli esercizi commerciali si preoccupano di una cosa senza senso per attirare un elettorato che neanche c’è più”. Il fatto che i posacenere con l’effigie del Duce o il vino nero siano la priorità del governo italiano, la dice lunga sulla qualità dell’esecutivo stesso: oltre ai problemi citati da Rampelli, il terrorismo islamico e l’invasione di clandestini, c’è la disoccupazione, la pressione fiscale, il deficit dello Stato, le carenze dell’Unione europea, l’economia disastrata, la giustizia, la burocrazia e potremmo non fermarci mai: questi sono i problemi che un governo serio dovrebbe affrontare, altro che le spiagge “fasciste” e i gadget di Mussolini. E poi la critica di Brunetta è centrale: dati alla mano, il comunismo ha certo fatto molte più vittime del fascismo e del nazismo, perché non è fuorilegge, perché non c’è una legge Scelba anche per i comunisti? È uno dei tanti misteri italiani, ma la cosa certa è che se in Italia c’è una rivalutazione del fascismo, non è tanto per il fascismo stesso, quanto per l’inettitudine dei governi post e antifascisti che si sono succeduti, che non hanno mai saputo dare – e mai come ora – una risposta ai problemi degli italiani. Tra pochi anni le nostre figlie dovranno portare il velo, ma almeno non vedremo più i portachiavi con la faccia di Mussolini…

Perché in Italia non è vietata l’apologia del comunismo? Scrive Adriano Scianca l'11 luglio 2017 su "Primato Nazionale". In questi giorni in cui si ricomincia a parlare di leggi contro i simboli del fascismo, più d’uno si è chiesto perché analoga sorte non tocchi anche ai simboli del comunismo. Intendiamoci: non è certamente la chiamata in correità la strada migliore per uscire da questa spirale liberticida. Per noi del Primato Nazionale, ognuno può essere libero di avere il busto di Stalin sulla scrivania, indossare la maglietta di Pol Pot o fondare il partito maoista. Fa semmai un po’ più di rabbia la costante apologia dei crimini legati alle foibe in contesti pubblici e con fondi pubblici, ma anche in questo caso è assai discutibile che sia con leggi ad hoc che si possa porre termine a tale scempio. Chiarito questo punto, resta tuttavia la domanda puramente accademica sulle giustificazioni addotte per vietare i simboli di un regime che fu singolarmente molle con gli avversari politici, dato il contesto dell’epoca, e non invece quelli della più mortifera ideologia della storia. Quando ponete tale quesito, la risposta è, inevitabilmente, che in Italia abbiamo avuto il fascismo al potere, non il comunismo. E che quest’ultimo, da noi, è stato un movimento democratico e costituente, laddove il fascismo è stato antidemocratico e anticostituzionale. Altrove il comunismo avrà pure portato dittatura e terrore, ma non in Italia. Un approccio singolarmente storicistico: fascismo e comunismo non sarebbero quindi giudicati per ciò che intrinsecamente sono e rappresentano, ma per le contingenze storiche relative al percorso politico dell’Italia. Ma c’è un ragionamento ulteriore che si può fare e che riguarda esattamente tali contingenze. Il comunismo, dunque, da noi non è vietato perché in Italia non abbiamo avuto una dittatura comunista. Ma perché non l’abbiamo avuta? Proprio perché c’è stato il fascismo. Quando nasce il fascismo, l’Italia è in pieno biennio rosso. Un periodo che lo storico Emilio Gentile, non certo tenero con i fascismi, ha descritto mettendo in evidenza “un’ondata di conflitti di classe senza precedenti nella storia del paese, condotti in gran parte dal partito socialista massimalista all’insegna di una imminente rivoluzione per instaurare anche in Italia, con la violenza, la dittatura del proletariato, come annunciava il nuovo statuto che il Partito socialista aveva adottato nel 1919”. In quell’anno, quando i fascisti erano quattro gatti, i socialisti avevano quasi tremila comuni amministrati, più di 150 deputati, leghe e cooperative che mafioseggiavano a tutto spiano, giornali a grandissima tiratura che inneggiavano perennemente alla violenza di classe. Il tutto con l’obiettivo dichiarato e del tutto palese, quindi storicamente incontestabile, di “fare come in Russia”. Se l’Italia non ha conosciuto i gulag, le fucilazioni di massa, il manicomio per i dissidenti, la miseria e la carestia non è stato per la maggiore bontà dei comunisti nostrani rispetto a quelli di altre nazioni, ma solo perché i fascisti hanno politicamente e militarmente impedito questo scempio. Se oggi il comunismo, da noi, appare come una simpatica ideologia di taglio umanitario è solo perché la sua rivoluzione l’ha persa. Un pezzo di storia che l’onorevole Fiano deve aver saltato, a scuola.

Allora vogliamo “l’apologia di comunismo”. Combattere le idee totalitarie con i reati d'opinione è un controsenso. Ma se vogliamo stare al gioco del Pd, perché in queste proposte non viene mai menzionato il regime più sanguinario del '900? Perché certe dittature sono sempre, inesorabilmente, meno dittature di altre? Scrive Lorenzo Castellani su "L’Intraprendente". Domenica, 11 luglio 2017. Lo dichiaro subito: non ritengo la legge un mezzo adatto per prevenire le derive autoritarie. Esistono altri mezzi, istituzionali e culturali, per prevenire gli estremismi. I reati d’opinione non dovrebbero esistere. Tuttavia, merita un commento la legge proposta dall’onorevole Fiano del Pd che mira ad introdurre un reato contro la propaganda fascista e nazifascista a seguito di alcune scritte e gesti inneggianti al fascismo in una spiaggia. La proposta dice molto sulla cultura del Paese per cui il rischio di “deriva autoritaria”, sia per Berlusconi o per Grillo, è sempre dietro l’angolo. Sempre, tranne quando al governo c’è il Partito Democratico. Il pericolo è ovviamente sempre “fascista” e “nazista”, mentre mai viene menzionato il regime autoritario più sanguinario di ogni altro: il comunismo, nella variante sovietica o cinese che si preferisca. Molti oppongono che ciò accada perché l’Italia è stata la culla del fascismo e, di conseguenza, il riflesso antifascista è più forte. Inoltre, il Pci è stato tra i partiti fondatori della nuova Costituzione repubblicana. Questo ragionamento seppur vero, tuttavia, non pare giustificato nel presente: il Pci è oramai storia da venticinque anni, il Muro è crollato, il fascismo è stato sconfitto nel 1945. La divaricazione e la disparità di trattamento tra regimi totalitari non sembra aver più senso. Veniamo all’oggi. Non sono forse egualmente pericolosi i simpatizzanti fascisti e i centri sociali d’ispirazione marxista pronti a devastare le nostre città ad ogni occasione buona? O che distribuiscono Lotta Comunista fuori le scuole ed università? Quale sarebbe il “diverso pericolo” tra i vessilli fascisti e quelli stalinisti-cheguevariani? Perché in una legge per prevenire gli estremismi la propaganda deve essere sempre e solo fascista e, addirittura, nazista ma mai comunista? A questa domanda chi pone la necessità di una ulteriore legge contro l’apologia fascista non risponde. Perché non può rispondere in quanto l’intera storia della prima Repubblica è stata una giustificazione continua del diritto all’esistenza un partito che, certo accettava le regole democratiche, ma serviva un interesse straniero. Lo serviva mentre le sue idee colonizzavano scuole, università, teatri, cooperative, istituzioni e via dicendo. In Italia, per fortuna, il comunismo come regime non c’è stato o meglio è esistito sotto altre spoglie e digerendo la democrazia. E, non a caso, il blocco occidentale si era premunito se fosse arrivato il momento in cui la conventio ad excludendum del Pci dal potere non resistesse, attraverso una rete militare sotterranea pronta ad intervenire. Questa istituzionalizzazione forzata del Pci, relegato all’opposizione, è stata pagata amaramente a livello culturale. Un prezzo, quello del Comunismo come ideologia e regime diverso (e migliore) dalle altre ideologie e regimi totalitari, che ancora oggi si continua a scontare seppur in riflessi quasi ridicoli come quelli della proposta in discussione. Questo regime di “specialità” del comunismo non è ancora stato superato dai parlamentari della Repubblica della sinistra italiana, sempre pronti ad agitare lo spettro del fascismo e a riempire i codici di reati d’opinione. Così creando un doppio danno: reati simili e di fatto quasi mai perseguibili e diseducazione rispetto alle esperienze storiche dei totalitarismi. Perché per i vari Fiano del momento “tutte le dittature sono uguali, ma alcune sono più uguali delle altre.”

·         La dittatura della Massa.

Pazza folla e folla eroica. Pubblicato lunedì, 01 aprile 2019 da Corriere.it. Hyppolite Taine, nelle Origini della Francia contemporanea (1875-1893) pubblicato in Italia da Adelphi, fece osservazioni molto acute sui comportamenti collettivi. Tant’è che — in La ragione populista (Laterza) — Ernesto Laclau ha sostenuto che Taine sia stato il primo ad afferrare alcuni caratteri fondamentali della «folla». Mettiamolo subito in chiaro: di individui che ad un tratto si radunano per dare sfogo al proprio risentimento o per imporre una svolta politica è piena la storia dell’umanità. Ma il fenomeno della folla che si adira e parla con una voce sola — osservava Taine — ha assunto caratteri peculiari tra Sei e Settecento, nella lunga stagione delle rivoluzioni. Per poi riproporsi, a fine Ottocento (a seguito della Comune di Parigi), con tratti definitivi.

Esce in libreria giovedì 11 aprile il saggio di Michela Nacci, «Il volto della folla» (il Mulino, pagine 237, euro 22)È in quel preciso momento storico, fine Ottocento appunto, che entra in scena la «folla» vera e propria, antenata, ma parente stretta del «popolo» che ispira i populisti di oggi. E Michela Nacci ha messo a fuoco questo particolare frangente in un libro di grandissimo interesse, Il volto della folla. Soggetti collettivi, democrazia, individuo, che il Mulino darà alle stampe nei prossimi giorni. Quali le caratteristiche della folla tardo ottocentesca studiata da Michela Nacci? «Non ragiona, non discute, non ascolta le opinioni diverse dalla sua, manifesta gli istinti da cui è mossa, si fa trasportare dagli affetti e dalle passioni che non prova neppure a controllare, ama o odia senza vie di mezzo, nutre una sorta di venerazione nei confronti del leader, cerca il capro espiatorio, forma un insieme compatto che ha bisogno di confermare continuamente la propria compattezza, emargina ed espelle chi dissente, definisce un nemico esterno e basa sulla lotta a quel nemico la sua unità, sa di essere incompetente ma vuole che la sua opinione conti, critica la politica, i politici e gli esperti, vuole eliminare ogni mediazione ed esprimersi direttamente, rivendica l’egualitarismo come valore». È per molti versi simile — si diceva — al popolo degli attuali populisti, è quel soggetto di cui si dice comunemente che «vota con la pancia». È un «individuo gigantesco» composto da innumerevoli piccoli individui. Per definirla nacque la psicologia collettiva e chi l’ha studiata percepisce che la folla non è un’entità sociale qualunque: «È un soggetto eccentrico, pericoloso, anomalo; le coppie normale/anormale, sano/malato, e consueto/eccezionale decidono del giudizio sulla folla e i suoi comportamenti». Tre operazioni vengono praticate su di essa in modo sistematico: «La patologizzazione (la folla come ammalata, lo studioso come medico), la naturalizzazione (la folla come determinata dalla natura e dalla sua propria natura) e l’eccezionalizzazione (la folla come formazione non abituale, ma eccezionale appunto, all’interno della società, portatrice di un comportamento che non appartiene alla norma ma ne fuoriesce e la contraddice)». Il primo a «scoprirla» è, nel 1895 (l’anno di nascita del cinema), Gustave Le Bon con il libro Psicologia delle folle, pubblicato in Italia dalle edizioni Tea. Ma la troviamo contemporaneamente (poco prima o poco dopo) nei romanzi, racconti e poesie dell’Émile Zola di Germinale (Feltrinelli), dell’Edmondo De Amicis di Primo Maggio (Garzanti), di Arthur Rimbaud, Charles Baudelaire, Edgar Allan Poe, del Fëdor Dostoevskij de Il sosia (Garzanti), di Guy De Maupassant, di Joris-Karl Huysmans (come «moltitudine religiosa» in Le folle di Lourdes pubblicato da Medusa). Nelle pagine di questi autori «la folla non parla; inveisce, acclama, urla». Non dà il suo consenso, «applaude freneticamente». Non appoggia una tesi: «Adora chi la propone». E se non applaude e non adora, «allora odia». Non prende in esame alcunché per distinguere: «Accetta o respinge in blocco». La folla «è unanime e si esprime con una voce sola». La folla «reagisce al capo, alle sue parole, al tono e all’enfasi piuttosto che al contenuto» e «non sceglie mai la via più moderata». Né il capo, né la folla ragionano: «Provano emozioni, giocano con le emozioni, le sollevano, usano le parole per infiammare gli animi ed eccitarli». Questo gioco poi è sempre al rialzo: «Non punta a trovare una via di mezzo nello sciopero e nella lotta contro il padrone, ma va dietro al capo più esagitato e più crudele». È «una gara nella quale vincono immancabilmente il proposito più efferato, la proposta più farneticante, la soluzione più sanguinaria». Per esempio, a quei tempi, l’obiettivo dello sciopero passa dalla difesa del salario alla decisione di giustiziare i dirigenti, fino all’idea di distruggere le chiese. L’unico rimedio in questa stagione di imbarbarimento consiste nella capacità di isolarsi. «Quante volte», scrive Maupassant in Sull’acqua (Salani), «ho constatato che l’intelligenza cresce e si innalza quando si è da soli, e che diminuisce e si abbassa quando ci si mischia con gli altri… I contatti, le idee diffuse, tutto quello che si dice, tutto quello che si è costretti ad ascoltare, capire e rispondere, agiscono sul pensiero». E il pensiero, nella folla, si immiserisce. Un «flusso e riflusso di idee va di testa in testa, di casa in casa, di strada in strada, di popolo in popolo», prosegue Maupassant, «e per ogni agglomerazione di tanti individui si stabilisce un livello medio di intelligenza». Sempre più basso. L’individuo, scrive Michela Nacci, «non si definisce più per la differenza che manifesta rispetto agli altri e per la sua specifica originalità; differenza e originalità scompaiono entrambe nel mondo della folla». La folla «rende l’individuo simile agli altri, uguale agli altri, non riconoscibile dagli altri». La folla non permette più all’individuo di considerarsi unico, particolare, inconfondibile, «tutti aggettivi che lo hanno definito e che continuiamo ad attribuire (o che ci piacerebbe continuare ad attribuire) a ciascuno di noi». La folla, scrive Michela Nacci, viene costruita come soggetto anomalo perché diverso dal soggetto individuale. È il tema su cui si è soffermato Scipio Sighele in La folla delinquente (edito da La vita felice): «La folla», secondo Sighele, «è folle dal momento che non possiede la ragione, propria unicamente del singolo; chi studia la folla deve, di conseguenza, indossare i panni del medico». Per questi autori la folla, nota Michela Nacci, ha fede in credenze false e contrarie a ogni evidenza. Tra «dubbiosi maniaci, ossessivi, impulsivi e tra i criminali, si riscontrano i tratti del carattere isterico». E la folla «possiede molte delle caratteristiche che i criminologi attribuiscono al criminale». Ma da dove vengono queste caratteristiche? Sono «razza e nazione» che le «determinano»: abbiamo folle latine, centralizzatrici e desiderose di Stato, folle anglosassoni che si rivolgono all’iniziativa privata, folle francesi che vogliono prima di tutto l’eguaglianza e folle inglesi che tengono soprattutto alla libertà. Sia Sighele, che Gabriel Tarde (autore di L’opinione e la folla, pubblicato da La Città del Sole) e anche Le Bon sono caratterizzati, poi, da un evidente pregiudizio nei confronti della donna. «Fra i caratteri speciali delle folle», scrive Le Bon, «ce ne sono parecchi come l’impulsività, l’irritabilità, l’incapacità di ragionare, l’assenza di giudizio e di spirito critico, l’esagerazione dei sentimenti che appartengono a forme inferiori di sviluppo: la donna, il selvaggio, il bambino». Da che cosa dipende tutto ciò? Dall’industrializzazione, secondo il «paradigma degerazionista». Una civiltà caratterizzata da industrialismo, urbanizzazione, esplosione demografica non sarebbe una civiltà in buona salute. Il «paradigma degenerazionista», afferma Michela Nacci, «viene utilizzato per spiegare svariati fenomeni sociali, fra i quali il comportamento collettivo». Il movimento stesso della folla sarebbe «un esempio di degenerazione» e l’uomo della folla è paragonato al malato, al delinquente, al folle, all’ipnotizzato. Lo sfondo di questa storia «è formato dai fenomeni di urbanizzazione, omologazione, presenza delle masse, dall’avanzare della democrazia sociale e della democrazia politica, dalla tendenza dell’istruzione a divenire universale, così come del voto, della produzione in serie, dal diventare ripetibile all’infinito e meccanizzata di una serie di arti e di strumenti (fotografia, cinema, mezzi di trasporto)». La psicologia collettiva è «sia un modo di manifestare la propria inquietudine di fronte a tutto questo, sia un tentativo di minare le ragioni della democrazia intesa in entrambi i sensi». Della democrazia sociale che «imbruttisce il mondo con i prodotti industriali, il cattivo gusto, la moda che uniforma» e della democrazia politica «la cui sovranità poggia su un popolo che, quando si riunisce, è dominato dall’irrazionale, dalla mimesi, dalla violenza». La democrazia «non può essere accettata» per due motivi: perché è il sistema della mediocrità e non dell’eccellenza (élite o nobiltà) e perché è il sistema delle emozioni collettive, tant’è che nelle democrazie trionfano i demagoghi». Il rapporto tra il demagogo e le emozioni è «stretto»: il comportamento della folla trasforma automaticamente la politica in un’attività da demagoghi. E il demagogo per antonomasia lo troveranno nei vari tipi di leader autoritari del Novecento. Scriverà José Ortega y Gasset nel 1930 in La ribellione delle masse (il Mulino): «Adesso di colpo molti uomini ritornano ad avere nostalgia del gregge; si abbandonano con passione a ciò che in essi c’era ancora della natura delle pecore; vogliono marciare nella vita uniti, in un cammino collettivo, lana contro lana e il capo chino; per questo in molti paesi d’Europa si vanno cercando un pastore e un mastino». Questo, appunto, in Europa. L’America è più attenta all’evoluzione dalla «folla» all’«opinione pubblica» che, scrive Nacci, «è sparsa nello spazio, è immateriale», non si forma con il contatto dei corpi, anche se «la sua forza, il suo compattarsi su un giudizio esercita un ruolo immenso (e non sempre positivo) nella vita della nazione». È dall’opinione pubblica che può venire il «pericolo vero». Ma, ad un tempo, è solo «da un’opinione pubblica più informata che può venire la salvezza della democrazia». Non, come pensano gli europei, da un ritorno all’individuo. All’inizio del Novecento infine la psicologia collettiva, in un breve volgere di tempo, si dissolve nel nulla. Effetto dell’ingresso sulla scena culturale della sociologia scientifica di Émile Durkheim (il cui libro più noto, Le regole del metodo sociologico. Sociologia e filosofia, edito da Einaudi, fu pubblicato in quello stesso 1895 del saggio di Le Bon). E della psicoanalisi di Sigmund Freud, il cui Psicologia delle masse e analisi dell’io (Bollati Boringhieri) apparve nel 1921. Scompare la psicologia collettiva, ma non la folla. La folla è, secondo Freud, «sempre intellettualmente inferiore all’uomo isolato ma, dal punto di vista dei sentimenti e degli atti che questi sentimenti provocano, essa può, secondo le circostanze, essere migliore o peggiore; tutto dipende dal modo in cui la folla è suggestionata». E fin qui … Ma poi il padre della psicoanalisi tiene ad essere più preciso su «ciò che non hanno capito gli scrittori che hanno studiato le folle solo dal punto di vista criminale»: la folla «spesso è criminale, senza dubbio, ma altrettanto di frequente essa è eroica». Gradualmente la folla descritta da Le Bon (che nel frattempo è diventato un autore amatissimo dalla destra) scompare da questo genere di trattazione. Ma lascia un’impronta notevole negli studi del Novecento e persino degli anni iniziali del terzo millennio. Un’impronta che si intravede nei libri di Michael Hardt e Toni Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione e Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine imperiale (entrambi editi da Rizzoli). E, come si è detto, nei libri che ci dovrebbero aiutare a capire il fenomeno populista.  Uscì nel 1895 il libro di Gustave Le Bon Psicologia delle folle, che lasciò un segno incisivo nella cultura dell’epoca. Le due edizioni italiane più recenti sono quella uscita da Tea nel 2004 (traduzione di Lisa Morpurgo) e quella delle Edizioni Clandestine (traduzione di Andrea Montemagni, 2013). Un altro classico, La ribellione delle masse di José Ortega y Gasset (1930), è stato pubblicato in Italia dal Mulino nel 1962 a cura di Salvatore Battaglia. Psicologia delle masse e analisi dell’io, pubblicato nel 1921 da Sigmund Freud, è uscito in Italia nel 1975 presso l’editore Boringhieri nella traduzione di Emilio A. Panaitescu. Il libro di Ernesto Laclau La ragione populista è uscito da Laterza nel 2008 a cura di Davide Tarizzo.

·         Il comune senso del pudore. La censura del pelo.

Pier Vittorio Tondelli, il contestatore oltre la rivoluzione. Biagio Castaldo il 15 Dicembre 2019 su Il Riformista. Bologna stava per esplodere nel marzo del 1977. Bologna come Praga nella primavera del ’68, invasa dai carri blindati. Gli scontri tra i gruppi di studenti della sinistra extraparlamentare e le forze dell’ordine, che portarono alla morte dello studente Francesco Lorusso, rivelarono un’ansia distruttrice, incoraggiata dal pugno forte dell’allora ministro dell’Interno, Francesco Cossiga. Le istanze studentesche della lotta all’autoritarismo, concomitanti al movimento femminista e a quello di liberazione omosessuale, si risolsero in convegni e manifesti contro la repressione, in cui comparirono Sartre, Foucault, Deleuze, Guattari, e alle quali seguirono bottiglie esplosive e Molotov. In questo scenario post-apocalittico, molti furono i giovani bolognesi, orfani di politica per causa e per elezione, che ripiegarono su fenomeni di dissipazione e di tossicomania. È in questa fauna antropologica che Pier Vittorio Tondelli assunse un ruolo iconico e rivoluzionario. Autore di otto libri in undici anni, tra romanzi, raccolte di racconti, articoli e testi teatrali, Tondelli colse lo spirito di un’epoca e intercettò un nuovo ideale di lettore (e di consumatore per l’industria editoriale): i nati negli anni 50. In Italia, i giovani degli anni 80 furono i veri protagonisti del decennio, i figli del boom economico che, fasciati nei loro Levi’s, si svaccavano nelle piazze o nelle radio libere, trascorrendo il tempo tra le strisce dei fumetti su Linus, la poesia della Beat Generation e «alcuni audaci in tasca L’Unità», cantava Francesco Guccini negli stessi anni. La cifra distintiva di quella cultura giovanile fu la creazione di luoghi di evasione, fisici e metaforici, che facessero da contrappeso a una realtà intrisa di violenza e scoppiata pochi anni prima nei fatti del ’77. È stata una generazione che ha guardato più all’America che all’Italia provinciale. Il Piano Marshall aveva invaso librerie, edicole, negozi di dischi e fumetterie; il cinema hollywoodiano aveva stabilito i canoni estetici e comportamentali del decennio: si era maledetti come James Dean in Gioventù bruciata, si guardava alla virilità di Marlon Brando, mentre Diane Keaton in Io e Annie di Woody Allen aveva definitivamente spodestato Gilda, la femme fatale di Rita Hayworth. Nel 1980 esce Altri libertini e qualcosa si rompe. Tondelli scrive un libro di denuncia sociale con protagonisti gli emarginati, le prostitute, i drogati, i settantasettini, gli omosessuali e tutti gli esclusi dalla grande macchina del consenso. «Un romanzo a episodi», come lo definì l’autore, che spezzò irreversibilmente il corso della letteratura. Nello stesso anno, Eco pubblica Il nome della rosa: l’Accademia e l’anti-accademismo a confronto nelle classifiche dei libri più venduti. Lo scandalo della pubblicazione di Altri libertini si trascinò di riflesso un’ordinanza di sequestro con l’accusa di oscenità e oltraggio alla morale pubblica. A venti giorni dalla sua uscita, un procuratore chiese di interrompere la circolazione del romanzo, definendo il suo contenuto «luridamente blasfemo» per la presenza di bestemmie e turpiloqui. Il processo si risolse ovviamente in formula piena, ma Tondelli era ormai diventato un cult. Luciano Ligabue, correggese e suo vicino di casa, ricorda il momento in cui aveva ricevuto una copia di Altri libertini, sottobanco, da un rivenditore che si comportava come un pusher e di averlo immediatamente nascosto sotto la maglietta. L’esperienza di lettura tondelliana è infatti stata spesso paragonata a un’assuefazione, i sei racconti che compongono Altri libertini a un trip acido che non lasciò indifferente nessuno. Umberto Eco conobbe un Tondelli ventenne a un esame di Semiotica al Dams di Bologna e riferì di aver avuto fin da subito l’impressione di trovarsi di fronte a un giovanotto d’ingegno. All’esame gli diede 29 e quando pochi anni più tardi si rincontrarono, Eco rivendicò il suo gesto. «Se non ti avessi dato 29, probabilmente non lo avresti scritto», disse con una certa compiacenza. Si accaparrò la stima di Fernanda Pivano che lo definì «il più bravo di tutti» e l’allora giovane dirigente del Pci, Massimo D’Alema definì Altri libertini sull’Espresso «un romanzo politico», aggiungendo, «Se non altro perché l’esperienza giovanile che racconta svela una mancanza di politica, o se si preferisce, una crisi della politica». E difatti i grandi stravolgimenti storici non entrano spudoratamente nella narrativa tondelliana, né vengono ridotti a una semplice scenografia. Gli echi della politica si scorgono proprio nella psiche dei protagonisti delle storie, nelle loro malinconiche nevrosi in cui si intravedono le conseguenze delle due tornate di rivolte studentesche: la castrazione dell’autorità politica del ’68 e la conseguente morte del padre simbolico del ‘77. Tondelli è andato oltre la contestazione. Ha preso le distanze da un’istituzione che considerava in crisi, ma il discorso politico non è mai sparito dal suo orizzonte di interesse, ciononostante fu accusato di essere interessato solo al proprio ombelico. I critici contemporanei di Tondelli, nella loro poca lungimiranza, svalutarono questa generazione perché disimpegnata, confondendo l’assenza di una esibita presa di posizione politica con la mancanza di una coscienza sociale. Sono stati ciechi di fronte a un tentativo tutto letterario, quello di Tondelli, di uscire dalla Storia, creando un terreno comune di resistenza mai cinica, nichilista o apatica, condotta solo sulla carta. Dopo le abbuffate ideologiche delle contestazioni studentesche, Tondelli è stato il cantore di una generazione che non si accontentava di consumismo o di successo, di coloro che rifiutarono di essere considerati ospiti di un sistema più grande, di una macchina del potere intessuta di violenza e sopraffazione, e decisero di confidare solo nella propria macchina esistenziale. Si ritagliarono uno spazio nell’utopia e lo fecero attraverso una parlata gergale più conforme al linguaggio globalizzato della televisione che a quello del canone letterario e dell’Accademia. Nell’89 Tondelli scrive il romanzo della maturità, Camere separate, che trent’anni dopo suona come un testamento letterario e profetizza la sua imminente fine. Muore di Aids il 16 dicembre del 1991, a 36 anni. Lo ricorderemo nell’invito a scrivere che rivolge a tutti gli under 25 degli anni 80, affinché il fiore della gioventù e della rivoluzione non appassisca: «Quel fiore è lì adesso, quel fiore siete voi».

Antonio Armano per il “Fatto quotidiano” il 16 dicembre 2019. Si doveva intitolare I cazzi di Isernia al British Museum un saggio dedicato ai culti priapici nel Molise. Qualcuno, dopo avere visto la prova di copertina, ha informato l' ignaro autore, Giancarlo Carabelli, docente all' università di Ferrara. Carabelli non ci ha dormito la notte: la mattina dopo ha mandato un fax di protesta all' editore, Luca Formenton del Saggiatore. Risposta altrettanto seccata, risoluzione del contratto e pubblicazione nel '96 con un titolo più sobrio, Veneri e priapi, presso Argo, piccolo editore barese. Viene in mente questo episodio perché Adelphi sta per pubblicare Puttane assassine , uno dei testi più belli di Roberto Bolaño, uscito nel 2004 con Sellerio e dunque scomparso da un pezzo. È una raccolta di racconti in una nuova traduzione, insieme a un' opera inedita, Sepolcri di cowboy. Anche Puttane assassine come titolo non scherza. Lo scrittore cileno aveva la mano leggera nel descrivere situazioni estreme, persino un rapporto orale tra uno stilista e un cadavere, momento culminante di uno straordinario racconto necrofilo della raccolta, Il ritorno. Allo stesso tempo non aveva paura delle parole e lo dimostrano i titoli. Non solo Puttane assassine, anche Tempesta di merda. Jorge Herralde della casa editrice Anagrama lo ha dissuaso ed è diventato Notturno cileno. Sul titolo l' autore propone e l' editore dispone: ha una potere quasi assoluto. Giusto o sbagliato è così. Famoso il caso di Giuseppe Berto che scopre il titolo Il cielo è rosso (anziché La perduta gente) vedendolo in libreria. Leo Longanesi ha deciso per lui. Un titolo molto discusso è stato Eichmann in Jerusalem. The banality of evil. Giangiacomo Feltrinelli lo inverte per rafforzare il concetto: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. Siamo nel '64 e fuori dal terreno dell' oscenità. Nel '73 Feltrinelli salta in aria sul traliccio di Segrate. Due anni dopo la sua casa editrice pubblica la prima opera di Bukowski, la raccolta Erections, ejaculations, exhibitions and general tales of ordinary madness diventa semplicemente Storie di ordinaria follia. Due racconti spariscono: Il demonio e L' assassinio di Ramon Velazquez. Il traduttore, Marco Paolini, mi ha raccontato che l' editor Aldo Tagliaferri li considerava troppo forti, mentre lui li caldeggiava. Sul titolo erano invece d' accordo: da cambiare. Bukowski scriveva in un inglese troppo nudo e crudo. Paolini considera la traduzione come abbellimento e viene sostituito. I racconti esclusi verranno inseriti in una raccolta successiva (Compagno di sbronze, 1979). Il successo permette agli editori di liberarsi di certe cautele. Arbasino sosteneva che le parti più spinte di un libro dovevano essere nascoste all' interno. Per non facilitare i censori. Non gli ha dato certo ascolto Aldo Busi. Sodomie in corpo 11 finisce a processo nel '90. Il bellissimo titolo ha contribuito ad attirare l'attenzione dei denunciatori. Andrà oltre con Cazzi e canguri (pochissimi canguri). Siamo nel '94. L' Italietta bigotta democristiana dei processi agli scrittori è appena caduta sotto i colpi di Tangentopoli. Nel 2006 esce Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo. Sempre nel segno di viaggi e libertinaggi. Immergendomi nelle vecchie carte processuali dell' archivio di Stato a Roma, ho trovato gli atti relativi a Guida pratica e completa dei postriboli di Biella, con aggiuntovi un elenco di prostitute private, loro indirizzo, pregi particolari e relative tariffe. L' autore si nasconde dietro uno pseudonimo - il professor Ruffi Anocrate - e il pamphlet è pubblicato nel 1890 dalla tipografia Zappa. L'ha scritto lo stesso stampatore. Viene sequestrato e condannato solo per il titolo. Esattamente un secolo dopo, esce in Cecoslovacchia una raccolta di scritti della poetessa underground Jana Cerná. E/o le dà il titolo di uno dei componimenti, In culo oggi no, scartando quello originale: Clarissa e altri testi. È una poesia del '48! Periodo di purghe staliniane. Ma in Italia nel '92, anno della pubblicazione. desta scalpore. La critica Grazia Cherchi attacca la casa editrice. Nel '93 esce in Francia Baise-moi, di Virginie Despentes, letteralmente Scopami, lasciato nella traduzione italiana del '99 per Einaudi Stile Libero. Dopo tutto questo - Busi in primis - non resta più niente da trasgredire. Oggi se uno mette chiavi di ricerca oscene nella categoria libri di Amazon trova paginate di titoli. Cose tipo Se squirti ti sposo di Vera Fontana e Nakaghata Dyokhan. Quest' ultimo autore, nomen omen, ha anche firmato la prima raccolta di ricette per "merdariani". Una volta gli scrittori si sfogavano con le parodie tra colleghi, come Il giardino dei finti pompini (cit. Arbasino). Anche l' umorismo era d'un altro livello.

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PORNO.  Franca Giansoldati per il messaggero il 15 giugno 2019. Chi lo avrebbe mai detto che un giorno la Chiesa avrebbe sostenuto che in fondo erano molto meglio i fumetti pornografici di un tempo – oggi persino un po' demodè - che non il cybersex. Fermo restando che per il Catechismo la pornografia resta una “colpa grave” e per questo va condannata, la rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica fa un passo in avanti distinguendo i danni arrecati tra le riviste pornografiche, sostanzialmente poco nocive e il cybersex che, al contrario, è talmente malefico da danneggiare persino i processi cognitivi. Un intero articolo della rivista diretta dallo spin doctor di Papa Francesco, padre Antonio Spadaro, è dedicato a questo problema ritenuto notevole. «Una dipendenza insidiosa». L'estensore dell'articolo padre Giovanni Cucci anche il giorno prima, sull'Avvenire, anticipava: «Il Cybersex è un virus che infetta la facoltà più alta dell'uomo, la sua intelligenza. Anzitutto a livello di immaginazione (...) perché  quanto visionato oltre a ossessionare la mente, la impoverisce, fino ad atrofizzarla. Le immagini porno presentano il più basso grado di memorizzazione e il cybersex, a sua volta, registra un ulteriore decremento cognitivo rispetto la pornografia stampata. In pratica finisce per avere un forte impatto atrofizzante sui processi cognitivi come la memoria, la riflessione la capacità di attenzione e la elaborazione critica e quindi sulla libertà e la capaità di prender le distanze dal vissuto emotivo». Nell'articolo si legge ancora: «I siti frequentati finiscono per dominare la vita, lo studio, gli impegni di lavoro, le relazioni, lo svago, gli interessi, favorendo la tendenza a vedere le persone come corpi pornografici» scrivono i gesuiti. Il mondo parallelo che avanza e ghermisce soprattutto i più giovani. L’incremento della diffusione di siti porno­grafici è impressionante: nell’anno 2018 un solo sito pornografico ha registrato quasi 34 miliardi di visitatori (92 milioni al giorno), con un aumento di 14 milioni rispetto al 2017. Si parla un tutto di oltre 150 milioni di siti, di cui almeno 5 milioni specia­lizzati in pedopornografia. È difficile avere dati precisi, ma sembra che il porno occupi il 30% del traffico internet, e ogni minuto registri 63.000 visitatori, con un gua­dagno di almeno 5.000 dollari al secondo. «In Italia il 61% dei visitatori rientra nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni, ma secondo i dati di Covenanteyes (un sito che si occupa di prevenzione e aiuto a uscire dalla pornodipendenza), l’80% di essi entra in contatto con la pornografia prima della maggiore età4. Anche nel nostro Paese un ragazzo comincia a visionare pornografia in media all’età di 11 anni, quando si vede regalare dal genitore l’iPhone, senza pensare alle sue illimitate possibilità di accesso, le quali, unite alla curiosità e inesperienza, porteranno in molti casi a conseguenze terribili, avvertite per lo più troppo tardi».

Giulia Zonca per “la Stampa” il 24 ottobre 2019. Tra desiderio e censura Ilaria Bonacossa è pronta alla sua terza Artissima. Edizione che si gioca sul filo del proibito e non è certo solo sesso, quello ormai si vede ovunque. La fiera, che apre il 31 ottobre all' Oval di Torino, prova anche ad osare per scardinare i limiti, anche quelli messi alla libertà. Misura la distanza tra quello che si può dire e quello che l' arte può raccontare. Molto di più.

Dove ha tolto il freno?

«Nella scelta di aprire l' Hub Middle East: intrigante fino dal concetto geografico su cui abbiamo dibattuto».

Per disegnare quali confini?

«Dentro l' Egitto e fuori la Turchia che, con tutte le sue tensioni, per me ormai è Europa. C' è il Libano che oggi è in strada per far cadere il governo, poi Iran, Israele, Palestina. Abbiamo superato le questioni politiche».

Obiezioni dagli invitati?

«Alserkal, polo di Dubai che è in fiera, resta fuori dall' Hub perché nessuna iniziativa pubblica degli Emirati potrebbe convivere con Israele. Tutte queste dinamiche in realtà dimostrano bene come l' arte abbia imparato ad aggirare i divieti con invenzioni intelligenti. In anni in quell' area l' arte contemporanea è sbocciata».

A volte funziona pure come vetrina a certi regimi.

«Sì, in parte, ma una volta che apri la porta all' estro e alla creatività è difficile tenersi stretto il controllo».

Non la turba il fatto che nell' Hub ci siano Iran e Arabia Saudita dove la donna non è di sicuro libera?

«Certo, ma non abbiamo chiesto finanziamenti o partecipazione ai governi. Io invito gallerie private e sono felice di averle qui: quella che viene da Gedda è gestita da una donna. L' arte contemporanea è molto emancipata».

L'esperimento Hub resterà nelle prossime edizioni?

«Nel 2020 vorrei puntare sull' Africa e non solo per il tema immigrazione ma per evidenziare come questo continente faccia parte della nostra cultura».

Ora il programma non rischia di essere troppo fitto?

«Forse sì, su "Back to the Future" mi faccio delle domande, fino a qui abbiamo rimesso in primo piano nomi di livello, ma a un certo punto si rischia di tirare fuori dei carcassoni dallo scantinato».

Per la mostra «Abstract sex»si è data dei limiti?

«L' ho affidata a due curatori e mi sono tolta il problema. L' abbiamo tenuta fuori dalla fiera proprio per poterla vietare e avvertire il pubblico dei contenuti sensibili. Ha avuto più reazioni perbeniste di quanto pensassi, molti dei soggetti che ho provato a coinvolgere mi hanno chiesto: "Ma è porno?". Io credevo mi saltassero addosso come mosche sul miele per il tema spendibile».

Perbenismo dovuto a Torino o al momento?

«Qualche obiezione conservatrice esce dalla città, invece la scia post #metoo è globale: viviamo in tempi in cui tutti sono terrorizzati dal giudizio di qualcun altro e ci si autocensura. In "Abstract sex" c' è un video in cui un uomo si masturba, comunque nulla che non trovi digitando su internet».

Internet però ha oscurato la pubblicità della fiera.

«Ci hanno proibito i social, "per scene di nudo implicito" concetto bizzarro. Ci hanno dato ragione eppure nessuno ha voluto rischiare di sbloccare l' algoritmo. Negli Usa è nato un tavolo di lavoro su come si possono diffondere immagini d' arte oggi».

Il #metoo ha portato a un cambio di linguaggio nell' arte?

«La mia impressione è che l' arte avesse già superato la fase deleteria. Gli uomini importanti che ti chiamavano bellina o biondina non sono più in circolazione. Molto probabilmente Achille Bonito Oliva è ancora così oppure Sgarbi. Lui, la prima volta che è venuto in Fondazione Sandretto, mi ha accarezzato la schiena passando per la sala. Non voleva nulla, ovvio, ma era proprio un atteggiamento legato a quella generazione. Non credo siano più al potere, da noi il ricambio generazionale c' è stato, le donne sono entrate prepotentemente nel sistema. Il gallerista con l' assistente super carina trattata con superficialità si è estinto, oggi preferiscono tutti avere una capace e grintosa e al diavolo l' aspetto fisico».

E le artiste quanta importanza hanno?

«Ecco. Nella lista dei dieci più pagati al mondo c' è solo una donna e anche nei board le donne guadagnano meno».

Lei guadagna meno di un suo parigrado uomo?

«Non lo so. Temo che ogni volta che si sostituisce un uomo con una donna in un ruolo di rilievo si abbassi lo stipendio. La donna ha molta voglia di avere una posizione mai raggiunta prima è accetta. Ci sono ancora storture da aggiustare. Noi italiane però, per fortuna, siamo cresciute un po' più sofisticate sulle questioni di genere. Negli Stati Uniti hanno alzato delle barriere, rinunciato alla seduzione per paura. Da noi si ragiona ancora».

Torino centro del contemporaneo in questo mese. Cosa ha di speciale?

«È aperta al talento, i giovani possono parlare con le istituzioni. A Milano non succede, c' è un muro di burocrazia mentre sull' innovazione l' occasione è tutto. A Torino aprono gallerie giovani, Cripta 747 è uno degli spazi no profit più interessanti di Italia. Nasce Torino Social Impact, Sothebis Real Estate sta comprando tanto in città e non è solo per i prezzi più bassi che altrove: Genova costa la metà, ha palazzi meravigliosi e non cercano lì».

È così dinamica?

«Credo oggi stia meglio di Roma, poi le crisi a catena hanno messo in difficoltà tutti. Torino soffre di più perché ha l' eccezione Milano vicino».

In questa Artissima c' è pure un omaggio al film «Italian Job» che compie 50 anni.

«Ricalca il finale in sospeso del film originale girato a Torino. Teoricamente sarà il weekend della Brexit: l' autobus in bilico sul precipizio è l' Inghilterra. La mia unica certezza è sentirmi europea e la situazione in Gran Bretagna è un grosso calcio alle mie convinzioni. Se loro lasciano l' Europa speriamo di trovare un altro equilibrio, di non far cadere il bus».

Il comune senso del pudore. Negli anni Sessanta e Settanta minigonna e bikini erano spesso considerati simboli di una nuova libertà di scelta, racconta la storica del costume Marta Boneschi. Oggi però il rilassamento dei costumi rischia di svilire le conquiste del secolo scorso. Silvana Mazzocchi il 30 luglio 2019 su La Repubblica. Per secoli "il senso comune del pudore", come lo abbiamo tutti inteso e conosciuto, ha segnato i confini della sfera sessuale e intima delle donne e, se anche nel tempo è ciclicamente cambiato, ha sempre preteso di difendere il corpo e la dignità ridefinendo la famiglia e regolando la sessualità degli individui. O almeno così è stato a lungo percepito. Fino al Novecento, quando l'emancipazione femminile è riuscita finalmente a liberare i costumi in modo rapido e inesorabile, con l'effetto di sviluppare un processo di resistenza al cambiamento e un'ondata di conservatorismo che hanno dato il via a fasi alterne di progresso e di restaurazione. Nei fatti, però, investito dalla trasformazione della società e dai mutamenti avvenuti che hanno cambiato le donne, il rapporto tra i sessi e i concetti stessi di moralità, dignità e rispetto, il comune senso del pudore si è evoluto ed ha esteso i suoi limiti. Con la conseguenza che anche la repressione o la censura si sono dovuti adeguare all'èra moderna. Marta Boneschi, giornalista e nota storica del costume nel suo nuovo libro Il comune senso del pudore, saggio snello e stimolante andato in libreria per le edizioni Il Mulino, ne ripercorre in modo documentato e brillante la storia e punta lo sguardo sullo scontro andato in scena durante il Secolo breve tra difesa della sfera intima secondo i vecchi principi e la spinta al progresso che ha prodotto la nuova concezione del pudore. È una cronaca puntuale e interessante la sua, di come un'evoluzione contrastata abbia aperto le porte all'èra moderna, frutto di quanto è accaduto nel corso dei due ultimi decenni, con l'esplosione dei mezzi di comunicazione di massa, dei social, dei selfie e della tecnologia. Quando si è andato perdendo il "senso comune del pudore" per inaugurare un tempo di indecenza sfacciata, di cortocircuiti che hanno fatto guadagnare sempre più spazio al linguaggio scurrile e all'esibizione del corpo femminile come oggetto di desiderio, se non addirittura al fare spettacolo della propria vita sessuale. Insomma, il senso del pudore comune si sarebbe ormai perso, a tutto vantaggio di un individualismo che "viene sbandierato con l'alibi di una presunta libertà personale senza confini". Con il risultato che questo spostamento dei confini del pudore, lungi dal risultare emancipatorio, rischia di riportarci indietro di decenni. Il quesito aperto è se, dopo questa ubriacatura di finta super emancipazione, sapremo ritrovare il filo giusto per riconquistare il senso "comune" di un pudore tutto da ridefinire. Risponde Boneschi: "Spero di sì. Forse avverrà quando si sarà depositato il polverone di quest'ondata di cambiamenti vorticosi". 

C'è ancora un senso del pudore comune?

"Non mi pare che esista più un senso comune del pudore: basta guardarsi intorno, accendere la tv, osservare la pubblicità, ascoltare i dibattiti politici. Il nudo è permesso ed esibito, il linguaggio scurrile e insultante va di moda, è sfumato il confine tra sfera pubblica e sfera privata. La vita sessuale fa spettacolo, il corpo femminile è oggetto di desiderio. Le società occidentali - e non solo quella italiana - si sono sbriciolate a favore del più spinto individualismo. Ognuno fa quel che gli garba, in obbedienza allo slogan "padrone in casa mia", in nome di una presunta libertà personale che può offendere gli altri, ma chi se ne infischia. Questo declino del pudore non è trascurabile: strumento della morale, disprezzato e ignorato, il pudore (ovvero la mancanza di pudore) indica a tutti noi come le regole della buona convivenza, del rispetto del corpo, e la cara vecchia "buona educazione" contano poco più di zero nell'era dell'immagine: se ti fai vedere, esisti, sei famoso, conti qualche cosa. Ritroveremo un comune senso del pudore? Spero di sì, quando si sarà depositato il polverone di quest'ondata di cambiamenti vorticosi". 

Come mai all'emancipazione femminile e all'evoluzione dei costumi corrisponde una resistenza al cambiamento che sa di restaurazione?

"L'emancipazione femminile ha percorso correndo il secolo Ventesimo, poi si è fermata, arenata nel "politicamente corretto" e in formule vecchie e vuote. Un paio di generazioni fa le ragazze avevano ben chiaro che l'istruzione, il lavoro, l'indipendenza erano altrettante tappe verso la parità".

"La realtà del nuovo mondo, la vittoria dell'individualismo e del fai da te, le tecnologie che promuovono l'immagine piuttosto che la verità hanno dimostrato che è possibile avere successo imboccando le antiche scorciatoie: usare il corpo, la bellezza, l'astuzia per affermarsi. Non istruzione ma sfacciataggine, non lavoro ma aggressività, non indipendenza ma successo, ecco come sono cambiate le aspirazioni delle giovani donne". "In questo gioco il pudore è una delle chiavi di volta: se rispetti il pudore non puoi essere sfacciata, se hai regole morali non avrai un successo facile. Questa è la restaurazione dei costumi in mezzo alla quale viviamo: una donna nuda e griffata ha migliori probabilità di successo (magari effimero) su una donna vestita, istruita e responsabile. Negli anni Sessanta e Settanta ero una cultrice della minigonna e del bikini, simboli della nostra libertà di scelta, a costo di violare le regole del pudore delle mamme e delle nonne. Oggi sono nemica del selfie nudo, del sesso via whatsapp". "Sono diventata una vecchia bigotta? Non credo, credo piuttosto che sia necessario fissare un confine oltre il quale sparisce il rispetto di sé e degli altri, del corpo proprio e altrui, della comunicazione che forma le buone relazioni umane. Insomma, preferisco Ilaria Capua, la virologa, a Kim Kardashian, l'influencer. Ma molti uomini e donne della nostra epoca hanno paura di una scienziata e si godono invece le curve di una celebrità che dedica l'esistenza agli abiti e ai gioielli".

Ci sono conquiste "sicure", che non rischiamo di perdere?

"Ogni conquista civile è a rischio: nel 1919 un ramo del Parlamento aveva approvato l'estensione del voto alle donne, ma poi le italiane hanno dovuto aspettare il 1945 per ottenere questo diritto e dovere. Oggi è a rischio la libertà di scelta delle mogli divorziate, così come è a rischio il diritto e dovere al lavoro. Non ho dubbi che viviamo in una fase di restaurazione, e sottolineo quanto in questo processo di ritorno al passato il senso del pudore svolga un ruolo importante: il pudore del proprio corpo e la distruzione della sfera intima nuocciono soprattutto alle donne. Perché? Perché valorizzano il corpo come oggetto, perché svalorizzano i sentimenti". "Mezzo secolo fa Oscar Luigi Scalfaro - e molti la pensavano come lui - sosteneva che una donna che si presenta poco vestita è "a disposizione". Dunque, non è una persona ma un oggetto. Il femminismo ha difeso a lungo il diritto di svestirsi, che tuttavia non ha prodotto un risultato di liberazione ma, alla lunga, un risultato di svilimento. Credo che la miglior difesa delle conquiste civili consista nel ripensare alle esperienze storiche, in modo da correggere la rotta. Credo che una priorità assoluta delle donne oggi sia di riconquistare un posto dignitoso e utile nella società, non con le curve in vista o con la parlantina sciolta, ma con l'intelligenza e l'istruzione. Nelle fasi di alta occupazione femminile, tra l'altro, le nascite non si fanno attendere".

CENSURA, CHE IATTURA! BASTA UNA TRACCIA DI PELI O L'OMBRA DI CAPEZZOLO PER FAR FINIRE NELL’OBLIO IL LAVORO DI UN FOTOGRAFO. DAGONEWS il 30 maggio 2019. Una traccia di peli, l'ombra della scollatura, un angolo di capezzolo. Una manciata di pixel su uno schermo può portare l’account Instagram di un fotografo in un oblio digitale. Savannah Spirit lo ha imparato bene. La fotografa di Brooklyn è stata rimossa da Instagram così tante volte che ha perso il conto. Oggi, gli scatti che pubblica rientrano entro i termini di policy. Quasi. Si tratta di immagini in cui posa nell'ombra delle tapparelle, le ombre vanno a coprire quelle zone del corpo che Instagram riterrebbe inappropriate. «Ringrazio Instagram -ha detto - Mi ha spinto a un altro livello e mi ha costretto a pensare a un altro modo di mostrare il mio lavoro. Ma tutto ciò è stata anche la rovina della mia esistenza». Per i fotografi che lavorano con la nudità, postare su Instagram è come giocare alla roulette russa. L’azienda non dà alcun preavviso prima di rimuovere le fotografie - e interi account - se ritiene che si siano violate le linee guida della comunità. Sono vietate le foto di capezzoli femminili come le immagini di nudo frontali. Si tollerano malvolenti le immagini dei "glutei" se fotografati da una certa distanza. Gli algoritmi di Instagram, però, non sono sempre in grado di distinguere tra capezzoli maschi e femmine, come dimostra l'account @genderless_nipples che pubblica i primi piani di capezzoli di migliaia di follower, senza però specificare se appartengono a uomini o donne. La piattaforma fa eccezioni per le immagini di pittura e scultura; e adesso molti fotografi stanno spingendo affinché anche la nudità "artistica" sia permessa. Di recente, Instagram ha reso queste aree grigie ancora più grigie, istituendo una policy per limitare la diffusione di immagini "sessualmente allusive" che non violano esplicitamente le sue linee guida. In un ambiente così nebuloso gli artisti affermati continuano comunque ad avere voce in capitolo. Ma non è lo stesso quando si tratta di artisti emergenti. Quando l'account di Betty Tompkins è stato rimosso ad aprile per aver pubblicato la sua opera, “Fuck Painting # 1” (1969), Instagram ha riaperto il profilo il giorno dopo, in seguito alle proteste del mondo dell’arte. Spencer Tunick, che trascorre ore offuscando meticolosamente migliaia di corpi nudi nelle sue foto, ha oltre 45mila follower. Ma per i fotografi nuovi o sconosciuti, un divieto di Instagram può cambiare la  carriera. Le rigorose politiche di Instagram fanno parte di una crescente tendenza verso la “sanificazione” di Internet. Alcuni dicono che la repressione sia la conseguenza delle preferenze aziendali che posizionano la nudità in opposizione agli incentivi capitalisti. «Le piattaforme devono essere pulite e affermare che la censura dei corpi nudi e della sessualità riguarda gli inserzionisti: non accetteranno mai che i loro prodotti siano in prossimità alla nudità» ha detto Paul Mpagi Sepuya, le cui fotografie sono apparse nel 2019 al “Whitney Biennial”. Erik Madigan Heck, noto fotografo di arte e moda, incolpa i valori puritani e antichissimi che si sono radicati negli Stati Uniti: «Viviamo in una società religiosa arcaica, conservatrice, gestita prevalentemente da vecchi che apprezzano la violenza sulla bellezza». Forse da nessuna parte le conseguenze estetiche delle politiche di Instagram sono più evidenti che sul lavoro di Tunick. Si affida ai social media per connettersi con i protagonisti che posano nudi per i suoi scatti, ma deve modificare radicalmente le opere. Tra paesaggi eterei, i corpi sono interrotti da pixel color carne tracciati metodicamente per coprire le nudità. La meticolosa autocensura di Tunick è diventata quasi una pratica artistica in sé e per sé. Ma la censura dei corpi è una tradizione secolare. Non diversamente dagli sforzi della Chiesa cattolica nel 1563 di nascondere i peni delle sculture rinascimentali con le foglie di fico, oggi la nudità viene cancellata dai pixel sulle foto.

·         L’Involuzione della specie italica.

Questi sono i barconi che noi vogliamo, scrive Emanuele Beluffi il 02/04/2019 su Il Giornale. Questi sono i barconi che noi vogliamo: i barconi che portano a bordo gli exempla del genio italico, che fa tutt’uno col genius loci. Sul barcone che vedete raffigurato, opera dei tipi di Ferrogallico, una casa editrice coraggiosa perché affronta con il linguaggio della graphic nove i temi gli argomenti i personaggi che hanno sempre trovato uno spazio ristretto nel “dibbattito” culturale italiano, si ergono i paradigmi umani, troppo umani, delle Lettere, della Filosofia, dell’Impresa d’Italia, di ogni epoca storica. Non è la Nave dei Folli di Hieronymus Bosch, o forse anche sì, perché, Erasmo da Rotterdam ce l’insegna, solo i folli sono i capitani che fecero l’impresa. In questa immagine su cui campeggia l’imperativo-quasi-categorico Tornate in Patria, un imperativo rivolto a quei “cervelli” che hanno sempre, ahinoi e ahiloro, trovato miglior usbergo fuori dai confini patrii per veder realizzare le proprie aspirazioni e riconosciute le proprie competenze, in questa immagine dicevamo, a prua della nave il condottiero e scopritore di nuovi mondi Cristofo Colombo indica la via, mentre dietro a lui il padre della lingua italiana Dante Alighieri ficca lo sguardo nell’orizzonte dell’avvenire, con il genio multiforme Leonardo da Vinci, il Vate Gabriele d’Annunzio possessore di quel che donò e il motore elettico del Futurismo Filippo Tommaso Marinetti seguono con lo sguardo come se fossero in scia on gli occhi di Dante e Cristoforo Colombo nella direzione intrapresa da questi argonauti della conoscenza. Le mani appoggiate al bastingaggio di questa nave di eroi della cultura, Luigi Pirandello sembra dirci, a noi astati che da fuori guardiamo il loro navigare niente affatto periglioso e senza procella, “Così è se vi pare“, con accanto il corsaro “PPP“, Pier Paolo Pasolini in camicia rossa garibaldina, “rinnegato” quasi dai compagni suoi che sbagliarono, per aver visto anche nei poliziotti il proletariato surrettiziamente difeso a spada NON tratta dagli intellò italici. E alle sue spalle due altri maudit, uno più dell’altro invero: Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, il nostro teppista più amato della storia dell’arte occidentale e l’altro Michelangelo, Michelangelo-e-basta, il costruttore della fede per mezzo dell’arte, con in mezzo il patriota della musica Giuseppe Verdi, colui che morente in quel di Milano venne tributato dalla città con la pavimentazione delle strade con la paglia al fine di non disturbarne l’agonia. E su tutti, a poppa in posizione isomorfica rispetto al condottiero Cristoforo Colombo a prua, il Santo, Benedetto da Norcia, il monaco “dalla voce grande e dolce” che fece l’Europa che ora non c’è (più). Come il film “Lamerica” di Gianni Amelio, questi argonauti della cultura sono tornati per ricordarci che al mondo noi siamo e saremo nei secoli “un popolo di poeti di artisti e di eroi/di santi di pensatori di scienziati”di navigatori di trasmigatori. Ecco, sono questi i barconi che noi vogliamo. Il terzo numero (aprile 2019) del mensile #Culturaidentità, il magazine mensile in uscita ogni primo venerdì del mese in allegato gratuito a Il Giornale, sbarca in Europa, a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo: martedì 2 aprile, alle ore 17.30, nella Sala ASP 1H1, si terrà l’incontro Italianizzare l’Europa, con l’editore della testata Edoardo Sylos Labini, il direttore Alessandro Sansoni, l’imprenditore Domenico Altomonte (produttore di uno dei più grandi prodotti del made in Italy, il Bergamotto) e il parlamentare europeo Stefano Maullu insieme a Raffaele Fitto.

L’effetto Flynn capovolto, o del perché diventiamo sempre più stupidi, anno dopo anno. Pubblicato sabato, 30 marzo 2019 su Corriere.it. James Flynn è un professore emerito di filosofia dell’Università di Dunedin, in Nuova Zelanda. Il suo nome, come racconta il settimanale Die Zeit, è rimasto legato a uno studio pubblicato nel 1987 sul Psychological Bulletin, in cui Flynn metteva a confronto i risultati di alcuni test sull’intelligenza effettuati su un campione di bambini nel 1972, con altri datati al 1947. Dal raffronto si ricavava che nei 25 anni trascorsi da un test all’altro il quoziente intellettivo (QI) dei ragazzi esaminati era aumentato di 8 punti. Flynn aveva scritto a 165 studiosi in tutto il mondo per trovare una conferma a quella che supponeva poteva essere la sua scoperta: e cioè che nelle nazioni sviluppate il QI aumenta da una generazione all’altra in una misura variabile tra i 5 e i 25 punti. Questo fenomeno è stato appunto chiamato l’«effetto Flynn». Da allora l’interesse per questo genere di studi è cresciuto enormemente, tant’è che molti conoscono quale sia il loro QI. Purtroppo però questa euforia si è smorzata nel 2004, quando sulla base di alcune ricerche empiriche l’Università di Oslo si accorse che tra il 1970 e il 1993 l’«effetto Flynn» era diminuito. Negli anni successivi questo rallentamento ha trovato ulteriori conferme, fino alla tragica scoperta che il trend si è ormai rovesciato, e da un anno all’altro il QI diminuisce mediamente dello 0,25-0,50. Insomma, diventiamo sempre più stupidi. E anche a questo fenomeno è stato dato il nome di «effetto Flynn capovolto», così che il professore è doppiamente famoso.

«Ecco perché oggi stiamo diventando  sempre più stupidi». Pubblicato martedì, 10 settembre 2019 da Roberta Scorranese su Corriere.it. Se le gaffes macroscopiche degli uomini più potenti del mondo fanno notizia, meno eclatanti sono tanti piccoli segnali. Per esempio, la scomparsa del senso dell’umorismo (quanti di voi sono costretti a spiegare una battuta sui social?). O l’impoverimento del linguaggio, dove figure retoriche un po’ più complesse come la metafora vengono accuratamente evitate perché «molti non capiscono», laddove il «farsi capire» è vitale. Armand Farrachi, polemista e scrittore francese, lo dice molto chiaramente: è il Trionfo della stupidità, affermazione che è anche la traduzione (in italiano per Fandango) del suo ultimo libro, un gustoso e affilato pamphlet dove analizza come siamo arrivati fin qui. E a Pordenonelegge partirà da una torta al cioccolato.

Quale torta?

«Donald Trump ha dichiarato a una giornalista di aver preso la decisione di bombardare la Siria, nell’aprile del 2017, “davanti alla più bella fetta di torta al cioccolato che si possa immaginare”».

Che cosa c’entra la torta con le bombe?

«Nulla, è questo il punto. L’assurdità di quell’accostamento, il dettaglio della torta toglie alla decisione militare qualsiasi serietà, qualsiasi validità strategica o tattica».

Ma intanto il Presidente degli Stati Uniti si permette queste libertà lessicali e magari conquista un applauso.

«Sì, ma è stato un crescendo, da Reagan in poi: gli slogan più rozzi e le idee più grossolane hanno avuto la meglio. Bush, Berlusconi, Sarkozy. Poi Trump, Bolsonaro, Duterte. I capi di Stato non sono più intellettuali, studiosi, ma banchieri, dirigenti e persino attori. Certo, il loro linguaggio cattura consenso, ma questo ci ha migliorati? No. Il risultato è stato un incremento dei conflitti e una serie di disastri ambientali».

Altri esempi?

«Invitato a cantare l’inno nazionale del suo paese, Yves Leterme, Primo ministro belga, invece della Brabançonne intona La marsigliese. In Russia, Vladimir Putin ha dichiarato in conferenza stampa che “le prostitute russe sono le migliori del mondo”».

Nel suo libro, però, non ci sono solo politici. Lei analizza la scomparsa di alcuni sistemi sociali e linguistici che richiedono complessità, come l’ironia.

«Di più. Ormai, per evitare i processi, i fabbricanti avvertono sugli imballaggi che un cd o un dvd non possono essere né mangiati né messi nel microonde, che non bisogna cercare di togliere la lama del tosaerba mentre è in funzione o che il telecomando non deve essere messo in lavatrice».

Lei parla di una vera e propria «erosione cognitiva».

«È davvero un fenomeno globale, collegato, secondo me, alla massificazione economica, che preferisce fare affidamento sugli sciocchi piuttosto che su un occhio critico sistematico. La generalizzazione dell’informatica, che favorisce la scansione e non la riflessione, la diffusione di molecole chimiche (come fluoro o bromo) che vengono confuse dal corpo con lo iodio (elemento che partecipa allo sviluppo del cervello, perché il cervello impara, ndr), l’uso intensivo degli schermi, l’educazione approssimativa, la televisione popolare, tutto ciò che, come il “neuromarketing”, sfrutta gli strati primari del cervello, contribuisce al trionfo della stupidità».

Ma la stupidità conviene?

«Sì, a molti. Conviene agli industriali, poiché mette a loro disposizione una clientela captive, cui si possono vendere prodotti che verrebbero disdegnati da consumatori più attenti. Conviene ai politici, che grazie a essa possono dirigere un popolo ai cui occhi bugie enormi riescono a passare per verità. Conviene ai giornalisti, messaggeri di una verità ufficiale».

È interessante nel libro la riflessione sull’infantilizzazione del linguaggio (in Italia per esempio in tempi recenti molti cantanti perdono il cognome ed è un fiorire di Annalisa, Noemi, Clementino).

«All’infantilizzazione del linguaggio corrisponde del resto quella del gusto, che ha già portato in trionfo il molle, il dolce, il grasso e l’aromatizzato, poi quella dell’ambiente circostante che moltiplica sui manifesti e i cartelli segnaletici piccole forme puerili umanizzate con gli occhi a forma di O e i sorrisi a forma di U».

Che cosa possiamo fare?

«Per esempio voi giornalisti potreste provare a usare termini più adatti, specie per quello che concerne il potere. Potreste evitare di definire “populista” ciò che sfugge al sistema, o “violenza” l’atto di rompere una mattonella. Ma naturalmente il potere, che possiede la stampa, scarterebbe queste scelte: è proprio attraverso la diffusione di queste parole e idee che controlla il potere che esercita».

L’eterna frattura tra il popolo e l’élite che vuole indottrinarci, scrive il 30 marzo 2019 Andrea Indini su Il Giornale. La frattura c’è sempre stata. Niente di nuovo. Da una parte l’élite culturale, che plasma tutto il plasmabile (dalla scuola alla televisione, dall’arte alla letteratura) e dall’altra il popolo che sta chino sui problemi e gli affanni quotidiani. Mai come oggi, però, quest’ultimo ha realizzato quanto sia siderale distanza e, acutizzando la frattura, ha marcato la rottura con l’intellighenzia (rossa) e l’ha volutamente abbandonata a invecchiare in un limbo inconsistente. I nomi sono sempre i soliti. È inutile farli perché sono quelli che popolano i salotti buoni da decenni. Ormai se la cantano e se la suonano da soli. I festival, le kermesse, i premi letterari (e finanche quelli cinematografici) è tutta roba loro. Poi, però, i box office… beh, quella è un’altra cosa. A sentirli blaterarsi addosso, la rivolta contro le destre sarebbe ormai esplosa, gli italiani vorrebbero ancora frontiere aperte nonostante il fallimento dell’accoglienza indiscriminata degli ultimi anni e, soprattutto, la sinistra potrebbe ancora sognare lo scranno di Palazzo Chigi. Poi, però, le elezioni… beh, anche quella è un’altra cosa. Dev’essere francamente drammatico risvegliarsi l’indomani di una serata di gala, in cui ti sei convinto (come in una seduta di autoanalisi) che il Pd ha ancora il 40%, che le ong possono ancora intrallazzare liberamente, che la società è gender fluid e quindi della famiglia tradizionale non c’è più bisogno, e poi accorgerti che il popolo non ti sta dietro, che ora vota partiti “fascisti, razzisti e xenofobi”, che il populismo e il sovranismo hanno dilagato. Un incubo. E, proprio per estraniarsi da questo incubo, eccoli radunarsi nei soliti talk show, nelle kermesse (finanche al Festival di Sanremo) e nei premi che contano. Un tempo, da quei pulpiti, erano convinti di poter plasmare i gusti e le teste delle persone. E, forse, in alcuni casi ci riuscivano pure. Ora che si è spezzato qualcosa, sembrano imbalsamati in un vecchio ruolo che si vedono costretti a ripetere all’infinito per non soccombere a loro stessi. Lo hanno dimostrato i giurati dell’Ariston stralciando il voto del pubblico, i sermoni che hanno riempito la vuota serata dei David di Donatello o gli infiniti comizi fatti dai soliti opinionisti, scrittori e giornalisti nelle solite trasmissioni. Questa frattura non si consuma solo in Italia. L’America non è da meno. Anche la notte degli Oscar ha segnato il divario (già conosciuto) tra Hollywood e il resto del Paese. A sentire i panegirici di attori, registi e jet-set contro i muri, quasi ci si convince che il populista Donald Trump abbia i giorni contati. Poi, vieni a sapere che il Russiagate, su cui i giornaloni hanno campato per anni, è una messa in scena e che i democratici faticano a trovare un candidato che possa anche solo tenergli testa alle prossime presidenziali . Eppure, anche se sono ormai minoranza in Occidente, pretendono ancora di essere maggioranza intellettuale. E, con la stessa spocchia magistralmente interpretata nel film La crisi di Coline Serreau, continuano a parlarci del “diritto alla diversità, della tolleranza e dell’ideale della terra d’asilo” e si chiedono stupiti “Ma lei vota Le Pen?” (guarda qui). Un tempo, però, se la ridevano. Ora, dietro i ghigni, ci sono solo mal di pancia.

Un manuale per resistere al potere. Con la filosofia, scrive il 29 marzo 2019 Cristiano Puglisi su Il Giornale. Michele Putrino, appassionato di filosofia, nella vita fa, con successo, il coach professionale. Uno, insomma, che di psiche umana se ne intende. Sull’argomento ha scritto diversi libri. Poi, improvvisamente, il saggio che non ti aspetti. Non per pochi professionisti, ma per tutti. Si chiama “Manuale di resistenza al potere” ed è stato recentemente pubblicato dalla Uno Editori di Torino. “Negli anni – spiega l’autore a chi qui scrive – proprio occupandomi di tecniche per aumentare il potere attraverso la persuasione, mi sono reso conto che la maggior parte delle persone sono costantemente vittime di queste tecniche senza, ovviamente, che se ne rendano conto. Di conseguenza, mi sono messo alla ricerca di qualche libro di buona qualità che spiegasse come potersi difendere da queste tecniche: ho trovato tanti ottimi libri di denuncia ma nessuno che offrisse soluzioni concrete e da mettere subito in pratica. E così alla fine ho deciso di scriverlo io quel tanto desiderato libro”. Però, visto il titolo del saggio, che sembra abbracciare un’orizzonte veramente sconfinato, sorge subito una domanda che può sembrare banale, ma non lo è vista la necessità di circoscrivere il concetto. Che cos’è il potere? “Il potere – spiega Putrino – è la capacità di un individuo di imporre la propria volontà ad altri individui. Ma attenzione: anche se al primo impatto può suonare strano, il potere di per sé non è una cosa negativa, anzi, è quanto di più comune ci sia in natura. Per esempio, pensiamo alle radici di un albero: che cosa fanno queste se non cercare in tutti i modi di imporsi sul terreno che le circonda? È sufficiente guardare gli alberi presenti nelle nostre città per renderci conto di quanto questi cerchino di imporsi anche sull’asfalto e sul cemento. Quindi, in sostanza, la ricerca del potere è una cosa del tutto naturale. Il problema, molto serio, si presenta quando si cerca di ottenere il potere a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo, fino a uscire dall’ambito naturale e fare di questa ricerca una perversione. Questo avviene esattamente quando si oltrepassano i limiti imposti dalla natura e questi limiti vengono superati nel momento in cui si ‘entra’ nella testa di coloro a cui si vuole imporre la propria volontà attraverso le più svariate tecniche di manipolazione. È qui che inizia il Potere con la ‘P’ maiuscola, quello veramente pericoloso e che oggi domina in modo praticamente incontrastato. Consumismo, marketing, propaganda, ‘politicamente corretto’, ‘pensiero unico’: il fatto che queste cose oggi dominino ovunque e su chiunque (anche se per fortuna alcuni cercano di resistere) fa capire quanto il potere ottenuto attraverso la manipolazione nella nostra epoca regni in modo assoluto”.

Un potere, anzi un Potere, con la “p” maiuscola, che si esercita oggi attraverso complesse tecniche persuasive.

“Ovunque sia presente la possibilità di informare e comunicare con altri esseri umani – prosegue l’autore - gli esperti sono già lì presenti ad applicare le loro tecniche di manipolazione. E visto che la civiltà in cui ci troviamo a vivere si basa proprio sull’informazione e sulla comunicazione non è difficile immaginare quanto sia grave la situazione. Perché tutto questo? Semplice, per ottenere maggiore potere e quindi maggiore controllo sugli altri; e questo lo si fa sia in modo diretto, attraverso la propaganda politica, sia in modo indiretto, attraverso le tecniche di marketing che hanno un solo fine: creare consumatori ossessionati da cose che in realtà non gli servono. Insomma, l’obiettivo di chi esercita la manipolazione è sempre e soltanto uno: incantare gli individui per incatenare le loro menti”.

Però, come spiega appunto l’autore nel suo libro, al potere si può resistere.

“E la cosa incredibile – spiega ancora Putrino – è che le tecniche per poterlo fare sono state elaborate e rielaborate qualche millennio fa da una corrente filosofica che è passata alla storia con il nome di ‘stoicismo’. Uno dei principali compiti dei maestri stoici consisteva, infatti, nell’insegnare ai propri allievi a non cadere nelle finte ‘rappresentazioni’ della realtà indotte dagli altri o anche da sé stessi e a guardare il mondo per quello che realmente è. Insomma, insegnavano a non cadere in quelle che noi oggi chiamiamo ‘manipolazioni mentali’. Le loro tecniche erano talmente elevate e talmente profonde tanto da essere non solo perfettamente efficaci contro la manipolazione ma anche in grado di rasserenare gli animi e iniziare a vivere, così, una vita più serena. Ecco a mio parere, come spiego nel libro, è proprio dallo stoicismo, in una versione riadattata per noi moderni ovviamente, che bisogna partire per liberarci dalle catene mentali che ci rendono schiavi e vivere una vita da uomini e da donne finalmente liberi”.

·         Niente soldi al “Terzani” comunista.

La vedova Terzani: «I soldi tagliati dalla Lega? Una scelta politica». Pubblicato da Elisabetta Rosaspina sabato, 30 marzo 2019 su Corriere.it. Tiziano Terzani? E chi era costui? «Un Santo secolare, un oggetto di culto, complimenti a chi è riuscito a imporlo associandolo a un’idea di alta qualità come persona, della quale io fortemente dubito anche perché ci sono autorevoli esponenti che sull’analisi storica di Terzani avrebbero mosso più di qualche critica» risponde da Udine l’assessore comunale alla Cultura, Fabrizio Cigolot. La giunta leghista ha annunciato il taglio dei finanziamenti che le precedenti amministrazioni garantivano da 15 anni al Festival Vicino/Lontano, dedicato all’autore di «Un indovino mi disse»: da trentamila a diecimila euro. Un colpo non ancora mortale per gli organizzatori che possono contare (salvo contrordini) su altri 192 mila euro della Regione e su sponsor privati. Ma il messaggio del Comune è chiaro: il Festival e i partecipanti sono troppo di sinistra per i nostri gusti. «Questa decisione è la punta di un iceberg, oggi — avverte Angela Staude, vedova dello scrittore e presidente della giuria che attribuisce ogni anno il Premio a un libro che sarebbe piaciuto a Tiziano —. Ma domani può diventare una minaccia più grande. Hanno liquidato il premio come irrilevante o come strumento per fare politica».

Semmai geopolitica?

«Fin dal titolo, il festival rispecchia gli interessi di Terzani, che era vicino, era un italiano, ma guardava lontano, al mondo, perché sapeva quanta rilevanza avesse in Italia ciò che accadeva all’estero».

I leghisti dicono che premiate solo autori comunisti.

«Il primo a ricevere il premio nel 2005, l’anno dopo la morte di Tiziano, è stato il francese François Bizot con “Le Portail”, Il Cancello, un atto d’accusa ai Khmer rossi e ai crimini commessi da quel regime in Cambogia. Due anni dopo abbiamo conferito il nostro unico riconoscimento postumo ad Anna Politkovskaja, che aveva descritto la violenza in Cecenia e la nuova Russia, ricca e senza regole. Abbiamo premiato l’olandese David Van Reybrouck per come, nel suo libro Congo, ha indagato sulla brutale colonizzazione belga. Tra gli italiani, hanno vinto Fabrizio Gatti e Domenico Quirico, giornalisti coraggiosi, che scrivono andando sempre sul posto, e spesso sono luoghi molto rischiosi».

Che sia la composizione della giuria a non piacere alla Lega di Udine?

«Include professionisti come Milena Gabanelli, Marino Sinibaldi, Giulio Anselmi, Marco Del Corona, Andrea Filippi».

Allora forse è la città che non è interessata al Festival?

«Al contrario, è sempre più partecipe. Al Teatro Giovanni da Udine i 1.200 posti sono esauriti ogni anno. Possiamo contare sul contributo di tantissimi volontari, ma non basta. Le spese vive, per far arrivare personaggi da Paesi lontani, sono alte: biglietti aerei, hotel. E ci teniamo a mantenere gratuiti gli ingressi a tutti gli eventi in programma per quattro giorni».

Quindi qual è il vostro peccato originale?

«Essere nati sotto una giunta di sinistra. Il nuovo sindaco ha attaccato il Festival già in campagna elettorale, ci accusa di invitare autori terzomondialisti».

Che cosa consiglierebbe Tiziano Terzani?

«Di restare calmi. Diceva: ci sono persone che cercano di aizzare il cane che è in noi. Così il cane abbaia e morde, invece non bisogna reagire, sennò finisce che uno azzanna più dell’altro».

Non vale soltanto in questo caso.

«No, certo. Questo taglio di ventimila euro è storia da poco, in confronto a quello che sta succedendo su più vasta scala: i nuovi governi vogliono distruggere quanto fatto dai precedenti».

La sua candidatura alle prossime elezioni municipali di Firenze, a sostegno del sindaco Nardella (Pd), non c’entra?

«Non penso. Ma ci sono momenti della storia in cui non si può restare a guardare. Io sono tedesca e non dimentico come cominciò in Germania negli anni Trenta. I tedeschi non presero sul serio “l’imbianchino”, non si ribellarono quando cacciò gli ebrei dalle università, e Hitler capì di avere mano libera. Negli anni Ottanta Tiziano intervistò Maruyama, il più grande sociologo giapponese: il Giappone è una democrazia? Gli rispose: la democrazia va esercitata, o non è più una democrazia».

Firenze e altre città hanno offerto ospitalità al Festival: lascerete Udine?

«Sono commossa e ringrazio tutti. Ma io non scappo».

Enrico Ferro per repubblica.it il 30 marzo 2019. Il premio letterario internazionale Tiziano Terzani? "Roba da comunisti". Forte di questa sintesi quantomeno facilona, la giunta leghista che dall'anno scorso guida il Comune di Udine ha ridotto da 30mila a 10mila euro il contributo destinato al festival Vicino/lontano. La quindicesima edizione è in programma dal 16 al 19 maggio, ma al sindaco Pietro Fontanini e all'assessore alla Cultura Fabrizio Cigolot proprio non va giù questa rassegna dedicata allo scrittore, pensata nel 2004, pochi mesi dopo la sua morte, grazie all'intuizione di un gruppo di persone innamorate della cultura, riunite intorno al tavolo di una trattoria di Trieste insieme a Paolo Rumiz. Oltre 20mila presenze nella prima edizione, poi un crescendo in quelle successive. Con una giuria che annovera nomi del giornalismo italiano come Giulio Anselmi, Ettore Mo e Milena Gabanelli. È proprio l'assessore Cigolot, pure lui della Lega, a uscire allo scoperto: "Terzani è diventato un Santo secolare, un oggetto di culto, complimenti a chi è riuscito a imporlo associandolo a un'idea di alta qualità come persona, della quale io fortemente dubito anche perché ci sono autorevoli esponenti che sull'analisi storica di Terzani avrebbero mosso più di qualche critica". Platea ammutolita. Lui non si scoraggia e, anzi, rilancia: "Ne ho discusso con gli organizzatori. se questo è il modello che intendono portare avanti sono liberi di farlo, ma trattandosi di un'iniziativa sostenuta, su un totale di spesa di 280mila euro, con 192mila dalla Regione e 30mila dal Comune, sentiamo di dover esprimere considerazioni sulla progettualità sviluppata". Ma a chi cerca di indagare sui motivi per cui un festival culturale di questo spessore possa essere recepito meramente come una "cosa di sinistra", il sindaco si nega: "Se è per il caso Terzani, questo è il numero di telefono dell'assessore Cigolot". Che va giù ancora una volta dritto: "È di sinistra per le persone che lo frequentano, per gli inviti che fanno". È un po' il pallino di questa generazione di sindaci leghisti, quella di catalogare le rassegne culturali in base a presunti colori politici. A Padova l'ex sindaco Massimo Bitonci, oggi sottosegretario all'Economia, arrivò a cancellare il finanziamento di 50mila euro per la Fiera delle Parole che si teneva ormai da anni a Palazzo della Ragione. Nella sua lista nera di autori "di sinistra" finirono Ezio Mauro, Sergio Staino, Corrado Augias, Lella Costa e Paolo Di Paolo. Ora la presa di posizione dell'amministrazione comunale di Udine rischia di influenzare anche la Regione, retta da un altro leghista, Massimiliano Fedriga. Perché è da lì che viene il finanziamento più cospicuo. "È un peccato uccidere un'iniziativa del genere, personalmente sono offesa", dice Angela Staude Terzani, moglie dello scrittore, che di Udine è anche cittadina onoraria. "Non è con un linguaggio così rozzo che si parla di Tiziano. Ma soprattutto non è vero, non si è mai fatta politica in quella sede". Entusiasta dell'idea fin dall'inizio, convinta nel respingere le critiche che venivano dalla sua città, Firenze, per il Premio organizzato in trasferta, ora si ritrova a un passo dallo sfratto. "È una perdita per i cittadini buttare tutto ciò che si è costruito in 15 anni. Questo metodo, poi, è inaccettabile", rileva con rammarico. Chi lo ha letto e amato ora si chiede come reagirebbe, lui, di fronte a queste critiche. C'è una sua frase celebre che può calzare a pennello: "Ridere, io trovo che ridere è una cura, è parte della guarigione. Per cui il consiglio che do a tutti è cominciare con una grande risata e finire con una grande risata".

TERZANI NON DATUR (PECUNIA). Luigi Mascheroni per ''il Giornale'' il 31 marzo 2019. La notizia che il Comune di Udine ha deciso di ridurre i fondi destinati al premio «Tiziano Terzani» da 30 a 10mila euro perché «non valorizza il territorio e non promuove il turismo», lascia perplessi. Per due motivi.

Primo: perché un premio letterario, come un festival o una mostra, non dovrebbe guardare solo a un «ritorno» in termini economici o di visibilità. Altrimenti sarebbe meglio organizzare sagre, mercatini e tornei di calcetto che rendono di più (al contrario l' offerta di cultura, anche se interessa pochi, dovrebbe essere come l' assistenza sanitaria: gratuita e per tutti).

Secondo: perché la scelta dell' amministrazione comunale appare una ritorsione nei confronti di un «intellettuale» (Terzani però non sarebbe d' accordo sul termine) di cui non si condivide, e non si vuole neppure discutere, la posizione ideale. O ideologica. E, infatti, la spiegazione dell' assessore alla Cultura, leghista, è chiara: «Terzani è diventato un santo secolare, un oggetto di culto».

Ora, criticare la figura di un uomo di cultura - chiunque sia - non solo è legittimo. È salutare. Niente è peggio che mettere sotto teca un' opera o un autore, così da renderli intoccabili (per altro la deriva anti occidentale di Terzani, passato da inviato speciale a guru orientaleggiante, ha lasciato molti perplessi, noi per primi). Ma quella del Comune di Udine non è una critica. È una rappresaglia. Stupida e dannosa per entrambe le parti: ci perdono l' associazione che promuove il premio e i fan di Terzani, ma ci perde anche la Lega in autorevolezza e serietà. Ammesso che quella contro Terzani sia una «guerra delle idee», e crediamo che lo sia, siamo convinti che non la si debba combattere epurando l' avversario. Altrimenti si finisce con il comportarsi come il Salone del Libro di Torino, giusto per fare un esempio, dove la direzione culturale è interamente di rigorosa fede democrat (benché la manifestazione sia pagata da soldi pubblici, cioè di tutti) e in programma non compaiono autori o temi fuori dal pensiero unico liberal progressista. Ma pensiamo la si debba combattere discutendo e, magari, contestando, se è il caso: come è da contestare la posizione di Terzani, per il quale i morti delle Torri Gemelle sono «danni collaterali» dell' imperialismo americano nel mondo. Ma mai escludendo «l' altro». Altrimenti - solo per sfruttare come esempio il facile gioco degli opposti - si finisce come gli «stalinisti di ritorno» che, per anni, hanno negato il diritto di parola a Oriana Fallaci e ai suoi lettori. La Lega vuole fare lo stesso errore?

·         La cultura dei camerati.

Libri ai camerati: dopo le felpe Casapound investe sull'editoria. Il filone di affari che oggi appare maggiormente in espansione è l’attività editoriale. Un’operazione prima di tutto politica, che punta a coagulare i movimenti della destra neofascista attorno all’organizzazione fondata da Gianluca Iannone, scrive Andrea Palladino l'1 aprile 2019 su L'Espresso. Business. Affari. Vetrine nelle città. E una passione sconfinata per il ventennio fascista. Il territorio, per CasaPound, è prima di tutto questo. L’ultimo avamposto - tutto commerciale - lo hanno inaugurato solo pochi giorni fa nel quartiere Esquilino, a pochi passi dalla sede nazionale occupata abusivamente. In via Merulana - la strada storica che collega Piazza Vittorio con San Giovanni - un caffè è diventato ora Pivert store, il marchio sfoggiato allo stadio da Matteo Salvini. Venti punti vendita, un centro logistico a Cernusco sul Naviglio, pubblicità aggressiva in rete e un fatturato niente male. CasaPound non è solo moda. Il filone di affari che oggi appare maggiormente in espansione è l’attività editoriale. Un’operazione prima di tutto politica, che punta a coagulare i movimenti della destra neofascista attorno all’organizzazione fondata da Gianluca Iannone. Alla fine del 2017 hanno lanciato la rivista mensile “Il primato nazionale”, che dedica copertine al vetriolo a tutti i nemici politici, da papa Francesco a Saviano. L’ultimo numero cambia genere e ha l’aspetto di un manifesto politico, celebrativo di Benito Mussolini. Il 23 marzo è stato il centenario della fondazione dei Fasci di combattimento, il movimento di San Sepolcro, che prese il nome dalla omonima piazza milanese. È il vero faro ideologico di CasaPound, tanto da organizzare proprio in questa data il concerto milanese degli ZetaZeroAlfa, il gruppo musicale di Gianluca Iannone, famoso per i versi «non stare in pena, nel dubbio mena”».

·         Ritratto di Gianrico Carofiglio.

Carofiglio: Salvini demagogo, non fascista. Durante Mani Pulite ci furono forzature. Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. L'ex magistrato affronta nel suo ultimo libro, «La misura del tempo», il tema della memoria: «Ricordo un bambino amputato a Piazza Fontana: dal pensiero su come sarebbe stata la sua vita nasce la mia letteratura».

Gianrico Carofiglio, qual è il suo primo ricordo?

«Ho tre anni. Tolgo la marcia alla 600 di papà, che si arrabbia tantissimo».

Papà era severo?

«No. Io ero molto pauroso, mi terrorizzava il buio; allora lui mi dava un cuscino da abbracciare. Poi per fortuna è nato mio fratello Francesco. Voglio scrivere un libro che comincia così: “Da bambino avevo paura di tutto”».

E il primo ricordo pubblico?

«Il match Benvenuti-Griffith. Era il 1967».

Ricorda anche il Benvenuti-Monzon del 1971? Con l’asciugamano bianco che vola dall’angolo del nostro campione, per interrompere il massacro?

«Monzon era un killer vero: gettò la moglie dalla finestra. Ora che ci ripenso, mi ricordo anche l’alluvione di Firenze. Una città per me avvolta da un’aura mitica, dove avrei poi vissuto da magistrato. Un luogo magico come Parigi, dove ha vissuto mia madre. Rientrò per una malattia di mia nonna, conobbe mio padre ed eccomi qua».

Chi era sua nonna?

«Italia Iozzia, nata a Pachino, fu una delle prime siciliane a laurearsi. A Catania abitava a casa dei Brancati: Vitaliano era un bambino, lei lo chiamava Talianuzzu. Poi sposò un funzionario di polizia e si trasferì a Bari».

E i nonni paterni?

«Nonno Giovanni era un comandante di navi. In guerra per tre volte ebbe una licenza e per tre volte la sua nave fu bombardata. I marinai cominciarono a chiedere la licenza quando la prendeva lui».

La memoria è al centro del suo ultimo romanzo, «La misura del tempo». Tra poco cade il cinquantenario della strage di piazza Fontana. Come la ricorda?

«Mi ricordo un ragazzino di dodici anni cui dovettero amputare i piedi. Fantasticai a lungo su come sarebbe stata la sua vita se quel pomeriggio non fosse stato in quella banca. La letteratura nasce da lì, dal pensiero ipotetico. Provai sensazioni analoghe quando uccisero Francesco Coco e Carlo Casalegno. Quando scelsero di fare il magistrato e il giornalista mai avrebbero pensato di finire assassinati».

Il magistrato però è un mestiere pericoloso. Soprattutto in Italia. Perché lei l’ha scelto?

«Per caso. Facevo pratica legale, senza convinzione. Un giorno incontro a Bari un ragazzo un po’ più grande di me, che aveva fatto il mio stesso liceo: Michele Emiliano. Tutti e due indecisi sul da farsi, decidiamo di provare insieme il concorso in magistratura. È cominciata così».

I suoi personaggi però non sono magistrati. Fenoglio è un maresciallo dei carabinieri. Guerrieri è un avvocato. Perché?

«Volevo raccontare le indagini e i processi visti dall’altro fronte. Da pubblico ministero, per anni ho osservato e studiato gli avvocati. A volte, durante i controesami non ascoltavo le domande e mi concentravo solo sulla direzione della voce. Quando la sentivo deviare verso di me, voleva dire che stavano proponendo una domanda inammissibile e si giravano inconsapevolmente per controllare se facevo opposizione».

Come il centravanti che ha segnato sul filo del fuorigioco, che prima di esultare controlla se il segnalinee alza la bandierina per annullare il gol.

«Appena sentivo la voce cambiare direzione, dicevo: “Inammissibile”. E il giudice spesso mi dava ragione».

Un altro tema del suo libro è l’errore giudiziario. Eppure lei scrive: “Parecchi di coloro che vengono indagati per omicidio sono colpevoli; molti di quelli che vengono rinviati a giudizio per omicidio sono colpevoli; la stragrande maggioranza di quelli che vengono condannati per omicidio sono colpevoli”. Quindi i gialli non esistono?

«Certo che esistono. Non c’è una verità processuale assoluta di cui non sia possibile in astratto predicare il contrario; anche se è enormemente improbabile».

Eppure molti delitti restano impuniti.

«Nel 90 per cento dei casi gli inquirenti capiscono chi è il colpevole, anche se non sempre riescono a dimostrarne la colpevolezza. Poi c’è l’altro 10 per cento. Lì c’è il giallo».

Rosa e Olindo?

«Come dice un personaggio de La misura del tempo, se non fossero stati loro si tratterebbe di un concorso di circostanze avverse da fare venire i brividi. Ma non giudico mai i casi di cui non ho letto per intero i fascicoli».

Sull’omicidio Calabresi un’idea se la sarà fatta.

«A suo tempo lessi un po’ di atti ed ebbi l’impressione che Marino dicesse la verità. I processi però non si fanno con le impressioni e anche in questo caso non mi sento di esprimere un giudizio tecnico».

E su Mani Pulite?

«Ci furono forzature. Persone arrestate per finanziamento illecito. Ma è facile dirlo ora».

Lei presenta spesso i suoi libri nelle carceri.

«A volte, sì. Incontro persone che sono in cella da decine di anni. È un’esperienza molto intensa, che induce a riflettere».

Lei ha arrestato molte persone.

«Cerignola fu circondata militarmente. Mille anni di carcere, quindici ergastoli. Fu solo il primo dei maxiprocessi che estirparono le mafie dalla Puglia».

Visse cinque anni sotto scorta.

«Appena possibile chiesi mi venisse tolta».

Anche sua moglie è un magistrato.

«Procuratore aggiunto di Foggia, una delle città più difficili d’Italia. È molto brava, ha alcune delle doti più importanti per fare quel lavoro: competenza, passione e distacco».

Nel nuovo romanzo si riaffaccia Rossana, l’ex fidanzata di Guerrieri. Un tratto autobiografico?

«Un po’ sì. Rossana è ispirata a una mia fidanzata dei tempi dell’università. Molto bella e molto simpatica. Io non mi comportai benissimo al tempo ma quando ci rivedemmo, tanti anni dopo, mi diede una bella lezione».

Cioè?

«Mi avvalgo della facoltà di non rispondere».«Testimone inconsapevole» ebbe molti rifiuti, vero?«All’inizio gli editori non mi rispondevano neppure. Poi cominciai a ricevere qualche no e lo considerai un passo avanti».

Come lo motivarono?«Uno scrisse che mancava “il respiro romanzesco”. Un altro che non aveva “nessuna prospettiva commerciale”».

Quante copie ha venduto?

«Più di settecentomila in Italia. È tradotto anche in swahili».

Di chi fu il merito?

«Di Elvira Sellerio. Scelse lei il titolo. Il mio era lungo come quelli della Wertmüller».

Quale consiglio darebbe agli aspiranti scrittori?

«Cominciate a scrivere solo quando sapete già come andrà a finire. Così potrete concedervi qualsiasi excursus, rimanendo padroni della storia. Fermo restando che pure la grande letteratura può commettere errori giudiziari».

Cosa intende?

«Pierre Bayard ha riletto con la sua mente raffinatissima Amleto,Il mastino dei Baskerville, L’assassinio di Roger Ackroyd, dimostrando che il colpevole non è quello indicato da Shakespeare, Conan Doyle, Agatha Christie».

Dopo Guerrieri, l’altro protagonista dei suoi libri si chiama Fenoglio. Perché?

«Di solito scelgo i nomi dei personaggi sull’elenco del telefono: ne conservo qualcuno a questo scopo. Ma il nome del maresciallo l’ho trovato rileggendo Una questione privata, il capolavoro di Beppe Fenoglio».

Lei scrive che gli uomini non si rassegnano alla morte. È stato così anche per i suoi genitori?

«Credo di sì. Papà una volta, negli ultimi anni, disse una frase che mi trafisse e che ho messo testualmente ne La misura del tempo: “ho i pensieri di un ragazzo nel corpo di un vecchio”. Alla fine non riusciva più a parlare, ma poteva ancora suonare il piano».

E lei come immagina l’aldilà?

«Un posto dove poter sapere tutto».

Della Bari della sua infanzia cosa ricorda?

«I clienti dei pescivendoli che infilavano le mani nell’acqua lurida, tiravano fuori i polipetti e se li mangiavano. Per anni non ho toccato il pesce crudo. Poi ho scoperto che è buonissimo».

Ora essere pugliesi è di gran moda.

«Modugno se ne vergognava».

E Arbore, foggiano, passa tuttora per napoletano.«Oggi abbiamo Checco Zalone, Caparezza, i Negramaro».

E Antonio Cassano.

«Un suo cugino, detto Giuan U Nan’, anche lui a suo modo un atleta notevole, una volta fu arrestato per una rapina commessa con un calcio volante al petto del malcapitato».

Pure il presidente del consiglio è pugliese.

«Credo che l’alleanza tra Pd e Cinque Stelle possa diventare strategica. Come quella tra socialisti e Podemos in Spagna».

A lei non dispiaceva neanche Renzi.

«Vero. È un peccato che stia sperperando un grande talento politico».Cosa pensa dello scudo penale per i dirigenti Ilva?«Un’espressione dannosa. La norma penale deve essere generale e astratta».

Chi vince in Emilia?

«Bonaccini».

E Salvini?

«Sbagliato definirlo fascista. È un pericoloso demagogo, e alla demagogia occorre contrapporre intelligenza e passione».

Simone Di Meo per “la Verità” il 19 giugno 2019. Se, come sosteneva Oscar Wilde, la coerenza è l' ultimo rifugio delle persone prive d' immaginazione, possiamo ben dire che l' ex senatore-pm-scrittore Gianrico Carofiglio sia un uomo ricco di inventiva, e non solo per le articolate trame dei suoi libri. Ne ha dato dimostrazione lunedì sera, nel corso della trasmissione di Nicola Porro, Quarta Repubblica, commentando con alti lai lo scandalo delle toghe che sta terremotando il Pd e il Csm. «Io sono un po' turbato da tutta questa discussione», ha detto Carofiglio battibeccando con la collega di partito Alessia Morani, che difendeva Luca Lotti, «perché la mia opinione è che, per esempio, l' onorevole Morani sia in buona fede e questo mi preoccupa parecchio, lo devo dire in modo franco, perché quasi quasi sarebbe meglio se non credesse a quello che dice». Un attimo di suspense da consumato autore noir. «Io credo invece che ci creda e questo ci pone di fronte a un problema molto serio e cioè che noi tutti, collettivamente e individualmente, abbiamo perso una capacità che è fondamentale per la salute della democrazia, e cioè la capacità di vergognarsi». Per essere più diretto, l' ex magistrato spiega: «Dicevo l' incapacità () di vergognarsi di cose che sono vergognose. Ed è vergognoso che un politico, senza alcun mandato del suo partito (chiaro il riferimento a Luca Lotti e a Cosimo Ferri, ndr), in una situazione chiaramente clandestina, vada a trattare di cose di cui non ha nessun titolo per occuparsi, è qualche cosa che è assolutamente fuori da qualsiasi prospettiva di tollerabilità». Parafrasando il titolo di un suo bestseller, L' arte del dubbio, sarebbe interessante sapere se questa integerrima posizione di intransigenza tra politica e giustizia, peraltro giustissima, l' ex senatore-pm-scrittore di Bari l' abbia maturata a proposito degli ultimi fatti di cronaca o se facesse parte del suo patrimonio etico anche negli anni scorsi, quando un nutrito gruppo di uomini di legge pugliesi - egli compreso - transitò nelle fila dei Ds-Pd. Magistrati come Alberto Maritati, senatore della Quercia dal 1999 e sottosegretario nei governi D' Alema I e II (1999-2000), o come Michele Emiliano, sindaco di Bari e attuale governatore della Puglia. Entrambi - Maritati ed Emiliano - nel corso delle indagini s' imbatterono (il primo nell' inchiesta «Operazione speranza», il secondo nel fascicolo «Missione arcobaleno») in esponenti politici del partito che, di lì a poco, li avrebbe candidati e fatti eleggere. O se - continuiamo a esercitarci nell' arte del dubbio - questo rifiuto ideologico a relazioni improprie tra politici e magistrati, che possono essere non di competenza del codice penale ma del codice morale e deontologico, fosse presente in Carofiglio pure in occasione delle conviviali (nel 2007 e nel 2012, date che di certo conosciamo) a cui partecipò insieme all' allora governatore Nichi Vendola e al giudice che lo assolse dall' accusa di abuso d' ufficio, Susanna De Felice. Il secondo incontro si tenne proprio a casa di Carofiglio, mentre il primo fu immortalato da una foto pubblicata nel febbraio 2013 dal settimanale Panorama. Di quest' ultimo episodio conviene ricordare gli strascichi giudiziari che videro coinvolti il giornalista autore dello scoop, Giacomo Amadori, lo stesso pm-scrittore e il cognato di Vendola, Cosimo Ladogana. Dopo la pubblicazione dell' immagine, si attivò infatti un «sofisticato progetto» che provò a far cadere il giornalista in una trappola e a procurargli seri guai giudiziari. Ladogana, fingendosi un appartenente ai servizi segreti, contattò infatti Amadori proponendogli l' acquisto di foto asseritamente rubate dal pc della sorella di Vendola, Patrizia. Scene tra Vendola, la donna e il giudice che aveva decretato l' innocenza del politico con l' orecchino. Il cronista non abboccò all' amo e, dopo un primo incontro, smise di rispondere alle sue pressanti mail. Allora, Ladogana, mosso da «vendicative e non proprio commendevoli intenzioni» (questo lo scrive il pm), pur di arrecare danno al giornalista, si autodenunciò del furto delle immagini e accusò Amadori di ricettazione. Facendolo finire per quasi due anni sotto inchiesta. Dopo l' archiviazione di Amadori, considerato che nessuna foto ipoteticamente rubata era stata acquistata tanto meno pubblicata dal settimanale, la «macchina del fango» innestò la retromarcia e colpì chi, fino a quel momento, l' aveva guidata. Ladogana finì indagato per autocalunnia e Carofiglio, che aveva - secondo l' accusa - offerto un contributo per correggere e limare l' esposto dell' amico -, per omessa denuncia. Peraltro, nella scheda di registrazione del reato, è curioso constatare come l' allora pm dello stesso ufficio, Gianrico Carofiglio, fosse per la Procura di Bari «soggetto da identificare». Il pm Pasquale Drago, il 3 ottobre 2017, archivierà anche questa tranche giudiziaria ritenendo che non ci fu calunnia nei confronti del giornalista autore dello scoop su Panorama perché non si era configurato il reato di ricettazione. Su questi spunti, magari, l' ex senatore-pm-scrittore pugliese potrebbe offrire una sua profonda riflessione in grado di aprire un ulteriore squarcio di consapevolezza all' interno del Pd e della galassia della giustizia. Non vorremmo restare, e qui citiamo un altro bestseller, con Ragionevoli dubbi.

Carofiglio: "Vi insegno il mio karate verbale". Una vita piena di scrittura, giustizia, politica ed arti marziali. Ed ecco cosa dice sulla scandalo del Csm. Luca Telese l'1 luglio 2019 su Panorama.

Dottor Carofiglio, lei è a un tempo scrittore, ex magistrato ed ex parlamentare. Forse è una delle poche persone che può spiegare cosa è avvenuto con «lo scandalo del Trojan».

«(Sospiro). Ci provo, ma so che è un’impresa ardua.

Iniziamo dal primo epilogo che l’indagine ha prodotto. L’autosospensione di un ex ministro dai suoi incarichi nel Pd.

«(Serissimo). L’autosospensione da un partito è una scelta che non esiste. È una cosa poco seria».

«Poco seria» è espressione forte. Non crede che la scelta di Luca Lotti sia appropriata?

«Guardi, io l’ho detto anche a Nicola Zingaretti, una persona che stimo molto e che sono andato a votare alle primarie: di fronte a fatti di questa gravità servivano più durezza e più nettezza».

Doveva essere il segretario a cacciare Lotti dal partito, secondo lei?

«Io qui non parlo di una persona ma di un gesto, di una parola e del loro significato. E quando si ha un mandato, quando si appartiene a una associazione, o a un partito, i casi sono due: o si danno le dimissioni o si viene sospesi da una autorità superiore. Una terza ipotesi non esiste».

Quindi in questo caso, era necessaria una sospensione?

«Per alcuni dei magistrati coinvolti, il Procuratore generale ha chiesto la sospensione cautelare da incarico e stipendio. Vedremo cosa deciderà il Csm. La posizione di un politico è diversa: non si ipotizzano reati né illeciti disciplinari. Se fossi coinvolto in una vicenda del genere, mi dimetterei per potermi difendere».

Stiamo parlando dello scandalo dell’inchiesta sul Consiglio superiore della magistratura (Csm). E lei sa che la prima autodifesa delle persone coinvolte, dall’ex ministro Lotti all’ex sottosegretario Cosimo Ferri, è stata: «Noi non siamo indagati».

«L’esito finale di questa indagine, rispetto al giudizio che sto dando su questa storia, importa poco o nulla».

Perché lei condanna quello che è accaduto indipendentemente dal fatto se gli indagati saranno condannati o meno?

«Sì. Perché il primo fatto che mi pare innegabile è questo. C’è stata un’interferenza indebita nelle decisioni di un organo di rilievo costituzionale. Basterebbe questo».

È una questione formale?

«No, gli esiti di questa interferenza sono gravissimi, sia per le persone interessate che per le istituzioni».

A prescindere da come si chiude l’inchiesta, intende dire?

«Certo. Io sono abituato a distinguere tra responsabilità penale e responsabilità politica. La sintesi di tutto quello che è emerso, e che abbiamo letto, è questa: intercettazioni, dialoghi, strategie e incontri miravano a manipolare e pilotare nomine in incarichi delicatissimi».

E quindi?

«Se verrà appurata la responsabilità penale lo decideranno i magistrati che stanno indagando e un tribunale. Ma c’è una responsabilità politica, a me pare indubbio».

Cosa la colpisce di quello che ha letto finora?

«Il primo punto è il luogo. Il secondo è l’orario. Che figure istituzionali, leader politici e rappresentanti del Csm si incontrino in orario notturno, e in un albergo, mi pare surreale e inaccettabile».

Proviamo a spiegare perché.

«Evidentemente sto cercando di tenere lontano dalla vista, e dagli strumenti di controllo, dei contatti tra figure istituzionali e centri di potere occulto».

La seconda argomentazione difensiva dice: ciò di cui si parla è sempre accaduto, vi svegliate solo ora per fare «i moralizzatori». Solo adesso - intendono - e solo perché un’inchiesta lo rende visibile. 

«È una tesi priva di senso. Io, come tanti, prima di oggi non avevo mai letto dialoghi di questo tenore. Appena ne sono venuto a conoscenza, non ho potuto che condannarli».

Provi a spiegare ciò che le pare più grave, in questa vicenda così tecnica, in modo che tutti la possano capire.

«C’era un imputato che discuteva con altri soggetti, che avevano titolo a decidere perché erano nella Commissione, chi doveva andare e dove, tra i magistrati in corsa per incarichi di responsabilità! E – soprattutto – chi doveva essere ostacolato e come».

Lei usa la parola «imputato» e non «indagato» per Lotti nel caso Consip.

«Sì, perché l’ipotesi di indagine ha già subìto un primo vaglio. Questo significa che un magistrato ha ritenuto che ci fosse la sussistenza degli elementi di accusa. Che questo imputato partecipasse alla scelta del procuratore capo del tribunale dove era imputato a me pare un fatto macroscopico!» 

Lei dice che ha ribadito queste cose a Zingaretti, di fronte a testimoni. 

«Sì, anche alla presentazione del suo libro, pochi giorni fa. Non sono iscritto ad alcun partito, ma da sempre ho a cuore le sorti della sinistra. Di fronte a uno scenario così inquietante la chiarezza è l’unico modo per ristabilire la legalità».

Gianrico Carofiglio è uno degli scrittori italiani più venduti e tradotti nel mondo. È stato per poco più di un quarto di secolo pubblico ministero, poi si è dimesso dalla magistratura. È stato per una legislatura senatore, poi non si è più ricandidato. Eppure, se ci parli a lungo, scopri che una delle sue principali passioni è il karate. È cintura nera, quinto dan. Ha iniziato a studiare arti marziali da ragazzo, e ha messo a punto una nuova dottrina, che fonde i suoi due grandi interessi in una disciplina inedita di cui parliamo a lungo: «il karate verbale». 

Suo fratello Francesco è scrittore e illustratore. Sua madre, Enza Buono, è anche lei scrittrice. È nato in mezzo ai ferri del mestiere.

«(Sorriso). Quando ero piccolo, mamma non scriveva ancora racconti. Era una critica letteraria e aveva vissuto in Francia. Rientrò perché mia nonna si doveva operare. E solo per questo motivo conobbe mio padre».

Che era un professore di Scienze delle costruzioni.

«Sì. Lui aveva una grande passione per la musica, suonava il piano. Alla fine della sua vita, colpito da demenza senile, iniziò a perdere la memoria, mantenendo l’ultimo legame proprio con il suo strumento. Non riusciva più a pronunciare nemmeno i nomi, ma tuttavia suonava a memoria».

Terribile e commovente allo stesso tempo.

«Ho raccontato la sua storia, in un libro a quattro mani con mio fratello Francesco, si intitola La casa nel bosco. Abbiamo scelto un verso che amo molto come epigrafe: «La morte non è niente/sono solo andato nella stanza accanto».

Anche i due nonni meridionali hanno un peso nella sua formazione.

«Il primo, non l’ho conosciuto, era un dirigente di polizia. Nelle foto, assomiglia a Totò quando era Antonio de Curtis. Un uomo elegante della classe dirigente del Sud»

E l’altro?

«Faceva il comandante di navi e aveva un grande talento matematico: era simpaticissimo e ha fatto in tempo a educarmi».

Scuole superiori?

«Liceo classico a Bari, all’Orazio Flacco. Nella stessa scuola c’erano Michele Emiliano e Gaetano Quagliariello».

Facevano politica?

«Michele da giovane era iscritto alla Fgci. Gaetano era molto lontano dai suoi recenti approdi a destra. Era un autentico leader radicale, interveniva nelle assemblee, era impegnato da militante in tutte le battaglie civili e libertarie pannelliane».

E lei non faceva politica?

«Ero progressista. Decisamente di sinistra. Ho dato il mio primo voto al Pci, ho sempre votato Pds, Ds e Pd. Ma da ragazzo non ho mai militato»

S’immaginava già magistrato?

Macché! Avevo le più varie e bislacche idee su cosa fare: a scuola andavo bene, e ho preso in considerazione l’idea di studiare fisica, filosofia, medicina. Poi ho scelto giurisprudenza per guadagnare tempo»

Ed è stata la scelta giusta.

«Amo molto una teoria di Jung, quella sulla «sincronicità causale», secondo cui le storie acquistano senso quando le racconti. Evidentemente il mio destino era già quello».

E intanto coltivava le arti marziali.

«Sono tutt’ora sedotto da una massima di Gichin Funakoshi, fondatore del karate moderno, che dice: «Sconfiggere il nemico senza combattere è l’abilità suprema»».

Un concetto quasi filosofico.

«(Ride). Tuttavia potrei farle un seminario istantaneo sulla difesa personale in due ore. Il combattimento in strada è totalmente diverso da quello in palestra. Ha altre regole».

Per esempio?

«Devi saper dare un pugno o ti spacchi una mano. Devi saper dare una gomitata per colpire. Devi essere consapevole che se combatti contro una persona armata di un’arma da taglio, anche se sei un campione di arti marziali, quasi sicuramente ti taglierai».

Questa cicatrice sulla mano cos’è?

«Ecco, a proposito di pugni: una volta mi si è aperta letteralmente la mano. C’è stato un periodo in cui sono rimasto coinvolto, mio malgrado, in diverse risse».

Non ci credo. Lei mi sembra un uomo pacato.

«Fa male, non si deve far ingannare dall’apparenza. Una volta, per esempio, camminavo per strada, quando mi aggredì un operaio, evidentemente fuori di senno, con una pala in mano».

Come mai?

«Riteneva che avessi calpestato l’area sopra cui stava lavorando».

Quindi era armato. Riuscì a salvarsi?

«(Sorriso). Finì lanciato per aria. Un altro episodio si verificò quando ero magistrato e mi diede un’enorme e non voluta notorietà a Bari».

E cosa accadde?

«Stavo guidando e avevo dietro una macchina che mi incalzava. Feci un gesto con il palmo aperto, che da noi si usa per dire: «Stai calmo...»».

E che succede?

«Improvvisamente mi tagliarono la strada e scesero dall’auto per aggredirmi».

Due contro uno?

«Sì. Prima feci volare il primo, poi il secondo. E scelsi di chiamare la polizia, malgrado avessi risolto, per denunciare l’aggressione».

Cosa intende per notorietà?

«(Ride). Che per un mese entravo nei posti e non mi facevano pagare nulla».

Terzo episodio?

«Passeggiavo con una collega, quando mi accorgo di due persone che stavano cercando di borseggiarla. Sa, c’è un gesto preciso, quando il borseggiatore allunga l’indice per toccare la borsa e saggiarne la resistenza»

Di nuovo due contro uno.

«Accade in un minuto. Ci scambiamo appena uno sguardo. Poi tutto inizia: uno si appoggia a una ringhiera. Mi spinge, mi aggredisce»

E lei?

«Gli faccio: «Cerchi guai? Sparisci». Lui, ignaro di quello che stava per accadergli, mi risponde: «Ti spezzo tutte le ossa». Poi mi afferra e salta per darmi una testata».

Ci riesce?

«(Sospiro). Sembrava una scena da film americano. Prima di potermi sfiorare, finisce rovesciato sui tavoli, travolgendone almeno tre».

E l’altro?

«Spacca una bottiglia di vetro e corre verso di me brandendola».

Arma da taglio, pericolo di essere ferito.

«Uso con lui una tecnica karate in cui fai cadere l’altro portandolo con te. Questa volta, eravamo a Firenze, la fama e le ironie si diffusero tra le forze dell’ordine».

La sfottevano dandole del Bruce Lee. Ma mi parli dei seminari sul «karate verbale», la sua disciplina letteral-marziale. 

«Per anni ho tenuto seminari sull’uso consapevole della parola, sia scritta che verbale. Mi accorgevo gradualmente che tendevo a ricorrere sempre più spesso a metafore prese dalle arti marziali. Alla fine ho elaborato una tecnica dialettica che si ispira a questi principi»

Facciamo un esempio.

«Un duello televisivo. Dove è meglio non dare forza all’avversario, ma usare la sua energia per metterlo a tappeto».

Per esempio il suo match con Alessandro Sallusti a Quarta Repubblica. 

«Anche in una puntata da Lilli Gruber mi è accaduto di trovarmi di fronte alla tipica tecnica argomento-fantoccio».

Cioè?

«Stavo provando a spiegare una cosa complessa: il Movimento Cinque stelle ha imposto una visione semplificata del mondo, per certi versi fumettistica.  Divide il mondo in buoni e cattivi. Funzionava. Finché, giunto al governo, irrompe il rapporto con la realtà e la semplificazione non paga più».

Chiaro.

«A questo punto il mio interlocutore di quel giorno mi attacca: «Massì, continuate a dire che chi ha votato Cinque stelle è un cretino!»».

Ricordo la puntata. Duello epocale con Marco Travaglio.

«Non importa chi, ma cosa. È una classica argomentazione-fantoccio perché non è quello che hai detto, ma la sua caricatura. Serve a distrarti, a farti arrabbiare, a costringerti a smentire».

E la dialettica karate cosa prescrive? 

«Non devi farti prendere. Devi schivare il colpo. E solo se non sei emotivamente coinvolto puoi riuscirci. Se contesti quella frase, sei caduto nella trappola».

E chi sono gli «studenti» dei suoi corsi?

«Ho iniziato con gli alti dirigenti di Alleanza assicurazioni di Milano. I corsi sono rivolti a giuristi, top manager, aziende».

Darebbe lezioni a qualche politico di sinistra?

«(Ride). Se paga perché no? Provi a bloccare la mia mano con tutta la forza che ha».

(Ci provo, non riesco, si divincola con il palmo a coltello). 

Vede? Il karate è un gesto, ma anche un modo di affrontare un problema e risolverlo. Non a caso la parola significa sia a mano vuota che a mente libera da pregiudizi».

Se ne trova traccia anche nei suoi libri?

«Per esempio ne L’arte del dubbio. Il controesame ben fatto, in cui non dai mai spazio alle argomentazioni difensive fittizie, è una declinazione giudiziaria di questi principi».

Ma come ci arriva alla magistratura?

«Per caso. Mi ero laureato con 110 e lode. Non sapevo che fare, e inizio la pratica da avvocato. Poi un giorno, mentre cammino per strada a Bari, incontro Michele Emiliano che mi dice: «Sto andando a iscrivermi all’esame di magistratura»».

E che c’entra?

«Mancavano meno di tre mesi. Ma tra me e me penso: «Posso provarci anch’io». Andiamo assieme a fare domanda. Poi studiamo insieme nella sua villa al mare, a Brindisi».

Non è possibile. So che lei prese 80, il massimo.

«(Ride). Mi sentivo molto sicuro di me, mi ero messo a fare il bullo. Contestai una domanda, ne riformulai un’altra. Alla fine il presidente mi prese in disparte: «Le volevo mettere 79. Per la presunzione». Però dopo scoprii che erano stati generosi malgrado la mia faccia da schiaffi».

Primo incarico, pretore a Prato.

«Mi occupavo di ambiente. Ventisette anni. Era come andare a studiare fuori, uno stage pagato. Studiavo a Firenze e non dormivo la notte per prepararmi sui temi tecnici».

Poi in Procura a Foggia.

«Oggi è una sede complicata: prima molto peggio. C’era un clima da anni Trenta... L’elemento centrale della mia prima inchiesta era l’estorsione all’imprenditore Panunzio. Arrestammo tutti gli indagati e li portammo a processo. Per associazione mafiosa».

E poi?

«Il maxi processo alle cosche di Cerignola: omicidi, stupefacenti e riciclaggio. Per celebrare gli arresti circondammo tutta la città e realizzammo una vera e propria operazione militare».

Addirittura?

«Il controllo del territorio era tale che ci sentivamo in zona di guerra nemica: come truppe di occupazione. Alla fine comminammo mille anni di carcere e quindici ergastoli».

Si rischiava la pelle?

«Quando sei solo sai che possono colpire un magistrato per decapitare l’inchiesta. Avevo 33 anni. E questo rischio è venuto meno solo quando abbiamo creato i pool».

Poi l’Antimafia, a Bari.

«Ci torno nel 1997 e mi occupo di pubblica amministrazione. Era bello, mi sposo con una collega, abbiamo due figli. Ma...»

Ma?

«Dopo una lunga cavalcata era finita la stagione dell’adrenalina. La sensazione di poter cambiare le cose. Pian piano iniziò a ridursi il livello di gratificazione».

Fenoglio e Guerrieri sono figli del magistrato Carofiglio o nipoti di Camilleri?

«Voglio molto bene a Camilleri. Lo considero uno scrittore molto interessante, ha una straordinaria inventiva linguistica. Ma dal punto di vista letterario non potremmo essere più diversi. Fenoglio non è figlio di nessuno, tranne che della mia fantasia».

Nessun padre putativo?

«Mah, forse qualche serie tv americana molto sofisticata»

Nessun autore?

«Lawrence Block, il più bravo di tutti: in Italia non lo conosce nessuno. Ha creato un ex poliziotto alcolista investigatore privato. Un genio. Più bravo di James Ellroy che per anni ha dominato la materia oscura e poi ne è stato sopraffatto».

Il tema del suo libro Il passato è una terra straniera.

«Che sfiora il territorio della materia oscura, è vero. 

Ma il Carofiglio autore quando nasce?

«A settembre 2000, dopo un’estate in cui si era coagulata quella perdita di senso.

A maggio 2001, dopo nove mesi esatti di lavoro, il tempo di una gestazione, finisco di scrivere Testimone inconsapevole».

E trova subito un editore?

«Nooo... Era solo l’inizio di una odissea fatta di tanti rifiuti. Ricordo una lettera, grottesca, che finiva così: «Ce lo rimandi fra sei mesi»».

Ah ah ah…

«Un editore importantissimo mi rispose dopo tre mesi con una lettera. Essendo ingenuo, ero felice.

Perché ingenuo?

«Se ti scrivono, ti stanno rifiutando. Infatti la prima metà erano elogi. L’altra metà ingiurie».

E poi?

«Il 14 maggio 2002 squilla il telefono ed è la segretaria di Elvira Sellerio».

Ricorda il giorno esatto?

«(Ride). E anche che ero in ufficio in mezzo a due carabinieri dei Ros. Mi vergognavo. Rispondevo a monosillabi con Elvira che diceva: «È bellissimo! Lo voglio pubblicare a settembre!».

E il titolo geniale?

«Un’idea di Elvira, tratta dal libro. Io avevo in mente la massima di Lao Tse: «Quella che il bruco chiama fine del mondo, il mondo chiama farfalla». E volevo, mostruosamente, intitolarlo: «Quella che il bruco…»».

Santa donna Elvira.

«Uscì nel settembre 2002, senza clamori,  ed esplose nell’estate 2003. Ancora oggi vende 20 mila copie all’anno».

Incredibile. 

«Ricordo che dico alla Sellerio: «È pensato per essere un episodio unico». Lei mi disse: «Ci pensi molto bene». E infatti ho scritto altre tre storie di Guerrieri»

In tutto ha venduto 7-800mila copie. Solo Giorgio Faletti, Fabio Volo, Alessandro Baricco e Andrea Camilleri vendono così tanto. 

«(Risata). È anche uno dei due romanzi italiani tradotti in lingua swahili».

Quando è che lo scrittore uccide il magistrato?

«Tra il 2006 e il 2007 divento consulente dell’Antimafia. Vengo a Roma, ho meno pressione. Dopo dieci mesi, nel 2008, Walter Veltroni mi chiese di candidarmi».

Ecco la polemica con Sallusti.

«Ridicola. Perché era palese che lo chiedevano allo scrittore, non al magistrato».

Cinque anni al Senato, poi l’addio alla toga»

«Ero stato magistrato, e nel tempo libero scrittore. Capii che se fossi rientrato, quel rapporto si sarebbe invertito. Sarei stato scrittore e poi nel tempo libero magistrato, inaccettabile, per me»

Lo ha capito scrivendo una lunga lettera.

«E infatti quando l’ho finita, l’ho stampata. E poi mi sono messo a piangere, come un bambino».

Poteva scegliere una aspettativa non retribuita.

«Qualcuno mi disse: «Conosci quelli della commissione del Csm? Parlaci». Il mio commercialista si arrabbiò: «Ma tu hai idea di quel che stai perdendo sul piano previdenziale?». Dai conteggi scoprimmo che con un solo anno in più avrei avuto 80 mila euro di arretrati. Ma ormai il dado era tratto.

Adesso ci sono grandi progetti televisivi e cinematografici.

«A novembre Guerrieri diventa fiction. Ma non dico di più».

È vero che L’arte del dubbio era nato come un manuale Giuffrè sulla tecnica interrogatoria?

«Nella sua prima vita ha venduto solo 2.500 copie. Nella versione narrativa 300 mila».

La versione di Fenoglio è il libro più venduto dell’anno. Lei è ricco?

«(Sorriso). Abbastanza benestante da non avere problemi».

Scrive in momenti particolari?

«(Ride). No, quando mi va».

Lavora con penna e calamaio, con la macchina per scrivere o al computer?

«(Altra risata). Veramente le parti più facili le detto con una app molto comoda che si chiama Speechy. Meglio sul mio terrazzo di Roma. Ma anche in treno, o in aereo».

Viaggia molto?

«Mia moglie è procuratore aggiunto a Foggia. Mia figlia Giorgia, 24 anni, sta facendo un master in teoria politica a Londra. Alessandro, 28 anni, è avvocato in uno studio a Milano. Io scrivo ovunque, concentrato anche se bombardano. Se hai lavorato in una procura puoi fare tutto».

Incredibile.

«Le racconto un aneddoto. Quando uscì Testimone inconsapevole dissi spavaldo: «Con i diritti d’autore mi comprerò uno studio dove andare a scrivere». Era una smargiassata».

Con il senno del poi. Perché di solito con un libro è difficile comprare un’auto.

«Esatto. Ma Testimone andò benissimo e acquistai un piccolo studio sulle mura antiche di Bari. Un idillio: con la vista del mare vicino a San Nicola. Lo cercai piccolo, incantato e silenzioso, lo arredai con cura dei dettagli...»

E poi?

«Troppo carino. Troppo silenzioso. Non sono riuscito a scrivere una sola riga e non ci ho mai più messo piede per scrivere»

Il caso Lotti spacca il Pd, Carofiglio zittisce Morani: "Non mi devi interrompere". Alessia Morani zittita da Carofiglio sul caso Lotti - Csm. A Quarta Repubblica si discute dello scandalo che coinvolge Csm e Pd. Lo scontro più duro è tra due esponenti Dem. Domenico Camodeca su Blasting News il 18 giugno 2019. Continua a far discutere animatamente l’inchiesta di Perugia sulla presunta corruzione del magistrato Luca Palamara, con il relativo strascico di intercettazioni che sta sconvolgendo sia il Consiglio superiore della magistratura che il Partito Democratico. Per trattare lo scottante tema, il conduttore di Quarta Repubblica, Nicola Porro, ha deciso di invitare negli studi di Rete 4 il critico d’arte Vittorio Sgarbi, il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, il giornalista de L’Espresso Emiliano Fittipaldi e gli esponenti del Pd Alessia Morani e Gianrico Carofiglio. A sorpresa, il critico più duro del suo partito si dimostra proprio l’ex toga Carofiglio, protagonista di un bollente siparietto con la Morani. Sallusti e Sgarbi, sostenitori invece della linea morbida, se le danno di santa ragione con Fittipaldi. Negli studi di Quarta Repubblica, durante la puntata andata in onda lunedì 17 giugno, la parlamentare renziana del Pd Alessia Morani, spalleggiata dal duo formato da Sallusti e Sgarbi, strepita e si agita allo scopo di difendere in ogni modo il compagno di corrente Luca Lotti, pizzicato dalle intercettazioni a tentare di aggiustare le nomine di alcuni magistrati. “Volete per forza l’uomo nero? Avete individuato lotti. Ma l’uomo nero non è Lotti, il problema sta dentro la magistratura”, attacca la Morani. Una versione dei fatti che non convince in alcun modo Gianrico Carofiglio. “Io sono un po’ turbato da tutta questa discussione - replica l’ex toga pugliese, divenuto ora scrittore e politico - perché la mia opinione è che, per esempio, l’onorevole Morani sia in buona fede e questo mi preoccupa parecchio, lo devo dire in modo franco, perché quasi quasi sarebbe meglio se non credesse a quello che dice”. Il j’accuse di Carofiglio nei confronti, non solo di Alessia Morani, ma dell’intera classe dirigente del Pd, prosegue. “Io credo invece che ci creda - punta il dito contro la sua compagna di partito - e questo ci pone di fronte a un problema molto serio e cioè che noi tutti, collettivamente e individualmente, abbiamo perso una capacità che è fondamentale per la salute della democrazia, e cioè la capacità di vergognarsi”. A quel punto lei non regge più e sbotta: “Ma di che cosa? Voglio sapere di che cosa”. Una pessima idea, quella di sovrapporre la sua voce a quella di Carofiglio. “Per favore non mi interrompere ti prego, non mi interrompere - la incenerisce infatti lo scrittore - se tu non mi interrompi io continuo, altrimenti mi posso alzare e andarmene. Non mi interrompere, non mi devi interrompere”. Lei prova a gettare acqua sul fuoco. “T’ho interrotto solo adesso, non facciamo i permalosi”, aggiunge con un sorriso quasi beffardo. Ma ormai Carofiglio è un fiume in piena. “Dicevo - alza ulteriormente i toni - l’incapacità, che non è tua personale ma purtroppo è collettiva di molti, di vergognarsi di cose che sono vergognose, Ed è vergognoso che un politico, senza alcun mandato del suo partito (si riferisce a Lotti e Ferri), in una situazione chiaramente clandestina, vada a trattare di cose di cui non ha nessun titolo per occuparsi, è qualche cosa che è assolutamente fuori da qualsiasi prospettiva di tollerabilità”.

Simone Di Meo per “la Verità” il 19 giugno 2019. Se, come sosteneva Oscar Wilde, la coerenza è l' ultimo rifugio delle persone prive d' immaginazione, possiamo ben dire che l' ex senatore-pm-scrittore Gianrico Carofiglio sia un uomo ricco di inventiva, e non solo per le articolate trame dei suoi libri. Ne ha dato dimostrazione lunedì sera, nel corso della trasmissione di Nicola Porro, Quarta Repubblica, commentando con alti lai lo scandalo delle toghe che sta terremotando il Pd e il Csm. «Io sono un po' turbato da tutta questa discussione», ha detto Carofiglio battibeccando con la collega di partito Alessia Morani, che difendeva Luca Lotti, «perché la mia opinione è che, per esempio, l' onorevole Morani sia in buona fede e questo mi preoccupa parecchio, lo devo dire in modo franco, perché quasi quasi sarebbe meglio se non credesse a quello che dice». Un attimo di suspense da consumato autore noir. «Io credo invece che ci creda e questo ci pone di fronte a un problema molto serio e cioè che noi tutti, collettivamente e individualmente, abbiamo perso una capacità che è fondamentale per la salute della democrazia, e cioè la capacità di vergognarsi». Per essere più diretto, l' ex magistrato spiega: «Dicevo l' incapacità () di vergognarsi di cose che sono vergognose. Ed è vergognoso che un politico, senza alcun mandato del suo partito (chiaro il riferimento a Luca Lotti e a Cosimo Ferri, ndr), in una situazione chiaramente clandestina, vada a trattare di cose di cui non ha nessun titolo per occuparsi, è qualche cosa che è assolutamente fuori da qualsiasi prospettiva di tollerabilità». Parafrasando il titolo di un suo bestseller, L' arte del dubbio, sarebbe interessante sapere se questa integerrima posizione di intransigenza tra politica e giustizia, peraltro giustissima, l' ex senatore-pm-scrittore di Bari l' abbia maturata a proposito degli ultimi fatti di cronaca o se facesse parte del suo patrimonio etico anche negli anni scorsi, quando un nutrito gruppo di uomini di legge pugliesi - egli compreso - transitò nelle fila dei Ds-Pd. Magistrati come Alberto Maritati, senatore della Quercia dal 1999 e sottosegretario nei governi D' Alema I e II (1999-2000), o come Michele Emiliano, sindaco di Bari e attuale governatore della Puglia. Entrambi - Maritati ed Emiliano - nel corso delle indagini s' imbatterono (il primo nell' inchiesta «Operazione speranza», il secondo nel fascicolo «Missione arcobaleno») in esponenti politici del partito che, di lì a poco, li avrebbe candidati e fatti eleggere. O se - continuiamo a esercitarci nell' arte del dubbio - questo rifiuto ideologico a relazioni improprie tra politici e magistrati, che possono essere non di competenza del codice penale ma del codice morale e deontologico, fosse presente in Carofiglio pure in occasione delle conviviali (nel 2007 e nel 2012, date che di certo conosciamo) a cui partecipò insieme all' allora governatore Nichi Vendola e al giudice che lo assolse dall' accusa di abuso d' ufficio, Susanna De Felice. Il secondo incontro si tenne proprio a casa di Carofiglio, mentre il primo fu immortalato da una foto pubblicata nel febbraio 2013 dal settimanale Panorama. Di quest' ultimo episodio conviene ricordare gli strascichi giudiziari che videro coinvolti il giornalista autore dello scoop, Giacomo Amadori, lo stesso pm-scrittore e il cognato di Vendola, Cosimo Ladogana. Dopo la pubblicazione dell' immagine, si attivò infatti un «sofisticato progetto» che provò a far cadere il giornalista in una trappola e a procurargli seri guai giudiziari. Ladogana, fingendosi un appartenente ai servizi segreti, contattò infatti Amadori proponendogli l' acquisto di foto asseritamente rubate dal pc della sorella di Vendola, Patrizia. Scene tra Vendola, la donna e il giudice che aveva decretato l' innocenza del politico con l' orecchino. Il cronista non abboccò all' amo e, dopo un primo incontro, smise di rispondere alle sue pressanti mail. Allora, Ladogana, mosso da «vendicative e non proprio commendevoli intenzioni» (questo lo scrive il pm), pur di arrecare danno al giornalista, si autodenunciò del furto delle immagini e accusò Amadori di ricettazione. Facendolo finire per quasi due anni sotto inchiesta. Dopo l' archiviazione di Amadori, considerato che nessuna foto ipoteticamente rubata era stata acquistata tanto meno pubblicata dal settimanale, la «macchina del fango» innestò la retromarcia e colpì chi, fino a quel momento, l' aveva guidata. Ladogana finì indagato per autocalunnia e Carofiglio, che aveva - secondo l' accusa - offerto un contributo per correggere e limare l' esposto dell' amico -, per omessa denuncia. Peraltro, nella scheda di registrazione del reato, è curioso constatare come l' allora pm dello stesso ufficio, Gianrico Carofiglio, fosse per la Procura di Bari «soggetto da identificare». Il pm Pasquale Drago, il 3 ottobre 2017, archivierà anche questa tranche giudiziaria ritenendo che non ci fu calunnia nei confronti del giornalista autore dello scoop su Panorama perché non si era configurato il reato di ricettazione. Su questi spunti, magari, l' ex senatore-pm-scrittore pugliese potrebbe offrire una sua profonda riflessione in grado di aprire un ulteriore squarcio di consapevolezza all' interno del Pd e della galassia della giustizia. Non vorremmo restare, e qui citiamo un altro bestseller, con Ragionevoli dubbi.

 “IL CSM HA MILLE METASTASI, E’ INCURABILE”. Alessandro Rico per “la Verità” il 24 giugno 2019. Telefoniamo a Vittorio Sgarbi, scatenato, mentre è in autostrada. La linea va e viene. Per fortuna non guida lui.

Cosa ne dice degli ex magistrati, tipo Gianrico Carofiglio, che si scandalizzano per il suk al Csm?

«Carofiglio cerca di dare un' aura alla sua nuova condizione per evitare di dire che è stato eletto nel collegio in cui era Procuratore».

Lui replica: ero andato via un anno prima.

«Per andare a fare il consulente nella commissione antimafia. Quindi, di fatto, s' è avvicinato ai politici. La politica l' ha sempre intersecata con l' attività giudiziaria». 

A FERRI E FUOCO. Giacomo Amadori per “la Verità” il 21 giugno 2019. Cosimo Maria Ferri è un tipo svelto. Una specie di Bertoldo che ha studiato. Viene da Pontremoli (Massa Carrara), paesone dalla Lunigiana. Il padre Enrico, ex pretore ed ex ministro, gli ha insegnato due mestieri, quello della politica e quello della magistratura. Lui li ha assimilati entrambi e un po' li ha shakerati. Giudice penale a Carrara e Massa, a 35 anni era già consigliere del Csm, a 42 sottosegretario nel Governo Letta, a 46 deputato del Pd. A 48 è finito per l' ennesima volta in qualche intercettazione scivolosa (senza però essere mai stato indagato).

Tanti suoi ex colleghi oggi vi attaccano, a partire da Gianrico Carofiglio che organizzava vacanze e pranzi con la famiglia Vendola e con i magistrati che si sono occupati giudiziariamente dell' ex governatore.

«Avete ricordato che è amico del giudice Susanna De Felice (che ha assolto Vendola, ndr). Il vostro giornale ha pure scritto che il marito della De Felice è Achille Bianchi, il quale ha lavorato con diversi governi di centro-sinistra. L' ultima esperienza l' ha fatta al Mef e poi da lì è andato a fare l' aggiunto a Trani. In questo caso non ci sono porte girevoli? Su questo Carofiglio non ha nulla da dire? Come mai tutti quelli che esprimono giudizi morali non hanno avuto nulla da obiettare sul rapporto politica/magistratura quando colleghi della loro stessa corrente, provenienti da importanti esperienze fuori ruolo, sono stati nominati subito o quasi (anche dallo scorso Csm) per incarichi direttivi delicati? Andiamo a vedere le nomine della scorsa consiliatura o perché non c' era il trojan è vietato parlarne?». 

VOLANO COLTELLATE TRA LE FIRME DI ''REPUBBLICA''. Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “la Verità” il 25 giugno 2019.

E su Facebook Viviano si chiede: «Ma quanti santi in paradiso ha questo Foschini?». Di certo ha molti amici tra i magistrati pugliesi. Il giornalista ha per esempio un rapporto privilegiato con Gianrico Carofiglio. Uno dei giornalisti che firmano questo articolo nel 2013 pubblicò su Panorama le foto della famiglia Vendola a pranzo con un bel gruppo di magistrati, tra cui Carofiglio e la moglie. C' era anche il giudice Susanna De Felice che qualche anno dopo assolse lo stesso Vendola da un' accusa di abuso d' ufficio. I pm protestarono e Foschini spiattellò la loro nota riservata sul giornale, beccandosi una denuncia. Ma sulla questione delle foto rimase sempre un passo indietro. Sino a quando, all' improvviso, fece uno scoop: «Il partner di Patrizia Vendola (sorella del politico, ndr): "Ho dato io le foto a Panorama"». Il sommario chiariva meglio la vicenda: «Cosimo Ladogana ha presentato denuncia alla Digos accusandosi di aver ceduto lui al settimanale le foto della festa a cui hanno partecipato il governatore e il gip che lo ha assolto». Foschini riportò che Ladogana aveva tradito la famiglia della fidanzata «all' insaputa di tutti» perché «voleva scoprire le carte del settimanale e tutelare la sua donna». In realtà dietro alla denuncia c' era una storiaccia che venne fuori quando gli investigatori sequestrarono il pc di Ladogana. In cui trovarono la corrispondenza tra il cognato e Carofiglio: «Il mio intento era quello di proporre tali foto al giornalista senza nascondere, anzi evidenziando la provenienza illecita delle stesse. [] Tutto questo al solo scopo di constatare la reale disponibilità dello stesso ad addentrarsi in un contesto di illegalità». E aggiunse: «Ero sicuro di presentarmi lì la domenica con i carabinieri e denunciarlo per ricettazione». E ancora: «Era da giorni che avevo quella maledetta idea in testa, tanto da parlarne in maniera scherzosa anche a Patrizia. Dicevo: "A quel pezzo di merda bisognerebbe fargli il culo proponendogli materiale rubato"». Ladogana era pronto a qualunque cosa pur di non passare da traditore: «Sono disposto a tutto [] Non avrei problemi, se fosse necessario, di presentarmi davanti a un giudice autodenunciadomi». Cosa che fece. Ma solo dopo che Carofiglio gli aveva limato il testo e gli aveva chiesto «tutto (ma davvero tutto senza censura) lo scambio di email con quel signore (chi scrive, ndr)» e «un sunto delle comunicazioni telefoniche, con numeri delle utenze e durate delle conversazioni ed eventuali sms» tra il cognato e il cronista. Subito dopo partì la denuncia farlocca e Foschini la pubblicò in anteprima. Ma non raccontò che, per quel maldestro tentativo di incastrare il giornalista, Gianrico e il fidanzato della Vendola vennero indagati (Carofiglio per omessa denuncia) e poi archiviati solo perché la calunnia non era andata a buon fine. Nei giorni scorsi Foschini ha intervistato dal vivo per l' ennesima volta Carofiglio nella kermesse «La Repubblica delle idee». La serata era intitolata: «Le parole sono pistole cariche». Peccato che con gli amici facciano sempre cilecca.

RITRATTONE DI GIANRICO CAROFIGLIO BY PERNA. Giancarlo Perna per “la Verità” il 12 Aprile 2019. Più che alla fama di giallista, la notorietà del magistrato scrittore pugliese, Gianrico Carofiglio, è dovuta al fatto di essere spalla televisiva di Lilli Gruber. I due si puntellano a vicenda e sprizzano complicità da ogni fibra. Carofiglio si pavoneggia anche in altri talk show - da Massimo Gramellini a Giovanni Floris - ma dà il meglio di sé a Otto e mezzo. Lilli e Gianrico sono affini. Sono entrambi fieramente di sinistra, ai limiti dell' agit prop. Hanno come faro il Pd di cui Carofiglio fu senatore dal 2008 al 2013 e per amore del quale lasciò la magistratura. Sono tutti e due portati a massacrare il detestato di turno con l' aria salottiera di chi annega una mosca in un calice di cognac. Oggidì, la loro idiosincrasia è riservata a Matteo Salvini. Quando decidono di mazzolarlo, Gruber trasforma la trasmissione in un mattatoio a luci soffuse. Le cose vanno così. Lilli accenna a qualche magagna del ministro dell' Interno. Lancia un' occhiata a un ospite a caso, poniamo il direttore dell' Espresso, Marco Damilano, che sorride consapevole di essere una comparsa. Poi, si rivolge a Carofiglio, suo beniamino. Col timbro assassino di chi si aspetta da lui una bella mazzolata nello stile elegante della casa, ingiunge: «Lei che ne pensa, Carofiglio?». L' interpellato, un quasi sessantenne con barba di 3 giorni e il viso spirituale, se non fosse per due occhi da lenza, dà inizio a una manfrina al fiele. «C' era un signore», esordisce «frequentatore di spacciatori condannati che dichiarava che l'Ue si sarebbe fatta una ragione della manovra italiana». Gruber interviene: «Allusione al ministro Salvini, poi ne parleremo». Carofiglio, come un orso ammaestrato: «Volentieri, così potrò fare un' analisi prossemica del signore amico, ripeto, di pluripregiudicati». Lei, dosando i tempi televisivi: «Ci arriviamo». Interrompo la pantomima per un paio di annotazioni. Prossemica, significa analizzare un tizio sulla base di gesti e comportamenti. Vediamo di fare un po' di prossemica su Carofiglio. Avrete notato che attacca Salvini senza nominarlo. Per non abbassarsi, ovviamente. Tipico espediente piddino. Lo usò Walter Veltroni, di cui Carofiglio è tributario, contro Silvio Berlusconi. Per l' intera campagna elettorale 2008, Walter non pronunciò mai il nome del detestato Cav, sostituendolo infantilmente con, «il principale esponente dello schieramento a noi avverso». Non vi sarà inoltre sfuggita l' insistenza dell' ex magistrato nell' insinuare un' immagine criminale di Salvini come amico di gentaglia. Pare si riferisca a dei supporter del Milan, squadra di calcio di cui Salvini è tifoso, che, fatta qualche sciocchezza e pagato il conto con la giustizia, si danno pacche sulle spalle col ministro nei raduni tra fan. Embè? Non credo che Carofiglio, uomo di legge, abbia stretto nella sua vita solo mani incensurate. Io, nella mia, facendo il giornalista, ho abbracciato fior di condannati, commuovendomi per i loro destini e mantenendo fermi antichi affetti. Carofiglio è autore di successo da quasi 20 anni. Per assecondare questa passione, dopo la parentesi politica che gli è servita da pausa di riflessione, ha lasciato la magistratura e si è mantenuto solo scrivendo. Ha creato un ciclo di legal thriller all' americana con protagonista un avvocato, Guido Guerrieri, suo alter ego, chic e nevrotico, degustatore di sushi e, presumo, elettore del Pd. Primo editore è stato Sellerio, seguito da Rizzoli e oggi Einaudi, della galassia editoriale del Berlusca. Figura di cui un tempo Gianrico ha scritto peste e corna, considerandola orrida. Oggi, non più. La sua opera è diffusissima. Si parla di 5 milioni di copie vendute e di traduzioni in 28 lingue. Del tutto comprensibile, perciò, che il Nostro si sia montato la testa, come indica il seguente episodio. Nel 2012, l' editor Vincenzo Ostuni, parendogli immeritato il terzo posto al Premio Strega di Carofiglio con Il silenzio dell' onda, commentò lapidario: «Letterariamente inesistente, scritto con i piedi da uno scribacchino senza un' idea». Gianrico lo querelò chiedendo 50.000 euro di danni. Al che, mezzo mondo letterario abituato da secoli a darsele di santa ragione senza finire in tribunale, si indignò. Il milieu scoprì che in mezzo a loro era capitato un estraneo: un leguleio abituato a regolare i conti a suon di denunce. A Roma, una cinquantina di autori formò un capannello in strada per autoincriminarsi pubblicamente leggendo a turno la frase di Ostuni: «Il silenzio dell' onda è scritto coi in piedi, ecc.». La cosa però non servì di lezione al nostro Gianrico, né scalfi la sua supponenza. Come anticipato, dopo 20 anni di magistratura, Carofiglio si prese una pausa da politico. All' epoca, era nella direzione distrettuale antimafia di Bari, la sua città. Fu Veltroni a offrirgli il paracadute automatico per Palazzo Madama. Accettò entusiasta per dare, come disse, un «contributo di idee». Fu dunque eletto a Bari andando così contro un principio da lui enunciato quando il collega, Michele Emiliano, pm pure lui, divenne sindaco della città (2004). «Ho molti dubbi», disse nella circostanza, «che un magistrato possa fare il sindaco nel luogo dove ha esercitato l' azione giudiziaria». Il sindaco, no e il senatore, sì? Vattelapesca. Fatta una sola legislatura, Carofiglio non si presentò all' elezione successiva. Forse era già entrato nell' idea di vivere di romanzi ma era anche cambiato tutto attorno a lui. Infatti, non poteva più appollaiarsi su Veltroni che aveva nel frattempo abbandonato la politica. Avrebbe dovuto perciò affrontare da solo le primarie che presuppongono un potere locale e voti propri. Gianrico non aveva né l' uno né gli altri. Fece allora come la volpe con l' uva e tacciò le primarie di «falsa democrazia». Lasciò così il Senato ed entrò nel salottino della Lilli conquistando il fantastico privilegio di diventare con le chiacchiere un venerato maestro. Da ragazzino, come lui stesso ha raccontato, si sentiva un anatroccolo nonostante appartenesse a una famiglia di notabili: mamma scrittrice, padre ingegnere e docente di scienza delle costruzioni, il fratello minore, Francesco, genietto precoce, futuro architetto e autore di graphic novel. Bravo studente, Gianrico era però una frana sportiva, tanto che l' insegnante di educazione fisica lo avvertì: «Ti do 7, solo perché non c' è un voto più basso, ma non lo meriti». Fu tale l' umiliazione che pianse a dirotto e mise in croce la mamma perché lo iscrivesse a corsi supplementari di ginnastica. Per 6 mesi, salì la corda, saltò alla cavallina, fece gli anelli e il quadro svedese. A giugno, fu tra i migliori della scuola. Sull' abbrivio, divenne nuotatore, prese a pugni malintenzionati e fascisti, divenne specialista di arti marziali. Fu campione locale di karatè e campione nazionale a squadre. Oggi, è cintura nera quinto Dan. Come dire, meglio andarci d' accordo. All' origine, sempre a sentire lui, era pure goffo con le ragazze. Poi, a furia di muscoli, la metamorfosi. Innamorò di sé una collega magistrato, Francesca Romana Pirrelli, grazioso pm somigliante in biondo a Geppi Cucciari e ne ebbe due figli. Oggi poi, con la fama alle stelle, il suo fascino tracima. Pare che buchi lo schermo e inquieti tra le mura domestiche il pubblico femminile. Così, da toga austera che fu, rivaleggia adesso con Raoul Bova.

·         Ritratto di Erri De Luca.

RITRATTONE DI ERRI DE LUCA BY GIANCARLO PERNA. Giancarlo Perna per “la Verità” il 29 marzo 2019. A unificare le tante facce dello scrittore, Enrico (Erri) De Luca, è lo sconfinato narcisismo che ne imbozzola la crisalide per restituirlo metamorfosato in luminosa farfalla iridescente. Questo incipit importante, è un omaggio allo stesso De Luca che nei suoi 40 libri, molti editi da Feltrinelli, non ha mai usato una frase piana, banalmente descrittiva, ma le ha tutte arzigogolate, complicando concetti semplici. De Luca ha 68 anni e una fisionomia definita. È un intellò senza partito. Se ha una fede, è l'ecologismo. È anti Tav, anti trivelle, anti Matteo Salvini di cui dice, «fa il guappo con i deboli», gli immigrati. Da 30 anni, campa di libri propri o traduzioni, specie dall' ebraico antico di cui è autodidatta, al ritmo di 1 ogni 3 anni. Vive in modo essenziale, abitando nei pressi di Roma, verso il Lago di Bracciano. Ha una passione dominante: la montagna. Preferisce le Dolomiti ma conosce anche gli Ottomila. Scala in scarponi e picozza o arrampica a corpo libero con scarpette e magnesite con cui mantiene asciutte le dita per la presa sulla roccia. Ora gli anni incalzano ma un tempo era facile imbattersi in lui su qualche falesia del Lazio. Specie sulla Grotta dell' Arenauta di Gaeta dove ha stabilito il record personale arrampicando un 8b+ a mani nude.  Siamo a livelli altissimi, essendo il massimo 9c. Nello stile, Erri si ispira agli scimpanzé che aveva osservato nello zoo di Napoli, sua città natale, quando da adolescente bigiava la scuola. Ne ha imitato la naturalezza nel districarsi tra i rami, priva di ogni sforzo e spreco. Il Tiergarten partenopeo, ha un ruolo importante nella sua formazione. Gli ha dato il gusto della solitudine e della natura, affinandone i sensi. In particolare, l' olfatto di cui, assieme al sesso, è nutrita la sua narrativa colma di odori, afrori, corpi avvinghiati. L'Erri scrittore è un imbarazzante fiutare continuo. Durante quel suo birichino marinare le lezioni, lo inebriava perfino il fiato degli ippopotami che induceva a spalancare le fauci davanti a lui, per captarne l' effluvio di erba che ne usciva. Questa curiosa psicologia naturista, unita all' acribia descrittiva di un altro istinto primordiale, la sessualità, gli ha procurato nel 2016 un premio letterario per la peggiore scena di sesso in un romanzo. Glielo conferì la britannica, Literary Review, che ripescò un amplesso descritto da De Luca nel volumetto Il Giorno prima della Felicità. A motivare la giuria, la sordità dell'autore alle morbide attrattive dell' erotismo. Sentite, infatti, quant' è spinoso: «Il sesso era un legno incollato al suo ventre. Spinse il mio sesso contro l' apertura del suo. I sessi pronti nell' attesa, si appoggiavano appena, ballerini tesi sulle punte». Dunque, una sensualità aspra, quasi manganellatrice che, come dirò subito, ci porta a ritroso nel tempo. Erri fece buon viso al premio: «Ringrazio per la pubblicità che mi farà vendere molto copie». Si capì, però, che era offeso. La rudezza di De Luca anche negli abbandoni sentimentali, ha origine nella militanza del Nostro tra gli extraparlamentari di Lotta continua. Aveva 20 anni, nel 1970, quando a Roma si avvicinò al movimento di Adriano Sofri. L' anno prima, se n' era andato da Napoli dopo avere concluso gli studi secondari al liceo Umberto I. Di ottima famiglia impoverita dalla guerra, doveva badarsi da solo. Portava con sé, il bagaglio di una nonna americana e dello zio Harry (da cui Erri) che gli davano un che di meteco. L'adesione a Lc, distolse per sempre De Luca dalla laurea. Nel movimento, succedendo a Luigi Manconi, ebbe la responsabilità del servizio d' ordine, sorta di capeggiamento militare degli esagitati, con centinaia di sottoposti pronti alle mani. La sua impresa più nota fu l' interruzione violenta della prima manifestazione femminista romana nel dicembre 1975. Le donne non volevano uomini nel loro corteo, compagni o no. A Erri saltò la mosca al naso. «Ma come», disse, «dove finisce così l' unità della sinistra e il comune antifascismo? Non si distrugge la compattezza proletaria».  E per salvaguardarla, sfasciò il corteo che vi si opponeva, tra le urla delle ragazze, comprese quelle di Lc che solidarizzarono con le femministe. L' immagine di Erri si offuscò. L' anno dopo, si fece ancora notare al Congresso di Rimini (31 ottobre-4 novembre) in cui Lc decise di sciogliersi, lasciando in vita il giornale dello stesso nome. Saggio modo di sottrarsi, dopo lo sciagurato assassinio del commissario, Luigi Calabresi (1972), alle tentazioni del crescente terrorismo rosso. Altro che sparire, bisognava rafforzarsi, sostenne invece Erri. Salì sul palco e, interrompendo l' assemblea che inneggiava alla delegazione palestinese al grido «Palestina rossa», scandì al microfono: «I proletari vogliono che noi restiamo compatti come un pugno, con la bandiera rossa lavata e lustrata. Non possiamo deludere le aspettative di questa folla proletaria. Lc predica l' utopia e, finché lo fa, la borghesia non può dormire tranquilla. Ovunque la contraddizione tra proletari e borghesi prende la forma dello scontro, quello è il nostro posto». Eccetera. L' assemblea restò freddina, la sua posizione isolata e Lc si sciolse. Senza più l' ancoraggio della rivoluzione proletaria, per Erri iniziarono anni errabondi. Scoprì la sua natura anarco individualista, irrorata di narcisismo che gli faceva accettare le difficoltà come segno di un destino speciale. Fu operaio, portuale, magazziniere, inserviente nei circhi, funambolo, giocatore di bridge per ristorarsi con le vincite. Girò l' Italia, la Francia, la Tanzania, i Balcani, dove, aggirando le mine, portò soccorsi nelle guerre di fine Novecento. Per farsi ricordare dai connazionali, aldilà dei libri, partecipava alle nostre polemiche o ne creava di fittizie. Non potendo essere in galera al posto di Sofri per l' assassinio di Calabresi ma invidiandone la visibilità, sostenne a più riprese di sapere chi fosse il reale omicida. Invitato a dirlo, replicava: «Solo quando non avrà più rilevanza penale» o, variante, «quando Sofri non sarà più in carcere». Ci campò sopra un decennio, prendendosi le prime pagine. Non ha però mai rivelato un accidente, né lo fa ora che potrebbe. Altre volte, difendeva il terrorista Cesare Battisti con frasi a effetto tipo, «liberatene i polsi», o ironizzava sulla Tav «più che un' opera, un' operetta: in 30 anni neanche un centimetro», mandando in bestia alcuni e in visibilio altri. Così è stato sulla bocca di tutti, fino all' apoteosi dell' incriminazione da parte della Procura di Torino per avere spronato a sabotare con la forza il tunnel della Val di Susa. Poiché era una semplice opinione, seppure ardita, fu assolto e da allora è l' eroe eponimo degli antimodernisti e luddisti d' Italia. A questo punto, cominciò a riflettere sui propri meriti, dalle scalate, ai libri, alle lotte civili, e decise di erigersi un monumento in vita. Nel 2011, creò la Fondazione Erri De Luca consacrata a sé stesso e bipartita in «Fondo Lc», con reperti e pubblicazioni sul fu movimento, autoproclamandosene Penate, e in Fondo EdL, sulla propria opera letteraria: l' intera collezione, le critiche, i filmati, i saggi su di lui e un premio annuale alla migliore tesi di laurea dedicata ai suoi scritti. Ora, signoreggia felice sul proprio cenotafio.

ERRI MOSCIO. Alfonso Piscitelli per “la Verità”  il 15 maggio 2019. «Morte ai vecchi!», o perlomeno morte civile con la privazione del diritto di voto, è l' ultimo grido di pace e amore che si è levato dall' appena concluso Salone del Libro di Torino del 2019 con la voce di Erri De Luca. Che almeno, dall' alto dei suoi quasi 70 anni, non può essere accusato di interesse personale; sicuramente di interesse ideologico. De Luca parla con una cadenza napoletana, un po' alla «professor Bellavista», ma quel che dice non riflette la bonomia del personaggio partenopeo creato da Luciano De Crescenzo. Il vecchio intellettuale, già membro del servizio d' ordine di Lotta Continua, ragiona davanti a un pubblico amico sui pericoli dei nazionalismi e la soluzione che propone è drastica: l' abolizione del suffragio universale, con la speranza che gli orientamenti elettorali dei giovani riescano a salvare l' Unione europea dal rischio di naufragio. Il voto dei vecchi non può valere quanto quello dei giovani, sostiene: «Mi dà fastidio che andiate a votare, ma come vi permettete?» chiede ai suoi coetanei. E dal momento che questa forma di discriminazione non è sanzionata penalmente, può esprimere tranquillamente il suo concetto. Certamente si tratta di una provocazione e De Luca pensa di essere brillante nel buttarla lì, tra i frequentatori del Salone che già si sono inebriati nel cantare Bella Ciao allo stand Feltrinelli invocando, democraticamente, la cacciata dell' autrice del libro Io sono Salvini. Il punto è che la boutade di De Luca ha il sapore delle provocazioni conformiste. In passato De Luca era stato più esplosivo nel difendere il pluriomicida Battisti o nell' esortare al sabotaggio dei lavori della Tav o nel farsi selfie con la ex brigatista Barbara Balzarani, sostenendo che la «lotta» degli anni Settanta quando era all' ombra delle bandiere rosse non era terrorismo. Ma ora che ripete il motivo risaputo dei vecchi che non sanno votare, più che provocante, risulta essere patetico. Il simpatico vecchietto che ancora si atteggia a rivoluzionario ripete a modo suo il panegirico dell' Europa e lo stesso interminabile elogio che risuona in altre circostanze ben poco rivoluzionarie come il discorso di Capodanno dal Quirinale. Dice De Luca riferendosi ai mitici giovani: «Con la stessa moneta si possono prendere un caffè dappertutto. Il loro titolo di studio vale dovunque in questo spazio europeo». E uno subito pensa alla Svizzera, dove evidentemente ti negano un caffè oppure smetti di essere ingegnere o architetto La fiera delle banalità europeiste prosegue con un tono da provinciale ingenuo: «Uno dice beh io mi trovo in questo Paese e mo' vado a vedere che aria tira in un altro Paese: questo è un privilegio magnifico». Forse però per questo privilegio più che i trattati di Maastricht bisogna ringraziare i fratelli Wright che inventarono l' aereo. Ma appunto i confini sono la bestia nera di De Luca: il male assoluto del nostro tempo. E guai a dirgli che proprio pochi giorni fa il «giovane» presidente Emmanuel Macron ha insistito con toni inediti per un politico di mezza-sinistra sulla necessità di riconsiderare l' area Schengen e le falle di sicurezza che essa determina con l' abolizione dei «vecchi» controlli doganali. Per De Luca i confini e il fascismo sono un' unica cosa. E il sentimento di appartenenza nazionale è già fascismo: «Quando sento parlare di nazionalismi, cioè di ritorno alle frontiere io dico che è roba del passato». Siccome però tutti i salmi finiscono in gloria De Luca, dopo aver additato il demonio, con il cuore aperto alla speranza trova anche la redenzione dal male. Dice con la fede del profeta: «Questa Europa non farà regressione al Novecento, non tornerà indietro. Può solo andare avanti». Ma a patto, conclude, che ai vecchi, a quelli che 50 anni fa i sessantottini definivano i «matusa», sia tolta la preponderanza nelle elezioni. Il voto «è dei giovani, loro è l' Europa». E De Luca conclude la sua invettiva con l' immancabile riferimento all' anziano inglese rimbambito che causò la Brexit votando «leave» al referendum.

·         Andrea De Carlo.

Andrea De Carlo: «Io, Fellini e le fattucchiere. Poi la lite per un romanzo. Calvino? Era raggelante». Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 su Corriere.it da Candida Morvillo. Lo scrittore: «I miei libri vendono, per i critici è una colpa». L’esperienza da regista: «Mi imposero Carol Alt, non sapeva recitare». Andrea De Carlo, 66 anni, venti romanzi tradotti in 26 lingue, dopo l’ultimo, Una di Luna, uscito un anno fa, non sta scrivendo. Seduto in un bar sotto casa, sui navigli di Milano, dice: «Ogni volta, penso che non scriverò più, che non avrò l’idea giusta o la voglia». Il punto è che fra un libro e l’altro ha bisogno di vivere. A essere precisi «di viaggiare, fotografare, disegnare, suonare la chitarra e l’intera famiglia dei mandolini». Lo sguardo va. «Ho sempre visto gli scrittori che scrivono e basta come topi in gabbia». Trent’anni fa, usciva Due di due, long seller da un milione e mezzo di copie ora rieditato da La nave di Teseo. Era la storia di due amici: Guido, ribelle e anarchico, e Mario, più pacato. «Erano due parti di me», ammette De Carlo. «Mentre scrivevo, sentivo la storia così intima che credevo potesse interessare solo a chi, come me, aveva vissuto il ’68 da liceale e provato la stessa estraneità verso la scuola, la famiglia, il mondo».

A distanza di 30 anni, ha prevalso in lei l’anima quieta o inquieta?

«Sono lì tutte e due. La parte riflessiva serve a scrivere, se no, vivi e non racconti. L’altra si è realizzata in esperienze, viaggi».

Lei, da ventenne, come Guido nel romanzo, emigrò in Australia e, come il protagonista di «Treno di panna», ha vissuto a New York, suonando, facendo il cameriere. Che razza di cervello in fuga era?

«Cercavo me stesso altrove. E sempre era una migrazione, mai un viaggio».

Da adulto, come il Mario di «Due di Due», ha vissuto in campagna più che a Milano.

«Ho un casale fra i boschi umbri, dove mi viene da sopravvivere col minimo. Lì, scopro di aver bisogno sempre di meno. Per anni, non ho avuto il riscaldamento e ho preso l’acqua da un pozzo che quasi si esauriva d’estate».

Come nasce l’idea di diventare scrittore?

«A 11 anni, lessi I tre moschettieri e sentii che il romanzo era la dimensione che volevo abitare. Solo anni dopo, capii che l’unico modo per abitarla per sempre era scrivere».

Com’è fatta questa dimensione?

«È un luogo libero da tempo e spazio, in cui hai 11 anni ma ti identifichi con un venticinquenne guascone che sta a Parigi nel ‘600».

A meno di 30 anni, da assistente fotografo di Oliviero Toscani, si ritrovò autore di un libro con la quarta di copertina firmata da Italo Calvino. Come successe?

«Avevo già nel cassetto due libri che consideravo tentativi. Invece, Treno di panna aveva una voce mia e lo mandai a un po’ di case editrici. Mesi e nessuno risponde. Poi, un amico torinese mi fa: hai provato a farlo leggere a Italo Calvino? Mi sembrava follia, ma lui gli lasciò il manoscritto in portineria alla Einaudi. Fu così che ricevetti una sua lettera, ma tanto Calvino era meravigliosamente comunicativo quando scriveva, tanto era raggelante di persona: lo incontrai e disse forse due o tre parole».

Fu un esordio acclamato dai critici.

«Quel consenso mi lasciava interdetto: ero molto polemico verso il poco che sapevo del mondo delle lettere italiano. I miei riferimenti erano Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Jack Kerouac e, sul mio stile, influivano fotografia e cinema, soprattutto Robert Altman e Michelangelo Antonioni».

Con Antonioni scrisse un film mai uscito...

«Era il seguito di Blow-Up, ambientato a Milano, ma lui morì prima che finissimo».

L’incontro con Federico Fellini?

«A un premio, a Rimini. Dopo, mi chiamò: aveva letto Uccelli da gabbia e da voliera e me ne parlò con generosità sconvolgente. Gli raccontai che Nanni Moretti voleva i diritti e non glieli avevo dati: mi pareva che non c’entrasse niente col protagonista. Al che, Fellini mi disse che dovevo imparare io a fare il regista e mi nominò suo assistente sul set de E la nave va».

Com’era Fellini visto da vicino?

«Amava avere una corte di cui essere affabulatore. S’inventava le cose, era un gran bugiardo e trasformava tutti in personaggi: era un manipolatore che ti succhiava il sangue. Ho incontrato molti zombie di Fellini».

Perché zombie?

«Persone che esaltava al punto che, quando il suo interesse li abbandonava, di loro non restava più niente. Io stesso ero conscio del rischio di finire vampirizzato. Infatti non scrissi mai il libro che Fellini voleva facessi su di lui».

Avventure comuni con maghi e affini?

«L’ho accompagnato da fattucchiere di infimo livello e, a Torino, da Gustavo Rol. Era un luglio caldissimo, Rol era glaciale: percepiva la mia diffidenza. Poggiò un quadro vuoto accanto a una lampada, che accese, e uscì dalla stanza. La tela iniziò a riempirsi di fiori. Sere dopo, a una cena, Fellini racconta del quadro e Piero Angela spiega che era dipinto con una vernice fotosensibile. Fellini andò via ripetendo: quel Piero Angela, che sia maledetto per sempre!».

Qual è la vera storia del viaggio di cui lei scrisse in «Yucatan»?

«Tanti che non c’erano raccontano cose che non ho mai visto. Fellini voleva fare un film su Carlos Castaneda e le sue origini misteriose. Arriviamo a Los Angeles e vedo quest’uomo senza età, capelli corvini, un bastone che chiamava “la mia bacchetta magica”. Dovevamo andare insieme nel New Mexico, ma Castaneda iniziò a ricevere messaggi minatori da cosiddetti “messicani” e sparì. Partimmo noi, ma ci ritrovammo inseguiti dalle telefonate dei messicani nei luoghi più sperduti e da biglietti bruciacchiati che dicevano: volete entrare nel giardino sbagliato. Fu un percorso esoterico impossibile da decifrare. Abbandonato il progetto, dissi a Fellini che sarebbe stato bello scriverci su un romanzo. E lui: Andreino, è una grande idea. Invece, considerava sua la storia: fu l’inizio della fine della nostra amicizia».

Dopo, lei si sperimentò alla regia.

«Quando girai il film tratto da Treno di panna, sbagliai tutto quello che potevo sbagliare. Mi trovai prigioniero di ragioni economiche e commerciali, eppure, la produttrice Claudia Mori mi aveva detto: stai tranquillo, i soldi li abbiamo già fatti, non abbiamo bisogno di farne altri. Invece, m’imposero Carol Alt, che era bella ma non sapeva recitare, e tagliavano su tutto. Ricordo le risse: appesi al muro il produttore Luciano Luna, gli saltarono i bottoni della camicia. Lì capii la libertà del romanziere, che spazia come vuole. Peccato: del film, mi piace che sia un lavoro collettivo, mentre la solitudine dello scrittore è anche sofferenza».

Cosa fa male della solitudine da scrittore?

«Io devo arrivare al punto in cui mi dimentico dove sono. È un processo quasi medianico di abbandono del corpo».

Com’è passato da giovane autore amato dai critici a uno che ha detto «vendo troppo, per i critici sono troppo commerciale»?

«Nell’84, presentai Macno da Pippo Baudo. Non si era mai visto uno scrittore nella tv nazionalpopolare. Vendetti 50 mila copie e fu la svolta: iniziai a vivere del mio lavoro, concetto fino ad allora improbabile. All’inizio, il celebre agente Erich Linder mi aveva chiesto: che lavoro fa? E io: scrivo. E lui: vivere di scrittura è impossibile, si trovi un lavoro. Dopo, ricordo i miei “porca miseria” e la rabbiosa convinzione che invece fosse possibile. Comunque, con Macno, arriva la presa di distanza dei critici, che hanno un riflesso condizionato con chi vende, chi è prolifico o scrive di sentimenti».

Lei ha tutti e tre i difetti.

«Dunque, sono meno nobile di altri. Ma l’ho metabolizzata. Dieci anni fa, mi sono anche dimesso dalla giuria dello Strega, denunciando le pressioni degli editori sui giurati. Consapevole che non avrei più vinto quel premio».

Quanto conta l’amore nella sua vita?

«È fondamentale in tutte le sue forme, come uomo, come padre, come amico».

È stato considerato un sex symbol: fan impazzite, titoli tipo: piace come una rockstar.

«Anche lì... C’è l’idea che lo scrittore sia un triste topastro chiuso nella sua stanza, ma per Hemingway, Fitzgerald, Dumas non era così».

Con Eleonora Giorgi entrò pure nel mirino dei paparazzi.

«Lei era abituata. Per me, trovarli al supermercato era una violazione intollerabile».

Ora, ha una compagna?

«Sì, e non sono cose di cui riesco a parlare».

Si è pentito dei riferimenti alla storia con l’arpista Cecilia Chailly in «Arco d’amore»?

«Forse passai un po’ il confine fra vita privata e letteraria. Ma, di base, nella scrittura, credo nel dovere dell’autenticità».

Ha una figlia trentenne, che padre è?

«Vorrei essere un padre-amico, invece viene il momento in cui devi assumerti la responsabilità di dire cose scomode o intransigenti».

Un bilancio di vita?

«Sono contento di quello che ho alle spalle, ma so di non essere giunto all’illuminazione».

L’illuminazione è un’ambizione?

«Lo sarebbe. Per ora, mi accontento di lampi di luce».

·         Giampaolo Pansa.

Giampaolo Pansa: «Io e il “Corriere”: quando arrivò la notizia che Pasolini era stato ucciso». Lo scrittore-regista era la stella reclutata dal giornale. Il mio giudizio su Indro Montanelli cambiò quando le Brigate Rosse gli spararono alle gambe. Giampaolo Pansa il 20 settembre 2019 su Il Corriere della Sera. Sono arrivato al «Corriere della Sera» il 1° luglio del 1973 lasciando una gabbia di matti. La gabbia era il «Messaggero» di Roma, diretto da Alessandro Perrone. Lui aveva un cugino primo, Ferdinando, padrone di una quota del giornale. I due cugini non andavano d’accordo e litigavano tutti i giorni, dalla mattina alla sera. Per di più, alla redazione non piacevano i nuovi arrivati. Capeggiati da Giorgio Fattori, era una microscopica squadra, ci stavo anch’io con un incarico per niente adatto al sottoscritto: il redattore capo. Infine i giornalisti di via del Tritone ci accolsero tappezzando il corridoio con i manifesti pubblicitari di una casa vinicola: «Arrivano i piemontesi!». Forse era un omaggio al nuovo direttore amministrativo, giovane e bravissimo, Gigi Guastamacchia che aveva un solo difetto: era di Cuneo o di quelle parti. Che cosa ho trovato al «Corriere»? Prima di tutto l’ombra di un padrone strapotente: Eugenio Cefis, il re indiscusso della Montedison, che però non si faceva mai vedere in Solferino. Ma lui e la sua banda se ne occupavano eccome! Una volta arrivato al «Corriere», Cefis si trovò alle prese con un problema non da poco: lasciare Piero Ottone alla direzione oppure sostituirlo? Una parte dei cefisti era per la cacciata di Ottone. Costoro erano superstiziosi e gli faceva orrore la scarpa ortopedica che Piero portava da ragazzo dopo aver fatto la poliomielite. Ringhiavano: «Omo segnà da Dio, cento passi indrio». Un uomo segnato da Dio va tenuto lontano cento passi. Ma i cefisti non avevano tra le mani un altro direttore per il «Corriere» e Piero rimase al suo posto. Ottone era il direttore ideale per il giornalone di via Solferino. Prima di tutto era un signore paziente. Il suo vero nome era Pier Leone Mignanego e sapeva trattare tutti con una grande signorilità. Era di sinistra, di centro o di destra? Non l’ho mai compreso e del resto non me lo sono mai chiesto. Allora certe etichette non avevano l’importanza che hanno oggi. In Italia comandava un solo partito, la Democrazia Cristiana, mentre l’unico oppositore, il Partito comunista, doveva accontentarsi di qualche lembo dell’Emilia e della Toscana. Quando arrivai in via Solferino, Ottone era alle prese con un problema gigantesco: la possibile uscita di Indro Montanelli intenzionato a fondare un giornale tutto suo. Una parte della redazione del «Corriere» premeva perché Indro venisse cacciato. La pensavo anch’io così, ritenendo Indro un fascista o giù di lì. Confesso che il mio giudizio cambiò soltanto quando le Brigate rosse spararono nelle gambe a Montanelli in piazza Cavour a Milano, mentre si recava a piedi alla redazione del giornale che aveva creato. Confesso che di Montanelli mi importava poco. Da giovane cazzone pensavo che i miei articoli avrebbero fatto dimenticare i suoi. Per me era molto più importante che fosse rimasto al «Corriere» un signore che di nome faceva Franco Di Bella. Chi era costui? Non conosco quale fosse il suo incarico contrattuale, ma compresi subito che se il giornale usciva senza errori, perfetto, sempre in palla era merito di Franco. Quando arrivai in Solferino, volle subito capire che tipo ero, se mi piaceva scrivere o se appartenevo alla plebe degli sfaticati. Ogni mattina mi consegnava una notizia di agenzia e mi ordinava: «Fammi un fogliettone per la prima pagina». Nel faticone Pansa aveva trovato il tipo giusto. Credo di aver scritto per lui una quarantina di pezzi sempre comparsi in prima pagina. E fu così che i lettori del «Corrierone» cominciarono a conoscere la mia firma. In seguito Di Bella divenne il protagonista di un episodio che nella mia vita non ho più dimenticato. Era l’inizio del novembre 1975. La mattina del due, la festività dei morti, stavo in una casa di campagna che avevo costruito nell’Oltrepò Pavese, nel paese di Calvignano. La casa esiste ancora, ma da un pezzo l’ho regalata ai miei nipoti. La mattina del 2 novembre 1975, qualcuno bussò alla nostra porta. Andò ad aprire Lidia, la mia prima moglie, e si trovò di fronte una coppia che non conosceva: Franco Di Bella e una ragazza bella e spigliata. La coppia entrò in casa e si presentò. Ad accoglierla fu mio figlio Alessandro che allora aveva tredici anni ed era un tipo molto sveglio, del genere carogna. Quando comprese di avere di fronte uno dei capi del «Corriere» che mi chiamava spesso anche a casa, gli disse: «Ma lei lo sa che questa notte hanno ammazzato Pasolini?». Di Bella ringhiò: «Che cosa mi stai dicendo?». Sempre più spavaldo, Alessandro continuò: «Le dico quello che tutti i giornali radio stanno ripetendo da stamane...». Di Bella rantolò: «Datemi un telefono». Chiamò via Solferino e si imbattè in Gaspare Barbiellini Amidei, il capo della cultura. Gaspare gli disse, gelido: «Rimani pure dove sei, ho già pensato a tutto io». È utile ricordare che Pier Paolo Pasolini, un acquisto recente del «Corriere», era il numero uno delle stelle reclutate da via Solferino. Una donna l’aveva trovato morto alle 6.30 di quella domenica 2 novembre all’Idroscalo di Ostia. Purtroppo i testimoni del risvolto famigliare di quella tragedia sono scomparsi tutti: morto Franco Di Bella, morto mio figlio Alessandro, morta Lidia la mia prima moglie. Soltanto io sono ancora qui. E a volte mi domando che cosa ci faccio in questo mondo. Ma devo riconoscere che ritornare al «Corriere» mi mette di buonumore.

·         Ritratto di Michela Murgia.

AdnKronos il 14 novembre 2019. "L'unico assassinio è quello della letteratura e il colpevole non è il maggiordomo: è Veltroni". La scrittrice sarda Michela Murgia stronca il libro di Walter Veltroni dal titolo 'Assassinio a Villa Borghese' e lo fa leggendo "dieci righe", durante la trasmissione Tg Zero di Radio Capital. "Walter, ti prego, fai altro nella vita. Non è assassinio a Villa Borghese, è assassinio della letteratura e il colpevole sei tu, non è il maggiordomo - conclude -. Torna a fare politica. Eri meglio sindaco che come scrittore".

Maurizio Crippa per ilfoglio.it il 15 novembre 2019. Non ho letto il nuovo romanzo, un giallo, di Walter Veltroni, Assassinio a Villa Borghese, e ci sono concrete possibilità che non lo faccia – il tempo è poco e ho ancora indietro metà dei polizieschi milanesi di Scerbanenco. Se pensate che sfoderi la consunta battuta, “non l’ho letto e non mi piace”, variamente attribuita ma forse di Vanni Scheiwiller, non lo farò. Preferirei invece leggerlo e magari dire, come Nanni Moretti di Spinaceto: pensavo peggio. Ma soprattutto ora che Michela Murgia, questa scrittrice per mancanza di un codice estetico che lo vieti, questa caricaturale maestra di pensiero di ogni sciatteria politicamente corretta (Saviano sembra Aristotele al confronto), ha detto alla radio che è “il libro più brutto che ho letto negli ultimi sei anni” potete scommettere che Veltroni merita quantomeno il Pulitzer. Non si sa che cosa abbia letto, in questi sei anni, Murgia, ma se invece non avete mai letto i libri di questa approssimazione per difetto del grado zero della scrittura, non perdete nulla. Basta sbirciare cosa e come scrive su blog e giornali, per farsi l’idea. Tra le sue ideone, a parte che tutto il mondo è patriarcale e stupratore, troverete cose come l’abolizione degli eroi in quanto eroi e in quanto maschi (trova sessista persino Harry Potter) o che voleva l’indipendenza della Sardegna. Poi ha inventato il “fascistometro”, e le è andata bene che non ci fosse lì vicino un etilometro. A volte è andata anche a fare dei monologhi in tivù, e al confronto Celentano sembra ancora vivo. Fidatevi, se lo dice Michela Murgia, Veltroni è Proust.

 “LA VERITÀ” STANA MICHELA MURGIA: CREA POLEMICHE FASULLE PER VENDERE PIÙ LIBRI. Marco Lanterna per “la Verità” il 19 settembre 2019. I social si sa hanno rivoluzionato l'arte della réclame. Per esempio una delle trovate migliori - perché completamente gratuita e di facile attuazione - è quella d’imbastire una polemica a orologeria, cioè una qualche esternazione politica «forte», ossia il più possibile rumorosa e di parte, in coincidenza del lancio di un proprio prodotto. In tal modo, la copertura mediatica è di riflesso garantita e per giunta a costo zero. In questi giorni c'era l'ospitata televisiva - nel gergo «marchetta» - che ancora sopravvive in quel genere di televisione vecchiotta e soporifera, per intenderci alla Fabio Fazio (il re delle marchette tv che sull' ospitata pelosa ha costruito interi programmi, se non una carriera); oggi invece la marchetta la si fa pagare alla Rete e al suo tam tam vorticoso di forum, condivisioni, follower e hater. Tra gli innumerevoli personaggi che sfruttano la polemica a mo' di volano commerciale, uno dei primi e insieme dei più pervicaci è Roberto Saviano: un vero maestro in questo genere di pubblicità occulta. Saviano, avendo sempre qualche nuovo prodotto in uscita al cinema o in tv oppure in libreria, deve vivere per dir così in uno stato di perenne polemica, di levate di scudi e adunate, insomma di esternazioni fittizie e strumentali. Solo così riesce a far convergere tutti i riflettori, tutti gli occhi su di sé, nemmeno fosse un finalista del Grande fratello. Un'altra autrice molto scaltra nell' utilizzo della reclamistica offerta dalle polemiche social è Michela Murgia. Qualche giorno fa la scrittrice ha denunciato su Facebook - con gran seguito mediatico - tutti gli insulti ricevuti via Web, secondo lei in quanto donna con delle opinioni politiche scomode e imparziali (secondo altri invece proprio perché estreme e parziali). La Murgia ha detto di aver sopportato in silenzio per oltre un anno tali angherie, tali offese. Quando però si è decisa finalmente a denunciarle? Guarda caso proprio negli stessi giorni, anzi per l'esattezza nelle stesse ore, in cui usciva il suo ultimo libro, un saggio - sempre per puro caso - incentrato su temi affini a quelli della denuncia innescata dalla Murgia. Potenza del destino? Nostra malignità? Oppure come recita il proverbio (vox populi, vox Dei) «a pensar male ci s'indovina». Che nel lungo idealistico post della Murgia il riferimento finale fosse proprio al titolo del libro, certo non depone a suo favore. Fatto sta che in pochi giorni il volume è schizzato in testa alle classifiche di vendita, acquistato quasi compulsivamente dai sostenitori della scrittrice, ai quali si è offerto un modo semplice, tangibile e molto materiale, per esprimerle solidarietà e vicinanza. In pratica - dopo una polemica accesa e rinfocolata ad arte - l'esborso per un libro si è tramutato per loro in una sorta d'imperativo etico, di gesto altamente civico, e ciò per la gioia (e le tasche) dell'autrice. Una «tecnica» che la Murgia ha condotto a perfezione già dal suo precedente Istruzioni per diventare fascisti, anch'esso lanciato in perfetta coincidenza con una serie di esternazioni polemiche che ne hanno amplificato a dismisura l'importanza e le vendite: nuova forma di battage dove cinismo e tempismo fanno tutt'uno. Comunque per non irridere gli sforzi reclamistici della Murgia, defraudandola di tanta sagacia pubblicitaria, diciamo che il suo ultimo prodotto editoriale s'intitola Morgana. Storie di ragazze che tua madre non approverebbe. Vi si narrano ed esaltano le storie di dieci donne «anticonformiste, scomode, spesso antipatiche, rivoluzionarie... delle streghe». Di fatto è una galleria abominevole che riesce a mettere vicine, o peggio sullo stesso piano, Santa Caterina da Siena e Moana Pozzi, Tonya Harding (la pattinatrice accusata di aver gambizzato una rivale) e Shirley Temple, le sorelle Brontë e Moira Orfei, e poi ancora Grace Jones, Marina Abramovic, Vivienne Westwood, Zaha Hadid. L'undicesima storia, non scritta ma implicita, è naturalmente quella di Michela Murgia, la scrittrice-oppositrice a cui persino Oriana Fallaci fa un baffo, perché assicura il libro, echeggiando quel poco che resta di Me too: «Nelle pagine è nascosta una speranza: che ogni volta che la società ridefinisce i termini della libertà femminile, arrivi una Morgana a spostarli ancora e ancora, finché il confine e l'orizzonte non saranno diventate la stessa cosa». Insomma una Michela Murgia, improbabile fata Morgana alla corte di Re Artù, che intona tremate le streghe son tornate, ottenendo solo del cattivo marketing.

RITRATTO AL VETRIOLO DI MICHELA MURGIA BY GIANCARLO PERNA. Giancarlo Perna per “la Verità” il 5 maggio 2019. Nel mese di aprile testé trascorso, Michela Murgia ha suscitato diverse polemiche innalzando la media dei suoi continui predicozzi. Temperamento fiammeggiante, incline a educare il prossimo ai suoi valori con dure lavate di capo, la letterata sarda ha stavolta usato i social, come in passato i libri. Per lei, l'imperativo è separare i buoni dai cattivi, imporre la propria visione, dannare ciò che non le piace. Il suo credo è riassunto in questa frase: «A me di scrivere romanzi non frega niente, io sento la scrittura come un dovere civile». Ad aprile, dunque, mentre eravamo tutti attoniti per l'incendio di Notre Dame, e ci pareva incenerito un simbolo dell'Europa, Michela ci ha richiamati all' ordine. Ha declassato il nostro dolore a piagnisteo, ricordandoci che la cattedrale era ancora in piedi, sarebbe stata restaurata e non c'erano vittime. Ma che invece il colpo mortale allo spirito europeo si era consumato altrove nell' indifferenza di tutti. E ha puntato l'indice sul Mediterraneo dove «tra gennaio e marzo sono morte 274 persone per mancanza di corridoi umanitari». Ergo, frignare per Notre Dame è «guardare dal lato sbagliato il colpo al cuore dell'Europa». C'è tutto l' autoritarismo di Murgia in questo stabilire lei per cosa possiamo emozionarci, fissando per noi le gerarchie dei nostri affetti. Questa prepotenza a fin di bene, per darci una coscienza civica e salvarci l'anima, sono retaggio della sua doppia fede, cattolica e di sinistra. Per via dei migranti, Michela detesta Matteo Salvini che vieta l'ingresso degli africani in Italia. Perciò, sempre in aprile, ha bruscamente rifiutato di confrontarsi sull' argomento col ministro dell'Interno. Ecco come sono andate le cose. Lei partecipava a un forum con altri immigrazionisti e contemporaneamente, su Rete 4, l'anchorman, Nicola Porro, discuteva dell'argomento con Salvini. L'inviato di Porro al forum ha allora avvicinato Murgia e l'ha invitata a dire la sua nel talk show di Mediaset. La signora ha sorriso e pareva disponibile. «Che trasmissione è?», ha chiesto. «Quella di Nicola Porro», gli ha risposto l'inviato. Al solo udire, Michela ha fatto un balzo indietro agitando il braccio in segno di no, col gesto di un esorcista che scaccia Belzebù. Il mite Porro dal ciuffo sbarazzino, showman tra i più cordiali e aperti, ci è rimasto male. Tanto che Salvini, per risollevarlo, ha detto: «Posso darti un consiglio? Hai sbagliato a dire Porro, devi dire Fabio Fazio così ti rilasciano tutte le interviste del mondo». Il giorno dopo, sentendosi in dovere di un chiarimento, Murgia ha twittato: «Quelli come Porro sono disonesti intellettualmente, quindi non mi presto al gioco». Non ha spiegato quale fosse la disonestà porresca, dando per scontato che basti divergere da lei per meritare insulti. Porro ci ha rimuginato su, poi è sbottato perfido: «Sia io che lavoro per Mediaset, sia Murgia che pubblica per Einaudi (galassia Mondadori, ndr), siamo pagati da Silvio Berlusconi. Non si capisce allora, perché io non possa essere considerato altrettanto libero quanto Murgia ritiene di esserlo lei». Così, Murgia si è beccata l'epiteto di prezzolata berlusconiana. La fama di Michela come scrittrice ha toccato l' apice nel 2009 con il romanzo Accabadora che fece incetta di premi letterari: il Dessì, il Mondello, il Campiello. È un racconto potente per l'evocazione dell'antica consuetudine sarda all'eutanasia. Esistevano nell' isola, specie in Gallura, donne che andavano dai moribondi per propiziarne la morte attraverso riti misteriosi, nei casi in cui un ultimo attaccamento alla vita ritardava il trapasso. Queste macabre donnine di nero vestite sono le accabadore. Una di loro, Bonaria Urrai, uscita dalla penna della nostra Murgia, è la protagonista della sua pluripremiata fatica. Michela aveva pubblicato opere letterarie prima e ne ha pubblicate altre dopo. Nessuna ha però avuto l'eco del suo premio Campiello. L' anno scorso ha invece dato alle stampe, sempre col Berlusca, un pamphlet, che di letterario non ha nulla ma con il quale ha raggiunto una vasta platea di lettori rozzetti. Istruzione per diventare fascisti, titolo ironico, è infatti il prodotto abborracciato dell'antisalvinismo di Michela e della sua lotta al populismo, ritenuto incubatrice di un mondo in orbace. Il testo è trascurabile ma il successo è stato assicurato dall'allegato Fascistometro, appendice di 65 domande che dovrebbero rivelare in chi legge una celata inclinazione mussoliniana. Se rispondi sì a uno o più interrogativi sei criptofascista e ti toccano delle abluzioni purificatrici. Il problema è che Murgia ha incluso nel test frasi di tale buon senso - tipo, «non ricordo tutta questa solidarietà per i nostri terremotati» - che non puoi che dirti d'accordo finendo tra i reprobi di Casa Pound anche se sei un fan di Winston Churchill. Neppure si salvano dai quiz fior di comunistoni. Per esempio, se dici «lo stupro è più inaccettabile se commesso da chi chiede accoglienza», per Michela sei fascista. Però, è l'esatta frase che uscì di bocca alla piddina Deborah Serracchiani di fronte alla violenza di un extracomunitario nel Friuli che allora governava. Oppure, se ti scappa, pensando al duce: «Non ha ucciso nessuno, al massimo mandava al confino», sei certo un neraccio coi fiocchi. Però, il concetto è lo stesso che usa tuttora il comunistissimo Andrea Cammilleri, in difesa dell'Urss contro i nazi. Testuale: «I gulag non furono campi di sterminio, Solgenitsin con i nazisti non sarebbe sopravvissuto». Mancano infine tra le furbesche domande ideate per scovare il gerarca che è in noi, i noti slogan dei centri sociali, «10, 100, 1000 Nassiria», «uccidere un fascista non è reato», ecc. Chi li usa come va classificato? Murgia è una donna frustrata da una vita difficile, che ha superato i complessi col talento e l'aggressività. 47 anni a giugno, Michela ha avuto un' infanzia di peste. Nata a Cabras, paesone di 9.000 anime sul mare del Sinis, fu in rotta col padre e si attaccò alla mamma che gestiva un ristorantino da 4 soldi sulla spiaggia. La ragazza dovette arrabattarsi sia per conquistare un modesto diploma tecnico, lavorando come cameriera per mantenersi agli studi, sia dopo per mettere insieme il pranzo con la cena. Ha fatto una girandola di mestieri. Iscritta all' Azione cattolica, fu insegnante di religione, venditrice immobiliare, portiere di notte all'Ala Birdi, lussuoso resort equestre, operatrice di call center, esperienza che le ispirò il primo libro, Il mondo deve sapere (2006), satira puntuta dello sfruttamento di questi infelici lavoratori della cornetta che ci entrano sgraditi in casa, accolti dalla nostra malagrazia. Suscitò scandalo nel paesotto la convivenza col fidanzato, poi sposato solo civilmente (altro scandalo) e infine, quando già aveva fatto il pieno di biasimi, impalmato in chiesa per devozione. Michela ha militato nell' indipendentismo sardo. Nel 2014, si presentò alle amministrative puntando alla presidenza della Regione. Raccolse il 10 per cento dei voti: un exploit. Per un soffio, fu esclusa dal Consiglio regionale. Ora fa politica in proprio, con la lingua e con la penna. Coi sardisti, attuali alleati di Salvini, ha chiuso. Resta aperto il conto con Matteo, l' intruso.

·         Saviano: i segreti di una star.

Le ultime "Munizioni" di Saviano? Un manifesto di comicità involontaria. «Il giovane Holding» della letteratura lancia una collana di libri militanti. Gian Paolo Serino, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. «Cari amici, siamo orgogliosi di annunciarvi che il 16 ottobre arriveranno in libreria per Bompiani i primi due volumi della nuova collana MUNIZIONI diretta da Roberto Saviano». È questo l'inizio del comunicato stampa che ieri sera è stato lanciato per «annunciare» che Roberto Saviano, il «Giovane Holding» dell'editoria italiana, ha anche firmato un Manifesto che inizia così: «Amate chi sceglie da che parte stare. Amate chi detesta il sopruso. Amate chi si prende cura di voi occupandosi del mondo. Non ascoltate la piccola regola di amare solo chi esiste per voi nel nostro mondo». Un incipit che sembra scritto dal Richard Bach de Il Gabbiano Livingston, dal Gesù di Zeffirelli che ha incontrato Beppe Severgnini e Massimo Gramellini mettendoli nel frullatore con un pizzico di zenzero alla Milena Gabanelli. Saviano, forse folgorato sulla via di Damasco o più probabilmente folgorato dal suo agente editoriale che ormai gli sceglie persino i vestiti e i «brand» da indossare, si ricorda poi che la sua collana si chiama MUNIZIONI, tutto maiuscolo, per enfatizzare che il suo ha la pretesa di essere proprio un Manifesto, come quello Futurista di Marinetti, e comincia con digressioni che più che molotov d'inchiostro alla Bakunin fanno venire alla mente i pizzini di Riina: «Ricordate il rivoltoso sconosciuto che il 5 Giugno 1989 fermò una colonna di carri armati in piazza Tienanmen? Lo fece non solo con il suo corpo, ma con le sue parole: salendo sul carro, discutendo con il carrista. E così i rivoltosi sconosciuti divennero due: l'uomo che fermò i carri armati e il carrista che fermandosi si rifiutò di eseguire gli ordini. Entrambi probabilmente sono stati uccisi. Di loro non si è saputo più nulla, nemmeno i nomi». Come se lo faccia a ricordare Saviano, nato nel 1979 e che all'epoca dei fatti aveva 10 anni, non è un mistero ma rappresenta ormai quelle che sono le sue fonti: Wikipedia e soprattutto la televisione che è il suo ultimo approdo per guadagnare, dopo i flop editoriali dopo l'unico grande successo di Gomorra. «Il Giovane Holding» continua a sparare le sue (ultime) MUNIZIONI: «I loro nomi (ma se non li sappiamo? Ndr) saranno nostri se oseremo parlare fuori dal coro e leggere la realtà con occhi liberi. Amate la parola che non ha paura di confrontarsi». Infatti Saviano a proposito di «paura di confrontarsi» non si è mai presentato ai processi che l'hanno visto condannato per aver plagiato interi passaggi di Gomorra dai quotidiani Cronache di Napoli e Corriere di Caserta e aver dovuto risarcire loro ben 60 mila euro. Intanto il Manifesto continua: «Amate chi spende con voi parole difficili. Amate chi non riduce il proprio pensiero a slogan. Amate la parola, la parola libera, la parola disobbediente, perché amandola amate voi stessi». Un finale che ricorda un ciclostile di Mario Capanna e una lettera del serial killer americano Zodiac che ha incontrato Unabomber al centro sociale durante un concerto dei 99 Posse. Più che MUNIZIONI questo manifesto ricorda i comunicati di Lotta Continua (con un Gad Lerner ancora senza Rolex al polso) e i discorsi di Greta Thumberg, i libri di catechismo con le figure a pastello e il Libretto rosso di Mao rivolto a lettori che tratta come dei bambini o come Nando De Napoli, il mitico difensore del Napoli che era sempre impacciato nel dover difendere le nottate di Maradona tra cocaina e camorra. A proposito: il primo libro della collana è chiaramente dedicato a un'inchiesta sulla cocaina, che ormai - tra il suo libro ZeroZeroZero e le sue sparate sulla liberalizzazione della cocaina- sembra il suo nuovo filone d'oro. Esaurito quello dei Casalesi, chissà se i Narcos messicani gli faranno la stessa pubblicità.

"SAVIANO ERI UN COMPAGNO E ADESSO SEI UN BORGHESE". Daniela Ranieri per “il Fatto quotidiano” il 7 ottobre 2019. Ogni tanto è bene dare una sbirciata a Il Bolscevico, l' Organo del Partito marxista-leninista italiano, che lotta contro "il fascismo e la borghesia dominante" con analisi spesso dotte e puntute, specie su scuola e lavoro. Ci ha colpito però il 2 ottobre leggere una filippica durissima contro Roberto Saviano, una specie di dossier completo di sue lettere alla redazione, alla luce dell' intervista rilasciata dallo scrittore al Venerdì di Repubblica del 20 settembre. In questa intervista, accusa Il Bolscevico, Saviano "non fa cenno del non breve e pur intenso rapporto, durato oltre un anno, che intrattenne con il Pmli e Il Bolscevico nel suo periodo giovanile, nel passaggio tra l'adolescenza e la maturità". Considerando che oggi Saviano ha 40 anni, si sta parlando di cablogrammi che risalgono a più di 20 anni fa. Il Bolscevico rivela che Saviano allora "si definiva, come nella sua prima lettera spedita al Pmli il 3 maggio 1996 "un ragazzo da sempre impegnato nella lotta di classe e militante della sinistra rivoluzionaria extraparlamentare", di tendenza 'guevarista/trotzkista'". Se non basta, che dire di "quando, già compiuti i 17 anni, in una seconda lettera, rivolgendosi ai "cari compagni del Bolscevico"", si definiva anzi 'un marxista-leninista di Caserta', precisando di comprare saltuariamente il nostro giornale"? In forza di mille altre prove prodotte, il Bolscevico sostiene la tesi che Saviano avrebbe tradito i suoi ideali giovanili (peraltro, inquieta la prassi del giornale marxista-leninista di conservare per 23 anni le lettere di ogni ragazzino che contatti la redazione) per diventare un tiepido borghese riformista. Gli si rimprovera che "nel 1997 affiggeva i manifesti del Partito", e oggi "deplora e condanna pubblicamente l'uso della violenza rivoluzionaria, come fa nel 2010, attaccando su la Repubblica la battaglia storica degli studenti che in Piazza del Popolo rispondono alla violenza della polizia". È la stessa accusa che si fa da 50 anni al Pasolini di Valle Giulia, infatti citato. Ma, stante l'aporia che i bolscevichi non sono in grado di produrre nessuna lettera in cui il Saviano adolescente elogi la violenza, l'escalation delle imputazioni è feroce. Non è chiaro se si tratti di una specie di outing, di sputtanamento ai danni del Saviano personaggio famoso "accolto dalla classe dominante nei suoi salotti più prestigiosi" (tanto per rovinargli la piazza), o di una reazione a un tradimento affettivo. Nell'intervista a Simonetta Fiori Saviano parla dei demoni con cui convive e della sua giovinezza inesistita ("La mia famiglia è come se fosse morta, completamente disgregata, 13 anni fa"), senza nominare i suoi trascorsi filo-bolscevichi; ma, a parte che vi compare in una inequivocabile foto da ragazzo con la maglietta di Che Guevara, perché avrebbe dovuto? Non è pensabile che la sua formazione si sia incarnata nelle battaglie che ha condotto, co-evolvendosi con la sua biografia spezzata? Il giornale gli riconosce le lotte "contro la camorra e tutte le mafie, in difesa dei migranti e dei rom contro il razzismo, la xenofobia e il fascismo contro l' aspirante duce d' Italia Matteo Salvini", "il berlusconismo, mafia capitale, l' attacco alla libertà di stampa del ducetto Di Maio e i suoi 'taxi del mare', il demagogo De Magistris e il corrotto De Luca, il decreto fascista e razzista Minniti"; ma gli rimprovera di non condurle "da marxista-leninista", bensì "da liberale riformista borghese, tutte all' interno del regime capitalista e neofascista". Sembra la fotografia dei difetti che, a volte anche parodisticamente, si imputano al fideismo massimalista, dal non saper fare i conti con la transitorietà alla spietatezza con cui il collettivo e l' ontologico sovrastano il personale e il contingente. Non è comprensibile che un uomo che vive sotto scorta per minacce di morte abbia fatto sua la critica della violenza, pure proletaria? Eppure Saviano è un intellettuale che conduce, secondo la sua accorata testimonianza, una vita del tutto estranea al trafficare e al manipolare correnti ("Vivo la vita d' un malato o d' un carcerato, e sai come riesco a consolarmi? Dicendomi che in realtà sono un privilegiato, libero da patologie e da sentenze di pena"), a meno di non alludere al famigerato "attico a New York" inventato da Salvini, Meloni ecc. La stoccata finale su un Saviano radical chic contiene un' allusione fatua: "Perché non spiega come si è potuto creare questo oscuro cambiamento tra il Saviano rivoluzionario e antiriformista di ieri e quello riformista, liberale, pacifista e in certi momenti finanche anticomunista e reazionario di oggi? E in ogni caso, perché nascondere questo passato, a meno che non se ne vergogni di fronte alla classe dominante borghese?". L'"oscuro cambiamento" di Saviano forse è solo cambiamento. È quella figura che Marx affronta nei Manoscritti economico-filosofici quando parla di ciò che rende un uomo "dialetticamente" felice; è il divenire che in Materialismo ed empiriocriticismo Lenin associa alla imprescindibilità, in ordine alla rivoluzione, della vita quotidiana. Dice Saviano: "Mi manca poter sbagliare liberamente. Oggi ogni mio errore è osservato, spiato, amplificato, come se la mia vita fosse una cittadella assediata, che non ammette spazi di debolezza". Il Bolscevico pensa di fare una cosa radicalissima attaccando Saviano sul piano del privilegio individualista piccolo-borghese: esattamente ciò che fanno da 13 anni, dall' uscita di Gomorra, i camorristi, i berlusconiani, CasaPound, Vincenzo De Luca, i devoti a Santa Maria Elena Boschi, i benpensanti borghesi, i troll sui social, i "napoletani veri", i mafiosi, i salviniani e i semplici invidiosi.

«INVOLUZIONE SAVIANO, DA PASOLINI A SCIATTO». Antonello Piroso per “la Verità” il 7 ottobre 2019. Walter Siti, saggista-scrittore di chiara fama, ha osato l' inosabile. Tornando a vestire i panni del critico letterario, ha compiuto un' analisi serrata del Roberto Saviano scrittore per la rivista L' Età del Ferro diretta dallo stesso Siti, Giorgio Manacorda e Alfonso Berardinelli: «L' ho mandata a Saviano in visione a fine giugno, chiedendogli se volesse scrivere una replica da pubblicare contestualmente. Non mi ha mai risposto». Titolo del saggio (che riecheggia quello dell' ultimo, incompiuto romanzo di Truman Capote): «Preghiere esaudite. Saviano e l'abdicazione della letteratura».

Incipit fulminante, Siti: «Difendere la letteratura non è meno importante che difendere i migranti».

«Ammiro il coraggio civile di Saviano, la sua dignità nel vivere un' esistenza blindata, e trovo assurde e moralmente sgradevoli le accuse di aver fatto i soldi denigrando le sue radici, di essere un plagiario che fa il moralista sputando sentenze da un attico di Manhattan - che in realtà è un appartamento a Brooklyn -, e via così. Per questo mi sono posto il problema: i miei rilievi non saranno strumentalizzati dai suoi detrattori e odiatori?».

Per dirla come negli anni Settanta: «Non faranno oggettivamente il gioco della destra?».

«Ha vinto una paura più grande: quella di vedere se non declassati, almeno falsati, sostanza e compito della letteratura, almeno per come la intendo io. Un modo di sondare il mistero e l' ambiguità del reale non surrogabile da altri tipi di conoscenza».

Cosa c' entra in questo Saviano?

«Per la sua autorevolezza, se lui stigmatizza la "pura letteratura" perché non gli interessa "la letteratura come vizio"; se lui prende le distanze dai letterati che si accontentano di "fare un buon libro", alla ricerca "del bello stile", bollandoli come "codardi" - perché dal suo punto di vista non abbastanza (o per nulla) impegnati - a mio avviso contribuisce a dare un' immagine distorta della letteratura. E per l'eterogenesi dei fini Saviano rischia così di diventare, inconsapevolmente ma di fatto, complice del Potere che lui intende combattere».

In che modo?                                             

«Il potere punta alla regressione culturale, all' infantilizzazione attraverso schemi basic: bianco/nero, noi/loro, giusto/sbagliato. Niente zone grigie, zero sfumature, la complessità del reale ridotta a gioco delle parti come in un reality televisivo. Il potere postula semplificazioni e svuotamento dei cervelli. Così in Saviano la visione manichea lo porta a declinare lo scrivere come categoria bellica, come arma: siamo in guerra, "alla camorra", "alla cocaina", "per i migranti", e non a caso la collana che adesso dirigerà per Bompiani si chiamerà "Munizioni", con opere di giornalisti e scrittori che, come lui, si sono trovati in una situazione di emergenza e pericolo a causa del loro impegno. Come a dire: la letteratura emerge e ha dignità solo passando per situazioni estreme. Ma erano per caso borderline l' impiegato Frank Kafka, la zitella Jane Austen, il Marcel Proust che viveva di rendita? Intendiamoci: i libri "in guerra" è importante e giusto che ci siano, ma mi ribello alla concezione per cui la letteratura sia solo quello, oppure non sia».

Si oppone al tertium non datur: o la scrittura è stare sulle barricate, occupandosi dei mali del mondo, oppure è contemplazione del proprio ombelico.

«So di fare la figura un po' patetica del letterato vecchio stampo, l' ho scritto in chiusura del saggio, ma avverto un clima culturale che tende a immiserire la letteratura, confinandola ai compiti o di denuncia o di intrattenimento. Mi sono chiesto come, in Saviano che stimo, quello svilimento fosse avvenuto».

Saviano ostaggio di sé stesso, prigioniero del proprio personaggio oracolare. Un articolo che le sarà costato fatica.

«Ho impiegato un mese, ho ripreso in mano e riletto - in ordine cronologico - tutti i suoi scritti, ho rivisto la serie tv Gomorra e il film La Paranza dei Bambini. E mi sono convinto di un fatto: più Saviano ha acquisito "presenza" (televisiva, mediatica, scenica), e più la letteratura è rimpicciolita dentro di lui».

Un' involuzione?

«Prima di Gomorra e con Gomorra, l' energia di Saviano è legata al coinvolgimento autobiografico. Lui è lì a "testimoniare" con tutto sé stesso, anche carnalmente: corpo, sangue, fegato, budella, perfino erezioni. Lo stile cerca di adeguarsi alla passione civile, con metafore estreme nello sprezzo del ridicolo, per cui un porto è "un ano di mare che si allarga con grande dolore degli sfinteri" eccetera. E poi le scene madri, icastiche, come i cinesi congelati che cadono dai container, eco della lezione di Curzio Malaparte».

Le teste congelate dei cavalli che emergono dalle acque ghiacciate del lago Ladoga in Kaputt.

«A un certo punto, evoca il Pier Paolo Pasolini del: "Io so ma non ho le prove", volgendolo in attivo: "Io so e ho le prove"».

Un' appropriazione che lei, curatore dell' opera omnia di Pasolini per I Meridiani della Mondadori, come ha valutato?

«C'è un elemento che fa la differenza: Pasolini era un poeta, Saviano no. Pasolini, sull' impotenza della parola di fronte alla complessità, alla densità, all' enormità della vita, ci ha penato per anni, era un' autoanalisi permanente, ogni 4-5 anni abiurava quello che aveva fatto, attraverso una continua dolorosa sperimentazione formale. Per Saviano sembra che basti ridurre la forma ai minimi termini».

Dopo Gomorra che accade?

«Ha sfidato i clan a casa loro, si ritrova minacciato di morte e sotto scorta. Lui, che aveva affidato la scrittura al corpo, al movimento, all'"essere lì", avendo perso tale libertà estremizza il suo orizzonte mentale in senso manicheo. Non esistono che fan o odiatori. Nella sua prospettiva bellica, aveva auspicato che la sua vita diventasse "un campo di battaglia", ed eccolo accontentato. Come nell' aforisma, che Saviano ricorda, convenzionalmente attribuito a santa Teresa d' Avila e usato da Capote: "Si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte".

Tra Gomorra e ZeroZeroZero del 2013 passano sette anni, in mezzo Saviano compare tanto in tv.

«Che gli fa vivere l' ebbrezza euforica del proprio potere comunicativo: fa monologhi con ottimi risultati da Fabio Fazio (ma quelli su Nove cinque anni dopo risulteranno più spenti, riproposizione di un cliché oratorio) ma tanto più è limitato nei movimenti, tanto più si sente investito di una missione, un aedo popolare contro la criminalità».

Un eroe solitario, in una dimensione superomistica, per dirla con Nietzsche che Saviano cita, peraltro senza nominarlo, in chiusura di ZeroZeroZero.

«Sono di gran lunga le pagine più belle del libro, il massimo dell' introspezione cui Saviano sia mai arrivato: "Ho guardato nell' abisso e sono diventato un mostro, ora è l' abisso che vuole guardare dentro di me". La fascinazione per il Male. Mi parve così potente, questa confessione, che mentre dirigevo la rivista letteraria Granta gli proposi di scrivere un contributo per il numero monografico sul Male, ma alla fine non riuscì a trovare tempo e modo di dare forma a quel suo tormento interiore».

Perché dice «le pagine più belle» del libro?

«Perché sono autentiche. Il resto, volendo lui creare un' epica del narcotraffico e dei suoi eroi negativi, è tutto di seconda mano, de relato, riassunto e divulgazione. Messico o Colombia ridotti a stereotipi ambientali, una sciatteria stilistica, con frasi fatte da giornalismo svogliato, "la punta dell' iceberg", "il tallone d' Achille", fino alle fantozziane "feste megagalattiche".

Come il Manuel Fantoni di Borotalco di Carlo Verdone: «Un bel giorno, senza dire niente a nessuno, m' imbarcai su un cargo battente bandiera siberiana».

«Si cerca di rimediare alla sciatteria enfatizzando la violenza con scene splatter, l' espressionismo impoverito delle metafore ("un parco immenso violentato da una strada a quattro corsie"), l' esotismo da feuilleton, "un giaguaro ferito nella giungla colombiana", puro Emilio Salgari».

Arriviamo a La paranza dei bambini.

«Primo vero romanzo-romanzo, il cui modello sottotraccia è quello dei "ragazzi di vita" di Pasolini. Ma il punto debole è, ancora di più, la scrittura. C' è il sentimentalismo alla Federico Moccia ("senza la sua dolcezza si sentiva vuoto"), un lessico alla Enzo Miccio ("optò per una camicia blu navy") con una noncuranza per la forma, da lui evidentemente assimilata all' estetismo fatuo. Usa tutti gli stili, giustapposti in maniera inerte, quindi non ne ha nessuno. Come nel sequel Bacio feroce, in cui si avverte ancora di più la stanchezza dell' ispirazione, le sorprese - quando ci sono - sono solo nella trama, mai nelle psicologie, puro manierismo savianesco».

Siti, torno alla domanda iniziale: chi gliel' ha fatto fare di immergersi in questa puntuta esegesi, da cui Saviano non esce bene, che le procurerà molte critiche?

«Per amore della letteratura. Parafrasando Nietzsche, "se vuoi essere san Giorgio, combatti draghi, non lucertole". Per il credito di cui gode Saviano, meritato anche per la vita sacrificata che conduce, devi confutare lui e la sua visione, non certo i suoi epigoni. È ovvio che molte cose pubblicate sono molto peggio della peggior opera di Saviano. Ma la letteratura, perfino in nome dell' impegno, non può rinunciare al suo scopo di far emergere quello che non si sa ancora, non può prestarsi a far da altoparlante a quel che già si crede giusto. Il suo maggiore obiettivo non è la testimonianza ma l' avventura conoscitiva. Tra l' affrontare i suoi demoni privati, con cui combatte per via della vita che è costretto a vivere, e il pensarsi letterariamente come eroe, ha scelto questa seconda strada. Ma lo scrittore Saviano si è perso nella prima».

Da “Circo Massimo - Radio Capital” il 20 settembre 2019. Quarant'anni e non immaginarli. Fra pochi giorni Roberto Saviano raggiungerà un traguardo che lui stesso definisce inaspettato: "Non credevo di arrivare a quarant'anni. Quando è accaduto tutto quello che mi è accaduto avevo 26 anni, e anno dopo anno sembrava qualcosa che strappavi al destino, a una condanna. Quindi non ci pensi più", racconta lo scrittore in un'intervista a Circo Massimo, su Radio Capital, "E anche la tua famiglia vive una condizione di sospensione perenne. Ogni anno c'era qualcuno, un'istituzione, che ripeteva che la situazione continuava, e continua, a essere molto difficile; e dall'altro c'è un pezzo di mondo che negli ultimi anni è stato durissimo e ti dice che è tutta una messa in scena. E si vive così una situazione assurda". Ne valeva la pena? "La risposta che mi arriva dalla pancia è no, non ne valeva la pena, perché ciò che si perde è tanto", riconosce l'autore di Gomorra, "Ovviamente guardando il percorso riesco a pesare il valore delle cose: le mie scelte sono state importanti per molte persone, sento che non è stato un percorso solitario, sento che c'è stata una necessità, e razionalmente mi rendo conto che il risultato è stato importante. La fiducia per esempio la perdi perché, come potete immaginare, è un continuo sentirsi osservati, valutati, cercare un piede in fallo. Dai fastidio solo perché attiri curiosità, quindi sei ingombrante, e non vorresti esserlo". Nell'intervista a Simonetta Fiori sul Venerdì di Repubblica oggi in edicola, Saviano ricorda il momento in cui gli suggerirono di fare testamento: "Fu un momento incredibile. Non avevo ancora compiuto 27 anni. Ero in una caserma e mi fu chiesto di lasciare una serie di dettagli dicendomi che così sarei stato più sereno, che avrei messo le cose a posto. Lo ricordo come ieri, presi ridendo questa richiesta ma poi, mentre scrivi, inizi a fare una valutazione della tua vita e a ragionare sulla tua morte. Tutto questo era ed è dato come una situazione normale. Però ho iniziato a ragionare pensando che ero in qualche modo fortunato, perché sano, perché non avevo una malattia, perché non ero in carcere. E il testamento mi fa sentire in una situazione paradossale, perché arrivi a un certo punto e dici "cazzo, se divento vecchio ho vissuto tutta la vita continuamente in guerra e alla fine l'ho scampata", hai la sindrome del sopravvissuto, una cosa che per certi versi ti fa godere ogni minuto, ma per altri lato ti fa sentire la sindrome d'assedio, che è terribile, e in una dimensione in cui la tua vita spesso viene vista come prova dell'essere un traditore o un bugiardo, perché se fossi davvero a rischio saresti morto. Ti devi sentire in colpa perché non sei morto, perché sei vivo". Il governo è cambiato, e al Viminale non c'è più Matteo Salvini, da cui Saviano è stato continuamente attaccato. Ma lo scrittore è cauto: "Non urlo allo scampato pericolo. I motivi per cui Salvini ha acquistato tutto questo consenso sono ancora tutti lì, non mutati. La sua strategia oggi sembra perdente, probabilmente si è lasciato dominare da questo desiderio autoritario, ma in realtà il vero tema rimane che la politica non sta affrontando i nodi, e anche il dibattito pubblico è dominato dal gioco delle parti: Salvini e anti Salvini, scissioni, spartizioni, e i temi spariscono. L'unico modo per potersi sentire al riparo da un ritorno di Salvini", ragiona, "è cominciare ad affrontare questi temi. Ma in realtà dai temi fiscali, alla criminalità, all'immigrazione, tutto questo passa in secondo ordine perché arriva nel dibattito come commento a un post, come riflessione". Sull'immigrazione, però, Saviano vede "un pezzo di opinione pubblica che è riuscito con fatica a mostrare che le persone non si possono lasciare in mare. Questo sì, è un cambio di passo". La querela dell'ex ministro degli Interni contro Saviano "è ancora in piedi. È cambiato molto, ovviamente senti un pezzo di istituzione che non è lì a puntarti, ma se devo dirti che sento che è cambiato qualcosa... no. La pressione e l'essere ancora nel mirino lo sento ancora, le parole sempre più violente di Salvini continuano a tenere le persone, e non solo l'unico che considera un nemico, in uno stato di tensione. Io non ho paura, continuerò il mio percorso. E il nuovo governo deve lanciare immediatamente messaggi in controtendenza. Le macerie lasciate da Salvini e il clima terribile creato da Salvini... ecco, se questo governo vuole essere in controtendenza, deve immediatamente capire dove andare".

 “I BAMBINI SI NUTRONO DI QUESTE PORCHERIE”. Da Libero Quotidiano il 5 agosto 2019. Roberto Saviano ha fatto infuriare pure chi la mafia la combatte sul campo. Nicola Gratteri, procuratore capo della Dda di Catanzaro se la prende contro mister Gomorra e la serie che ha ispirato e a cui ha preso parte per la realizzazione: "Qualche grande personaggio che si definisce intellettuale dice che vogliamo censurare la cultura. Io invece sono preoccupato perché i bambini si nutrono di queste porcherie". Il saggista ci va giù ancora più pesante: "Oltre a fare il magistrato, io sono seguito da migliaia di persone per le quali sono un modello ciò significa che devo stare attento a quello che dico e a quello che faccio. Se so che scrivendo un romanzo, una sceneggiatura o qualsiasi altra cosa posso nuocere al comportamento dei ragazzi quel prodotto non lo faccio altrimenti sono uno spregiudicato o un ingordo che voglio solo guadagnare soldi". Il rimando a Saviano, anche se il suo nome non viene mai pronunciato, sembra chiaro.

Gratteri contro Saviano: sei un cattivo maestro. Simona Musco il 6 Agosto 2019 su Il Dubbio. L’anatema del magistrato antimafia. L’accusa del procuratore: «c’è chi dice che vogliamo censurare la cultura. Io invece sono preoccupato, perché i bambini si nutrono di queste porcherie» “Gomorra” e affini sono diseducativi e rischiano di provocare un effetto “emulazione”. E così, anziché censurare le mafie finiscono per esaltarle, trasformando in eroi coloro che, nella realtà, sono i cattivi. Nicola Gratteri, procuratore capo della Dda di Catanzaro, ancora una volta non le manda a dire. E, così come più volte ha fatto negli ultimi tre anni, punta il dito contro la serie tv nata dalla penna di Roberto Saviano, definito, nemmeno troppo tra le righe, un professionista dell’antimafia, un ingordo. Un’occasione, quella fornita dal palco di “Estate a casa Berto” a Capo Vaticano, in Calabria, per rispedire al mittente le critiche di chi, come Marco D’Amore, protagonista della serie, aveva paventato il rischio di una censura. «Qualche grande personaggio che si definisce intellettuale dice che vogliamo censurare la cultura- ha dichiarato il magistrato dialogando con il giornalista Paolo Conti, del CorSera, nel corso della rassegna – Io invece sono preoccupato perché i bambini si nutrono di queste porcherie. Oltre a fare il magistrato, io sono seguito da migliaia di persone per le quali sono un modello. Ciò significa che devo stare attento a quello che dico e a quello che faccio. Se so che scrivendo un romanzo, una sceneggiatura o qualsiasi altra cosa posso nuocere al comportamento dei ragazzi quel prodotto non lo faccio altrimenti sono uno spregiudicato o un ingordo che voglio solo guadagnare soldi». Una tesi che Gratteri sostiene ormai da tempo, in compagnia di diversi colleghi, tra i quali anche il procuratore capo della Dna Federico Cafiero de Raho, secondo cui il rischio è quello di distorcere la realtà, raffigurando la camorra come fosse un’associazione come tante altre anziché rappresentarne la violenza che la caratterizza. La polemica era nata in occasione della messa in onda della terza stagione di “Gomorra”, quando Gratteri aveva criticato il modello veicolato dalla serie tv, denunciando il rischio emulazione. «È dietro l’angolo – aveva messo in guardia Negli ultimi tempi, dagli eroi positivi destinati alla sconfitta si è passati ai boss protagonisti di storie più o meno ispirate a fatti veri. Sullo schermo vediamo un mondo abitato da “paranze” assetate di sangue, senza alcun margine di redenzione. Alla fine, i personaggi positivi sono uomini di potere, uomini di parola e uomini che sanno imporsi. Ma sono sempre criminali». Ma non era stato il solo a farlo. Ad elargire critiche era stato, infatti, anche Giuseppe Borrelli, all’epoca procuratore aggiunto della Dda a Napoli, secondo cui la pecca di “Gomorra” sarebbe quella di offrire una rappresentazione folkloristica dei clan. Parole che avevano allarmato il cast del film, che attraverso D’Amore, alias Ciro di Marzio, protagonista della fiction, aveva denunciato il rischio di censura nei confronti di quello che ha definito, invece, un fortissimo atto di denuncia partito proprio da Saviano. E lo stesso scrittore ha poi rispedito al mittente le accuse. «Il rischio emulazione — aveva replicato — credo sia un paradosso. Chi guarda il padrino diventerà Michael Corleone? Chi legge Shakespeare diventerà Riccardo III? Quando un libro, un film, una serie tv raccontano le ferite senza edulcorarle, mettono a soqquadro la percezione della realtà facendo nascere una domanda: ma davvero questo accade? Una serie che racconta il male, mostra la ferita, produce sofferenza e quindi cambiamento e crescita».

Il capo della polizia Gabrielli a Saviano: "Da lui accuse ingiuste e false". Il capo della polizia Franco Gabrielli: "Salvini ha sempre rispettato la legge". Gabriele Laganà, Sabato 11/05/2019 su Il Giornale.  “Noi siamo la polizia di Stato, non una polizia privata al servizio di questo o quel ministro”. Lo ha affermato il capo della polizia Franco Gabrielli in una intervista al Corriere della Sera rispondendo, così, in modo diretto a quanti, come Saviano, accusano le forze dell’ordine di essere divenuti una sorta di servizio d’ordine di un partito o di Salvini. Gabrielli è consapevole che l’Italia stia attraversando un periodo particolare, fatto di tensioni politiche e sociali accentuante dalle imminenti elezioni europee che potrebbero lasciare strascichi nel governo. Per questo “credo sia interesse di tutti non contribuire ad alimentarle, né coinvolgere nelle dispute quotidiane istituzioni di garanzia come la nostra, tirandole da una parte o dall’altra”. Il capo della polizia ha tenuto a precisare poi che quanto accaduto a Salerno (lo striscione contro la Lega rimosso da agenti, ndr) non è un caso unico. Già in passato, infatti, si sono verificati episodi in cui sono stati tolti striscioni o simboli che potevano provocare turbative durante le manifestazioni perché esiste una norma posta a garanzia del loro svolgimento senza provocazioni. Ciò non significa, però, zittire il dissenso. Infatti, fa notare Gabrielli, “in questi giorni non c’è comizio di Salvini senza contestazioni, e non mi risulta si sia impedito di manifestare”. Nel caso del cellulare sequestrato alla ragazza che s’è ripresa con il ministro mentre lo apostrofava sui terroni la situazione è diversa. Il capo della polizia, dopo aver visionato il video, ha dato disposizione al questore e all’ufficio ispettivo di avviare accertamenti, attivando una procedura disciplinare in quanto potrebbero esserci profili di illiceità nel comportamento degli agenti. Però, sottolinea, aspettiamo l’esito delle indagini prima di fare una valutazione. Gabrielli non ha timori di dire la sua sulle pesanti dichiarazioni di Saviano che, nei giorni, scorsi, ha attaccato la polizia perché ridotta ad una sorta di servizio d’ordine di un partito. “Si è trattato di accuse ingiuste e ingenerose, perché coinvolgono la polizia in una polemica politica che non ci appartiene- ha affermato Gabrielli – “Io come vertice di questa amministrazione posso provare fastidio e preoccupazione quando il ministro dell’Interno viene definito “ministro della Malavita”, ma non mi sono mai permesso di interloquire”. “Se però la mia amministrazione viene chiamata in causa con affermazioni false”, ha inoltre dichiarato il capo della polizia “ho il dovere, oltre che il diritto, di reagire e di chiedere rispetto”. Gabrielli, con orgoglio, precisa di essere un servitore dello Stato e che, per questo, lavora nell’interesse dei cittadini. “Ricevo le direttive del governo, sono sottoposto alla legge... In undici mesi di permanenza del ministro Salvini al Viminale, non ho mai avuto da lui indicazioni contrarie a questi principi. E le direttive ricevute sono tutte contenute in documenti pubblici, espliciti, ricorribili davanti alla giustizia amministrativa”. Il capo della polizia ha voluto sottolineare con forza che il ministro non ha mai chiesto nulla di contrario alla legge. In caso contrario, il dovere sarebbe quello di rassegnare immediatamente le dimissioni. Anche sulle continue polemiche in merito alle divise utilizzate da Salvini, Gabrielli è stato molto chiaro affermando che sono solo attacchi pretestuosi perché il ministro non ha bisogno di indossarle per dimostrare a tutti di essere l’autorità politica nazionale di pubblica sicurezza. Lo stesso capo della polizia, però si dice preoccupato per il clima di scontro che si respira in Italia. “Credo che anche nelle valutazioni di quello che accade dovremmo mantenere le giuste proporzioni, ma detto ciò io sono sempre preoccupato. Soprattutto in prospettiva, considerando le dinamiche economiche e lavorative a cui potremmo andare incontro”. “Sono perfettamente consapevole di segnali inquietanti di nuove forme di razzismo e xenofobia, l’antisemitismo di ritorno, rigurgiti di neofascismo che vanno monitorati con attenzione e repressi quando ci sono gli estremi”, ha dichiarato Gabrielli. Quest’ultimo ha ammesso che “oggi la criminalità organizzata sia la priorità che questo Paese si trova a dover affrontare sul piano della sicurezza”. Da nord a sud i problemi ci sono, magari anche lì dove non avvengono episodi eclatanti che attirano l’attenzione dell’opinione pubblica ma la polizia fa “il possibile nei limiti e nella limitatezza dei mezzi a disposizione”.

LA VERSIONE DI MUGHINI. Giampiero Mughini per Dagospia l'11 maggio 2019. Caro Dago, sono un cittadino repubblicano che quando passa innanzi a dei soldati o a dei poliziotti che stanno presidiando – ne stanno garantendo la sicurezza – un luogo pubblico, sempre li saluto e auguro buon lavoro perché vedo in loro la garanzia della democrazia e della convivenza civile. Ecco perché mi sono precipitato a leggere i due paginoni iniziali che il “Corriere della Sera” ha dedicato oggi all’intervista che (l’ottimo) Giovanni Bianconi ha fatto al cinquantanovenne Franco Gabrielli, quello che nell’aprile 2016 era stato nominato capo della polizia dal governo Renzi. Non le ho lette, le ho bevute come di un argomento che a connotare l’identità attuale della nostra democrazia è cento o duecento volte più importante dei libri che sì o no vengono messi in vendita al Salone del libro di Torino. C’erano stati difatti dei precedenti inquietanti. Il fatto che in un paio di occasioni la polizia italiana era intervenuta come se avesse a cura l’immagine “politica” dell’attuale e ingombrante ministro dell’Interno, Matteo Salvini. In un’occasione era stato rimosso uno striscione contro la Lega esibito da una casa privata. In un’altra occasione era stato sequestrato il telefonino di una ragazza che aveva scocciato pubblicamente il suddetto ministro. Tanto che in un suo tweet Roberto Saviano aveva denunciato che la polizia italiana era divenuta “la milizia privata” del capo della Lega. Accusa gravissima nel caso che adombrasse una seppur minima verità, altro che il libro/scandalo pubblicato da Altaforte. E difatti da un suo account ufficiale la polizia replicava all’istante che le accuse di Saviano erano “penose”. Ammetterete che ce n’è di materia da far rizzare le orecchie a un cittadino repubblicano quale il sottoscritto. E dunque giù a leggere riga per riga le risposte di Gabrielli alle domande accurate e intelligenti di Bianconi. Sì o no la polizia italiana ha curvato la sua identità alle esigenze politiche e propagandistiche del capo della Lega da cui dipende istituzionalmente? Ebbene, il capo della polizia – di cui mi pare siamo concordi nel dire che è un uomo d’onore – è nettissimo nel respingere questa accusa. Togliere uno striscione che rischia di “turbare” una manifestazione di partito in corso è un obbligo e un dovere della polizia, e ci sono decine di precedenti a tutela di esponenti politici di tutti i colori. Se c’è Salvini che – come si ascolta in un video – ordina di cancellare immagini dal telefonino della ragazza che lo stava contestando, non sta nei poteri di Gabrielli censurare le parole del ministro; di sicuro lui ha attivato accertamenti ad attivare un’eventuale procedura disciplinare nei confronti dei poliziotti che s’erano impadroniti del telefonino della ragazza. Quando in un quartiere periferico di Roma s’è trattato di difendere la famiglia rom cui era stata assegnata regolarmente una casa, la polizia lo ha fatto senza indugi a costo di beccarsi insulti e sputi. Se il ministro dell’Interno agisce  24 ore su 24 da capopartito in perenne campagna elettorale, non sta al capo della polizia giudicarlo. La questione sostanziale, risponde Gabrielli a Bianconi, è un’altra. Se sì o no lui ha mai ricevuto dal ministro dell’Interno indicazioni o direttive contrarie al suo ruolo di servitore dello Stato nell’interesse dei cittadini. “No, mai”, dice Gabrielli. Ove avvenisse, lui immediatamente presenterebbe le dimissioni. Confesso di avere letto con piacere questa intervista. Adesso me la ritaglio e la conservo. E naturalmente appena esco e incontro qualche poliziotto, immediatamente gli augurerò buon lavoro.

Giovanni Bianconi per il Corriere della Sera l'11 maggio 2019. «Stiamo attraversando un momento particolare nella vita del Paese, vigilia di un appuntamento elettorale importante e caratterizzato da qualche tensione politica. Proprio per questo credo sia interesse di tutti non contribuire ad alimentarle, né coinvolgere nelle dispute quotidiane istituzioni di garanzia come la nostra, tirandole da una parte o dall' altra». Il capo della polizia Franco Gabrielli è consapevole del rischio che la struttura da lui guidata, alle dirette dipendenze di un ministro dell' Interno come Matteo Salvini divenuto uno dei maggiori protagonisti delle tensioni quotidiane, venga trascinata nelle polemiche. E se ne vuole sottrarre: «Noi siamo la polizia di Stato, non una polizia privata al servizio di questo o quel ministro».

Però lo striscione contro la Lega rimosso a Salerno, con la polizia che entra in una casa privata, ha dato un segnale diverso.

«Si sbaglia. Ci sono decine di precedenti a tutela di esponenti politici di tutti i governi del passato, in cui sono stati tolti striscioni o simboli che potevano provocare turbative durante le manifestazioni di partito. Per i comizi elettorali c' è addirittura una norma posta a garanzia del loro svolgimento senza provocazioni di sorta».

Significa che non si può manifestare dissenso?

«Ma che dice? Mi pare che in questi giorni non ci sia comizio di Salvini senza contestazioni, e non mi risulta si sia impedito di manifestare. Ma quando si verificano situazioni di potenziale turbativa, spetta al funzionario in strada fare le valutazioni del caso ed evitare che possano provocare conseguenze».

Il questore di Prato voleva addirittura denunciare quelli dell' Associazione partigiani che protestavano contro il ministro...

«Siamo subito intervenuti per precisare che non c' erano elementi per denunciare alcunché».

E il telefonino sequestrato a Salerno alla ragazza che s' è ripresa con Salvini mentre lo apostrofava sui «terroni»?

«Dopo aver visto quel video ho valutato che potessero esserci profili di illiceità nel comportamento dei poliziotti, e ho dato disposizione al questore e all' ufficio ispettivo di avviare accertamenti, attivando una procedura disciplinare. Vedremo quale sarà l' esito, ma l' ho fatto prima che alla polizia venissero mosse accuse false e fuori luogo».

Però nel video si sente Salvini che ordina di cancellare il video dal telefonino della ragazza.

«Io non ho il potere di censurare l' azione del ministro. Se ravviso comportamenti scorretti dei miei uomini agisco di conseguenza. Senza attendere le reprimende di chicchessia».

Si riferisce al tweet di Roberto Saviano sulla polizia ridotta a servizio d' ordine di un partito?

«Si è trattato di accuse ingiuste e ingenerose, perché coinvolgono la polizia in una polemica politica che non ci appartiene. Io come vertice di questa amministrazione posso provare fastidio e preoccupazione quando il ministro dell' Interno viene definito "ministro della Malavita", ma non mi sono mai permesso di interloquire. Se però la mia amministrazione viene chiamata in causa con affermazioni false, ho il dovere, oltre che il diritto, di reagire e di chiedere rispetto».

Usando il profilo Twitter istituzionale della polizia, come avete fatto per la risposta?

«Quel tweet non appartiene a un funzionario anonimo sfuggito al controllo dell' amministrazione, ma è stato sollecitato e autorizzato. Se devo dire qualcosa lo faccio in maniera chiara e diretta, senza infingimenti o ipocrisie. Non a caso nella risposta abbiamo specificato che "chi sbaglia paga nelle forme prescritte dalla legge", riferendoci all' eventuale comportamento illegittimo del singolo poliziotto».

Non pensa che, prima di Saviano o altre voci critiche, sia il comportamento di Salvini, ministro dell' Interno ma soprattutto capopartito e vicepremier in perenne campagna elettorale, a mostrare scarso rispetto e mettere in difficoltà la sua istituzione?

«Il ministro dell' Interno ricopre il suo ruolo come meglio ritiene, e non spetta al capo della polizia giudicarlo. Io sono chiamato a servire lo Stato nell' interesse dei cittadini, ricevo le direttive del governo, sono sottoposto alla legge. Sono i tre capisaldi che ispirano la mia azione. In undici mesi di permanenza del ministro Salvini al Viminale, non ho mai avuto da lui indicazioni contrarie a questi principi. E le direttive ricevute sono tutte contenute in documenti pubblici, espliciti, ricorribili davanti alla giustizia amministrativa».

Che non l' hanno mai nemmeno imbarazzata?

«Le ripeto che io non ho il potere di censurare l' azione del ministro, e le confermo che non mi ha mai chiesto nulla di contrario alla legge. Per questo mi sento ferito e amareggiato quando si tira per la giacca la mia amministrazione chiedendomi di essere ciò che non posso essere: io sono un funzionario dello Stato, non un politico. E ritengo che sia un bene per la democrazia che la politica diriga e indirizzi gli apparati della sicurezza, anziché viceversa. Se poi un ministro mi chiedesse di superare il confine del lecito, e se venisse messo in discussione anche solo uno dei principi a cui devo ispirare la mia azione, il mio dovere non sarebbe di fare un proclama o un' intervista, ma di rassegnare le dimissioni».

Ma al di là degli ordini illegittimi, come può non essere un problema un politico che indossa la giacca della polizia mentre fa i suoi comizi di partito?

«Questa della divisa mi sembra davvero una polemica pretestuosa. Lei crede davvero che il ministro abbia bisogno di indossarla per dimostrare a tutti di essere l' autorità politica nazionale di pubblica sicurezza? Lo è per legge, non per come si veste».

Appunto. Allora perché lo fa?

«Preferisco leggerlo come un segno di attenzione nei nostri confronti. E se c' è un problema di opportunità che lui non ha ritenuto di porsi, non sono io a doverglielo porre. Del resto mi pare che da qualche tempo non se ne parla più, e lui non indossa le nostre giacche. Ma non posso accettare che pure questa questione venga utilizzata per sostenere che la polizia è asservita al ministro leghista, perché è falso».

È preoccupato per il clima di tensione che si respira nel Paese, a cominciare dalle piazze di certi comizi?

«Quando sento parlare di tensione penso che il nostro sia un Paese dalla memoria corta, se non si ricorda quello che ha attraversato negli anni Settanta e anche dopo. Credo che anche nelle valutazioni di quello che accade dovremmo mantenere le giuste proporzioni, ma detto ciò io sono sempre preoccupato. Soprattutto in prospettiva, considerando le dinamiche economiche e lavorative a cui potremmo andare incontro».

Le proteste contro i rom che devono entrare nelle loro legittime abitazioni scortati dalla polizia non sono un segnale d' allarme?

«Se mi permette, il fatto che siano stati protetti dalla polizia è un segnale dell' attenzione della nostra amministrazione verso i diritti di tutti. E che non siamo interessati alle fortune elettorali di chi siede al Viminale. Dopodiché sono perfettamente consapevole di segnali inquietanti di nuove forme di razzismo e xenofobia, l' antisemitismo di ritorno, rigurgiti di neofascismo che vanno monitorati con attenzione e repressi quando ci sono gli estremi. Noi facciamo e faremo il nostro compito, ma teniamo ben presente il fondamentale ruolo di magistratura e Parlamento. La polizia non si sottrae alle proprie responsabilità, ma non si può sostituire a quelle altrui». 

C' è un' emergenza sicurezza, per esempio in una realtà come Napoli tornata alla ribalta con il grave ferimento di una bambina nel mezzo di un agguato di stampo camorristico?

«Per fortuna oggi da Napoli sono arrivate due buone notizie: la bambina che sembra stare un po' meglio e l' arresto dei presunti responsabili. Tuttavia non è il caso di abbandonarsi a toni trionfalistici, perché quello è un territorio complicato, dove cerchiamo di fare il possibile nei limiti e nella limitatezza dei mezzi a disposizione. Ci sono problemi a Napoli, come nella provincia di Foggia, in Sicilia e in molte altre zone, dove magari non avvengono episodi eclatanti che attirano l' attenzione dell' opinione pubblica. Io credo che ancora oggi la criminalità organizzata sia la priorità che questo Paese si trova a dover affrontare sul piano della sicurezza».

RITRATTONE ACIDO DI SAVIANO BY FACCI. Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 21 agosto 2019. Le opinioni su Matteo Salvini non c'entrano più, anche gli "amici" di Roberto Saviano sanno che Saviano sul tema è andato fuori di cotenna da tempo: ma fanno spallucce, lasciano che lo scrittore (va bene scrittore?) faccia i suoi sforzi per continuare a far parte del paesaggio pur senza un ruolo preciso, e tirano dritto. Fanno finta di niente. Ormai Saviano è un modo di dire: «Bastava Saviano», ha detto ieri Salvini riferito a Giuseppe Conte, «per raccogliere tutti questi insulti, non il presidente del Consiglio». Saviano. Un Saviano. Perché è vero, una persona sana di mente può anche stufarsi di passare a vita per quello di "Gomorra", e può anche tentare di reinventarsi socialmente e professionalmente come l' antagonista culturale (va bene culturale?) di Matteo Salvini: ma perdio, Saviano potrebbe sforzarsi di farlo un po' meglio. L' impressione che questo signore abbia sbroccato è ben precedente all' estate, e nei giorni scorsi è soltanto riuscito ad abbassare ancora di più l' asticella: «Il destino di Salvini è il carcere, e questo lo sta capendo anche lui; basterà che si spengano le luci». Ha stortato la bocca, a sinistra, anche qualche garantista residuale. Perché l' augurio sa tanto di auspicio massimo, di logica conclusione contro il male da parte del bene. Poco importa che il tremillesimo pretesto siano stati i 134 migranti della "Open Arms" ostaggio dei banditi libici, ma parimenti - ecco - secondo Saviano ostaggi «del bandito politico Matteo Salvini, il ministro della Malavita». Anche quest'espressione reiterata, «ministro della Malavita»: termine inaccettabile comunque lo si guardi, scorrettezza oltre ogni diritto di critica, tentativo di "mascariare" mafiosamente un nemico ripetendo all' infinito una sconcezza: sinché qualcosa resterà. È come se Saviano, nel perpetuo tentativo di riscattarsi e accreditarsi con qualcosa o con qualcuno, volesse far dimenticare quando giudicava una cosa per volta e sembrava, addirittura, una personcina equilibrata: farsi perdonare, per esempio, quando riconobbe i successi del governo Berlusconi nella lotta alla camorra e quando elogiò più volte il ministro Roberto Maroni, un leghista giudicato «uno dei migliori ministri degli Interni di sempre». Ai tempi aveva 31 anni e viveva da fuggiasco, superblindato, prigioniero e senza una vera vita privata. Oggi ha cinquant'anni e vive da fuggiasco, superblindato, prigioniero e senza una vera vita privata. Ma augura la galera a un vicepremier solo come passaggio di un' escalation, o, volendo vederla con dietrologia malata, come una previsione politica nel giorno in cui Salvini non avesse più la ribalta del Viminale e tornasse un semplice senatore, libero di essere accerchiato da una giustizia sovralimentata da un governo manettaro grillino-piddino. Dunque le esagerazioni di Saviano sanno sempre meno di opposizione politica e sempre più di disvelamento, di inciampo rivelatore, di smascheramento forcaiolo per l' uomo che diceva di amare Salamov e Solzenicyn ma ora ha virato su Travaglio e Davigo. È più comodo. C' è più gente da prendere al lazo sui social. Saviano rimane quello di "Gomorra" (con enormi, spaventose responsabilità circa la rilegittimazione mediatica di certa malavita) ma nel tempo ha cercato di trasformarsi in un' autorità morale che distribuisca pagelline su candidati ed eletti, sentenzi sui giornali e in tv e decida la presentabilità di tizio e caio. il salto Poi il grande salto, ma non sappiamo se di qualità: l' ossessione Salvini. Quello che chiude i porti alle Ong e dirotta le barche. Quello «inumano», «buffone», «incapace», «ministro della crudeltà» oltreché della citata malavita. Saviano è giunto a invocare la censura (una «forma disperata di opposizione all' orrore», «non dando notizia e non commentando le affermazioni più gravi di Matteo Salvini») e a giudicare il viceministro «un baro», uno che indossa le divise delle forze dell' ordine come «gesto autoritario» e «pericolosissimo per la democrazia». Salvini che «minaccia magistratura e oppositori di ritorsioni armate», uno che «tra la Lega di potere e Matteo Messina Denaro ci sono solo tre gradi di separazione», uno «ha Facebook, un Potere globale». Facebook appartiene a Salvini. Il quale, poco tempo fa, ha parlato contro la mafia nella speranza che in futuro possa valere come argomento difensivo in un processo per mafia contro di lui: parola di Roberto Saviano. Uno che col suo argomentare, col suo facile accostare un ministro alla malavita, potrebbe più facilmente definirsi come scrittore della malavita: nessuno pare più avere dubbi, ormai, sul fatto che l'effetto Gomorra abbia riqualificato l' immagine della Camorra stessa, e che a portarne la responsabilità, paradossalmente, sia stato chi l' aveva dapprima combattuta con un libro formidabile. Il libro è appunto "Gomorra", che poi si è fatto marchio e prodotto d' esportazione. Ed è patetico che a pensarla diversamente, ora, sia rimasto giusto Roberto Saviano e forse il quotidiano su cui scrive, nonché gli autori e attori del serial televisivo. Altri - politici, avvocati, magistrati, scrittori e attori - dicono tutti la stessa cosa, e non è quella che sostiene Saviano. È più simile a quella che ha raccontato l' attore Carlo Verdone: «Un mio amico insegnante ha fatto scrivere un tema ai bambini: "Il sogno della nostra vita". Un bambino vorrebbe diventare Genny Savastano, un altro il boss della banda della Magliana, una donna si ispira a donna Imma. Hanno indicato modelli malavitosi». Diffusi da scrittori malavitosi, direbbe Saviano.

Saviano: i segreti di una star. I guadagni, le relazioni che contano, le donne. Inchiesta sullo scrittore che ha costruito un mito di se stesso. Giacomo Amadori e Simone Di Meo 19 novembre 2018 su Panorama. Via Sicilia, Roma, interno giorno. Minuto più minuto meno, un decennio fa. Sede della Mondadori. Dal portone entra Roberto Saviano, accigliato come gli si addice, seguito da sei sette uomini armati e più accigliati di lui. All’esterno, restano parcheggiate due auto con i lampeggianti accesi. Il fattorino Giovanni, originario di Mondragone, apostrofa così il conterraneo autore di Gomorra che gli è appena sfilato davanti: «Il Signore degli anelli», citando la fortunata epopea di John Ronald Reuel Tolkien....Chi c’era allora, sorrise. E pensò ai monili che Saviano porta alle dita. «Ma no, lo chiamo così perché è un grande autore di fantasy» ribattè il postino. Non sapeva che qualche anno dopo lo stesso accostamento con Tolkien sarebbe stato elaborato da un grande intellettuale, il sociologo Alessandro Dal Lago che proprio a Panorama nel 2015 disse: «Gomorra è un’insalata di camorristi che ormai Saviano vede dappertutto. La sua lotta tra il bene e il male, più che la tensione del Padrino, ricorda il genere fantasy. C’è qualcosa di tolkeniano, da Signore degli Anelli, in questa contrapposizione tra bene e male che Saviano continua ad agitare». Peccato che il nuovo Tolkien, «Filetto» per alcuni colleghi scrittori (l’origine del soprannome è controversa), si prenda molto più sul serio del suo maestro. Saviano, come ha sottolineato Dal Lago, si sente diffamato da chi legittimamente polemizza con lui e spesso risponde per via giudiziaria alle critiche. «Nessuno limita la parola di Saviano, anzi. È l’uomo che ha più libertà di parola in Italia» nota il sociologo. Eppure «Saviano si può solo adorare, Gomorra è un atto di fede, la Repubblica lo ha elevato a Padre Pio della nostra morale».

La via del MARTIROLOGIO. Nel suo saggio Eroi di carta Dal Lago ebbe l’ardire di scrivere che «l’inclusione di Saviano nel martirologio fa sì che chiunque non si allinei sia di fatto considerato un alleato dei camorristi». A Padova, durante un’omelia, un prete si è spinto a sostenere che sant’Antonio era un antesignano di Robertino. E una mamma, incrociandolo a un evento, gli chiese di lasciare una carezza al figlioletto neonato che nemmeno la buonanima di Papa Wojtyla. L’autore del La paranza dei bambini arrivò a dire, con tono evangelico: «Il mio compito è confortare gli afflitti e sconfiggere i confortati». Lui, per dirla con parole sue, non spiega la camorra al mondo, ma il mondo attraverso la camorra. Forte di questa missione, il martirologio è la strada originale che Saviano ha scelto per essere unico. In fondo Roberto non è un giornalista (non è iscritto a nessun albo), sebbene nel 2005 abbia partecipato a un seminario di giornalismo d’inchiesta, e non è nemmeno un inquirente prestato alla letteratura. È un giovanotto «ossessionato» (parole sue) dal crimine organizzato. Che conosce per sentito dire, visto che proviene da una famiglia borghese per metà originaria del Nord e senza boss tra i consanguinei. Il critico dello spagnolo El País, in occasione del secondo libro ZeroZeroZero, ha scritto che Saviano non si è infiltrato nel narcotraffico, ma nei reportage. Per qualcuno assomiglia alla statua del commendatore che gridava al Don Giovanni: «Pentiti, cangia vita/ è l’ultimo momento». La sua superiorità morale lo autorizza a intervenire su tutto. Ma forse il paragone più giusto è con il Girolamo Savonarola di Non ci resta che piangere, quello del «Ricordati che devi morire». Gomorra è il nostro «blockbuster morale, un libro che serve a supplire la nostra inadeguatezza» ha acutamente analizzato Dal Lago, aggiungendo: «A sinistra, ancora oggi, non si può dire che un prodotto editoriale venga scritto o girato per fare denaro. Sono tutti titani contro il Male». E di soldi il nostro Savonarola con la sua battaglia contro il Male ne ha fatti davvero molti. Moltissimi. Anche se sostiene che oggi non riscriverebbe Gomorra («Non vale la pena di far saltare la vita tua e delle persone che all’epoca mi vivevano intorno»), Saviano è diventato una vera azienda che della camorra e della criminalità organizzata ha fatto un lucroso business. Delle storie dei boss non butta via niente: le usa per scrivere libri, sceneggiare film, fare l’autore di programmi tv e presenziare a convegni. Tutto lautamente ricompensato. Si narra che anche le sue fascette di copertina o un complimento sui social valgano un bel po’ di quattrini. Ma Saviano lascia poche tracce della sua notevole disponibilità finanziaria. Non risultano in Italia case a lui intestate, né società. Per anni si è occupato dei suoi conti un commercialista di origini casertane trapiantato in Molise. Nel 2006, l’anticipo e le prime ingenti vendite di Gomorra, gli fruttarono meno di 50 mila euro. Da allora le sue entrate (che, essendo frutto di opere dell’ingegno, sono sottoposte a una tassazione agevolata) sono cresciute a dismisura. Nel 2009 il reddito imponibile era già salito a quasi 2 milioni, per stabilizzarsi intorno al milione negli anni successivi. Ma la stagione d’oro è stata il 2017, quando ha addirittura totalizzato un imponibile che si aggirava sui 2,3 milioni. In circa un decennio ha portato a casa intorno ai 13 milioni di euro di reddito «pulito». Questo grazie ai contratti con le case editrici, Mondadori e Feltrinelli su tutte, e con le case di produzione televisiva e cinematografica, come Cattleya (quasi mezzo milione per i vari contratti), Telecom-La7 (circa 400 mila euro), Fascino (intorno ai 350 mila), ma anche come Rai ed Endemol, seppur con importi più ridotti. Senza considerare l’accordo con il gruppo editoriale Gedi. Negli Stati Uniti ha un conto corrente ben fornito e detiene una partecipazione del 100 per cento nel capitale di una società americana che vale più o meno un milione di euro e che potrebbe essere un’immobiliare. Infatti risulta che Saviano in America, e precisamente a New York, sia proprietario di un bell’appartamento, dove si trasferisce con la compagna alcuni mesi all’anno. Nella Grande mela vive, racconta chi lo frequenta, nell’elegante quartiere di Williamsburg a Brooklyn. L’indirizzo dove riceve la posta è in un tipico palazzo di mattoni rossi. La giornalista americana E. Nina Rothe, dopo averlo intervistato, annotò qualche anno fa: «Fare la spesa in negozi italiani su Arthur avenue o fare una passeggiata per conto proprio per le vie di Williamsburg, per lui rappresenta un lusso estremo».

E la chiamano parsimonia. Mondadori è stata fin da subito particolarmente munifica con San Roberto. Tanto da pagargli cene e viaggi in giro per l’Italia. Nonostante avesse un conto in banca importante, Saviano ha spesso fatto ricorso al bancomat di Segrate per saldare le fatture di ristoranti e hotel. Uno chef ci ha svelato che, nel suo locale di lusso, la seconda portata alla scorta fu costretto a offrirla lui stesso, visto che «Filetto» traccheggiava. Anche il progetto del suo sito robertosaviano.it che doveva essere una specie di Wikipedia della camorra si è arenato dopo un inizio scoppiettante, pare per mancanza di finanziamenti. Qualcuno che ci ha lavorato, ricorda di essere stato pagato poco. Altri hanno prestato la loro opera senza ricevere nulla. Come Dario Salvelli che ha collaborato un anno con Saviano. Gratis et amore dei. «Sono stato fesso? Probabilmente sì, non lo so» scrisse all’epoca sul suo blog Salvelli. «Però non potevo rifiutare l’appello che mi scrisse via email Roberto tempo fa chiedendomi di collaborare. Quando non ce l’ho più fatta me ne sono andato». Il vero motore dell’azienda-Saviano è però la segretaria Manuela Magnano, la perpetua di Roberto, che segue un po’ dappertutto. Gli ha fatto anche da portavoce quando un fan ha offerto un suo appartamento a Pomarance, in provincia di Pisa, dopo che Robertino si era lamentato in tv di non avere un luogo in cui andare. Manuela scrisse al giornalista del Sole24Ore, Roberto Galullo, che aveva rilanciato l’offerta sul suo blog, e lo ringraziò a nome dell’Eroe con una prosa che, però, non sprizzava entusiasmo. Pomarance non è mica Boston o New York.

Le relazioni che contano. Benché il diretto interessato denunci l’insostenibilità di una vita blindata e dell’occhiuta vigilanza della scorta, in questi anni «Filetto» ha viaggiato moltissimo, allenandosi alle mollezze, tra lussuosi alberghi ed eventi mondani. In agenda pure le cene esclusive con Roberto Benigni, Ezio Mauro, OIiviero Toscani. Ma pur frequentando il bel mondo della gauche caviar Saviano ci tiene ad apparire indipendente. Per esempio, davanti agli occhi di chi scrive contattò Pietrangelo Buttafuoco per chiedergli di fare da ambasciatore con CasaPound così da convincere il leader Gianluca Iannone e ai suoi ragazzi di partecipare a una presentazione di Gomorra officiata da Walter Veltroni, da cui il Nostro non voleva essere adottato. Iannone si sfilò, obiettando: «Ma se c’annamo senza invito ufficiale penseranno a una provocazione e arriverà la Digos». Saviano ha incontrato in giro per il mondo Bono Vox, Philip Roth, Salman Rushdie, Lionel Messi, ha insegnato a Princeton e Boston, ha calcato l’austera sala del Premio Nobel, dialoga con Emmanuel Macron e altri capi di Stato. Ha svelato pure che in Spagna i dirigenti del Barcellona volevano usarlo come cavia per il dispositivo di sicurezza che di lì a qualche giorno avrebbe dovuto essere applicato a Barack Obama: un enorme cubo fatto di vetri antiproiettile. Nel salotto televisivo di Alessandro Cattelan ha confessato il suo amore per i gorilla di montagna che va a cercare nei bioparchi delle città che visita e che sono la sua fissazione su Instagram: «Mi sento un primate, per vicinanza, somiglianza, per il loro essere in gabbia. Negli zoo porto solidarietà ai compagni gorilla». Con Cattelan si è pure lamentato dei suoi viaggi negli Stati Uniti: «Alla dogana appena leggono “personalità sotto protezione” i poliziotti iniziano a spaventarsi» ha spiegato «pensano a un pentito, in genere mi mettono le manette, dei laccetti. Più ti agiti peggio è». Quindi ha confidato il suo incubo in quei casi: «Ho il terrore che mi facciano la foto, che esca in Italia che mi hanno arrestato».

Tra clausura e amicizie affettuose. Nonostante la presunta cattività in cui vive, non gli sono mancate le avventure galanti o presunte tali. «Non sono tipo da ragazze» sospirò un giorno con la faccia afflitta Robertino. Rushdie gli consigliò di andare ai party e di rinunciare alla scorta, come aveva fatto lui. Eppure, le voci - soprattutto nell’ambiente dei centri sociali prima, e dei salotti buoni poi - si sono rincorse. La fidanzata degli inizi - Serena B. - oggi lavora alla Feltrinelli di Trieste. «Era la donna giusta, l’unica insieme alla madre in grado di sopportarlo», si è rammaricato il padre di Saviano, Luigi. Si è parlato di una «affettuosa amicizia» tra lo scrittore e l’eurodeputata del Pd, Pina Picierno che, però, ha minacciato querele al riguardo, come se frequentare Saviano fosse potenzialmente diffamatorio. C’è chi gli ha attribuito la scrittrice Silvia Avallone, finalista del premio Strega. C’è poi chi ha favoleggiato su una liaison con Sofia Passera, figlia dell’ex ministro Corrado. Guai però a chiedergli della sua vita privata. Gli eroi sono asessuati, come gli angeli. D’altronde, poco prima che uscisse Gomorra, si premurò di chiedere la cancellazione della notizia del suo fidanzamento con Serena dalla biografia ufficiale contenuta in un articolo di presentazione.

Una ragazza di nome "Meg". Ma la verità è che Saviano, oggi, è un uomo accasato. La sua compagna ormai ufficiale per tutti nel suo entourage è Maria Di Donna, in arte Meg, ex cantante della band underground 99 Posse, da una quindicina d’anni voce solista. Originaria di Torre del Greco, studi porticesi e residenza napoletana durante gli anni dell’università, non viene mai associata a Saviano. Su internet si trova solo una notizia del 2008, confezionata da Novella 2000, in cui si sottolineava che Saviano era sì sotto scorta, ma non per questo senza amore. Il Corriere della sera riprese la notizia in questi termini: «Le luci dei riflettori si sono accese per la presenza di due (…) giovani che sembrano contendersi l’amore di Saviano. Le duellanti sarebbero Meg (…) e una misteriosa giovane poetessa, per ora ignota. Un triangolo che potrebbe diventare un quadrato. Meg, infatti, è da tempo legata a Emiliano Audisio. Il musicista della band Linea 77 non sembra essere disposto a farsi sostituire da Saviano». Alla fine Roberto l’ha avuta vinta. Lui e la sua bella Meg risultano entrambi residenti in una caserma dei carabinieri dietro al Parlamento. In realtà convivono tra l’appartamento di lui a New York e quello di lei a Roma. Meg ha comprato casa nella Capitale nel 2009 poco dopo l’inizio della storia con Saviano. L’appartamento di 6,5 vani, con telecamera sulla porta d’ingresso, compare in qualche foto su Facebook e su una parete si intravede un quadretto con il corallo di Torre del Greco, città d’origine della cantante. Nella casa di 120 metri quadri Meg abita con la sua bimba di circa dieci anni. Un negoziante della via ci dice: «Lo scrittore vive qui da sette anni circa. Ma l’avrò visto due o tre volte. Si allontana per mesi». I gestori del garage sotto il palazzo lo hanno avvistato più volte, anche perché la scorta dello scrittore non passa inosservata. Lui entra e esce dallo stabile indisturbato, sebbene nel condominio ci siano decine di appartamenti. Ma nonostante viva tra la gente, Saviano in tv e nelle interviste si lancia sempre in dichiarazioni melodrammatiche. Per esempio, mentre dava del buffone al ministro dell’Interno proclamò, a proposito della sua esistenza sotto scorta: «E secondo te, Salvini, io sono felice di vivere così da 11 anni? Da più di 11 anni. (…) Ho più paura a vivere così che a morire così». Meg non parla mai nelle sue interviste, né di Saviano, né della bambina, ma si dilunga sulla sua vita vagabonda: «Sono stata parecchio in viaggio, ho visitato molte città sia in Europa che negli Stati Uniti e quella che meglio di tutte mi ha adottato è stata New York» ha raccontato in un’intervista. Napoli, ormai, le sta stretta: «Mi rendo conto che viverci può essere impegnativo e pesante». Recentemente è stata la voce narrante, oltre che interprete, della colonna sonora, guarda un po’, di Camorra, il documentario di Francesco Patierno presentato all’ultima Mostra del cinema di Venezia e andato in onda su Rai 3. Non è difficile immaginare Saviano e Meg la sera a tavola mentre discutono dei Casalesi per la gioia della ragazzina.

IL METODO «più che vero, verosimile». L’attitudine di «Filetto» non è quella del giornalista investigativo (non è neppure iscritto all’albo, anche se ha frequentato un breve seminario nel 2005), ma quella dello scrittore. Dopo la palestra al Manifesto, all’inserto campano dell’Unità e, ancora, nel cenacolo de sinistra del blog Nazione indiana, arrivò il grande salto al Corriere del Mezzogiorno, dorso campano del Corriere della sera. Tra il 2004 e il 2006, scrive una decina di pezzi di cronaca, veri reportage. Per esempio si occupa dell’omicidio della piccola Annalisa Durante a Forcella seguendone i funerali. «Mi colpì perché era un entusiasta, non certo per la qualità della scrittura. Andava sul posto. Tornava a rivedere», ricorda l’ex direttore del Corriere del Mezzogiorno Marco Demarco. A quel punto, il direttore decide di inaugurare sul quotidiano un Osservatorio anticamorra, per non far dimenticare alle istituzioni locali finite in mano alla sinistra la criminalità organizzata. «Bisognava che il discorso uscisse dai confini regionali e Saviano si è dimostrato la persona giusta» spiega De Marco. «Solo che un giorno arrivò da me con la storia del vestito di Angelina Jolie realizzato in un atelier della camorra. Mi parve una storia bellissima e la pubblicai. Finì anche in Gomorra e fece il giro del mondo». Però un giorno Demarco chiese a Saviano di dirgli come avesse trovato una storia tanto affascinante e lui rispose: «Me l’ha raccontata il sarto». Demarco rimase interdetto: «E non hai altre prove?» domandò. La risposta fu negativa. «Capii allora che aveva più una logica da scrittore che da giornalista. E infatti ci arrivarono molte smentite per i suoi articoli. Roberto non faceva mai le verifiche di quanto gli avevano raccontato» conclude Demarco. Il quale, con il senno del poi, ha riflettuto su quanto sia rischioso questo modo di lavorare, dove il verosimile diventa reale e le parole di un pentito possono diventare Vangelo. È il suo metodo, quello che gli consente di superare di slancio le faticose verifiche del giornalismo d’inchiesta. Ma guai a dirlo: «Se mettete in dubbio la mia credibilità, mi consegnate ai killer» è il suo ricatto morale.

Un capolavoro a sei mani. Un po’ per fortuna, un po’ per l’interessamento di Helena Janeczek, premio Strega 2018, Roberto arriva alla Mondadori nel dicembre 2004. Il suo primo contatto è con Edoardo Brugnatelli, direttore della collana Strade blu. Il suo biglietto da visita sono gli scritti su Nazione indiana (a cui collabora anche la Janeczek) e le buone referenze di Goffredo Fofi. Mondadori - spiega un interno - vuole puntare su qualcosa di nuovo e pop, neorealista o iper-realista, e la rilettura di Saviano di carte giudiziarie sembra perfetto per lanciare una straordinaria operazione di marketing editoriale. Gomorra nasce due anni dopo dalle cure di Antonio Franchini, direttore della sezione narrativa di Segrate, e della stessa Janeczek («Dalla collaborazione tra Antonio, Helena e Roberto non solo nacque il testo come lo conosciamo adesso, ma nacque anche il titolo Gomorra», ha svelato su Medium Brugnatelli). Il libro è quindi il frutto di un robusto editing che ha impegnato Saviano in una profonda opera di riscrittura sotto l’attenta vigilanza di Franchini. «Le uniche parole sue sono quelle che ha preso dai giornali» si diceva ai piani alti della Mondadori. Dove forse oggi considerano il bestseller un esperimento ben riuscito, ma meno nobile, rimanendo nel campo della letteratura underground campana, del Libro napoletano dei morti di Francesco Palmieri, il cui capolavoro, a Segrate, viene considerato la vera Gomorra. Nel 2006 l’opera prima del «Signore degli anelli» è già ampiamente pubblicizzata dai network editoriali locali e nazionali prima ancora di uscire. Franchini presenta uno sconosciuto Saviano agli amici descrivendolo come «uno scrittore potente che sta lavorando a un libro sulla camorra, una cosa mai vista» (Corriere della sera Magazine, ottobre 2006). Ma diventa un caso dopo che sull’Espresso e Repubblica spunta la notizia delle minacce e dell’assegnazione della scorta. È l’ottobre 2006 e Gomorra è in libreria da appena un paio di mesi. Ma chi ha davvero minacciato Roberto Saviano? Qual è stata la scintilla che ha reso necessaria una protezione, per uomini e mezzi impiegati, inferiore a poche altre personalità? La risposta è: non si sa. A parte telefonate mute e lettere anonime denunciate da Roberto, tutto il resto si ignora. In un’occasione, a piazza dei Martiri, Saviano si vede additato da due giovani, e pensa che forse vogliano sparargli. In un’altra, un ristoratore gli chiede di non farsi più vedere nel suo locale. È un ordine dei clan, forse? No, solo la reazione (sopra le righe) di un commerciante che si sente offeso da un libro che, secondo lui, parla male della sua città. La vulgata dell’antimafia di carta racconta che i Casalesi vogliono farlo fuori per vendicarsi dell’affronto subito durante la presentazione del libro, insieme all’allora presidente della Camera Fausto Bertinotti, a Casal di Principe. Ma i documenti che dovrebbero dimostrare il pericolo, e la sua attualità dopo 12 anni di protezione ininterrotta, non ci sono. Nessuno li ha mai visti. Anzi, esistono documenti che provano esattamente il contrario. E cioè che i grandi boss della camorra casertana non solo non hanno minacciato Saviano, ma sono stati addirittura assolti dall’accusa di aver intimidito, con la connivenza dall’avvocato Michele Santonastaso, lo scrittore, e la giornalista Rosaria Capacchione. I padrini Antonio Iovine e Francesco Bidognetti erano finiti sotto processo perché, secondo l’accusa, d’intesa o comunque appoggiando la linea d’attacco del loro legale nei confronti di Saviano, avrebbero attentato alla sua vita. Il processo, che si è chiuso quattro anni fa a Napoli, con la doppia assoluzione per i boss casalesi e con una condanna (poi cancellata per il trasferimento degli atti a Roma, dove il fascicolo ancora dorme) per Santonastaso, ha, invece, dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che i Casalesi non hanno mai minacciato Roberto. L’ex super latitante Iovine, oggi pentito, nel giugno del 2016 aveva spiegato ai pm che lo interrogavano di non aver mai pensato di minacciare Saviano e addirittura di aver rimproverato il suo legale per la notorietà che gli aveva regalato: «Tu sei scemo, ma chi è, ma che ce ne importa a noi di questo Saviano?» raccontò Iovine ai pm antimafia riportando il discorso che lui stesso avrebbe fatto all’avvocato: «Santonasta’, ma perché non ti stai zitto con questo Saviano? Ma lascialo perdere...» gli avrebbe consigliato.

ANCHE le icone a volte chiedono SCUSA. Chi, invece, tiene bene a mente quel che Saviano ha scritto di lui è il presidente forzista della Provincia di Caserta ed ex sindaco di centrodestra di Pignataro Maggiore, Giorgio Magliocca. Fu accusato da Saviano, in un articolo del settembre 2003 su Diario, di aver avuto rapporti coi boss del suo paesino per vicende legate ai beni confiscati. Un’invenzione bella e buona a cui Magliocca (nel frattempo assolto e scarcerato da gravi accuse che lo avevano tenuto in custodia cautelare per quasi un anno) risponde con una querela per diffamazione. E Roberto che fa? Affronta il processo sicuro delle sue fonti? Difende fino alla fine la Sacra Parola contro la camorra? Macché. Resosi conto della bufala rifilata al settimanale, cerca sponde per farsi perdonare (per esempio si rivolge al politico casertano Mario Landolfi), quindi prende carta e penna e scrive a Magliocca per scusarsi. Tratto in errore dai tempi stretti della pubblicazione, Robertino non aveva  controllato la «veridicità di quanto mi era stato riferito». Solo incalzato dalla querela, l’autore di Gomorra si era reso conto che «lo stesso boss non ha mai proferito la frase riportata nell’articolo»; frase a cui Magliocca era stato crocifisso a mezzo stampa. Qualche giorno dopo l’ex sindaco ritirerà la querela. Cosa che non farà invece Vincenzo Boccolato, imprenditore residente all’estero e incensurato per la giustizia italiana, ma non per Saviano, che l’aveva falsamente accusato in Gomorra di far parte di un clan camorristico coinvolto nel traffico di cocaina. L’11 agosto 2018 Saviano e Mondadori libri sono stati condannati per diffamazione. Dovranno pagare 15 mila euro a testa di risarcimento a favore di Boccolato.

Una BRUTTA FIGURA tira l’altra. La star antimafia ha messo nel curriculum altri clamorosi scivoloni. In occasione dell’attentato davanti alla scuola a Brindisi, in cui perse la vita la giovane Melissa Bassi (2012), Robertino orientò subito le indagini sulla criminalità organizzata pugliese. L’autore dell’attentato era, invece, uno psicolabile. Due anni prima, in Trentino, aveva scatenato un putiferio parlando di una indagine dei carabinieri sulle mire della ‘ndrangheta calabrese sulla raccolta delle mele della Val di Non. Quando un militare del Ros, lo contattò al telefono - su delega della Procura - per chiedergli conto di quelle informazioni, lui rispose che non ne sapeva assolutamente nulla e che aveva lanciato quell’allarme come «monito». E il fuoristrada Mehari del povero Giancarlo Siani? Nel 2013, lo scrittore di Gomorra inaugura il tour della memoria al volante dell’auto del cronista del Mattino ucciso dai clan nel 1985. E tutto orgoglioso afferma di essere stato il primo, 28 anni dopo quell’infame agguato, a rimetterla in moto. Gli risponde piccato Marco Risi che gli ricorda che la vettura era già presente nel suo film Fortapàsc. «Qualche volta dovrebbe anche tenere a mente il lavoro degli altri», lo mise in riga il regista. Nonostante le magre figure, Saviano non ha mai abbassato le piume. Anzi la sua prosopopea è cresciuta nel tempo. Rendendolo permaloso e rancoroso. «Filetto» è un tipo decisamente fumantino. Insulta e denuncia a raffica. Tra le sue vittime anche il neodirettore del Tg2 Gennaro Sangiuliano. La cui nomina ha accolto con questo post di felicitazione: «Gennaro Sangiuliano direttore del Tg2, peggio non si poteva» e poi l’ha bollato come galoppino di politici chiacchierati. Qualche ora dopo Saviano si compiace: «Il neo direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, dopo il mio post di ieri, minaccia querela. Si metta in fila, davanti a lui c’è il ministro della Mala Vita, suo protettore. I tg delle reti pubbliche trasformati in uffici stampa non sono cosa nuova, continueremo a resistere. Come continueremo a resistere alle intimidazioni». Eroico Saviano. Insulta la gente e poi fa la vittima. Ma in pochi sanno che Sangiuliano è stato citato per danni (un milione di euro) proprio da Saviano e che la Rai, in disaccordo con il giornalista, ha deciso di transare per evitare problemi. Che cosa aveva detto di tanto grave il direttore? Aveva curato un servizio su una delle balle raccontate dallo stesso scrittore. La vicenda è ben ricostruita nel libro di Giancristiano Desiderio Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce. Sul finire dell’inverno del 2011 ci fu una polemica tra Saviano e la nipote del filosofo Marta Herling. Lo scrittore, in una puntata di Vieni via con me, aveva asserito che il grande pensatore, dopo essere rimasto sepolto sino al collo dalle macerie della propria casa durante il terremoto di Casamicciola del 1883, avrebbe offerto 100 lire ai soccorritori per essere salvato prima di altri concittadini. La Herling scrive al direttore del Corriere del Mezzogiorno, Demarco, testata con cui Saviano collaborava, per dire che Roberto aveva scritto cose «orecchiate e non vere». Saviano indispettito si fece ospitare nel tg di Enrico Mentana e nel salotto di Otto e mezzo di Lilli Gruber per difendere le proprie fonti, che però, scrive Desiderio nel libro, «si rivelavano indirette e secondarie». Demarco scrisse anche un paio di articoli per smontare la sicumera di Saviano, di cui uno intitolato: «Ecco dove Saviano ha scovato la falsa notizia su Benedetto Croce». Alla fine si scoprì che la leggenda, smentita dallo stesso filosofo in un paio di suoi tomi, venne innescata da un articolo anonimo del Corriere del Mattino che riportava una fonte altrettanto anonima del 31 luglio 1883, una voce che girava per Casamicciola. Ma per Saviano la notizia era troppo gustosa per non offrirla ai suoi sorcini come oro colato...

Quando Saviano dava lezioni sull'etica. La seconda parte dell'inchiesta di Panorama sullo scrittore dedicata ai "plagi creativi" ed alle sbandate ideologiche. Giacomo Amadori e Simone Di Meo 26 novembre 2018 su Panorama. Nel processo di beatificazione permanente di Roberto Saviano qualche voce dissonante si è alzata anche da sinistra. Per esempio Giorgio Bocca, scrittore, giornalista ed ex partigiano (di cui Saviano ha ereditato la rubrica su L’Espresso, l’Antitaliano) sette mesi prima di morire, nel maggio 2011, lo straccia così: «Mi sta sui coglioni, però è bravo. È un esibizionista, un attore, si mette lì, con la barba lunga. È uno che recita il suo personaggio, gli piace fare il carbonaro, il perseguitato» eppure, «non fa altro che andare in giro a fare conferenze». Per Bocca, Saviano ha il difetto tipico degli intellettuali: «Quello di credersi i salvatori del mondo». Lo boccia pure come scrittore: «A me i suoi libri danno noia perché sono barocchi (...) io sono piemontese e lui è napoletano. Questa è la differenza». Altrettanto duro con Roberto è don Aniello Manganiello, l’ex parroco di Scampia che ha sfidato la camorra e che per questo motivo è finito nella lista dei «morituri» del clan Lo Russo. Dice a Panorama: «Io la scorta l’ho rifiutata, sarebbe stata una presa per i fondelli dei miei parrocchiani. Da un lato li esortavo a contrastare la camorra, a superare la paura e ad avere coraggio, e dall’altro mi facevo proteggere?». Il «don», al quale volevano sparare alle gambe e tagliare la gola, archivia così Saviano e la sua epica: «Una parte dell’editoria e della politica ne ha fatto un mito, ma per me è un burattino che stanno utilizzando per fare ricavi e ottenere consenso. A mio parere, non ha niente da insegnare a nessuno». La scorta, al contrario di don Manganiello, Saviano non l’ha rifiutata. Col tempo, anzi, si è accresciuta. Su una delle due auto blindate che da anni lo accompagnano c’è sempre uno Spas12, un fucile mitragliatore d’assalto, come riportato dal Corriere della Sera del 24 dicembre 2008. Il fatto che Saviano sia in pericolo di vita è messo in discussione dalle parole dello stesso scrittore. In particolare, dal suo racconto a Salman Rushdie, durante un incontro pubblico a New York dedicato alle reazioni dei clan all’uscita di Gomorra: «I camorristi se lo regalavano tra loro, contenti che si raccontassero le loro gesta». E, secondo Saviano, avevano persino iniziato a farne «copie taroccate da vendere in strada». Una domanda viene spontanea: ma i malavitosi non avevano paura di quel libro? Sia come sia, a chiedere la scorta per lui dopo che ebbe presentato Gomorra a Casal di Principe, nel settembre 2006, fu il prefetto di Caserta in persona, Maria Elena Stasi. La signora è stata deputata del Popolo delle libertà, molto vicina a Nicola Cosentino, potente ex sottosegretario all’Economia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e coinvolta in un paio di procedimenti penali legati alla camorra casertana. La Stasi è stata assolta in uno, ma condannata a due anni e prescritta nell’altro (e oggi è in attesa del giudizio d’Appello). Nei racconti ufficiali, Roberto viene descritto in perenne fuga da killer implacabili della camorra e ai giornalisti che lo incontrano è vietato rivelare il nome della località in cui si trova. Eppure, appena c’è un libro in uscita, lo scrittore sulla sua pagina Facebook annuncia il programma delle presentazioni e degli spostamenti. Con tanto di date e orari. Non è un controsenso? Se c’è il pericolo che la camorra voglia ucciderlo, se gli alberghi dove alloggia sono top secret, perché mettere a rischio anche i suoi lettori per un motivo squisitamente commerciale? Non tutti, però, sono dello stesso avviso. Nel 2011, la Metropolitan police di Londra si è rifiutata di assegnare la scorta a Saviano in occasione di un premio internazionale ritenendola non necessaria. Lui, offeso, non è andato a ritirare l’onorificenza.

Circondato dai carabinieri. Una scorta come quella di Saviano impegna dieci carabinieri(cinque per due turni di sei ore e 40 minuti al giorno) che diventano almeno 15 a rotazione in un mese, se si considerano i riposi settimanali, i permessi e le licenze. Ogni unità costa allo Stato poco meno di 40 mila euro lordi l’anno (esclusi straordinari e indennità di missione che sono liquidati a parte). Significa 400 mila euro ogni 12 mesi. Ovvero quasi 4 milioni nell’ultimo decennio. E questo senza considerare le spese accessorie per benzina, pedaggi, trasferimenti in aereo e manutenzione delle auto blindate, che fanno, ovviamente, crescere moltissimo il conto. Chi lo accompagna, spesso, non conserva una buona opinione dello scrittore. Panorama ha parlato con alcuni dei suoi angeli custodi e questi lo giudicano un po’ arrogante e scontroso. In auto strepita e usa toni e linguaggio sopra le righe. Ma quando scende dall’auto indossa la maschera dell’agnello. È anche capitato che chi lo scortava gli facesse da cameriere, riempiendogli il piatto al ristorante mentre lo scrittore discuteva con l’ospite di turno, secondo quanto ha scritto il Corriere della sera del dicembre 2008. Nonostante le forze dell’ordine siano diventate un po’ la sua famiglia, il giovane Saviano aveva svelato al mondo di subire il fascino della lotta armata. Lo scrittore aveva infatti espresso posizioni eversive durante un importante convegno rimasto agli atti di Radio Radicale. L’incontro si tiene nel 2000, all’Università Federico II di Napoli, dove Saviano studia filosofia. Da pochi mesi è stato assassinato il giuslavorista Massimo D’Antona. Davanti a giornalisti, storici, politici e magistrati l’allora studente Saviano chiede la parola e si lancia in un’imbarazzante apologia dell’eversione (sentire per credere sul sito): per lui i terroristi «erano la parte sensibile di un grande movimento operaio che si sentiva tradito dal Pci», partito che con la sua scelta socialdemocratica aveva disatteso «le aspettative rivoluzionarie». Quindi i terroristi avrebbero preso le armi per «portare avanti questo progetto che era stato tradito dal Pci». Roberto, dopo aver ricordato al suo uditorio che «la rivoluzione si fa con il fucile» e che il capitalismo e le sue crisi sono l’origine di tutti i mali («generano e genereranno rivoluzioni e di nuovo colpi di fucile nel futuro immediato»), fa un ragionamento spericolato: «La polizia sparava per le strade, la polizia uccise Francesco Russo, Giorgiana Masi, quindi la polizia era armata. Chi faceva resistenza doveva armarsi (…). In fondo non è che un magistrato, un poliziotto, un politico, fanno qualcosa di più lecito, se parliamo di etica, di quello che fa un rivoluzionario sparando». È un parallelismo che gela la sala o per lo meno i relatori. Ma Saviano ci tiene a rimarcare di non stare «dalla parte della magistratura, dalla parte di chi in qualche modo rivendica le radici democratiche di chi ha sconfitto il terrorismo», colpevole solo di aver cercato «di generare un processo rivoluzionario non ancora maturo». Quattro anni dopo, nel febbraio 2004, Saviano sottoscrive un appello di Valerio Evangelisti, direttore del sito Carmilla, in favore del terrorista rosso Cesare Battisti, latitante dal 1981. Una firma che Saviano ha poi ritirato nel 2009, giustificandosi da par suo: «La mia firma è finita lì per chissà quali strade del web». Di recente, infiammato dalla vicenda di Domenico Lucano, il sindaco di Riace, Saviano ha rispolverato l’antica posa da molto discutibile maestro: «Quando l’ingiustizia diventa un crimine, la resistenza diventa un dovere» ha declamato. «Dobbiamo mettere il nostro corpo a difesa di Mimmo Lucano (...) A chi tra i più giovani mi ascolta chiedo di potersi attivare non soltanto sui social, importante, ma per strada, in qualsiasi luogo (...) ricordatevi: mai inchinati, mai piegati, mai spezzati». Saviano è un giovane come tanti. In una puntata delle Iene ha confessato di aver fumato canne e, sorridendo, di non disdegnare affatto le emozioni forti dei film porno («L’ultimo l’altro ieri»). Non solo: ha ammesso di essere, col tempo, «peggiorato come persona». E a scuola non andava neppure tanto bene. Eppure i suoi agiografi tramandano che fin da piccolo abbia esibito doti intellettuali non comuni. A otto anni avrebbe letto l’Odissea, a 17 nientemeno che il Capitale di Karl Marx. Compagni e professori di scuola hanno ricordi un po’ diversi: «Non era troppo brillante» rammenta il segretario amministrativo del liceo Diaz di Caserta, Pierino Bosco. Alla maturità ottenne un punteggio poco superiore alla sufficienza, 42. Ottimi voti in italiano, ma pessimi nelle materie scientifiche e in tedesco. «Gli ho messo anche un 3 e qualche 4, non era particolarmente ferrato» ricorda il docente di matematica, Luciano Antonetti. Sul suo banco c’erano scritte e slogan contro la Chiesa e gli Stati Uniti, però Roberto era orgoglioso del suo giubbotto verde della squadra di basket dei Boston Celtics e qualcuno lo trovava incoerente. All’epoca aveva i capelli ricci e lunghi. Girava col Manifesto sottobraccio: con il quotidiano comunista riuscì addirittura a collaborare grazie all’intercessione dell’allora assessore regionale di Rifondazione comunista Corrado Gabriele e del suo addetto stampa. All’Unità, il suo nome venne, invece, suggerito da Isaia Sales, esperto di camorra, politico del Pds, ed ex sottosegretario nel primo governo Prodi. «Anche se gioca a fare il self-made man» spiega Marco, un amico di infanzia «Roberto viene da una famiglia della buona borghesia. A Caserta viveva in un parco residenziale tra i più belli della città, di fronte alla Reggia». Grazie ai parenti ha ricevuto anche qualche spintarella. Per esempio, nel 2006, il suo primo lavoro da impiegato alla Mec San srl di Maddaloni è arrivato grazie alla raccomandazione dello zio Michele. Il titolare dell’azienda, Vincenzo Santangelo, non lo ha dimenticato: «Roberto? Lavorava da noi nell’ufficio pianificazione. Quando l’ingegner Michele Saviano andò in pensione, gli facemmo un contratto di collaborazione e lui ci presentò Roberto».

Fra «Torah» e cabala. La famiglia di Saviano si compone dello scrittore, dal fratello Riccardo, un po’ più piccolo, e dai due genitori, divorziati da qualche tempo. Riccardo, oggi, fa il fotografo al seguito del celebre congiunto. La madre è citata dal figlio col nome ebraico di «Miriam Haftar», ma in realtà si chiama Maria Rosaria Ghiara, ed è docente di scienze all’Università Federico II di Napoli oltre che direttore del polo museale dell’ateneo. Nei racconti pubblici e privati, Roberto fa quasi esclusivamente riferimento a lei, chiamandola «severa professoressa», come se il padre non esistesse. E, in effetti, fin dal liceo, il rapporto con lui è stato conflittuale. Ne parla male persino agli insegnanti. Come conferma a Panorama il professor Antonetti: «Diceva che non lo poteva vedere perché aveva lasciato la madre». La famiglia Ghiara è di origine ligure, ma si trasferì nel Dopoguerra a Trento dove nacque la signora. Dalla professoressa, Roberto dice di aver ereditato il sangue ebraico oltre che l’orientamento di ultrasinistra. Tuttavia, né i Saviano né i Ghiara risultano iscritti alla comunità ebraica di Napoli. A iniziarlo all’ebraismo è stato nonno Carlo, ufficiale dell’Aeronautica: «mi ha insegnato la Torah», ha precisato Saviano. Il 24 settembre 2007, a un giornalista del quotidiano Haaretz, Saviano ha rivelato di avere radici sefardite e di essere stato «molto colpito da Sabbatai Zevi», cabalista del Settecento, ma di non aver «voluto pubblicizzare la cosa» perché «in Italia passerebbe per qualcosa di esoterico». Uno degli anelli che porta al dito (venduto a 114 euro da un gioielliere di Tel Aviv come «Anello di Saviano - Ring of courage») riporterebbe un’iscrizione ispirata alla Cabala; questo sebbene uno studioso, Dario Borso, abbia detto a Panorama che più prosaicamente è una citazione del romanzo di fantascienza Dune di Frank Herbert. All’università di Roma il 17 dicembre 2008, Saviano ha sfoggiato altri tre anelli, «uno a sinistra, due a destra», secondo la moda delle paranze di fuoco dei clan. «Sono tre anelli come il Padre, il Figlio e lo Spirito santo. Così facevano dalle mie parti, così faccio io» ha dichiarato a un cronista. Le sue radici partenopee sono quelle del padre Luigi, medico di famiglia in pensione, originario del comune di Frattamaggiore, Napoli. Nei primi anni del Duemila, finisce in un’inchiesta della procura di Napoli insieme a un’altra ventina di colleghi accusati di aver falsificato ricette mediche per truffare il Servizio sanitario nazionale. Si difende sostenendo che è tutto un equivoco, frutto di uno scambio di persona, ed esce dal processo accettando la prescrizione. Fino a 28 anni, ha giurato il papà in un’intervista alla Stampa, Roberto non gli ha mai fatto neanche gli auguri per il compleanno e in Gomorra lo cita in un’unica occasione, presentandolo mentre gli regala una pistola per insegnargli a sparare. Tutta scena, si difende il genitore, il quale, al contrario della moglie, per tutta la vita avrebbe votato Dc. Ma intorno a Saviano e alla sua abilità con le armi fioriscono aneddoti e fole. Molti credono di averlo riconosciuto in un passo del recente saggio Armatevi e morite di Carmelo Abbate e Pietrangelo Buttafuoco, là dove scrivono di «un tutelato h24 che la passione per le armi ebbe a pagarla». Secondo gli autori, un giorno questo «amante delle sparatine», per darsi un tono, si calò la pistola nella cintola dei pantaloni, facendo partire un colpo: «E fu pum! Per fortuna solo sul popò». 

Saviano non sa scrivere, ma il suo racconto prima di Gomorra non è male. L'Inkiesta 20 ottobre 2017. Si fa fatica ad arrivare in fondo a “Bacio feroce” e la ferocia di Saviano è superficiale, un mazzo di biscottini Plasmon per lettori alle prime poppate. Anche il racconto del 2005 “La città di notte” dimostra che Saviano era (ed è) un pessimo scrittore, ma c'era un elettrico senso di giustizia.

Il bastone. Né zuppa né panbagnato, ma una pappina atta a épater le bourgeois, dove stagnano i rospi della noia. Si fa fatica ad arrivare al fondo di Bacio feroce, Saviano 11 anni dopo Gomorra. Troppa ferocia? Magari. 25 anni dopo Le Iene e 90 anni dopo la nascita di Lucio Fulci, la ferocia di Saviano è superficiale, un mazzo di biscottini Plasmon per lettori alle prime poppate. Alla fine, in fondo – dopo tutta la fatica per arrivare in fondo – ci si affeziona pure a Nicolas detto ’o Maraja, lo stallone della paranza, a Tucano e a Lollipop che si chiavano, un po’ perplessi, Esterina, la trans, “era bellissima”, “è una fata”, e a tutti quei bimbi disadattati che guadagnano un sacco con lo spaccio, che sono assetati di potere o semplicemente annientati dal niente. Quella ferocia dispensata a larghi tratti, del tutto superficiale – teste mozzate, una manciata di omicidi, spergiuri, soprusi e bastonate – fa l’effetto di piume di struzzo per rimbambire il lettore ‘televisivo’, quello che garba a Saviano. Per il resto, la faccenda è semplice. Saviano non è un giornalista. Saviano non è uno scrittore. Se fosse un giornalista, senza scomodare i santi – chessò, A sangue freddo di Truman Capote o I racconti della Kolyma di Varlam Salamov – Saviano racconterebbe i fatti così come sono. Usando le strategie del giornalismo. Scrittura violenta, caustica, che va subito al cuore, che mescola abisso e mezzogiorno, sterco e rose. Ma Saviano non è un giornalista. Come mai? Ora vi dico come vive un giornalista. Un giornalista non ha padrini né padroni, non ha la scorta (e smettetela, nella bio savianesca, di scrivere ciò che tutti sanno, “dal 2006 vive sotto scorta in seguito alle minacce dei clan che ha denunciato”, che c’importa ai fini dell’attività da romanziere, artistica, di Saviano? Mica di Dostoevskij scrivono, per dire, è stato condannato a morte dallo zar ed è stato in prigione per un tot di anni), spesso non è neppure iscritto all’ordine, non ha i soldi per pagarsi i corsi e diventare professionista, e per fare il suo sporco mestiere – giornalismo = rimestare nella merda che è l’uomo – gli danno dai 3 ai 10 euro ad articolo. Se è una ‘firma’ si arriva anche a 20 euro, una fortuna. Il giornalista senza padroni né padrini esercita la professione nei bassifondi, tra la rissa dei giornali locali, mette in luce le piccole e grandi corruzioni – e collusioni – della politica del paese suo. In cambio, privo di tutela giudiziaria, si becca querele preventive di diffamazione, minacce a sé e alla famiglia. Ho visto Sindaci pretendere un colloquio con direttori di giornali ed editori allo scopo di minimizzare la carriera di un giornalista di quartiere. Il poveraccio prima subisce l’improvvido ‘aggiustamento’ dei suoi pezzi, poi gli alleggeriscono il titolo, poi gli dicono che è bene si occupi di altro. I ‘colleghi’ sono troppo impegnati a scrivere il loro, i politici girano il muso: d’altronde, il buon giornalista mena dove c’è da menare, non guarda la patente politica, uno scocciatore in meno fa comodo a tutti. Eppure, ecco, al giornalista che quotidianamente scava la rogna dei politici locali non affidano una trasmissione televisiva. In effetti, la camorra è un brand, il povero giornalista vessato per misere ruberie locali è uno scemo, un poveraccio. Saviano, però, non è neppure un romanziere. Cosa fa un romanziere? Parte da un dato di fatto – nel caso suo, la paranza – traendo l’universale. Esempio: a pagina 217 Saviano si concede un pensierino profondo. “Il bambino non è bambino, a Napoli. Il bambino è criaturo. […] Tutto i bambini del mondo si credono immortali. Qualunque neonato appare ai genitori come un libro dalle pagine bianche su cui il futuro vergherà una storia che sperano migliore della loro. Le creature di Napoli, però, quel tempo non ce l’hanno”. Sociologia spiccia. Roba che potremmo dire dei bambini delle favelas di São Paulo, dei bambini cresciuto a Baggio o a Quarto Oggiaro, a Milano, dei bambini di Abuja o di Lagos, Nigeria, dei bimbi come me, cresciuti nella periferia omerica e omertosa di Torino. Cerco di farmi capire. Nei Fratelli Karamazov c’è una scena in cui Dostoevskij parla proprio della “creatura”, forse Saviano l’ha ricalcata, chissà. Nella scena Dmitrij Karamazov precipita in un sogno. Vede gente che soffre ingiustamente, ingiustificatamente. Madri che piangono reggendo i figli, le creature. Dmitrij, nel sogno, in mezzo all’orrore, ha uno scatto: “Dimmi, perché questa gente è povera? Perché è povera quella creatura? Perché la steppa è desolata? Perché non si abbracciano, non si baciano, perché sono anneriti dalla miseria? Perché non danno da mangiare a quel bambino? Perché la creatura piange?”. Dostoevskij sa che la domanda perché esiste il male, perché l’uomo soffre? è “irragionevole e priva di senso”, eppure si ostina a proporla, continua a lottare nonostante l’impossibile. Saviano eccelle nel creare macchiette da fiction (tipo: “A Copacabana piacevano due cose nella vita: il culo delle brasiliane e farsi radere”), non ha la furia del romanziere (laNota dell’autore è perfino imbarazzante, “una delle sfide di questo romanzo è l’uso del dialetto”: magari, saremmo di fronte a una specie di Pasticciaccio alla napoletana, invece c’è qualche spruzzata gergale ad uso dei lettori americani, che per queste cose vanno in latte di bufala), è arreso alla nuda fatalità della soap. Si è arreso. Certo, ha creato un nuovo ‘genere’. Il ‘pummarola western’. Felice lui, il suo agente, il suo conto in banca.

La carota. Si firmava underthevolcano. Come il grande, infinito, misterico romanzo di Malcolm Lowry. Under the Volcano, anno di nascita 1947. Sotto il vulcano. In Italia pubblica Feltrinelli. Che gran bel romanzo. Federico Francucci, ricercatore all’Università di Pavia, gran lettore, si firmava underthevolcano. Già questo me lo rendeva ultrasimpatico. Era il 2005. Numero 38. Era il numero 38 della rivista Atelier. Giugno 2005. Francucci cura un numero monografico dedicato ai Racconti italiani. In mezzo, tra Flavio Santi, Laura Pugno e Gabriele Dadati, c’è Roberto Saviano. Saviano prima di essere Saviano. Un anno prima di Gomorra e di tutta un’altra vita. Saviano che nella biografia non aveva ancora la scorta, era semplicemente uno che “scrive inchieste, reportage e racconti”. Saviano, in quel reperto archeologico, pubblica un racconto dal titolo La città di notte. La storia è sempre quella. Bassa malavita, omicidi a go-go, camorra. Gli agnelli sacrificali, allora, si chiamavano Vincenzo e Giuseppe. “Ammazzati. Ventiquattro e Venticinque anni. Morti che nessun giornale nazionale il giorno dopo ha ricordato. Nessun telegiornale, nessun radiogiornale ha accennato. Niente di niente”. Il racconto è vigorosamente patetico, accorato, e ammette la morale fin dall’incipit. “Esiste un posto dove nascere comporta avere una colpa”. Anche qui, niente di nuovo sotto il sole – ogni posto porta con sé un marchio, una colpa; ogni famiglia ha la sua colpa da scontare sulla cattedra della vita ‘sociale’, non ci sono eccezioni, eccellenze, eccedenze. Eppure, Saviano, con quella scrittura rotta, a scatti, senza dialoghi, ci prova. Almeno. Almeno, c’è un elettrico senso di giustizia – “sono nati nel paese della colpa. Non potevano dirsi innocenti” – che rende ribollente il racconto, che lo agita. Per il resto, a dirla tutta, Saviano era un pessimo scrittore allora come oggi. Niente di nuovo sotto la sottana della Musa.

·         Nuto Revelli,  l’ira e il riscatto.

Nuto Revelli,  l’ira e il riscatto. Pubblicato venerdì, 04 ottobre 2019 su Corriere.it da Corrado Stajano. Era nato cent’anni fa, visse la lotta partigiana come una svolta liberatoria dopo la catastrofe in Russia. Un convegno a Cuneo il 5 e 6 ottobre lo ricorda. «Sarei felice se al Quirinale nello studio del presidente della Repubblica», amava dire Nuto Revelli, «fosse appiccicato al muro un cartello con su scritto: “8 settembre”». Lo scrittore partigiano non dimenticò mai la data dell’armistizio del 1943 e il suo nefasto valore simbolico. Più di decenni dopo diceva ancora che il destino di milioni di uomini — morti, dispersi, fucilati, abbandonati — mandati allo sbaraglio quel giorno infame dal re, dal governo di Badoglio, dagli Alti comandi doveva essere sempre ricordato, memoria e monito, tra passato e futuro. Perché, motivava il suo convincimento, in un Paese ritornato civile che non fece, come avrebbe dovuto, i conti con la propria Storia, poteva sempre rinascere un fascismo, anche se con altre vesti, capace di distruggere lo Stato di diritto, la democrazia costituzionale, la somma Carta nata con tanti sacrifici e tanto sangue. E non aveva tutti i torti se si pensa ai tentativi fatti, in questi settant’anni, di stravolgere la Repubblica, da Portella della Ginestra al fallito colpo di Stato del generale De Lorenzo, da piazza Fontana all’assassinio di Moro, dalla stagione delle stragi, Brescia, Bologna, agli assassinii del generale dalla Chiesa, di Falcone e Borsellino, alla P2, al connubio tra Stato e mafia. Nuto Revelli non riusciva a togliersi dalla mente quel che era accaduto l’8 settembre 1943 visto coi suoi occhi, lo Stato che va a ramengo, le caserme abbandonate, gli ordini da mentecatti, i generali che si mettevano in borghese e scappavano, pochi tedeschi che occupavano intere città, un colonnello che requisì un camion per salvare novanta vasetti dei suoi fiori. E poi il disastro della Quarta Armata, dal Sud della Francia al Piemonte alla Liguria, tre corpi d’armata, 100 mila uomini, un’ingente quantità di armi e di munizioni, un arsenale, abbandonato nei boschi e tra i cespugli. Un’armata che si sfascia in quel modo è un orribile spettacolo che lascia il segno, incide sull’animo della popolazione, diceva Nuto. Che non scordava mai Boves, la prima strage in Italia dei nazisti, la prima vendetta, la risposta all’8 settembre — un battaglione della divisione corazzata SS Adolf Hitler al comando del maggiore Joachim Peiper che il 19 settembre 1943 incendiò il paese, trecentocinquanta case, uccise una trentina di persone, vecchi, invalidi, bambini. Poi sarà la volta della catena di stragi che seguiranno fino alla Liberazione, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, la Certosa di Farneta, e tanti altri posti, dilaniati, distrutti. Nuto è stato il figlio ribelle della guerra sofferta in Russia. L’orrore della ritirata gli aveva fatto comprendere nel profondo la pomposa stupidità del fascismo suicida e omicida. Valoroso ufficiale di carriera degli alpini, divisione Tridentina, 5° Alpini, battaglione Tirano, 46ª compagnia — tre medaglie d’argento, una promozione per merito di guerra — capì subito che cosa si nascondeva sotto il luccichio di parata del regime, l’Armata del Po, il Corpo d’armata autotrasportabile, lo Csir, dotato di «millecento» vetuste dalle gomme logore; le armi della prima guerra mondiale, i fucili modello ’91, il vestiario primaverile a 40 gradi sotto zero, le giubbe di lanital e le scarpe di cartone per i soldati, pellicce di pecora soltanto per gli ufficiali. Non dimenticò mai, Nuto Revelli, i compagni caduti, Giuseppe Grandi, Mario Torelli, Giuseppe Perego, «i migliori», diceva accorato. Come poteva dimenticare quel che aveva visto e scriverà poi in uno dei suoi grandi libri La guerra dei poveri: «Anche i più disperati sperano: con i piedi in cancrena, con gli occhi chiusi dal congelamento, con pallottole e schegge nelle gambe e nei fianchi, vanno avanti piegati in due, le braccia penzoloni, trascinandosi sulla neve, cadendo e rialzandosi, ma vanno avanti, vanno avanti. (...) Il desiderio di vivere è immenso. Camminare vuol dire essere ancora vivi, fermarsi vuol dire morire». E un’altra pagina di quel terribile libro: «Povero Tirano, quanto sangue, quanti morti, quanti feriti abbandonati e poi morti di freddo. Dovevamo scappare, tutti scappavano: eravamo una massa enorme imbestialita, non pensavamo che a far presto, che a scappare. Per quasi seicento chilometri ci siamo trascinati nella neve alta fino al ginocchio, sul ghiaccio, nella neve che sembrava sabbia: combattendo, senza dormire, senza mangiare, soffrendo il freddo terribile e tutto il resto. (...) Camminare, camminare ancora, camminare sempre. Vedere stazioni, ferrovie, tradotte: vederle soltanto, perché quelle sono per i tedeschi». «Sono prepotenti, solo per loro dev’esserci posto; anche nella ritirata sono i miliardari della guerra. Bene equipaggiati, bene riforniti di viveri, viaggiano su slitte di dotazione trainate da potenti stalloni. Gridano, vogliono passare a ogni costo, ne abbiano o no il diritto; ci trattano con disprezzo, come se fossimo dei prigionieri. Molti indossano le tute bianche trapuntate e calzano i valenki». Nuto Revelli si salvò dalla tremenda ritirata. L’organico della sua compagnia, sul Don, era di otto ufficiali e di 342 alpini. A Udine, quando tornò in Italia, nel marzo 1943, gli ufficiali erano tre, gli alpini 70. Nuto, ferito a un braccio, congelato, malato di pleurite, portava con sé un fagotto più lungo che largo, due Parabellum russi e una Machinenpistole tedesca. Aveva giurato a se stesso che prima o poi li avrebbe usati: contro i nazisti che aveva visto agire con belluina ferocia. A Cuneo, dopo il 25 luglio incontrò tutti i fascisti di ieri divenuti in un lampo antifascisti urlanti e rabbiosi. Nella piazza Grande ascoltò Duccio Galimberti «spavaldamente sicuro di quel che vuole. Vuole la guerra ai tedeschi. Subito. Come?». Ieri dovevano gridare, prima del massacro inutile. L’8 settembre che lo faceva impazzire di rabbia per lui era stato invece liberatorio, il ricominciamento, la rinascita. Ne aveva consapevolezza? Allievo dell’Accademia militare di Modena, ufficiale in servizio permanente, un atleta, uno sciatore, era nato nel 1919 proprio quando in piazza San Sepolcro, a Milano, era nato il fascismo, e aveva vissuto la giovinezza nell’onda del Littorio, come i più della sua generazione. «Sono finito in fondo al pozzo», scrisse al suo ritorno dalla Russia. «Qui termina il mio fascismo fatto di ignoranza e di presunzione. (...) Solo ribellandomi riuscivo a non sentirmi un vinto». In ottobre era già un partigiano: «Abbiamo battezzato la nostra formazione: 1ª compagnia Rivendicazione Caduti. Vogliamo vendicare i caduti di Russia. Il nostro giuramento dice: “...per ogni italiano morto in Russia dieci fascisti e dieci tedeschi accoppati”». Poi Revelli approdò nella banda «Italia libera» del Partito d’Azione dove divenne amico di Livio Bianco. Disse una volta in un’intervista al «Giorno», nel 1972: «Io ero completamente impreparato sul piano politico e ideologico. Senza Livio Bianco avrei probabilmente fatto la guerra per la guerra, quasi per spirito di vendetta per tutto quello che avevo sofferto, per il modo in cui eravamo stati mandati al fronte dal fascismo. Spirito di vendetta verso i tedeschi che in Russia ho sempre visto nei panni degli aguzzini. Fu lui a parlarmi dei fratelli Rosselli, della libertà, delle ragioni morali e civili dell’antifascismo, io avevo 24 anni e una gran fame di sentire quelle cose perché mi era caduto il mondo addosso e avevo l’ossessione dei compagni morti, morti per niente. Ho faticato molto. Se penso che c’è gente che dice di aver capito tutto in fretta. Dio santo, io ho dovuto fare una lotta per liberarmi di tutto, non ho proprio nessun pudore a dirlo». La guerra è stata il fulcro della vita di Nuto Revelli, soldato e scrittore. Prima di partire gli era stato regalato un librino tascabile di cartone marrone zigrinato, il suo diario: «Scrivevo perché non volevo dimenticare nulla, con una grafia minutissima». Nacque così lo scrittore? La guerra dei poveri, la Russia, il fascismo, la ritirata;La strada del davai, la storia di quaranta reduci della divisione Cuneense; L’ultimo fronte, lettere di soldati caduti o dispersi nella Seconda guerra mondiale; L’anello forte, la donna, storie di vita contadina; Il mondo dei vinti, la montagna povera; Il disperso di Marburg, un ufficiale tedesco scomparso nella valle, il nemico «buono». Una saga medievale e insieme modernissima. La memoria del Novecento. Così corta e smarrita in Italia. Non bisognerebbe mai dimenticare che quel passato è essenziale per capire il nostro inquieto presente. Si tiene il 5 e 6 ottobre a Cuneo il convegno internazionale «Nuto Revelli protagonista e testimone dell’Italia contemporanea». I lavori si aprono la mattina del 5 con il ricordo del giurista Gastone Cottino, presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario di Revelli (1919-2004). Il programma prosegue con gli interventi sull’opera letteraria affidati a Ezio Mauro, Giovanni Tesio, Serenella Iovino, Fiona Stewart, Amedeo Cottino e Alessandro Martini. Nel pomeriggio è prevista una sezione su Revelli narratore di guerra, con i contributi di Luigi Bonanate, Corrado Stajano, Chiara Colombini, Laura Pariani, Cristoph Schminck Gustavus, Carlo Gentile, Giovanni De Luna. Domenica 6 si parlerà di Revelli e il mondo contadino, con relazioni di Maurice Aymard, Lucia Carle, Alessandro Casellato, Gianluca Cinelli, Ada Cavazzani, Vito Teti, Michele Calandri e Alessandra Demichelis. I lavori saranno conclusi dal politologo Marco Revelli, figlio di Nuto. Anticipiamo in questa pagina l’intervento che Corrado Stajano terrà nel pomeriggio del 5 ottobre.

·         Paperino compie 85 anni: la storia.

Paperino compie 85 anni: la storia. Edoardo Frittoli il 7 giugno 2019 su Panorama. I suoi starnazzi echeggiano da 85 anni in tutto il mondo. Il primo "quack" uscì dal becco di Paperino il 9 giugno 1934 nel cortometraggio animato Disney "La Gallinella Saggia" ("The Wise little Hen"), episodio della serie di cartoon "Silly Symphonies". La prima ed inconfondibile voce gracchiante dell'irascibile papero Donald Duck è dell'attore americano Clarence "Ducky" Nash.

9 giugno 1934: è nata una stella nella galassia Disney. Nel cortometraggio d'esordio il buon papero col vestito da marinaretto interpreta la rivisitazione di una fiaba tradizionale russa, "La Gallinella Rossa". L'indole pigra di Paperino emerge sin dai primi fotogrammi, quando rifiuta assieme all'amico Meo Porcello di aiutare una contadina dalle sembianze di gallina a seminare i suoi campi, preferendo poltrire al "club dell'ozio" o inventandosi finti mal di pancia per evitare il lavoro. Alla fine la gallinella ritorna dai due fannulloni per offrire loro piatti a base di mais ma Paperino e Meo, temendo di essere reclutati nuovamente, fingono ancora un malore. La gallinella li ripagherà con una bella bottiglia di olio di ricino. Paperino deve la sua nascita proprio al suo futuro doppiatore, quando Walt Disney sentì Nash scherzare con quella voce rauca e soltanto parzialmente comprensibile che lo entusiasmò, dandogli l'ispirazione e la determinazione per creare uno dei personaggi più amati del mondo Disney e più in generale della storia dei cartoni animati e dei fumetti. Nell'episodio successivo della serie, uscito nell'agosto successivo, Paperino incontra il personaggio più famoso delle Silly Symphonies, Topolino. Nascerà un binomio inscindibile, tutt'oggi caposaldo della famiglia Disney.

Paperino in Italia (1937-1940). Il successo di Paperino, clamoroso negli Stati Uniti, dovrà attendere la fine della Seconda Guerra Mondiale per sfondare definitivamente in tutta Europa, anche se in Italia il papero Disney ebbe una finestra di successo grazie al direttore del settimanale "Topolino" edito da Mondadori che deteneva allora i diritti Disney per l'Italia. Federico Pedrocchi fondò alla fine del 1937 un nuovo periodico a fumetti con protagonista "Paolino Paperino" (così fu ribattezzato nell'Italia del ventennio), le cui storie ebbero la possibilità di essere scritte e disegnate interamente in Italia. Alla stesura delle sceneggiature  parteciperà tra le altre firme anche quella di Cesare Zavattini. Il giornaletto, venduto ad un prezzo di copertina inferiore a quello di Topolino, resisterà alla crescente pressione della censura per poi cessare definitivamente le pubblicazioni alcuni mesi dopo l'ingresso in guerra dell'Italia, nell'ottobre 1940.

Un papero in guerra (1941-1945). Dall'altra perte dell'oceano (e del fronte) sarà proprio la guerra ad impegnare i personaggi Disney, in prima linea proprio Paperino. Il pennuto bisbetico e pasticcione vestirà la divisa dell'esercito americano nei tanti cortometraggi di propaganda e sarà dipinto sulle fusoliere di caccia e bombardieri alleati. Il più famoso corto degli anni di guerra ha per protagonista Paperino. In "Der Fuhrer's Face" del 1943 il papero incontra i dittatori dell'Asse in un incubo al cui risveglio troverà conforto in una miniatura della Statua della Libertà. Il ricavato dei film di propaganda Disney contribuirà all'acquisto di bond di guerra.

La gloria di un papero. Dopo la fine vittoriosa del conflitto mondiale non ci saranno più limiti alla fama di Paperino: l'apparizione continua nei cortometraggi e sulla carta stampata, il diffondersi dei giocattoli e del merchandising, fino al trionfo della 30a edizione degli Academy Awards presentati da Paperino assieme all'idolo dei comici americani Bob Hope nel 1958. Al cinema e in tv, dopo la gloria degli anni '40 e '50, Paperino vivrà due decenni di pausa (fatta eccezione per alcuni corti) per rientrare nelle case di tutto il mondo con la serie delle avventure dei paperi "Duck Tales", proseguendo invece ininterrottamente le apparizioni da protagonista nei fumetti in oltre 40 paesi in tutto il mondo. In Italia è nato l'alter-ego del papero Disney, il supereroe Paperinik, comparso negli anni '70 sull'edizione italiana di Topolino e celebrato più tardi con una lunga serie di fumetti dal 1996 al 2000. Di origini italiane erano anche il primo disegnatore di Paperino, Al Taliaferro così come Ugo Dante "Don" Rosa, di origini friulane. L'italo-americano sarà uno dei principali autori delle serie Disney tra gli anni '70 e gli anni '90. In occasione degli 85 anni del papero più famoso del mondo, domenica 9 giugno Disney Channel (canale 613 di Sky) dedicherà la giornata al famoso pennuto, mentre il mondo della carta stampata celebra Paperino con due volumi editi da Giunti: "Paper Antologia" e "Paperino sono io".

·         Topolino ne fa 70!

TOPOLINO FA 70! Federica Taddia per “la Stampa” del 3 aprile 2019. «Lo hai riletto almeno tre volte? Sicuro che sia tutto corretto quello che hai scritto ? Guarda che i bambini si fidano di Topolino. E poi sono spietati, non vedono l' ora di prendere in castagna noi adulti: se trovano un errore ci inondano di letterine». Fiducia e dialogo continuo e costante con i lettori: ecco i due pilastri di Topolino, riassunti nella frase con cui, 25 anni fa, l' allora direttore Paolo Cavaglione accolse il mio primo articolo. Riassumendomi, in una frase, la filosofia con cui per settant' anni il giornalino ha fatto crescere intere generazioni, divertendo e informando. Narrando il mondo con gli occhi divergenti del fumetto. Settant' anni di storia, del Paese e di ognuno di noi, da quando il 7 aprile del 1949 fece la sua comparsa Topolino formato libretto, così come lo conosciamo oggi. Voluto dall' editore dell' epoca, la Mondadori, per risparmiare sui costi di stampa e copiando il formato dal famoso Readers' Digest. Mensile prima e settimanale poi, precisamente dal numero 236 del 5 giugno 1960, il nuovo giornalino, agile e maneggevole, piace sia ai grandi che ai più piccoli. E fa subito breccia nell' immaginario collettivo. Grazie alla potenza evocativa dei paperi e dei topi, ma grazie soprattutto alla capacità di intrecciarsi con la quotidianità. Il Topo è sì il regno della fantasia, ma con la sua grammatica sa tradurre la cultura e l' attualità, il mondo dell' arte e quello della scienza, lo spettacolo e le mode del momento. Già a cavallo nel 1950 con la celebre saga a puntate de «L' Inferno di Topolino» di Guido Martina e Angelo Bioletto si apre la stagione, mai finita, delle parodie. Da «Paperino Don Chisciotte» a «Guerra e Pace», da «Casablanca» a «I promessi Topi": cinema e letteratura sono il campo di gioco preferito dagli sceneggiatori e disegnatori Disney, maestri nel dare vita sulle loro tavole a film e romanzi. Essere educativi. O meglio - per togliersi un po' di patina scolastica - essere capaci di stimolare i giovani lettori. Con la giusta leggerezza. Puntando su valori condivisi come l' amicizia e la difesa dell' ambiente, la curiosità e il gioco, l' essere bravi cittadini e la cura del proprio corpo, l' attenzione al presente e una vocazione al futuro. E' questa l' atmosfera che da sempre si respira camminando per la redazione di Topolino. Un' atmosfera carica di responsabilità, nei confronti della propria storia e di chi partecipa a questa storia: i giovanissimi. La fiducia appunto, con i bambini che da 70 anni scrivono a Topolino. Affidando paure e sogni nelle loro lettere. Dallo spazio della posta curato da Gina Lollobrigida negli Anni Sessanta, alla recente pagina di «Sgrunt» dove bambine e bambini confessano quali sono le cose che fanno arrabbiare. E la partecipazione attiva, come le campagne per la difesa dei mari e degli alberi, i «Toporeporter» sparpagliati sul territorio, l' iscrizione ai «Club di Topolino», con un numero record di 360 mila soci nel 1967: Topolino crea appartenenza, ci si riconosce nella comunità. E Topolino è sul pezzo, sempre. Lo è nello sport, con i prestigiosi Trofei ideati nel 1985 da Mike Bongiorno e Rolly Marchi, con le strisce celebrative come «Paperino al Tour» o «Paperino alle Olimpiadi» e con le popolari storie con i campioni, basti pensare al mitico Totti-Paperotti. E poi la scienza, nel DNA di un giornale che ha l' abilità di renderla comprensibile. Non solo per merito di Archimede o Pico De Paperis, ma con illuminati nomi che hanno portato il loro contributo, da Piero Angela al fisico Carlo Rovelli, fino ad una spettinatissima Margherita Hack. Finire su Topolino era ed è cool. E' un tuffo nel cuore vedere l' orgoglio di Domenico Modugno nell' essere protagonista della pagina dei «Grandi amici di Topolino» nel 1976. Ed è un sincero onore, un' ambita tacca nella propria carriera, per le celebrità dello spettacolo, da Jovanotti a Fiorello, passando per Roberto Bolle, Laura Pausini e tanti altri protagonisti della musica e della televisione, essere paperizzati o topolinizzati. E tra le pieghe di questa avventura lunga settant' anni ci sono anche inaspettate sorprese, come quella del Presidente Sandro Pertini che nel 1986 suggerisce il finale di una storia a fumetti in vista dei Mondiali di calcio in Messico. Quasi a dire - concedendoci ancora una volta il gusto della parodia - che l' Italia è una Repubblica fondata anche su Topolino.

MA CHE VI HA FATTO TOPOLINO? Lorenzo Tomasin per Il Sole 24 ore il 28 marzo 2019. I fatti. Qualche giorno fa, nel giro di poche ore, per una pura coincidenza, vari politici e intellettuali di sinistra citano scherzosamente e en passant il giornale Topolino o i suoi personaggi. Il neo-segretario del Pd Zingaretti opina che «La flat tax è una teoria da Paperon de Paperoni»; Cacciari sbotta: «Se la gente avesse letto più libri oltre a Topolino…»; Calenda si chiede se tra i molti libri di cui parla un avversario politico riferendosi a una preparazione solida sia incluso anche Topolino. Apriti cielo. I redattori della rivista insorgono e deplorano il fatto che il loro giornale, su cui son cresciute generazioni d'italiani, venga sistematicamente vilipeso dai politici. Una paginata del Foglio propone un ritratto in piedi – peraltro ben scritto – di questo monumento letterario che è Topolino, oggetto di studi filosofici nientepopodimeno che di Giulio Giorello. Intellettuali televisivi e starlette delle reti sociali fanno a gara nel ricordare che Topolino è un rappresentante tra i migliori della nostra cultura attuale, una scuola di buona lingua (mai un refuso!), una galleria di classici rivisitati (chi non ricorda la Divina Commedia rivissuta da Topolino?). Tito Faraci, storico autore italiano di Topolino, inquadra il problema sul Fatto Quotidiano: quella veicolata da Topolino è la «cultura popolare» nei confronti della quale le élites del Paese mostrerebbero una spocchiosa sufficienza, relegandola ai margini di un'Italia «bacchettona, attaccata ad una visione serissima delle cose». Ecco, su questo – forse – c'è da discutere. E siccome non so se Topolino intenda dedicare al problema uno dei suoi approfonditi dossier d'inchiesta, provo a lasciare qui qualche appunto. L'eroica battaglia mirante a dare ai prodotti della cultura pop pari dignità rispetto a quelli della cultura libresca dura ormai da molti decenni, e non credo possa considerarsi allo stadio denunciato da Faraci, la cui immagine dell'Italia assomiglia a quella di un severo Paese calvinista – o comunista – d'altri tempi in cui stento davvero a riconoscerla. Nel 1977 un rappresentante della cultura libresca, Cesare Cases, immaginava – pensando di fare della fantascienza – un'Italia del 2020 in cui le Facoltà umanistiche sarebbero state ridotte a un'unica Facoltà di Scienze Umane e Sociali con «quattro materie obbligatorie: fumettologia, pubblicità, cosmetica e scienza del petting». A dire il vero, non siamo troppo lontani da questo brillante risultato, se appunto Topolino e in generale i prodotti della cultura pop rappresentano ormai l'oggetto di innumerevoli pubblicazioni scientifiche, di decine di corsi universitari e insomma di una pletora di prodotti che poi sono quelli che alimentano l'idea, sempre più largamente diffusa, delle facoltà umanistiche come luoghi dell'entertainment dissimulato. Nessuno – nemmeno, credo, fra gli istruiti politici che lo citano scherzosamente – pensa che Topolino sia un vettore di valori negativi o di colpevole incultura. Semplicemente, chiunque sappia andare al di là della vieta contrapposizione tra cultura pop e cultura libresca sa che Topolino – come qualsiasi prodotto della sua filiera – rappresenta una versione legittimamente semplificata e banalizzata dei contenuti più complessi, proprio come la versione topesca della Commedia non è, semplicemente, la Commedia di Dante. Per cui citare Topolino come esempio di superficialità non significa metterlo alla gogna. Significa solo ricordare che dietro ogni ragazzino che legge (giustamente) un fumetto dovrebbe esserci un adulto che lo invita a leggere anche un buon libro (o che altro intendeva dire Cacciari, da cui per una volta è davvero difficile dissentire?). È chiaro: una società che cresca solo sulla lettura di Topolino non potrebbe essere considerata matura. Così come l'esaltazione di una cultura pop contemporanea equiparata a quella più complessa, più approfondita o più distante da noi (insomma più difficile) espone a un equivoco culturale, anzi a un rischio. Umberto Eco, grande difensore della cultura pop quando quest'ultima non saliva ancora sulle cattedre universitarie, se ne rese conto solo alla fine della sua vita: a furia di contrapporre il superficiale all'approfondito, il primo prende il posto del secondo. E il secondo si perde definitivamente in mezzo ai like e ad applausi molto pop(ulisti). Che è poi esattamente il punto a cui siamo.

Massimiliano Parente per “il Giornale” il 28 marzo 2019. Sono tutti i giorni in televisione a discutere per slogan banali come se fossero usciti dal Grande Fratello, e se la prendono con Topolino. Come se i fumetti fossero una cosa da deficienti, il simbolo dell'ignoranza. Tipo Massimo Cacciari, dall'alto della sua cattedra: «Se la gente avesse letto qualche libro in più oltre a Topolino». Poi Nicola Zingaretti, che parla della flat tax come «una bufala da Paperon de' Paperoni». Poi Carlo Calenda per insinuare che forse Matteo Salvini ha letto solo Topolino. E anche Matteo Salvini, per sentenziare che «i numeri dei giornali hanno l'attendibilità di Topolino». Ma cosa gli ha fatto di male Topolino? Sono stati stuprati da piccoli dalla banda Bassotti? Anzitutto su Topolino si sono formate generazioni e generazioni, e Walt Disney ha creato un immaginario che i suddetti se lo sognano. Non per altro un semiologo come Umberto Eco nel lontano 1964 analizzò il fumetto come una forma d'arte. Tanto per dire, già nel 1936 Topolino includeva personaggi come il professor Enigm, ispirato a Albert Einstein, e uno poteva imparare un po' di teoria della relatività. In un racconto del 1949 di Arthur C. Clarck dei venusiani arrivano sulla Terra e trovano pochi resti della civiltà umana, tra cui una scatola di latta della «Walt Disney Production». Se accadesse davvero, degli alieni potrebbero dedurre che siamo stati una specie intelligente, mentre dubito arriverebbero alle stesse conclusioni se trovassero la trascrizione di un dibattito tra i nostri politici. Inoltre Topolino spopola ancora tra i nostri figli, e anche tra gli adulti, soprattutto quelli con una certa cultura. Come d'altra parte tutto il mondo dei fumetti. Ci sono fumetti di Frank Miller, grande disegnatore e sceneggiatore di Batman, per esempio, molto più complessi dei libri di Massimo Cacciari; Dario Bressanini, un chimico e tra i nostri più brillanti divulgatori scientifici, ha la casa piena di fumetti; e Stan Lee, recentemente scomparso, è acclamato come un genio. La fumetteria è anche il negozio più frequentato dagli scienziati protagonisti di una delle serie tv più intelligenti e erudite degli ultimi anni, The Big Bang Theory. Insomma, chi denigra Topolino, dubito abbia sul comodino l'Ulisse di Joyce o la Recherche di Proust. E dovrebbero proprio loro ricominciare a studiare, ma Topolino è già troppo difficile, consiglierei al massimo Peppa Pig, dove in ogni caso si usano i congiuntivi meglio di quanto faccia Di Maio.

Se "Topolino" è troppo colto per i nostri politici. Cacciari e Calenda denigrano il fumetto. Ma resta più intelligente dei loro dibattiti, scrive Massimiliano Parente, Sabato 23/03/2019, su Il Giornale. Sono tutti i giorni in televisione a discutere per slogan banali come se fossero usciti dal Grande Fratello, e se la prendono con Topolino. Come se i fumetti fossero una cosa da deficienti, il simbolo dell'ignoranza. Tipo Massimo Cacciari, dall'alto della sua cattedra: «Se la gente avesse letto qualche libro in più oltre a Topolino». Poi Nicola Zingaretti, che parla della flat tax come «una bufala da Paperon de' Paperoni». Poi Carlo Calenda per insinuare che forse Matteo Salvini ha letto solo Topolino. E anche Matteo Salvini, per sentenziare che «i numeri dei giornali hanno l'attendibilità di Topolino». Ma cosa gli ha fatto di male Topolino? Sono stati stuprati da piccoli dalla banda Bassotti? Anzitutto su Topolino si sono formate generazioni e generazioni, e Walt Disney ha creato un immaginario che i suddetti se lo sognano. Non per altro un semiologo come Umberto Eco nel lontano 1964 analizzò il fumetto come una forma d'arte. Tanto per dire, già nel 1936 Topolino includeva personaggi come il professor Enigm, ispirato a Albert Einstein, e uno poteva imparare un po' di teoria della relatività. In un racconto del 1949 di Arthur C. Clarck dei venusiani arrivano sulla Terra e trovano pochi resti della civiltà umana, tra cui una scatola di latta della «Walt Disney Production». Se accadesse davvero, degli alieni potrebbero dedurre che siamo stati una specie intelligente, mentre dubito arriverebbero alle stesse conclusioni se trovassero la trascrizione di un dibattito tra i nostri politici. Inoltre Topolino spopola ancora tra i nostri figli, e anche tra gli adulti, soprattutto quelli con una certa cultura. Come d'altra parte tutto il mondo dei fumetti. Ci sono fumetti di Frank Miller, grande disegnatore e sceneggiatore di Batman, per esempio, molto più complessi dei libri di Massimo Cacciari; Dario Bressanini, un chimico e tra i nostri più brillanti divulgatori scientifici, ha la casa piena di fumetti; e Stan Lee, recentemente scomparso, è acclamato come un genio. La fumetteria è anche il negozio più frequentato dagli scienziati protagonisti di una delle serie tv più intelligenti e erudite degli ultimi anni, The Big Bang Theory. Insomma, chi denigra Topolino, dubito abbia sul comodino l'Ulisse di Joyce o la Recherche di Proust. E dovrebbero proprio loro ricominciare a studiare, ma Topolino è già troppo difficile, consiglierei al massimo Peppa Pig, dove in ogni caso si usano i congiuntivi meglio di quanto faccia Di Maio.

Topolino risponde ai politici: "Smettetela di usarci come esempio di ignoranza". Negli ultimi tre giorni, Calenda, Zingaretti e Cacciari hanno usato il settimanale per ragazzi come sinonimo di ignoranza. E questo non è piaciuto agli autori: "Con noi hanno iniziato a leggere tre generazioni", scrive Patrizia Baldino il 22 marzo 2019 su La Repubblica. Non solo Pietro Gambadilegno e Macchianera, adesso Topolino deve combattere anche con i pregiudizi di alcuni politici nostrani. Nell'ultimo mese il magazine per ragazzi, che quest'anno festeggia 70 anni, è stato utilizzato come sinonimo di lettura poco impegnativa e ricca di sciocchezze da sinistra e destra e “Dove l'ha letto, su Topolino?” è diventato uno slogan per dare liberamente dell'ignorante al proprio avversario. L'ultimo, in ordine di tempo, Massimo Cacciari. Ospite a Carta Bianca, il talk show di Rai 3, durante un confronto con il giornalista Maurizio Belpietro ha dichiarato: “Se la gente avesse letto qualche libro in più oltre a Topolino, capirebbe molte cose”. Ma il filosofo è, per così dire, in buona compagnia. Il 2 marzo Carlo Calenda, in un post su Twitter in risposta a Maurizio Gasparri sui libri letti da Matteo Salvini chiedeva “Includi Topolino?”. Seguito poi, il 18 marzo, dallo stesso ministro dell'Interno che, commentando le critiche alla flat tax fatte da alcuni quotidiani, diceva: I numeri dei giornali hanno l'attendibilità di Topolino”. Dello stesso tenore una frase del neo segretario Pd Nicola Zingaretti, sempre a proposito di flat tax: “È una bufala da Paperon dè Paperoni”. Le montagne di libri sono più basse o più alte di quelle lette da Salvini secondo lo stesso Sangiuliano? Hai notizie affidabili Maurizio? Qual è il tuo criterio per “montagne”? Più di 3 e siamo già in collina? Includi topolino? Insomma tante domande. Prima o poi ne parliamo. Un atteggiamento che ha stancato gli addetti ai lavori: sceneggiatori, disegnatori e giornalisti sui social hanno manifestato il proprio scontento. A cominciare da Francesco Artibani, autore Disney dal 1992: “Un settimanale che ha avviato alla lettura almeno tre generazioni di italiani diventa oggi un esempio negativo da citare con disprezzo. Se affermassi che i politici sono tutti ladri, i giornalisti dei pennivendoli e i filosofi dei gran chiacchieroni pieni di idee fumose e incomprensibili direi delle banalità offensive. È per questo che è ora di pretendere rispetto per questo lavoro” ha scritto sul suo profilo Facebook. Al tweet aveva risposto lo stesso Artibani, scrivendo: "Calenda, io la seguo con interesse ma, cortesemente, non mi cada su Topolino. Non banalizzi anche lei quello che è un lavoro serio". Il suo pensiero è stato condiviso da tantissimi lettori, che hanno raccontato quanto i fumetti e gli articoli del magazine siano stati importanti per la loro crescita; e da molti colleghi, che hanno sottolineato la serietà con la quale svolgono il loro lavoro nella nona arte. “Topolino fa parte di me. Disegno fumetti grazie a Topolino, ho iniziato a leggere grazie a Topolino e questo mi ha permesso di approcciarmi a lettura via via più complesse, Grazie Topolino e grazie anche a chi lo denigra per farsi bello perché Topolino mi ha insegnato ad accettare chi la pensa diversamente da me” ha scritto il disegnatore Francesco D'Ippolito. Anche Alex Bertani, direttore del magazine, ha commentato: “Dispiace un po’ che persone competenti e preparate parlino con tanta leggerezza di uno strumento come Topolino, un giornale che è stato capace, nei suoi ormai 70 anni di vita editoriale, di iniziare alla lettura generazioni di lettori, stimolandone la crescita personale e contribuendo spesso alla formazione di un loro forte senso critico. Topolino ha questa grande capacità di raccontarti la realtà che hai attorno e di farlo in modo divertente e solo in apparenza 'leggero' adatto anche ad un pubblico più giovane che spesso lo avvicina soprattutto per la magia delle sue avventure. Riesce a fare divulgazione usando un linguaggio semplice e fruibile, per questo efficace, e chi è esperto di comunicazione sa quanto sia complesso farlo. Topolino è spesso una 'stazione di partenza' di percorsi personali ricchi di stimoli e passioni”. Tuttavia, il direttore non sente la necessità “di alzare i toni o di rischiare di finire strumentalizzati in qualche polverone mediatico, sicuramente sono dichiarazioni un po’ infelici, ma credo anche che in fondo nessuno le abbia veramente fatte con intenti denigratori, Topolino è un giornale molto diffuso e credo le persone attente ne conoscano bene sia l’elevato valore di intrattenimento che quello formativo e divulgativo”.  “C'è una distorsione – ha ribadito Artibani – riguardo quello che Topolino magazine è. Sì, è un giornale per bambini, ma questo non significa che debba essere banalizzato o mortificato. Ha un suo valore, non per altro è uno degli ultimi fumetti rimasti dedicato a quella precisa età anagrafica. Purtroppo non è da ieri che i fumetti hanno questa connotazione negativa, nonostante autori come Umberto Eco, Dino Buzzati e Gianni Rodari abbiano provato a sdoganarli. E spesso chi li denigra non li conosce nemmeno, non li ha mai letti o non li legge da anni. Prendiamo il caso di Nicola Zingaretti, che ha usato come esempio una vecchia versione di zio Paperone degli anni'70, quando era ancora un imprenditore senza scrupoli. Adesso è diventato più etico, ha una morale, si è evoluto: dunque, perché citare qualcosa che non si conosce, che può diventare inutilmente offensivo?”. Artibani è autore, insieme a Fausto Vitaliano, del progetto Topolino Comic&Science, lanciato sulle pagine del settimanale dal 2016 e incentrato sulla divulgazione specifica. Con la collaborazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche, di Roberto Natalini, direttore dell'istituto per le applicazioni del calcolo M. Picone e di Andrea Plazzi, matematico e curatore di fumetti. Ad aiutare Topolino e co. a esplorare il mondo delle scienze, personaggi come Piero Angela e Carlo Rovelli. “La cosa straordinaria è che tutti quelli che ci hanno aiutato hanno letto o leggevano ancora il magazine, conoscevano a fondo i personaggi ed erano entusiasti di partecipare a questo nostro progetto. Così come Topolino, che è un personaggio estremamente dinamico e voglioso di imparare. Leggere le sue avventure può far accendere la scintilla della curiosità. Che sia musica o sport, letteratura o matematica, ogni lettore può trovare una sua passione. Non scriviamo sciocchezze o invenzioni, e vorremmo non diventare un esempio negativo, uno slogan falso e insensato”.

·         Gómez Dávila, Giovanni Comisso. I grandi scrittori? Tutti di destra.

Destra ignorante? Balle. I giovani identitari studiano e si preparano. Cristiano Puglisi il 18 luglio 2019 su Il Giornale. La sinistra è colta, ha studiato, approfondisce. Si prepara. Conosce per deliberare. Insomma, una riedizione del movimento enciclopedico. La destra invece è populista, ignorante, rutti e scoregge come se piovessero, libri pochi e televisione spazzatura tanta. Questi stereotipi sono quelli che subdolamente, ogni santo e benedetto giorno, la cultura dominante cerca di veicolare attraverso i suoi (potenti) mezzi. Mentre lo fa, mentre i sacerdoti post-comunisti (più post che comunisti) della religione del pensiero unico universale, come Zingaretti, ci spiegano che con questa barbarica destra ignorantona rischiamo di allontanarci dalla NATO (e “fusse che fusse la vorta bbona”, si potrebbe dire, parafrasando il grande Nino Manfredi…) a Trevi, da oggi, giovedì 18, fino a domenica 21 luglio, il mondo identitario giovanile si è dato appuntamento per la 15esima edizione di “Castrum Italia”: una quattro giorni di dibattiti e approfondimenti su temi come globalizzazione, famiglia, enti locali e comunicazione politica dall’evocativo titolo di “Controélite. Verso una nuova areté”. L’evento è organizzato come ogni anno dal NES (acronimo di Nihil Est Superius). Un campo comunitario, Castrum, dedicato soprattutto ai giovani. Un’occasione per formarsi e crescere, culturalmente e politicamente. Tra le menti del mondo culturale “di destra” invitati a parlare ci sono, tra gli altri, Alessandro Sansoni, direttore del mensile CulturaIdentità, il sociologo Fabrizio Fratus de Il Talebano, ma sono stati invitati anche tecnici di rilievo, come il comunicatore e spin doctor Luigi Crespi. Ma Castrum non è il solo evento di questo tipo: lo scorso 5 e 6 luglio, a Milano, si è infatti tenuta la “Festa del sole”, tradizionale appuntamento comunitario estivo del gruppo diLealtà Azione. Anche in questo caso conferenze, musica, dibattiti. Insomma: cultura. Quella vera. Perché dove non arrivano i partiti, che non offrono quasi più possibilità, ai propri militanti, di una crescita integrale, avendo trasformato il rito laico della colla e dei manifesti in un volontariato meccanico volto a pubblicizzare slogan tristi e banali buoni per il livello (basso) dei social e dei talk show urlati, arrivano le comunità, i gruppi non conformi, che sono la vera ossatura (e la vera speranza) per una futura classe dirigente di destra consapevole, preparata e votata alla causa. Una classe, insomma, di soldati politici. Perché quella contro le mortifere elites globaliste e nichiliste è una guerra. E le guerre non le combattono di certo gli impiegati di partito.

I grandi scrittori? Tutti di destra, scrive Luigi Iannone il 7 marzo 2019 su Il Giornale. Nicola Lagioia, direttore editoriale del Salone del Libro, lo dice a chiare lettere. O meglio, lo fa intendere, ma in maniera abbastanza chiara: anche quest’anno sarà un fortino auto-celebrativo per la cultura progressista. E ne fa addirittura una questione di quote. A leggere la realtà, ogni dieci scrittori, a suo dire, ben otto sarebbero progressisti, i restanti due conservatori, anarchici di destra o similari. Per tale motivo, ha sentito la necessità di invitare solo uomini di cultura dichiaratamente di sinistra e fare “selezioni all’ingresso”. Non entriamo nel merito di questa stantia differenziazione; tuttavia, a Lagioia, rispondiamo con una articolo di Giovanni Raboni (non propriamente un reazionario o un pericoloso criptofascista), pubblicato sul Corriere della Sera del 27 marzo 2002. Se lo legga, il caro Lagioia (… o magari se lo rilegga), e poi si riaccomodi pure sulle calde e comode poltrone della Fiera di Torino insieme ai suoi compagni di questo misero tempo. L’articolo di Raboni dice molto sia sulla cultura del Novecento, che è stata nelle sue punte più alte essenzialmente non di sinistra, sia sull’approccio metodologico manicheo, settoriale ed ideologico, e perciò cupo e poco intelligente, di un mondo che ha preferito l’egemonia alla qualità, il consenso immediato alle vette solitarie e ineguagliabili di artisti, letterati e filosofi spesso non classificabili, e perciò ritenuti ingiustamente degli outsider. Non sappiamo se oggi sia lo stesso; se cioè le vette siano da additare ad una parte mentre il resto, quel magma mediocre e indistinto, sia da lasciare all’altra. Non entriamo in queste classificazioni da Bar dello sport. Ma una rilettura consapevole del testo di Raboni si impone, almeno per avere contezza di cosa ci siamo lasciati alle spalle e quanta acredine e falsità sia circolata intorno ad autori non succubi della egemonia culturale. E soprattutto come non sia cambiato questo puerile e limitato metro di giudizio.

Se c’ è qualcosa sui cui destra e sinistra sembrano essere, da un po’ di tempo, sorprendentemente d’ accordo è che in Italia non esiste una cultura di destra degna di questo nome: con il corollario o, invece, per il motivo che i cosiddetti intellettuali – categoria di cui fanno naturalmente parte, fra gli altri, i romanzieri, i poeti, i drammaturghi, insomma gli scrittori – sono «tutti di sinistra». Si tratta di una convinzione talmente diffusa e soprattutto, si direbbe, così profondamente radicata, da trasformarsi nell’immaginario collettivo in una sorta di luogo comune metastorico: come, insomma, se non soltanto adesso e qui da noi, ma ovunque e da sempre vi fosse un nesso consolidato e in qualche modo fatale fra l’essere scrittore e l’essere «di sinistra». E una delle conseguenze di questa credenza o diceria è l’atteggiamento di incomprensione se non di rifiuto, di estraneità se non di malanimo, di diffidenza se non di disprezzo nei confronti dell’intera categoria, ravvisabile in larghi strati dell’opinione pubblica piccolo borghese, a cominciare da alcuni dei più pittoreschi rappresentanti dell’attuale maggioranza politica. Peggio per loro, si potrebbe commentare; ma anche, a pensarci bene, peggio per noi. Ma c’ è anche, forse, un altro modo di porsi di fronte alla questione, ed è quello di andare e vedere e il luogo comune che ne costituisce il fondamento non sia, per conto suo, almeno in parte infondato. È quanto, personalmente, mi sono proposto di fare, sforzandomi in primo luogo di ampliare decisamente la prospettiva, cioè di spostare l’attenzione dell’angusta e, ahimè, molto significativa attualità italiana a quanto è successo durante gli ultimi cento anni in ambito mondiale. E il risultato è quello che mi permetto qui di sottoporre alla riflessione dei lettori (di destra e di sinistra) eventualmente interessati all’argomento. Per dirla nel più diretto e disadorno e a prima vista (ma solo a prima vista) provocatorio dei modi, la verità dei fatti è la seguente: che non pochi, anzi molti, anzi moltissimi tra i protagonisti o quantomeno tra le figure di maggior rilievo della letteratura del ‘ 900 appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di destra – dalla più illuminata alla più retriva, dalla più conservatrice alla più eversiva, dalla più perbenistica alla più canagliesca – che si sono intrecciate o contrastate o sono semplicemente coesistite nel corso del ventesimo secolo.

Per chi non volesse (e farebbe, sia ben chiaro, benissimo) credermi sulla parola, ecco un po’ di nomi, messi in fila secondo il più neutrale dei criteri, quello alfabetico, e mescolando (un po’ per non complicarmi la vita e un po’ perché si farebbe altrimenti, ai fini di quanto sto cercando di dire, più confusione che altro) ogni tipo di destra possibile: Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, Croce, D’ Annunzio, Drieu La Rochelle, T. S. Eliot, E. M. Forster, C. E. Gadda, Hamsun, Hesse, Ionesco, Jouhandeau, Jünger, Landolfi, Thomas Mann, Marinetti, Mauriac, Maurras, Montale, Montherlant, Nabokov, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Pound, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, W.B. Yeats…E non è finita; a parte, per un minimo di rispetto alla peculiarità del loro tragitto, ho tenuto infatti i transfughi dalla sinistra, quelli che sono stati folgorati, a un certo punto della vita, dalla rivelazione dei disastri e dei crimini del comunismo storico e che per questo hanno finito con l’ attestarsi su posizioni sostanzialmente liberali: Auden, Gide, Hemingway, Koestler, Malraux, Orwell, Silone, Vittorini… E a parte ancora, perché è impossibile immaginare quali sarebbero state le loro convinzioni e vicende politiche se il destino li avesse fatti vivere altrove, i grandi perseguitati da Stalin: Babel’ , Brodskij, Bulgakov, Cvetaeva, Mandel’ stam, Pasternak, Solzenicyn… Il tutto, s’ intende, salvo (probabilmente) omissioni. Ma ce n’ è già abbastanza, mi sembra, per mettere seriamente in discussione la credibilità della famosa equazione dalla quale siamo partiti: per il sollievo di chi detesta o teme la sinistra ma anche, per motivi magari un po’ più complessi, per il conforto di chi pensa che essere di sinistra sia una scelta etica e non una questione di appartenenza automatica o, peggio, una specie di privilegio di casta. Ma ancora più importante, a mio avviso, sarebbe prendere spunto da questo sommario censimento per cercare di liberarsi da un altro ancora più insidioso pregiudizio, quello secondo il quale una persona di sinistra che scrive libri è ipso facto uno scrittore di sinistra e una persona di destra che scrive libri è ipso facto uno scrittore di destra. Non è così: il senso di un’opera letteraria decidendosi e manifestandosi altrove, su un piano totalmente diverso da quello delle scelte di carattere ideologico e dei comportamenti di carattere politico. Tengo a precisare che non intendo affatto, con questo, pronunciarmi a favore dell’irresponsabilità civile dello scrittore (e, più in generale, dell’artista); al contrario, sono convinto che uno scrittore (un artista) debba rispondere delle idee che professa e degli atti che compie esattamente come ne risponde qualsiasi altro cittadino. Quello che voglio dire è semplicemente che le due sfere non coincidono necessariamente, anzi che molto spesso (per non dire il più delle volte) non coincidono; e che, per esempio, si può essere rivoluzionari nella scrittura e conservatori, o addirittura reazionari, in politica, e viceversa. E forse, spingendosi un po’ più in là, si potrebbe persino ipotizzare l’ esistenza di un oscuro, paradossale legame fra progressismo politico e conservatorismo stilistico da una parte e fra passione sperimentale e sfiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’ altra; le inquietanti vicende di due dei massimi innovatori (nel campo, rispettivamente, della prosa e della poesia) che la letteratura del ‘ 900 possa vantare, il collaborazionista e antisemita Céline e il filomussoliniano Pound, sembrano fornire, in questo senso, indizi non facilmente accantonabili. Ma lasciamo perdere; sarei già contento, per ora, di aver insinuato qualche dubbio sia nell’animo di chi, a destra, vede in ogni scrittore un avversario politico, sia in quello di chi, da sinistra, scambia non meno ingenuamente ogni scrittore per un compagno di fede. Filoni Moltissimi protagonisti della letteratura del Novecento appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di destra.

NEL MONDO Barrès, Benn, Bloy, Borges, Céline, Cioran, Claudel, Drieu La Rochelle, T. S. Eliot, E. M. Forster, Hamsun, Hesse, Ionesco, Jouhandeau, Jünger, Thomas Mann, Mauriac, Maurras, Montherlant, Nabokov, Pound, W. B. Yeats.

IN ITALIA Croce, D’ Annunzio, Carlo Emilio Gadda, Landolfi, Marinetti, Montale, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa.

TRANSFUGHI A parte, dai nomi sopra indicati, vanno ricordati i «transfughi dalla sinistra»: Auden, Gide, Hemingway, Koestler, Malraux, Orwell. E in Italia: Silone, Vittorini.

PERSEGUITATI Sono i grandi perseguitati da Stalin, impossibile dire quali sarebbero state le loro convinzioni e vicende politiche se il destino li avesse fatti vivere altrove: Babel’ , Brodskij, Bulgakov, Cvetaeva, Mandel’ stam, Pasternak, Solzenicyn. 

Gómez Dávila, il "diritto" di pensarla a rovescio. Esce in Italia il saggio «De Iure» del pensatore reazionario colombiano, che inaugura una collana diretta da Cacciari. Scrive Lorenzo Vitelli, venerdì 26/04/2019, su Il Giornale. Scritto nel 1970, e pubblicato soltanto 18 anni dopo, anche il De Iure, un po' come tutta la produzione gomezdaviliana (vuoi per il tatto, il pudore e una certa riservatezza dell'autore) ha visto la luce con tanta fatica, grazie alle pressioni di amici e familiari. Se pensiamo a Nicolás Gómez Dávila (Bogotà, 1913 Bogotà, 1994), infatti, non possiamo pensare ad un filosofo più lontano da Socrate. Al proselitismo filosofico del greco, all'odioso pedagogismo dialettico e finto tonto del «tafano» ateniese, il colombiano ha sempre preferito le «poche parole». Poche parole dietro cui è «difficile nascondersi, come tra pochi alberi». Poche parole che impediscono la costruzione di un sistema, e che non pretendono di dire la verità, ma soltanto (se Dio vuole) di intersecarla nel tempo fulmineo di un aforisma. Ecco però che le cose cambiano quando Gómez Dávila si vede costretto ad affrontare il tema del Diritto. È il caso appunto del De Iure, un saggio breve, tradotto e curato per la prima volta da Luigi Garofalo per la Nave di Teseo (pagg. 272, euro 19), volume inaugurale della collana «Krisis» diretta da Massimo Cacciari e Natalino Irti. Nonostante la brevità del saggio, e la forse smisurata (ma impeccabile) introduzione del curatore, che rende l'operazione commercialmente sfrontata, fa riflettere la scelta di un simile autore, orgogliosamente reazionario, per avviare una collana che si propone di sondare la «crisi» dei vecchi istituti del Diritto e della Filosofia. Ma la sottile intelligenza del colombiano, l'intensità della sua scrittura e l'eloquenza spiazzante delle sue glosse, non possono lasciare indifferenti né a sinistra né a destra. Conservatore di fronte ai progressisti, reazionario con i conservatori, Gómez Dávila elude qualsiasi etichetta che non sia quella di uno spirito in rivolta nei confronti di un presente che distrugge più quando crea che quando distrugge. Rispetto agli Escolios (che in Italia GOG Edizioni sta pubblicando, in cinque volumi), la sua opera monumentale, una raccolta «aperta» di oltre 10mila aforismi che trattano dei temi più disparati, il De Iure è un testo compiuto e definitivo, dove il filosofo indossa i panni del giurista, in questo caso con «competenza ed eleganza», come sostiene Garofalo, per fare chiarezza sullo stato del Diritto, strattonato, secondo Gómez Dávila, dalle idee giusnaturaliste. Il colombiano asserisce infatti che la natura è priva di potenzialità sul piano delle regole giuridiche, e che «né nella natura del mondo, né nella natura dell'uomo esistono tracce di norme». Queste derivano infatti dalle «intromissioni della volontà» umana. Tirare in ballo una supposta «natura», trasfigurata secondo le esigenze del momento da parte di chi detiene il potere giuridico o chi vuole conquistarlo, è un atto ideologico e arbitrario. Così come l'idea di Giustizia è per il colombiano un'idea fumosa, di cui si è fatto spesso un uso improprio: «Etichettando Giustizia il pacco chiuso, è stato facile, nei secoli, introdurre qualsiasi merce di contrabbando». Demistificazione della sovrastruttura ideologica che ci fa pensare a Marx, se non fosse che per Gómez Dávila anche la stessa «giustizia sociale» è solo un furto perpetrato da una comunità intera invece che da un singolo individuo. Il giuridico è quindi per Gómez Dávila - che intende in questo senso fare chiarezza sulle origini di questo concetto - la capacità che hanno gli individui di creare e modificare un sistema condiviso di norme, e il diritto è la procedura che nasce per garantire il rispetto di questo sistema nato da un accordo, quindi da una consuetudine. Perciò il diritto è sempre diritto positivo e consuetudinario, perché la regola nasce sempre da un accordo. L'accordo, il contratto sono alla base di qualsiasi società, e danno vita al diritto, che non è uno «statuto atemporale di norme, né coacervo capriccioso di comandi impersonali, ma accumulazione storica nel tempo di accordi convenuti tra soggetti che si riconoscono reciprocamente come tali». In questo senso allora visto che lo Stato «trova e non inventa il diritto», lo estrapola dal capitale giuridico di una società al variare degli accordi tra i soggetti (così come il vocabolario non inventa la lingua ma la trova tra i parlanti) il problema risulta essere la democrazia, poiché «obbedire alla legge che dipende dalla volontà maggioritaria è obbedire al capriccio». Sempre pungente e caustico, anche in quest'opera dove viene abbandonato l'aforisma, il pennello concettuale prediletto da Don Colacho, Gómez Dávila non perde la sua raffinatezza e ci accompagna discretamente nella stanza dei suoi dubbi, una stanza dove non vi sono certezze ma prima di tutto domande, che arredano con grazia le pareti, come quadri senza tempo, e dove i problemi metafisici, parafrasando il colombiano, non ci assillano più per essere risolti, ma per essere vissuti.

Il pensiero ribelle, scrive il 12 marzo 2019 Luigi Iannone su Il Giornale. Da pochi giorni è uscito il mio nuovo libro, Il pensiero ribelle (Idrovolante dizioni, p.340) in cui tento di rintracciare delle connessioni tra una cinquantina di personalità del Novecento, diverse per sensibilità e orientamenti, come D’Annunzio, Longanesi, Gómez Dávila, Ezra Pound, Dugin, Thomas Mann, Zolla, Guareschi, Mishima, Heidegger, Cioran, Corridoni, Spengler, Drieu la Rochelle, Carl Schmitt, Robert Musil e altri ancora. Quello che segue è il paragrafo dedicato a JRR Tolkien.

Tolkien, il cammino che disorienta. Come più volte ribadito, i percorsi del ribellismo possono essere eccentrici, vari e insoliti. I mondi di J.R.R. Tolkien (1892-1973), filologo e accademico, autore de Lo Hobbit e Il Signore degli Anelli, sono per esempio quelli velati da un martellante pensiero razionale che tende a soffocarne la seppur minima percettibilità. Cammino che disorienta, perché ci espropria della nostra realtà, annulla passato, presente e futuro e ci rapisce in maniera globale. Ma da considerarsi ribelle anche per volontà degli altri. In Italia, si partorirono, più o meno distrattamente, alcune delle più memorabili definizioni di Tolkien e della sua opera.

La critica ideologica. A partire dagli anni ‘60 e con il graduale uniformarsi di tutta la cultura alle teorie progressiste Tolkien diviene semplicemente “fascista”. Un metodo e uno strumento di chiara matrice gramsciana, per la quale, in maniera insistita, anzi ossessionante, si delegittimava autore ed opera, in uno stupefacente perdurare di accuse: «I suoi testi – scrisse Roberto Cotroneo – non vengono letti solo come opere letterarie, ma si trasformano in carte geografiche dello spirito, in esercizi spirituali della memoria e dell’intelligenza (…). Forse in questa teologia fantastica, eccessiva, quasi abnorme, sta il limite autentico di un autore come Tolkien che non ha mai saputo crearsi un vero distacco dai suoi futuri lettori». D’altra parte simbologie, mito, bagliori di esoterismo erano alla base di un’opera sin da subito disapprovata dall’intellighenzia progressista che, con giudizi fortemente riduttivi e in un clima di isterismo e di odio, non tardò a definirla in vari modi. Nel 1982 Vanni Ronsisvalle lo definì conservatore, reazionario, fascista, Guido Fink considerava sommamente ambigua la sua opera mentre per Saverio Vertone era «reazionaria, fascista e intinta di pangermanismo spirituale». Infine, gli attacchi della critica marxista che divideva gli ambiti di analisi e di giudizio considerando il fantastico di destra e la fantascienza di sinistra. La diatriba si incamminò ovviamente sul versante politico-ideologico ma, in maniera più larvata, la questione riguardò molti paesi europei. Nel nostro, molti si chiedevano se, per esempio, le favole fossero di destra o di sinistra, se fossero responsabili di un «annientamento della ragione» o potessero essere – seguendo la linea di Italo Calvino – rappresentazioni in cui avrebbero potuto trovare spazio anche fenomeni storici come la Resistenza. Tuttavia, tesi fuorvianti visto che lo stesso Tolkien ripetè in più occasioni di opporsi per esempio all’uso dell’allegoria per svelare i significati reconditi della sua opera. Lo aveva fatto già nel 1947 con Rayner Unwin, il quale, dopo aver letto solo una parte della storia, riferì a suo padre che era chiara «la finalità allegorica della lotta tra il bene ed il male». Gli spunti, d’altronde, non mancavano: l’opera era stata scritta durante il conflitto mondiale e la successiva contrapposizione ideologico-militare tra blocco occidentale e sovietico avvaloravano talune ipotesi. Molto opportunamente Michael White ha scritto che, con tali premesse, diventerebbe però molto facile rintracciare allegorie dappertutto: «L’uso del bianco e del nero per definire il bene ed il male; la decisione di rendere gutturale la lingua degli orchi, che alcuni possono interpretare come una distorsione estrema del tedesco parlato; e naturalmente, più rivelatrice di tutte, la posizione delle nazioni in lotta nel la Terra di Mezzo». Seguendo questa strada, per White, si potrebbero fornire giustificazioni a vantaggio delle proprie tesi in numero indefinito… così il Consiglio di Elrond che temporeggia molto prima di decidere potrebbe essere accostato all’insieme dei paesi alleati che tardano a comprendere il pericolo Hitler; o si potrebbe interpretare Mordor come allegoria della Russia comunista piuttosto che della Germania nazista, e via di questo passo, ma «ultima cosa che voleva era che i lettori svalutassero il suo alto concetto, sminuissero la sua epica grandiosa e senza tempo, mettendola in relazione con sporchi fatti della vita umana moderna». Questi sentimenti di avversione da una parte e la recisa condanna al silenzio dall’altra, furono causa di una spirale di frequenti incomprensioni. Gianfranco De Turris analizza questa particolare forma di ostracismo, adottata soprattutto negli anni Settanta, e ne fa una disamina che parte da un assunto essenzialmente ideologico. In una simile prospettiva la critica all’opera di Tolkien è quasi esclusivamente ideologica e si fonda e si perpetua attraverso varie fasi. Innanzitutto, Il Signore degli Anelli partirebbe male, nel senso che dopo l’edizione per Astrolabio, qualche anno più tardi viene tradotto integralmente dalla Rusconi, considerata già da tempo una casa editrice reazionaria (per ragioni simili lo stesso trattamento sarà riservato all’Adelphi), e così scoppiano le polemiche oltre che l’ostracismo militante. Umberto Eco in un articolo dal titolo La parabola del buon reazionario (L’Espresso, dicembre 1970), descriveva la Rusconi come una casa editrice tesa a dare un volto presentabile alla destra (killer mascherato secondo l’ironico commento che ne fa Quirino Principe) e Tolkien il risultato di quella subdola operazione. Le conseguenze che ne trae De Turris sono appassionanti. Innanzitutto la Rusconi, per la fama che si era conquistata di casa editrice non conformista, non ebbe nessun libro recensito in maniera positiva e da questo coro strepitante di accuse e di denigrazione non poteva tirarsi fuori Il Signore degli Anelli. Altra causa scatenante, la triade di intellettuali che fece conoscere e presentò l’opera: Alfredo Cattabiani che la scelse, Quirino Principe che la curò e Elémire Zolla che ne scrisse l’introduzione. Un terzetto di nomi che non poteva passare sotto silenzio. E infine il cuore dell’opera: esaltazione del dovere, rispetto per i valori tradizionali, cameratismo, irrazionalismo: «Inizialmente non vi fu alcuna appropriazione o strumentalizzazione del romanzo di Tolkien da parte della destra, ma un rifiuto immediato da parte della sinistra. Che non lo capiva e non aveva intenzione di capirlo, dato che il metro di giudizio utilizzato non era quello letterario-estetico, ma purtroppo soltanto – quello ideologico-politico: poiché Tolkien, cattolico tradizionalista e autore di un’opera “fantastica” e medievaleggiante non rientrava negli schemi mentali preconfezionati della sinistra, ma aveva tutti i crismi del nemico, venne posto al bando».

Le coordinate simboliche. I racconti si muovono, infatti, dentro coordinate apparentemente sempre uguali, come l’eterna lotta tra il Bene e il Male. Questo che però può sembrare un facile approccio manicheistico, che si alimenta nella eterna lotta, è in realtà vissuto e descritto in maniera personale. Sulla scia del filone medioevale, Tolkien pone la lotta tra Bene e Male, rappresentando quest’ultimo come assenza di Bene e dunque mancanza di luce. Il Male – riprendendone la visione agostiniana – non è rappresentato da una potenza in sé, ma dal nulla, dal buio, dall’oscurità, mentre il Bene dall’attaccamento ossessivo alla natura e alla terra. Molti personaggi che rappresentano il male, nel momento in cui periscono in battaglia si dissolvono, spariscono nelle tenebre. Un semplice artifizio simbolico tendente a riaffermare la capacità dell’uomo di imporre la propria identità, di fronte al nulla imperante, al fatuo, all’invisibile. Ma vene sono molti altri di questi segni che avvalorano la tesi di una visione agostiniana del Male. Tante figure, già prima di scomparire, «ci vengono descritte come Ombre, prive di una propria consistenza (…)»; e poi, «la perdita di temporalità: tutte queste figure sono, oltre che incorporee, al di fuori delle leggi e del naturale scorrere del tempo (…). – La perdita del proprio nome: … è la perdita di identità totale, della propria essenza, quasi della propria anima (…). L’Anello (…) che indossato, provoca simultaneamente la perdita di spazialità (invisibilità e, in tempi lunghi, consunzione del corpo) e di temporalità (arresto dell’invecchiamento), (…). (…) il proprietario dell’Anello che più ne ha subito gli effetti, Smeagol, perde il proprio nome e viene chiamato Gollum, e pare egli stesso incapace di riferirsi alle cose, (…) chiamandole col proprio nome corretto». E proprio in relazione a questa invisibilità che vi è la rinuncia all’Anello del Potere che omologa a tutti gli altri. Chi indossa l’Anello è simile agli altri e, pur credendo di detenere la chiave del potere, ne è irrimediabilmente soggiogato: è posseduto più che possederlo. Sceglie il Male, dunque rinuncia alla propria identità e si rende invisibile. La dicotomia bene-male non è però mai portata all’estreme conseguenze. Frodo, in realtà, sta per fallire la sua impresa, essendo anch’egli attratto dal potere dell’Anello, che viene distrutto grazie al suo precedente atto di pietà nei confronti di Gollum e all’amicizia senza confini con Sam. L’interpretazione che ne dà Marco Paggi è allo stesso tempo singolare e intrigante, corroborando in maniera sostanziale la tesi che vuole l’opera tolkieniana non ancora del tutto svelata. Paggi crede nello schema labirintico dell’opera nella quale molte risposte ancora sarebbero da scoprire. L’esperienza che ne verrebbe fuori è dunque «amorfa, inarticolata ed ineffabile, e dipende dal contatto che ciascuno di noi ha con i suoi dèi». La sua non confondibilità nel panorama culturale del tempo è causa ed effetto di tutto il clamore che poi ha irrimediabilmente suscitato, e la capacità e l’intuizione di creare un mondo parallelo è l’aspetto cruciale della sua opera. Tolkien fece in modo di non abbandonare questo mondo parallelo neanche da morto. Sulla tomba, dove fu sepolto insieme alla moglie, fece scrivere Edith Man Tolkien Lisithien 1889- 1971 e John Ronald Thiel Tolkien Beren 1892-1973, dove Luthien era la donna elfo che rinuncia all’immortalità per morire come il suo innamorato, il mortale Beren.

L'opera di Comisso è tutta una «Gioventù che muore». La delusione come destino e l'avventura (di Fiume) come parentesi troppo breve. Ma la sua arte rimane...Alessandro Gnocchi, Domenica 05/05/2019 su Il Giornale. Sì, Giovanni Comisso, lo scrittore dell'attimo, della notazione sensuale, tutto superficie. Va bene, è giusto. Però, cari critici, lasciatevi raccontare cosa succede a noi lettori. Dopo un anno dalla chiusura del libro, ancora ci divertiamo a rigirare nella mente le immagini di Gente di mare. Dopo 5 anni, sono ancora lì, nella nostra testa, le tempeste, le rade, il contrabbando, la morte del marinaio Angelo, il porto, il capitano, Enrico il mozzo. Dopo 15 anni, in effetti, quando guardiamo il mare, con quella sua luce bianca o quei lampi in lontananza, beh, insomma, ci viene in mente Comisso. Dopo trent'anni, ecco, un dubbio ci coglie, forse tardivo anzi decisamente tardivo. Se da tre decenni non riusciamo a osservare un'onda senza pensare a Gente di mare, forse tanto superficiale, tanto risolto nell'attimo dell'osservazione sensuale non può essere questo Comisso. Infatti non lo è. Per niente. Nato (1895) e morto (1969) a Treviso, Comisso, il primo Comisso, quello de Il porto dell'amore (1924), Gente di mare (1928), Giorni di guerra (1930) è il sogno. Il sogno che la gioventù sia eterna, che il mondo sia disponibile a ogni scorreria, che la vita abbia sempre il sapore del miele e delle pesche. La morte? Anche la morte si può accettare, a certe gloriose condizioni, in pieno sole, a dorso di mulo, in mezzo alla verde natura, per una giocosa fucilata del nemico, come in Giorni di guerra, sul fronte del Carso. Purtroppo il sogno è minato alla base, come Comisso scriverà nello splendido Lamento del conservatore (Henry Beyle, 2017), uscito nel maggio 1968, quando i giovani salivano sulle barricate, ignari «del cinico scorrere e mutare» del tempo che leva la maschera alla vita, rivelandone il «volto tremendo»: quello della vecchiaia. La delusione è dunque il nostro destino. È già evidente nell'esordio del Porto dell'amore, un diario molto sui generis dell'occupazione di Fiume (1919-1920), una gloriosa avventura sospesa tra nazionalismo e sensualità, la conquista (e poi la perdita) di un luogo dell'anima e della politica in cui nuove leggi si impongono con la forza ma prescrivono la dolcezza di un bacio scoccato in un bosco, a mezzanotte. Dopo tanta bellezza e tanta passione, l'aridità dell'età matura è un duro risveglio. Sono emozioni e pensieri universali. Per questo motivo non si riesce a dimenticare Comisso. In quanto alle imprecisioni grammaticali, alle indecisioni stilistiche, alla incerta costruzione dei romanzi d'invenzione... Come sopra, tutto vero. Ma cosa conta? Se la fragile giovinezza (dell'animo) e la purezza (dello sguardo) hanno avuto un poeta, questo è stato Giovanni Comisso. Le virgole non sono tutte quante al punto giusto? Ce ne faremo una ragione. Il luogo comune dice che Comisso è estravagante rispetto alla tradizione italiana, a parte un certo dannunzianesimo per così dire dimesso. Anche in questo caso, può essere. Ma che cosa dire di chi è venuto dopo di lui? I Sillabari dell'amico Goffredo Parise, anche se completamente originali nel loro enigmatico splendore, sono forse ipotizzabili senza Comisso? Certamente no.

Diamo un'occhiata rapida alla biografia. Comisso ha combattuto la prima guerra mondiale e ha occupato Fiume, agli ordini di Gabriele d'Annunzio. Ha scritto per molti giornali, soprattutto il Corriere della Sera e Il Mondo di Mario Pannunzio. Il suo migliore amico è stato Filippo de Pisis. Il grande Valery Larbaud avrebbe voluto lanciarlo in Francia su segnalazione di Eugenio Montale, stessa operazione riuscita nel caso di Italo Svevo. A proposito: e Montale? Sembra provenire da tutt'altro universo letterario. Cediamo la parola al poeta: «Ho cambiato case tante volte nella mia vita. Non erano della stessa dimensione queste case e spesso si trovavano in città diverse. I libri, a migliaia, sempre furono vittime di questi traslochi. Impietoso in ogni occasione, io che avevo libri fino nella stanza da bagno, li regalavo, li gettavo via. Anche di recente ho cambiato casa. E l'altra sera, andato in biblioteca, ho voluto rendermi conto dell'ultima decimazione prendendo a caso uno dei libri rimasti. Aperto vidi che era un Comisso. Eppure non mi ricordavo con piena coscienza di questa scelta, ma ne ero comunque rallegrato. Presi allora un altro scaffale, e ancora mi trovai in mano un Comisso. E così ancora e ancora... Mi resi allora conto di quale stella brillante e misteriosa vegliasse sulle mie scelte, la stella Comisso». Non ci si separa mai da questo scrittore... Eppure è proprio quello che è accaduto troppo a lungo. Comisso infatti è stato uno dei grandi dimenticati dall'editoria italiana. Ora La nave di Teseo provvede a sottrarlo all'oblio con una preziosa collana dove troverà spazio l'intera opera. Vasto programma: Comisso ha scritto tanto, secondo i critici perfino troppo. Può essere ma intanto ricominciamo a leggerlo, consapevoli che Comisso ha fatto di tutto pur di campare di sola letteratura e giornalismo (che coincide con la letteratura almeno nel caso dei lunghi reportage di viaggio). Il primo titolo della collana è programmatico: Gioventù che muore (La nave di Teseo, pagg. 222, euro 18, con una prefazione di Paolo Di Paolo, in libreria dal 9 maggio). Il tema del libro, uscito in prima edizione nel 1949, va dunque al cuore dell'ispirazione di Comisso. La storia d'amore tra Adele, una donna emancipata nell'Italia degli anni Trenta-Quaranta, e il non ancora ventenne Guido, scapigliato e avventuroso, attraversa il periodo buio della fine del conflitto mondiale. La coppia è travolta eppure resiste. Che l'amore sia più forte della morte? Ve lo lasciamo scoprire da soli. Comisso getta uno sguardo anticonformista sui mesi terribili che vanno dall'8 settembre 1943 alla Liberazione. Non c'è dubbio che sia in corso una guerra civile, non c'è dubbio che la carneficina proseguirà nonostante l'armistizio, non c'è dubbio che gli Alleati, in quanto a crimini, non siano sempre stati migliori del nemico. Il crudele bombardamento di Treviso, rasa al suolo con bombe incendiarie, è lì a ricordarlo sia ai personaggi del libro sia ai lettori. Detto questo, non aspettatevi un romanzo di guerra. Lo sfondo interessa a Comisso in quanto i caduti sono «gioventù che muore». Non c'è rammarico. Sono morti in modo onorevole. La vecchiaia raramente concede questa opportunità. La vecchiaia è lo spettro che incombe sui protagonisti. Adele, quarantenne, «aveva troppo creduto nella sua giovinezza come a una stagione senza fine». Guido è disincantato: «Non valeva la pena proseguire negli anni per diventare curvo e grosso come suo padre, che non avrebbe voluto rivedere; perché sarebbe stato come un guardarsi allo specchio». La morte a vent'anni non è vera morte. È un balzo dalla perfezione all'eternità, che evita l'umiliazione del declino fisico e mentale. Guido ha già rimpianti dolorosi: «Io ho un amico... e quando eravamo ragazzi, siamo scappati di casa per andare a vivere sulla riva di un fiume: rimanemmo quasi tutta l'estate, abbiamo mangiato pomodori crudi e pannocchie arrostite e frutta, che si andava a rubare, si viveva nudi, si dormiva in una capanna: sono stati i giorni più belli della mia vita». La lunga citazione serve a introdurre Guido Keller, modello (quasi) dichiarato del Guido romanzesco. Guido Keller fu aviatore, eroe di guerra, futurista, artefice dell'occupazione di Fiume, ufficiale prediletto da Gabriele d'Annunzio. Artista senza opere ma con molte azioni, si indignò per il Trattato di Rapallo, che istituiva lo Stato libero di Fiume, rispedendo a casa il Vate e i suoi legionari. Rapito dalla rabbia, Keller realizzò il suo capolavoro situazionista volando fino a Roma per scagliare sul Parlamento il famoso pitale contenente rape e carote per i conigli di Montecitorio, arrendevoli di fronte agli Alleati, amici nella guerra e nemici nella pace. Dalla sua vulcanica immaginazione, rimessa in ordine da Comisso, nacque il movimento battezzato Yoga, Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione. L'omonima rivista, scritta quasi per intero da Comisso, voleva essere la parte culturalmente più avanzata dell'impresa di Fiume. Yoga dibatte di abolizione del denaro, libero amore, eliminazione delle carceri, urbanistica, riforma dell'esercito. In campo artistico, Comisso esalta Filippo de Pisis e Giorgio de Chirico. Yoga era avanguardia ma fu superata (e svuotata di senso) dalla Carta del Carnaro, la costituzione promulgata da D'Annunzio e Alceste de Ambris. Keller e Comisso divisero anche la vita privata. Affittarono una villa tra le colline intorno a Fiume e si dedicarono a lunghe passeggiate nella natura. Keller, come il Guido del romanzo, amava il nudismo, arrampicarsi sugli alberi, dormire all'aperto e nutrirsi di insalata condita col miele. Nato nel 1892, aveva rischiato mille volte di morire in volo. Morì invece in un incidente automobilistico nel 1929. Era un uomo deluso, non c'era stata alcuna rivoluzione, il Vate aveva mollato sul più bello, il Duce aveva scelto il regime. In Gioventù che muore, Comisso celebra a ciglio asciutto il compagno di avventura e di riflesso la propria giovinezza fiumana. Comisso però non rimarrà un reduce tutta la vita. Saprà reinventarsi pur sapendo di essere inseguito, passo dopo passo, dal misterioso destino chiamato «morte». Alessandro Gnocchi

"Quando Comisso con la rivista Yoga capitanava gli scalmanati e sovranisti di Fiume". La studiosa ha dedicato un saggio al movimento degli Spiriti liberi, spiegandone le radici e la strategia politica: «Volevano un'Italia nuova E qui nel 1920 lo scrittore elaborò la propria estetica». Luigi Mascheroni, Domenica 05/05/2019 su Il Giornale. Stile, ribellismo, autobiografismo, sensualità, politica. Tutto parte e ritorna a Fiume, per Giovanni Comisso, uno dei nostri scrittori più individualisti e anarchici. Giovanissimo fu interventista, volontario nella Grande guerra e poi legionario a Fiume. Impresa alla quale Simonetta Bartolini ha dedicato anni di studio e il suo nuovo libro: «Yoga». Sovversivi e rivoluzionari con D'Annunzio a Fiume (in uscita per Luni).

Yoga è il nome della rivista fondata a Fiume da Comisso e Guido Keller. Un foglio leggendario, che però pochissimi hanno letto...

«Infatti: nel mio libro, in appendice, pubblico la trascrizione integrale di tutti gli articoli dei quattro numeri della rivista, uscita dal 13 novembre al 4 dicembre 1920. Era stampata nella tipografia Miriam, l'unica di Fiume, dove si stampava anche la Testa di ferro. Inchiostro e stampa al risparmio, visto l'isolamento della città. Impossibile sapere in quante copie. Non esiste neppure una collezione completa della rivista, almeno in un archivio pubblico. Ho trovato tre numeri alla Biblioteca nazionale di Roma e tre nel Fondo Comisso a Treviso, per fortuna non coincidenti».

Chi ci lavorava?

«Bella domanda. Era una rivista anonima, i pezzi non erano firmati, se non con dei simboli. Da un numero inviato ai genitori, con la sua firma a mano sopra i suoi pezzi, sappiamo che Comisso si siglava col simbolo dell'infinito. E comunque anche se il direttore di Yoga formalmente era Guido Keller, l'asso dell'aviazione, l'anima era Comisso. E sua è la maggior parte degli articoli».

Cos'è Yoga?

«La rivista di quello strano movimento - l'Unione di spiriti liberi tendenti alla perfezione - costituito a Fiume da quanti si oppongono alla vecchia guardia dannunziana, diciamo così più ragionevole. Loro sono gli scalmanati - secondo un termine di De Felice - ossia quelli che invocano l'azione, che non accettano le vari soluzioni che propongono Fiume come Stato indipendente o cuscinetto, ma vogliono a tutti i costi l'annessione con l'Italia. Sono quelli convinti che da Fiume possa risorgere una nuova Europa ormai corrotta dall'oro, dall'industria e dal ferro della guerra. Sono veri rivoluzionari, che in quel momento guardano alla Russia di Lenin...».

Il movimento Yoga era per l'amore libero, l'abolizione del denaro, tentato dall'ascetismo indiano e dal nudismo. Si è parlato di un'anticipazione del '68.

«E chi lo ha fatto secondo me è caduto in un equivoco. Non basta farsi di cocaina - tutti i piloti in quegli anni la usavano come eccitante - o andare in giro con divise rivisitate e colorate - una cosa tipica di ogni momento successivo alla fine di un conflitto - per farne degli hippy ante litteram. Di per sé non erano neppure futuristi... A Comisso interessavano De Chirico e la Metafisica. Semmai la grande invenzione di Yoga è il sovranismo - di derivazione quebecchese, nato nel 1867 per rivendicare l'autonomia del Quebec francofono dal Canada - cioè una fortissima rivendicazione di Fiume italiana e una battaglia a favore della cultura e della lingua italiane».

Cosa hanno rappresentato Yoga e Fiume nella vita di Comisso?

«Verrebbe da dire: tutto. A Fiume nascono i suoi due libri più belli, Il porto dell'amore e Gente di mare, che poi saranno pubblicati nel '24 e nel '28, interrompendo il diario di guerra, che infatti apparirà più tardi. E, soprattutto, a Fiume Comisso capisce cos'è stata davvero la guerra, si misura con l'impegno politico e civile, ed elabora sulla rivista Yoga la propria estetica e la propria poetica».

E dopo il Natale di sangue del '20, caduta Fiume, cosa fa Comisso?

«Torna a Treviso e comincia a essere Comisso. Studia, collabora coi giornali, inizia già a pensare alla sua autobiografia, che è forse il suo libro più importante, Le mie stagioni. In fondo, a Fiume Comisso aveva già fatto e pensato tutto quello che doveva scrivere e pensare nella vita».

·         La Dittatura Culturale Sinistra.

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 26 novembre 2019. Il compianto Vladimir Bukovskij fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico dalle autorità sovietiche per aver letto pubblicamente poesie considerate sovversive. Nel 1972 Bukovskij pubblicò in Italia un libro, ormai quasi introvabile, con un titolo piuttosto eloquente. Si chiamava Una nuova malattia mentale in Urss: l'opposizione. Si diceva, laggiù, che contro il comunismo non potesse agire che un pazzo, e a partire dal 1961 il ministero della Salute sovietico diramò specifiche direttive per il ricovero coatto in strutture psichiatriche di chi si rendesse colpevole di «atti sovversivi». È in questa nobile tradizione che sembra volersi collocare la starlette della psicanalisi italiana, Massimo Recalcati, già nelle grazie di Matteo Renzi, firma di rilievo di Repubblica e conduttore televisivo di Rai 3. Egli ritiene, infatti, che il sovranismo sia una patologia psichiatrica. Ascoltare per credere l' intervista che ha rilasciato ieri a Radio Capital, puntualmente ripresa proprio da Repubblica con il titolo: «Il sovranismo è una nuova malattia, un fatto psichico». Non si tratta di una forzatura giornalistica. Sull' argomento, infatti, il dotto Recalcati (Maksim Recalcatovic nella variante stalinista) ha scritto addirittura un libro (Le nuove melanconie, Raffaello Cortina editore) in cui spiega che oggi assistiamo all' azione di una «spinta compulsiva alla chiusura, alla solidificazione dei confini, alla loro trasfigurazione psicopatologica in muri propria di una nuova clinica securitaria». Esiste, continua lo psicanalista, un «inconscio fascista» o, meglio, «una tendenza fascista immanente al desiderio inconscio», cioè una spinta a «ri-territorializzare quello che la dinamica propulsiva del desiderio di vita tende a fluidificare e de-territorializzare». Tradotto: se siete contrari alle frontiere aperte, è per via del vostro inconscio fascista. Poi, certo, il fascismo imperiale le frontiere voleva superarle, ma sono particolari che a tovarisch Maksim non interessano. A lui preme dire che, se volete difendere i confini, siete dei malati di mente. «Brexit inglese, sovranismi nell'Europa orientale, tendenze populiste marcate in quella occidentale» sono «spinte reazionarie che mostrano chiaramente come il paradigma securitario nella sua inclinazione paranoica sia egemone nel dibattito politico». Siamo passati, teorizza Recalcati, dalla visione berlusconiana «fondata dal principio del godimento che si vuole libero dai lacci della Legge nel nome della libertà» a quella salviniana, che «esaspera il confine come nuovo oggetto pulsionale». Insomma, «il paradigma perverso è ruotato su sé stesso: la libertà assoluta si rovescia nella assoluta illibertà». Ecco il punto. Oggi assistiamo, dice l'esperto, alla «affermazione di un nuovo paradigma paranoico sul quale si è cementato il volto sovranista della destra italiana». Dunque, cari paranoici elettori della destra, vedete di correre ai ripari. Trovatevi uno psichiatra o per lo meno un bravo analista. Perché siete vittime di una nuova forma di malattia mentale: il dissenso dal pensiero dominante. Intendiamoci, non è mica una novità. Recalcati non riesce nemmeno a essere originale. Già Gilberto Corbellini del Cnr, tempo fa, aveva suggerito di somministrare ossitocina ai sovranisti per renderli più disponibili all' accoglienza. Più di recente, il presidente del Parlamento europeo - David Sassoli del Partito democratico - ha spiegato con serenità che «i partiti europeisti hanno deciso che i sovranisti e i nazionalisti devono essere tenuti a bada, perché il nazionalismo e il sovranismo sono un virus per un' Europa che dev' essere forte e unita». Già: votare a destra è un malattia, un virus da estirpare. Il bello è che questi illustri democratici sono gli stessi che menano il torrone sui «discorsi di odio», sulla «xenofobia dilagante» e sulla «discriminazione». Combattono l' odio poi descrivono l' opposizione come una malattia, una peste da sconfiggere, una psicopatologia da debellare. Tanto per fare un esempio, Giuseppe De Rita del Censis, nel 2018, parlò di «sovranismo psichico». Ancora meglio ha fatto Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, già presidente della Cei. Nel maggio scorso ha chiarito che «sovranismi e populismi, come tutti gli "ismi", sono delle patologie. Quindi devono essere assolutamente curate». Non stupisce, dunque, che ci siano in giro sacerdoti come Bartolomeo Sorge, ex direttore de La Civiltà cattolica, pronti a sostenere le peggiori castronerie. Ieri Sorge, su Twitter, ha dato testimonianza del suo amore per le sardine: « Il pesce delle piazze di oggi (le "sardine") è - come il pesce dei primi cristiani - anelito di libertà da ogni "imperatore" palese o occulto». Forse Sorge ha esagerato con il vino da messa: i sovranisti nel nostro Paese stanno all' opposizione, e c' è un sacco di gente che vorrebbe spedirli nelle catacombe (o direttamente nelle fogne). Le sardine, invece, stanno con il potere e chiedono che l' opposizione venga silenziata. Proprio come avveniva in Unione sovietica, dove il dissenso era soppresso fra i battimani degli intellettuali di regime.

F. Bor. per “la Verità” il 28 novembre 2019. Massimo Recalcati vuole querelarci. Lo ha comunicato ai suoi fan tramite Facebook: «I quotidiani La Verità e Il Giornale mi hanno attribuito parole mai scritte, né mai pronunciate ("I sovranisti sono malati di mente"; "Ci sono alcuni che hanno l' inconscio fascista") che hanno scatenato insulti e odio sui social nei miei confronti», ha scritto. Secondo il noto psicanalista, il nostro articolo uscito un paio di giorni fa «è la cifra della condizione penosa in cui versa un giornalismo facinoroso che non è nemmeno in grado di controllare le sue fonti». Motivo per cui il saggista e conduttore televisivo ha deciso di avviare un' azione legale: «Ho incaricato i miei legali di procedere per ottenere giustizia e risarcimento», spiega sul social network. Purtroppo per Recalcati, le fonti le abbiamo controllate eccome. Nel suo libro Le nuove melanconie (Raffaello Cortina) egli parla di «inconscio fascista» o, meglio, di «una tendenza fascista immanente al desiderio inconscio», che sarebbe una spinta a «ri-territorializzare quello che la dinamica propulsiva del desiderio di vita tende a fluidificare e de-territorializzare». Nello stesso volume, lo psicoanalista descrive l'«affermazione di un nuovo paradigma paranoico sul quale si è cementato il volto sovranista della destra italiana». Ed è sempre a sovranisti e affini che egli attribuisce una «spinta compulsiva alla chiusura, alla solidificazione dei confini, alla loro trasfigurazione psicopatologica in muri propria di una nuova clinica securitaria». «Trasfigurazione psicopatologica», «paradigma paranoico»... Non ci sembrano proprio frasi di grande gentilezza nei confronti di chi vota a destra. Anzi, a dire il vero ci sembra che Recalcati ce la metta tutta per patologizzare quelli che a tutti gli effetti appaiono come i suoi avversari politici, ovvero i sovranisti. Sintetizzare con la formula «malati di mente», che noi abbiamo utilizzato, non è così fuorviante, che ne dite? Eppure, Recalcati si è risentito, sostiene che il suo pensiero sia stato pervertito e ci ha fatto scrivere dal suo legale. Ci sentiamo tuttavia di dargli un suggerimento: se deve querelare qualcuno per avergli attribuito pensieri non suoi, allora dovrebbe querelare anche Repubblica, cioè il giornale con cui collabora. Nel pubblicare sull' edizione online l' intervista di Recalcati a Radio capital con Massimo Giannini, infatti, Repubblica.it ha titolato: «Massimo Recalcati: "Il sovranismo è una nuova malattia, un fatto psichico"». Beh, se il sovranismo è una nuova malattia, allora i sovranisti sono dei malati. Se il sovranismo è un fatto psichico, ne deduciamo che i sovranisti siano malati di mente. Il titolo in questione è rimasto online molto a lungo, e non ci risulta che lo psicoanalista abbia avviato azioni legali. Visto che ora vuole querelarci, lo invitiamo a fare altrettanto con Repubblica. O, in alternativa, a risparmiarci le prediche sul giornalismo «facinoroso».

Augias fa la lezioncina: "Essere di destra è facile". Il giornalista, ospite Giovanni Floris a DiMartedì, dice la sua sul dibattito sullo ius soli e attacca le posizioni della Lega di Matteo Salvini. Pina Francone, Mercoledì 20/11/2019, su Il Giornale. "Essere di destra è facile, perché essere di destra vuol dire andare incontro a quelle che sono le spinte istintive che tutti, o quasi, hanno…". Così Corrado Augias pontifica in televisione parlando di destra e di sinistra. Ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, il giornalista (con un passato al Parlamento Europea da indipendente del Partito Democratico della Sinistra) dice la sua sul dibattito sullo ius soli e ius culturae, che in questi giorni sta tenendo banco. Al suo fianco, nello studio del talk show di La7, siede Pier Luigi Bersani in qualità di esponente della sinistra italiana. Lo scrittore, dunque, spiega quella che secondo lui sarebbe la differenza tra essere di destra ed essere di sinistra: "Quelle spinte istintive vengono invece moderate te e indirizzate magari meglio dal ragionamento e dalla conoscenza degli argomenti e da un senso nobile di altruismo, tipico della sinistra". Insomma, la solita doppia morale e presunta superiorità della sinistra rispetto alla destra. L'84enne ex storico volto di Rai Tre veste i panni del professorone pontificando su concetti che appassionano più i salotti radical chic che il Paese reale. Dunque Augias, non pago, prosegue nella sua filippica: "Essere di sinistra è più difficile, perché gioca su un terreno in cui la conoscenza degli argomenti è fondamentale. Quello di destra dice 'a me gli immigrati fanno schifo' e il suo discorso finisce lì...". E aggiunge: "E dico proprio questo perché noi viviamo ancora il trauma del 2016 e del 2017, quando arrivarono 36mila persone in un’estate, tutti profughi. Quello fu un trauma collettivo sottovalutato dalla sinistra: allora, solo l’ex ministro Marco Minniti ci pensò. E noi, oggi, viviamo ancora sull’onda di quel trauma lì…". È qui che imbeccato dal conduttore, prende parole l’ex segretario del Partito Democratico, che dà la sua chiave di lettura: "Destra e sinistra esistono da sempre, da duemila anni e così sarà anche in futuro. Il punto, semmai, è un altro: ora come ora non si trovano più in giro quelli di destra e di sinistra". E poi fa un esempio quanto mai azzeccato per spiegare il fallimento della sinistra italiana: "Oggi c’è gente che si ritiene di sinistra e vota Salvini…". Infine, Bersani chiosa così: "Allora, quello che conta è il progetto, cioè l’idea di un Paese che possa tirare un po’ da tutte le parti. Io credo più a questo, quindi destra e sinistra ci sono, ma nessuna persona la do mai per persa…".

Quelli di destra? Tutti ignoranti. Il razzismo di Augias.  Nicola Porro il 20 novembre 2019. Ieri sera, durante la puntata di Di Martedì, Corrado Augias ha fatto una lezioncina a tutti noi su cosa voglia dire essere di destra e di sinistra: “È facile essere di destra”, ha detto il giornalista e conduttore tv. “Significa seguire gli istinti e non il ragionamento. Essere di sinistra, invece, è più difficile perché gioca sul terreno della conoscenza degli argomenti”. Insomma, chi è di destra è ignorante, chi è di sinistra acculturato (ragionevole).

PS. Ma quando la sinistra evoca le manette per gli evasori o alimenta l’invidia sociale per i più abbienti non segue gli istinti?

La cattiva maestra e il maestrino Augias. Nicola Porro 2 anni il 20 novembre 2017. Corrado Augias è un signore che ha sempre militato dalla parte giusta e che, pur partigiano di un’ideologia, ha sempre avuto quell’aria tipica di chi si sente sempre sopra le parti. Dietro i modi garbati, non ha esitato a censurare chi non la pensava come lui. Forse censurare è una parola forte, non prendiamoci troppo sul serio, diciamo che il suo può essere visto solo come il solito comportamento vigliacchetto. E chi scrive lo sostiene a ragion veduta: circa un anno fa, i suoi autori mi chiamarono prima per invitarmi e poi per disdire l’invito a presentare il mio libro appena uscito La disuguaglianza fa bene nel suo programma in Rai. Tutto questo per dire, che dovrebbe finirla di fare il maestrino. E invece no, è più forte di lui: così nella sua rubrica su Repubblica torna sulla vicenda della “cattiva maestra” con un’insinuazione nei confronti di Matrix davvero inaccettabile: “Il servizio giornalistico di Matrix ha dato alla Cassaro quella visibilità per evidenti ragioni editoriali”. Evidenti ragioni editoriali, caro signor Augias, vuol dire dare una notizia, cosa che forse a lei non è mai successo nella sua intera carriera, ma a casa nostra se una maestra elementare augura ai poliziotti la morte è una notizia. Le ragioni editoriali sono quelle che hanno evidentemente contraddistinto tutta la sua vita professionale in cui non contano i fatti, ma le opinioni. Quelle sue, ovviamente.

Sul fascismo o sono ignoranti oppure in malafede. Alessandro Gnocchi il 20 febbraio 2019.8 mesi fa. Il nuovo mantra della sinistra in questi giorni è che l’Italia non ha veramente fatto i conti con il fascismo. L’hanno scritto giornali, Repubblica, l’hanno detto trasmissioni televisive come Otto e mezzo e politici. Ma io mi chiedo: come si fa a sostenere questa tesi? Se c’è un Paese in cui non si parla d’altro che di fascismo è proprio l’Italia. Sul tema, abbiamo avuto letture e riletture da parte degli storici di sinistra (che sul tema hanno avuto per anni una specie di esclusiva) e di quelli di destra. Sul primo fascismo abbiamo degli studi fondamentali di Emilio Gentile, che ci spiegano come all’inizio fosse un movimento ancora senza un’ideologia ben definita; per gli anni successivi abbiamo gli studi altrettanto fondamentali di Renzo De Felice e quelli di Francesco Perfetti, Giuseppe Parlato e tantissimi altri storici che hanno sviscerato il tema sotto ogni punto di vista. Dunque, sostenere che non abbiamo fatto i conti con il fascismo vuol dire essere in malafede o ignoranti: non c’è una terza soluzione. La destra, peraltro, ha fatto i conti anche con il peggio del fascismo: le leggi razziali e l’ideologia razzista. Al punto che la nuova destra ispirata da Alain Benoist e altri intellettuali non solo ha rinnegato il razzismo, ma ha assunto persino posizioni terzo mondiste e multiculturaliste. Ma tutto questo è completamente sconosciuto agli intellettuali di sinistra, che vengono insigniti di questo titolo anche quando mostrano un’ignoranza clamorosa di quello che è stato detto, studiato e pubblicato negli ultimi settant’anni.

Augias: Buttafuoco e Sallusti al contrattacco. Nicola Porro il 36 novembre 2019. Durante l’ultima puntata di Quarta Repubblica sono state affrontate le dichiarazioni che il giornalista Corrado Augias ha fatto sulla differenza che c’è tra l’essere di destra e l’essere di sinistra. “È facile essere di destra – ha detto il giornalista e conduttore tv – significa seguire gli istinti e non il ragionamento. Essere di sinistra, invece, è più difficile perché gioca sul terreno della conoscenza degli argomenti”.

Ecco la risposta di Alessandro Sallusti e Pietrangelo Buttafuoco.

Pietrangelo Buttafuoco. Il Lapsus di Corrado Augias...tu l'hai definito autorevole esponente della cultura italiana...tanto di cappello. Sto sugli attenti. Però io dico una cosa, Nicola, chi è di destra segue, e Sallusti lo sa bene, l'insegnamento di Leo Longanesi: irresistibilmente attratti dalle idee altrui. Chi è di sinistra, invece, ha da se il vento della storia. Liscia il pelo dal verso giusto. Ha quindi la consapevolezza di essere nell'assoluto bene e guarda con disprezzo inevitabilmente chi sta a destra. Ve la ricordate quella meravigliosa vignetta di Guareschi quando torna da Lager? E dice: dove va il mondo? A sinistra! Allora io vado a destra. Disse lui. E Augias queste cose non le può capire, poverino, perchè lui è veramente una persona straordinaria. Però io mi aiuto con un canone ben preciso. Ricordate quella straordinaria imitazione di Carla Bruni fatta da Fiorello? Ecco, lui è perfetto, perchè per esempio, ovviamente per lui, basta un rutto e si diventa elettori di Maria Stella Germini. Con un rutto già sei nel centrodestra. Lui poverino, invece, ricorre a quella categoria: il rutto è la sortie de gas feton, che vuol dir: un pipito. Lui cos'è? E' soltanto una sottomarca si Carla Bruni. Chi? Augias.

Alessandro Sallusti. Augias è un poco autorevole esponente del comunismo italiano e per di più è un comunismo ipocrita, perchè nega di essere comunista e si comporta da comunista. Quindi noi abbiamo un piccolo complesso  di inferiorità ed il l'ho notato, vi faccio perdere solo trenta secondi, ma questo si riflette e centra con le sardine. Un po' si sere fa ero in trasmissione con un sardino e gli ho detto: scusi sardino, ma lei, io non ho capito lei cosa vuole. E lui mi ha risposto: io vorrei svegliarmi il 29 gennaio a Bologna e non essere sotto una dittatura. Il 29 gennaio è il giorno dopo le elezioni a Bologna. Questo cretino che legge Augias non sa che ogni mattina 10 milioni di lombardi,  5 milioni di piemontesi, 5 milioni di veneti, tanto per fermarsi lì, di ogni colore e tendenza politica, si svegliano ogni mattina e non vanno in montagna a fare i partigiani, ma vanno a lavorare perchè in quelle regioni governate dal centro destra il lavoro c'è e leggono liberamente tutti i libri e tutti i giornali che in quelle regioni vengono editati liberamente e senza alcun problema. E vanno negli ospedali con grande  serenità perchè in quelle regioni il centro destra ha messo in piedi una sanità che garantisce più o meno tutti. Capisce che stiamo parlando oltretutto non solo di comunisti, ma di cretini. 

Aspettando Sarkò. PietrangeloButtafuoco il 23 novembre2019 su Quotidiano del Sud. La sentenza di Corrado Augias ormai è totem: la destra è bruto istinto mentre la sinistra è fatica di una qualità alta. Basta un rutto e si è centrodestra. A sinistra, invece, ci si impegna a sdegnare la cafonaggine. Chi è di sinistra, al seguito di Augias, è superiore, si stacca dalla volgarità e diventa appunto Augias. Un gradino sotto l’eccellenza. Una sottomarca, comunque. Una specie di Carla Bruni che non ha ancora un suo Sarkò.

Augias spara a zero su Buttafuoco? Un maestro senza più alunni diligenti. Francesco Marotta del 7 Novembre 2014 su Destra.it. Corrado Augias questa volta ha fatto straripare la teiera. Davvero una cosa difficile per l’imperturbabile giornalista e scrittore dell’intendere la cultura a capo verso. Una semplice questione di punti di vista. Mercoledì sera a Otto e Mezzo, il programma diretto da Lilli Gruber su LA7 alle 20.30 (il video integrale potete rivederlo nella nostra rubrica Televisionando) , l’imprevedibile Pietrangelo Buttafuoco ha sparigliato le carte in tavola. La pagina delle lettere del quotidiano La Repubblica, curata dall’ultimo “dandy” del liberismo culturale della sinistra italiana, riceverà parecchie lettere appassionate. Il conduttore televisivo, scrittore, giornalista ed ex politico, ha finito i pasticcini deliziosi dell’auto-compiacimento culturale, che, durante la trasmissione, sono stati ridimensionati a briciole e si sono rilevati per lui indigesti. Per una volta, al suo fianco, non c’era traccia del solito ospite e di nessun alunno perfetto a cui somministrare racconti storici, concettualmente viziati e le abituali biografie, scandalistiche, di illustri personaggi. Purtroppo, solo per una manciata di minuti, uno dei suoi interventi televisivi, spesso accomunati da una deontologia dell’informazione somigliante all’incedere di un convegno “unitarista universalista”, non è andato a buon fine. A tradirlo è una passione in particolare: la fatica di vestire quotidianamente i panni da Metropolitan Country e quell’aria da Hugh Grant dei primi anni ’90. Prossimo a ripercorre le strade della letteratura tutto logica e raziocinio. Una pecca che persino le pie adoratrici di Kensington, risvegliatesi tardone, hanno notato; smettendo di strizzare l’occhiolino e turandosi l’orecchio con le dita durante le sviolinate dell’ex Visionario di Charles Darwin. Ma che cosa ha spinto Augias a dileggiarsi con due affermazioni degne di Tomás de Torquemada? Durante la trasmissione i due ospiti della Gruber, conversavano pacatamente sul ruolo della religione nella società. All’improvviso a Buttafuoco, viene in mente la sciagurata idea di citare Voltaire e la sua teoria dei tre impostori: Mosè, Gesù e Abramo. Cosa che ha fatto imbestialire il bel Corrado, che non ci ha pensato due volte a trattenere la sua vena inquisitoria, rispondendo per le rime:« e qui viene fuori il tuo antisemitismo». Appena dopo, quando il “Moro” di Catania illustrava la sua ultima fatica letteraria, I cinque funerali della signora Goering (Mondadori), ecco che con il solito charme e con la sveltezza di chi è in difficoltà, di quelli che come lui nella vita non si sono mai fatti mancare nulla, tranne un contraddittorio, pone una domanda che vuole essere un trabocchetto inaspettato al suo interlocutore: «perché sei così affascinato dal nazismo»? Mancavano solo gli applausi finti dei talk show d’Oltremanica e lo sgambetto programmato, avrebbe richiamato l’attenzione dei patroni di un pulpito serale. Il romanzo di Buttafuoco che narra le peripezie dei coniugi Göring è solo un pretesto? Oppure, i “segreti” sviscerati da Augias su Roma, Londra, Parigi e New York, comprese le varie inchieste su Maria e Gesù, hanno sortito un effetto onnipotente ? Nulla di questo. Nel rispetto delle credenze altrui e con semplicità, è bastata un’ospitata per scompaginare le speranza dell’informazione comportamentale (mediata) e dell’approfondimento mediatico. Delle cerchie ristrette della cultura che deve essere in mano a pochi. Forse, quei riti di chi odia a prescindere chi la pensa all’esatto opposto e i loro officianti, qualcosa temono. Quando la paura pronunciata lentamente, tradisce i professori.

Corrado Augias, super stipendio: l’intellettuale di Rai 3 guadagna più del Direttore Generale. Marco Leardi giovedì 14 giugno 2018 su davidemaggio.it. Chi ha detto che la cultura non paga? In Rai, dove le bizzarrie sono all’ordine del giorno, accade l’esatto opposto. E si tocca pure l’esagerazione. E’ il caso di Corrado Augias, l’ottantenne giornalista conduttore di Quante Storie: per il suo programmino intellettual-chic in onda su Rai3, infatti, il canuto scrittore si porta a casa uno stipendio da star. La cifra – rigorosamente a tre zeri – sta scatenando mormorii a Viale Mazzini. Ci risulta infatti che il compenso pattuito dal servizio pubblico con il conduttore sia di 240 mila euro (il massimo previsto dal tetto sugli stipendi Rai), cui vanno però aggiunti i diritti d’immagine. Secondo un calcolo approssimativo, quindi, l’ottuagenario conduttore si avvicinerebbe alla redditizia soglia dei 300 mila euro. Ad occhio e croce, insomma, con queste cifre il giornalista e collaboratore di Repubblica supererebbe per busta paga pure il Direttore Generale della Rai, Mario Orfeo, che – secondo quanto dichiarato dalla stessa Rai per motivi di trasparenza – nel 2017 ha percepito 240 mila euro. Non male per il conduttore di un programma che parla di libri con austero tono professorale e che, pur registrando ascolti sufficienti, non si può certo considerare di punta per la rete diretta da Stefano Coletta. La notizia del super stipendio di Augias, inutile dirlo, ha suscitato parecchio stupore nel CdA Rai, dove è stata riferita di recente, e malumore tra gli addetti ai lavori di Viale Mazzini. E poi dicono che con la cultura non si mangia…

Caro Augias, essere di destra in Italia non è facile. Francesco Giubilei il 21 novembre 2019 su Il Giornale. Premetto che ho stima del Corrado Augias letterato, ho letto vari suoi libri e alcuni sono di valore. Ascolto con interesse le sue riflessioni sulla letteratura, un po’ meno quando parla di politica, ma questa volta in una trasmissione televisiva si è davvero lasciato andare a un’affermazione fuori luogo e offensiva. “È facile essere di destra. Significa seguire gli istinti e non il ragionamento. Essere di sinistra, invece, è più difficile perché gioca sul terreno della conoscenza degli argomenti”. Ci vuole coraggio per sostenere che sia facile essere di destra nel nostro paese. Le persone di destra sono ogni giorno marginalizzate, additate, censurate, quando non insultate per le proprie idee. Quante volte ci siamo sentiti dire: “è una persona intelligente, peccato che sia di destra” oppure “è una brava persona, non capisco come faccia ad essere di destra”, come se avere idee di destra fosse un crimine. Affermare, come dice Augias, che non si possa essere di destra e avere una “conoscenza degli argomenti” significa non solo mistificare la realtà ma dimenticare il contributo che le persone di destra hanno dato a questo paese: dall’imprenditoria alla cultura, dalla politica alla società civile. Ma la destra, caro Augias, la vera destra, non solo è preparazione e competenza, ma anche rispetto, educazione, nobiltà d’animo e di spirito. La vera destra è forma e sostanza, è gentilezza e rigore, è ordine e solidarietà, è meritocrazia e rispetto dell’autorità, la vera destra ama la propria terra e conserva la natura. Custodisce la propria identità ma è aperta al confronto, ama i propri valori ma non rinnega l’innovazione, è tradizione e libertà. Pensa che essere tutto ciò sia facile?

 “Corrado Augias colonna del servilismo intellettuale”: Delmastro a muso duro. Il Secolo d'Italia giovedì 21 novembre.  “Corrado Augias, immarcescibile colonna del servilismo intellettuale in Rai, è riuscito a ragliare la sua opinione su destra e sinistra: la destra è brutale istinto, la sinistra ragionamento e cultura. Abbiamo ancora bisogno di questi sinistri talebani della presunta superiorità etica e morale della sinistra?”.  E’ durissima la risposta di Andrea Delmastro al volgare delirio di Corrado Augias. Hanno dell’incredibile le gravi offese pronunciate dal giornalista di sinistra, editorialista di Repubblica, nonché volto noto del giornalismo colto della Rai. Lo sproloquio  è andato in onda durante la trasmissione Di Martedì condotta da Giovanni Floris. Tali affermazioni non possono essere derubricate con disinvoltura. Delmastro è magistrale nella sua replica: “L’Italia ha bisogno di essere una normale democrazia dell’alternanza, liberandosi di questi talebani che, a noi di destra, evocano un solo istinto: la pernacchia liberatoria….con tanti saluti per la sua prosopopea pagata dai contribuenti, anche quelli incolti di destra”. Col suo fare sobrio e felpato lo scrittore ha veicolato un razzismo intellettuale inaccettabile. Non è nuovo del resto, il conduttore tv alle invettive virulente contro il mondo della destra. Paradossale che tutto ciò arrivi da uno che invoca ragionamento, cultura, razionalità e umanità. Le reazioni all’insensato intervento dello scrittore non sono mancate: “Scusate, ma se la Commissione Segre ha un senso, intendo denunciare all’ attenzione della medesima le esternazioni di Augias Corrado, nato a Roma il 26 gennaio 1935, professione giornalista di Repubblica”, ha scritto Giovanni Sallusti su Libero. Già, si tratta dell’unica forma di razzismo tollerata dai buonisti radical-chic: il  razzismo dichiarato in base alla presunta, odiosa, superiorità della sinistra. Una superiorità considerata premessa di ogni ragionamento. La “pernacchia liberatoria” ci sta tutta.

Anna Bandettini per “la Repubblica il 20 novembre 2019. Non fatevi sviare dal titolo, che si riferisce alla sorpresa finale da non anticipare. Certo, c' entrano i suoi commenti e i suoi editoriali, ben ottomila, che dal 2001 scrive nella rubrica quotidiana su Repubblica e prima ancora sull' Unità, ma " L'Amaca di domani" è innanzitutto uno spettacolo teatrale, con la regia di Andrea Renzi di Teatri Uniti, dove Michele Serra è autore e interprete. Sul palco, il giornalista, editorialista, commentatore apre la sua " bottega" di osservatore severo e ironico della realtà, smonta e rimonta la macchina della scrittura che gli permette ogni giorno di dare una opinione ai lettori, confessa le proprie debolezze, le proprie manie, ma soprattutto spiega quanto sia importante la parola, quanto sia necessario usare bene le parole, perché "parlare bene ci fa capire il mondo e ci da dignità", dice Serra che sta portando il suo spettacolo in giro per l' Italia da domani al Teatro Brancaccio.

Un esperimento nuovo anche per lei. Come è nato?

«Tutto è partito da un libretto che ho scritto due anni fa "La sinistra e altre parole strane" che avevo presentato in un reading al Festival di Spoleto. Un trattatello sulla fatica quotidiana dello scrivere, un'analisi rispettosa ma anche ilare del mio ruolo di commentatore con alcune riflessioni sulla scrittura e che mi ha fatto capire che l' argomento andava sviluppato. Alla fine è diventato uno spettacolo, secondo me molto politico».

In che senso?

«Perchè parlare della necessità della parola è una rivendicazione politica di bruciante attualità. Nel discorso pubblico sempre più spesso la parola è diventata sciatta, banale; c' è chi pensa basti un tweet, uno slogan per raccontare ciò che succede. Siamo in un momento davvero rattristante. Io evoco antiche assemblee in cui l'operaio si alzava e diceva "scusate se parlo male ho fatto la quinta elementare"».

Adesso nessuno lo direbbe più.

«Appunto. Ma quell'operaio sapeva che usare le parole giuste è un modo per partecipare alle cose del mondo. Per questo parlo di rivendicazione politica: la conoscenza, la cultura sono armi contro la più profonda delle discriminazioni che è quella culturale. Nello spettacolo, certo, lo racconto attraverso divagazioni e racconti personali, dalle parole più usate nelle "amache" ad alcuni vecchi titoli di giornali davvero esilaranti Ma soprattutto racconto come la difesa dell' integrità delle parole ci dà dignità e senso di comunità».

Come mai ha scelto di dirlo attraverso il teatro?

«Perchè il teatro fantastico, è un tempietto dove rifugiarsi, il luogo della parola e dove si ascolta la parola. E poi col pubblico si stabilisce una complicità immediata, hai davvero il senso di una comunità».

E fare l' attore le piace?

«Mi trovo sempre meglio, ogni replica supero sempre più l' impaccio di non essere attore. Non è facile imparare a 65 anni un nuovo mestiere, ma ho il vantaggio che sono materiali miei, non è che devo fare un grande sforzo per parlare di scrittura basta guardare nei miei cassetti».

Che ci fa in scena una mucca finta a grandezza naturale?

«Ah quella... è perchè amo le mucche. E poi in scena c' è anche un'enorme pila di fogli di carta, che sono le ottomila opinioni, quella specie di mappazza che mi rappresenta e che contrappongo alla mucca che è natura, silenzio. Come ripeto spesso: beate le bestie che non devono fare la fatica di parlare».

Ogni giorno noi italiani subiamo la dittatura culturale di sinistra. Nicola Porro il 23 luglio 2019. Un giovane commensale ci scrive e ci dice quanto sia difficile essere di destra alla sua età in questo Paese, ma è nulla rispetto a quanto sia difficile essere un attore e non essere di sinistra. Ci scrive un altro giovane commensale e vale la pena leggere cosa ci dice del suo mondo, nel quale chi non la pensa come loro è meglio che taccia. Seguo sempre la tua rassegna stampa tutti i giorni su Facebook e leggo i tuoi articoli tramite il tuo sito. Io lavoro come attore per cinema e televisione, ho 28 anni. Non ti scrivo per dirti chi sono ecc, ti volevo semplicemente ringraziare per il lavoro che svolgi, lo fai in modo sincero e pulito. Stiamo vivendo un momento politico italiano che, a parere mio, è folle. E quello che è ancora più folle è tutto lo schifo che ci sta dietro… Ti rendi conto che io, nel mio ambiente, non ho la libertà di esprimermi in tutta sincerità? Lo sai che se uno dice qualcosa contro il Pd, o contro gli ideali “di sinistra”, viene distrutto? Ti rendi conto anche tu del disagio che stiamo vivendo negli ambienti artistici? La verità è che lo sai ben meglio di me. Per questo ti stimo: perché lotti e sei fortunato che lo puoi fare. È una cosa ignobile nel 2019 parlare di fascismo quando il fascismo non c’è. Quello che c’è e ci sarà sempre è la gente deficiente. Ed è ancora più penoso continuare a negare la dittatura mediatica di sinistra che ci governa da decenni. E dire che io sono giovane e quello che sento lo percepisco da soli 7 anni… ma credo che questa ipocrisia esista da tanto tempo. Io penso che concetti come “fascismo” e “comunismo” vadano messi alla pari e tolti dalla bocca delle persone sbagliate. Non facciamo altro che parlare di fascismo: sì, certo, perché ci ha fatto tanto male. Ma perché inneggiare al “comunismo”? Qual è il senso? Io credo che i miei coetanei del comunismo non sappiano niente, anzi, sono fortunati perché ne hanno sentito solo parlare… chiediamolo ai russi, sentiamo da loro cosa ne pensano dell’unione sovietica. Bah, davvero, cosa da matti… La gente comune non lo sa quanto è difficile ogni giorno accettare in silenzio una dittatura di sinistra che strumentalizza il concetto di “Arte”. L’arte non deve essere politica, o per lo meno, se proprio vuole esserlo deve dare spazio sia ai concetti di Sinistra e sia a quelli di Destra. Alla pari: 50 e 50. Purtroppo non è così… se sei un attore devi essere di sinistra, perché se no pensano che tua sia pazzo, un fascista, un Salviniano, uno contro Pasolini. Questa cosa mi fa incazzare a livelli stratosferici. Ma questa cazzo di libertà di pensiero dov’è finita? Questa meravigliosa libertà, che è solo concessa a gente di sinistra, perché non da spazio anche agli altri? Sei bloccato, immobile davanti a un sistema così grande che ormai ha deviato le menti di tanti e per questo tu sei impotente. E non potrai mai competere con la sinistra, perché non te lo permetterà mai. Non voglio annoiarti, ma mi faceva piacere condividere con te e la tua redazione questo mio pensiero che mi opprime ogni giorno: “Riusciremo ad avere la libertà di pensiero?”; “Ce la faremo a farci accettare per quello che siamo senza essere chiamati fascisti?” Ho grandi dubbi e tanta paura. Siamo un paese allo sbando, che nonostante tutto amo e odio. A voi di sinistra, borghesi, che state a casa a guardare i telegiornali sperando che l’Italia vada in rovina, vi dico una cosa: “Ai ragazzi come me non frega niente di quello che pensate, non ci interessa ascoltare quello che dite, perché la verità è che se si vuole cambiare il mondo bisogna farlo partendo dalle nostre vite. Proviamo ad alzarci alla mattina e a cercare di fare del bene alle persone che incontriamo, proviamo a dare la dignità alla uomo e alla donna che ci sta accanto prima di sperare che si ribalti qualche barcone in mare augurando la fine di un governo “fascista”… non dico che bisogna, ma almeno proviamo ad essere meno ipocriti…

·         Emarginato se non sei di sinistra.

Lavinia Capritti per OGGI il 26 luglio 2019. Signora Ralli ma e vera questa storia? Una sera era a cena con la Magnani, Sergio Amidei e Marisa Merlini. La Merlini, che aveva recitato nel teatro di rivista durante il fascismo, per provocare il comunista Amidei, porto un libro su Mussolini. Lo tiro fuori tra il primo e il secondo, Amidei non ci vide più, tirò un pugno fortissimo alla boiserie e si ruppe il braccio. Cosi, per tutto il mese e mezzo successivo rimase con il braccio perennemente alzato in un saluto romano. «Certo che è vero, lo può scrivere». Giovanna Ralli, a 84 anni, ha il piglio di una trentenne in carriera, un trucco perfetto (che si fa da se), una voce magnetica e una risata contagiosa. Seduta nel suo salone ai Parioli, ascolta curiosa le domande, risponde solo a quelle a cui ha voglia di rispondere, e si preoccupa che ci sia acqua e caffè. Indossa, anche se siamo in penombra, occhiali fumè perchè girava i primi piani con i “bruti” (imponenti fari in grado di generare fasci luminosi) e la sensibilità dei suoi occhi e cambiata. Da un lato ha il ritratto che le fece Guttuso, dall’altro quello che le fece Carlo Levi. In un’altra parte della casa, ben incorniciata, c’è la dichiarazione d’amore di Almodovar verso il cinema italiano e la Ralli in particolare, fatta all’epoca di Volver.

Da dove cominciamo?

«Dall’inizio, avevo 13 anni e non è che volessi fare l’attrice, ma evidentemente avevo talento. Feci la generica per Eduardo De Filippo, conobbi Fellini che mi chiese: “Ti piacerebbe fare il cinema?”. Risposi: “Quanto mi date al giorno?”».

Non ha recitato solo per loro due, è stata l’attrice di Rossellini.

«Il cinema era della sinistra, Rossellini, Amidei, appunto. Cominciarono tutti a regalarmi libri, quando mi fu regalato Guerra e pace l’ho dovuto leggere sei volte. Avevo 15 anni e frequentavo queste persone».

Jerry Calà: «Lavora solo chi è di sinistra». E la dirigente Pd: «Non fai ridere, sei un cretino senza talento». Pubblicato venerdì, 26 luglio 2019 da Antonio Crispino su Corriere.it. Calogero Calà, in arte Jerry, non è nuovo a incursioni nella politica. Niente di memorabile, come del resto le sue ultime apparizioni in televisione e al cinema (a dire la verità un po’ datate). E così, l’attore - icona degli anni ‘80 - ha colto l’occasione di un’intervista al Giornale per spiegare la sua assenza da grandi e piccoli schermi: «Se non lavoro più è perché non odoro di sinistra e non invoglio i registi. Non è una lamentela, soltanto una amara considerazione». L’altra uscita «politica» di Jerry Calà risale a un anno fa. Forse preso dall’entusiasmo per le lezioni da poco archiviate si lanciò in un endorsement del governo legastellato: «Tutti in tv si chiedono dove troverà questo governo i soldi per mantenere le promesse elettorali. Basterebbe che il precedente governo gentilmente svelasse dove ha preso tutti quei miliardi per salvare le banche». E lo scrisse proprio cavalcando l’onda delle polemiche per Banca Etruria e la famiglia di Maria Elena Boschi, la sottosegretaria del Pd, fedelissima di Matteo Renzi. In quel caso fu il vicepremier Luigi Di Maio a retwittarlo citando la battuta più celebre del comico in Vacanze di Natale: «Libidine, doppia libidine, libidine coi fiocchi». Questa volta, invece, si è attirato gli strali di Anna Rita Leonardi, renziana di ferro e dirigente provinciale dei Democratici a Salerno. Che su Twitter non è andata tanto per il sottile: «Quella sottospecie di comico fallito di Jerry Calà ci dice che il cinema non lo vuole perché «non odora di sinistra». Tranquillizzatelo. Il cinema non lo vuole semplicemente perché è un cretino senza talento». A telefono, la Leonardi rincara la dose ma al tempo stesso precisa: «La parola «fallito» è riferita al comico non certo all’uomo. Mi scuso se ho esagerato però Calà rifletta su una cosa: nel nuovo palinsesto Rai ci sono tutti quelli che si sono detti sovranisti, dalla Cuccarini alla Pavone, di certo non sono di sinistra. Se non lavora si facesse due domande». In realtà, dopo le polemiche di questi giorni e dopo la cancellazione del tweet polemico si profila una cena conciliante tra l’attore e la dirigente del Pd. «Abbiamo amici in comune e credo che a breve ci incontreremo. A me non fa ridere per niente ma a mio marito piace. Magari davanti a un buon calice di vino riuscirà a strapparmi una risata» chiude il caso la Leonardi.

Osho e le sue migliori frasi:  «Di giorno faccio l’impiegato La sera invento vignette». Pubblicato giovedì, 18 aprile 2019 da Fabrizio Roncone su Corriere.it. L’incarico: parlare con l’autore delle vignette di satira politica più forte del momento, una firma — #lepiùbellefrasidiosho — diventata virale, le nostre applicazioni WhatsApp piene, tic-tac e a metà pomeriggio te ne entra sempre una che ti mette un filo di buon umore anche se è un pomeriggio che levati, Salvini e Di Maio visti con strepitose dosi di sarcasmo romano, l’amara ironia romana che graffia e spiega tutto con un sorriso, con uno slang romanesco un po’ rielaborato così da essere comprensibile da Milano e fino a Palermo.

«Però dobbiamo sentirci nel pomeriggio: esco alle sei».

Federico Palmaroli, quasi 46 anni, lavora come impiegato in un’azienda. Ha una scrivania, una lampada, un cartellino da timbrare. Del resto gli autori di satira sono quasi sempre degli irregolari, partono in modo normale (Forattini, per dire, come operaio in una raffineria di petrolio) e poi trovano la loro vena, anzi è proprio la vena che gli parte e iniziano a creare.  Lui comincia nel febbraio di quattro anni fa. Sul web scopre un sito dove raccolgono le più belle frasi di Osho Rajneesh, un santone che a metà degli anni Settanta girava l’India fondando comunità e insegnando amore e meditazione, per poi trasferirsi in Oregon, negli Stati Uniti, e appassionarsi alle Rolls-Royce (ne collezionò 92). L’idea è semplice, è il classico giochino alto-basso: prendere una foto del santone e poi associarci un luogo comune, una di quelle frasi che ripetiamo senza accorgercene — «Un giacchetto in macchina è sempre meglio lasciarlo» — e che, rilette, ti fanno poi pensare: sono un cretino. Funziona, ma dura poco: la setta si ribella, minaccia querele, Palmaroli è costretto a ritirare dal mercato tre libri e ad andare oltre. Dove? Dov’è adesso. Dentro la politica e l’attualità. Rielaborando, con puro genio, foto autentiche.

«Più o meno a quest’ora, comincio ad aprire i siti: inizio da quello dell’Ansa, che è asciutto, passo a quello del Corriere, a Dagospia e poi proseguo con gli altri. Intuisco i due, tre argomenti del giorno e inizio a cercare le foto, finché non trovo quella che mi ispira e...» (si sono fatte le sei e Palmaroli, intanto, è uscito dall’ufficio).

Aspetta: prima parlami della tua famiglia.

«Normale, borghese. Sono cresciuto a Monteverde. Mio padre dirigente d’azienda, mia madre casalinga. Dopo il liceo classico, al Tacito, mi iscrivo come un pecorone a Giurisprudenza. Poi trovo lavoro dopo qualche contratto interinale. Insomma, per merito: scusa se sottolineo per merito, ma ci tengo».

Quando hai capito di avere un talento per fare satira?

«In età adolescenziale, io e un mio amico tenevamo un quaderno sul quale appuntavamo tutte le frasi più stereotipate che ascoltavamo nelle telefonate dei nostri genitori. Forse è successo lì, in quel periodo».

Torniamo alla foto politica del giorno. La vedi, ti ispira: e poi?

«Poi viene il difficile: trovare la frase giusta». Continua.

«Un esempio? Stavano cercando di accroccare questo governo, e ogni giorno andavano in processione dal Presidente Mattarella per spiegargli la loro bizzarra idea di contratto. Così prendo una foto di gruppo con Salvini, e li vedo che leggono, sembrano studenti che ripassano la lezione. Allora mi viene la frase: “Imparamose bene l’Europa che quella Mattarella la chiede sempre”».

Magnifica. Ma pure quella dell’altro giorno con Salvini e Di Maio...

«Litigano ferocemente dalla mattina alla sera. Allora ho trovato una foto in cui c’è Salvini che dice qualcosa a Di Maio, mentre Di Maio guarda da un’altra parte... “Aò, ma se po’ sapé che t’ho fatto?”. E Di Maio: “Niente niente, lascia stare”. Di Maio, bada bene, a braccia conserte».

Si arrabbia qualcuno?

«No. Gentiloni mi invitò a Palazzo Chigi. Credo l’abbia presa sportivamente persino la Boschi, quando le feci dire: “Che senso c’ha sarvà na banca, se er vicepresidente ’n è tu padre?”».

La satira di Palmaroli è una lama grottesca. Il Tempo si è assicurato una vignetta in esclusiva al giorno. Ma la sensazione, netta, è che Palmaroli, pur godendo di una notorietà ormai gigantesca — quasi 900 mila seguaci su Facebook, oltre 200 mila follower su Twitter — sia in qualche modo penalizzato.

Lui se ne è accorto.

Lui sa anche il perché.

«Mi emarginano perché c’è quest’idea che io sia di destra. Tutto ebbe inizio con una intervista su Repubblica, tempo fa. Dissi che da giovane avevo votato per il Movimento Sociale, poi per la destra sociale. Se ricordo bene l’intervista fu poi ripresa dall’Huffington e da lì... Mi spiace, perché io metto nel mirino chiunque, faccio satira senza farmi condizionare dal pensiero politico. Ma a Vauro è consentito, a me no».

È sera. Deve spedire la vignetta al suo giornale.

Filippo Facci e i deliri comici di Roberto Saviano: la tragica parabola di mister Gomorra, scrive il 24 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. Una persona normale, intesa come sana di mente, può anche stufarsi di passare a vita per quello di «Gomorra», ergo può cercare di reinventarsi come antagonista di Matteo Salvini, ripeto: può farlo, magari anche con passione e sincerità, tanti auguri a lui. Roberto Saviano l' ha fatto, e che questo faccia parte del paesaggio (da tempo) non dovrebbe tuttavia impedire a noi o a Repubblica di, come dire, monitorare i limiti e i contenuti di questa dedizione, diciamo così. Perché - non mettiamoci due ore a dirlo - l' impressione che Saviano stia andando fuori di cotenna c' è concretamente, e ve lo scrive chi, da principio, non ebbe problemi a dichiararsi ammiratore di Saviano che giudicava un grave errore regalarlo culturalmente alla sinistra. Parliamo di quasi dieci anni fa, quando lo scrittore (che scrittore rimane) non si era ancora intruppato in certo gregge conformista e pareva tenere a una formazione culturale ecumenica: non a caso lo si paragonava a Salamov e lui stesso indicava, come riferimento morale, quei «Racconti di Kolyma» che restano la più sconvolgente opera di denuncia della bestialità del Gulag assieme all'«Arcipelago» di Solzenicyn. Lo stesso Saviano sembrava equilibrato, anche troppo: riconobbe i successi del governo Berlusconi nella lotta alla camorra ed elogiò più volte il ministro Roberto Maroni, un leghista giudicato «uno dei migliori ministri degli Interni di sempre». Nessun altro, a sinistra, disse cose paragonabili: anche per questo era guardato con sospetto anche da una sinistra che non era riuscita ad arruolarlo in nessun circo politico o mediatico. Anche perché diceva, Saviano, che «il centrosinistra ha responsabilità enormi nella collusione con le organizzazioni criminali. Le due regioni con più comuni sciolti per mafia sono Campania e Calabria. E chi le ha amministrate negli ultimi 12 anni?». Saviano in quel periodo aveva 31 anni e viveva da fuggiasco, superblindato, prigioniero, senza una vita privata. Qualche volta diceva: non lo rifarei.

L' INCONTRO CON FAZIO. Poi in un paio d' ore gettò tutto alle ortiche, o cominciò a farlo partecipando a Vieni via con me assieme a Fabio Fazio. Non tanto perché associò la Lega alla 'ndrangheta in uno dei suoi monologhi, ma per il linguaggio con cui lo fece: cioè quello televisivo, che non padroneggiava e di cui mostrò di non conoscere l' utenza. Per milioni di persone, schiave del cretinismo bipolare, corrispose a un disvelamento, un inciampo rivelatore che aveva creato un clamoroso precedente così da poter incasellare Saviano definitivamente «a sinistra». Capitolo chiuso, catalogato: Saviano è uno di quelli lì, è smascherato, è un sinistro, magari lo vedremo a qualche Vaffa-day con Beppe Grillo e compagnia sghignazzante, magari lo candiderà il Pd, queste cose. Questo da una parte. Dall' altra, in parte della sinistra (immaginaria) lui continuava a insospettire: Beppe Grillo diceva che Saviano «non fa nomi e il suo spettacolo lo produce Endemol», ergo «Berlusconi gode come un riccio»; il vignettista Vauro, da Santoro, si divertiva contro gli «interminabili monologhi di Saviano» e citava una sua «Logomorrea». Marco Travaglio non gli risparmiava stizzite pagelline settimanali e soprattutto il rimprovero di non affondare i denti sui temi che contavano. Erano anche gelosie tra primedonne dell' anti-berlusconismo, certo. La cooptazione completa richiedeva ancora tempo, quindi saltiamo molti passaggi ed arriviamo a Saviano che lascia Mondadori e che abbraccia Repubblica-Espresso, dapprima timidamente.

CAMBIO MESTIERE. Saviano continuava a vivere da fuggiasco, superblindato, prigioniero, senza una vita privata e con qualche dubbio sulle giustificazioni a una scorta da presidente della Repubblica. Poi? Poi Saviano cominciò a fare un mestiere che non si capisce bene qual è: rimaneva quello di Gomorra, ma un pezzetto d' Italia e lui medesimo decisero di traformarlo in un' autorità morale che distribuiva pagelline su candidati ed eletti, sentenziava sui giornali e in tv, decideva chi è presentabile e chi no. Sino all' ossessione Salvini. Ossessione, sì, come altro definirla? Pur ammettendo per primo che «più Salvini subisce opposizione più riceve carburante», decide di contribuire. Tra i consapevoli di questo ci sono lo stesso Salvini e il suo amico Luca Merisi. Salvini chiude i porti alle Ong e dirotta l' Aquarius verso Valencia: insulti. Salvini «inumano», «incapace», «ministro della crudeltà». Saviano giunge a invocare la censura sui giornali, anzi una «forma disperata di opposizione all' orrore»: «Propongo di accettare una forma di obiezione di coscienza, non dando notizia e non commentando le affermazioni più gravi di Matteo Salvini, quelle contrarie ai principi della nostra Carta costituzionale». Non ebbe molto successo. Allora Salvini, in crescendo, diverrà «un baro», uno che indossa la divisa delle forze dell' ordine come «gesto autoritario» e «pericolosissimo per la democrazia». Ma non facciamo l' elenco degli insulti: limitiamoci ad arrivare - c' è arrivato Saviano - a «ministro della malavita» e «buffone». Tutto così, sino - l' altro ieri - alle foto col mitra in mano della festa della polizia, ossia «una grave minaccia alla nostra Democrazia» ma anche «istigazione a delinquere, reato procedibile d' ufficio. Ognuno di noi può denunciare questo atto. Vi invito a farlo». Chissà se lui l' ha fatto.

L' ULTIMO ARTICOLO. Poi c' è articolo su Repubblica di ieri: andrebbe riproposto per intero. Saviano traduce l' immagine del mitra col fatto che «i seguaci del Capitano sono armati», che «ogni arma sarà lecita», che Salvini «minaccia magistratura e oppositori di ritorsioni armate, quindi di morte», che «tra la Lega di potere e Matteo Messina Denaro ci sono solo tre gradi di separazione», che «Berlusconi pagava i giudici e gli avversari», ma Salvini «ha dalla sua l' inquietante frangetta di Luca Morisi, un Finkelstein in sedicesimi completamente a suo agio sui social. E ha Facebook, che è un Potere globale». L' inquietante domanda: «Perché Facebook non ha censurato la foto di Salvini?... Quali sono i reali rapporti tra l' apparato comunicativo di Salvini e Facebook?». Ancora: «L' impressione è che Facebook abbia scelto per Facebook non può essere denunciato l' orrore genocida delle politiche di accoglienza europee Luca Morisi ha condotto un esperimento per comprendere fino a che punto spingere la comunicazione di Salvini nella prospettiva di un futuro superamento della Costituzione repubblicana Chissà quanto durerà ancora, la Costituzione». Tuttavia, sinché c' è Saviano e chi come lui, «denunceremo i vostri intenti criminali. Dovrete ucciderci per farci tacere».

Nota dello scrivente: ieri Facebook, quello che non ha censurato Luca Merisi, ha censurato e sospeso me per una settimana. Facebook ha giudicato «fuori standard» una foto, da me postata, in cui si vedeva Greta Thumberg affianco a un titolo che annunciava il suo incontro con Papa Francesco, più un mio commento: «Dove sono i meteoriti quando hai bisogno di loro?». È segno che Saviano ha ragione: Facebook ha scelto, e ha scelto Salvini. Lo ha fatto a discapito di Saviano e me, due evidenti paranoici. Filippo Facci

Lettera di un ex giornalista di cronache di camorra a Saviano: perché non racconti la verità? di Francesco Amodeo. Gentile Saviano, vogliamo raccontare perché ci sono giornalisti che si occupano di inchieste rischiando sulla propria pelle per pochi spiccioli e nel totale anonimato e poi ci sono quelli celebrati dai media, dalla politica, dal mainstream, per capire una volta per tutte cos’è che fa realmente la differenza. Mi presento: sono Francesco Amodeo e sono un giornalista pubblicista; blogger e autore di 3 libri di inchiesta. Campano come te. Da qualche anno non più praticante (mio malgrado). Dopo una laurea in scienze della comunicazione e stage negli uffici stampa di Londra e Madrid per imparare entrambe le lingue. Torno nella mia Campania e dal 2002 comincio ad occuparmi di cronache di camorra prima per Dossier Magazine, poi per il famoso quotidiano campano il ROMA e il Giornale di Napoli. Dal 2004 al 2005 con lo scoppio delle più cruente faide di camorra vengono pubblicati a mia firma oltre 200 articoli in meno di un anno. Alcuni finiti in prima pagina sia sul Roma che sul Giornale Di Napoli. Te ne elenco solo alcuni tra questi, guardando le date capirai gli intervalli di tempo tra un agguato ed un altro e quindi tra un articolo ed un altro e i ritmi e i rischi a cui eravamo esposti noi che facevamo questo lavoro:

18 Ottobre 2004 Omicidio Albino

29 Ottobre 2004 Omicidio Secondigliano: Scoppia la faida

5 Novembre 2004 Carabinieri feriti a Secondigliano

13 Novembre 2004 Omicidio Peluso in pizzeria

21 Novembre 2004 Ragazza accoltellata a Santa Lucia

22 Novembre 2004 Omicidio di Piazza Ottocalli

26 Novembre 2004 Omicidio a Secondigliano di Gelsomina Verde (in assoluto il più efferato di tutta la faida)

19 Dicembre 2004 Intervista esclusiva alla vittima dell’agguato.

L’ultimo mio articolo apparso sulla prima pagina del Roma riguardava l’Omicidio di Nunzio Giuliano dell’omonimo storico clan. Sono articoli pubblicati negli stessi anni e riguardanti le stesse faide di quelli che tu hai scopiazzato dai colleghi e ricopiato per intero nel tuo Gomorra e per i quali hai subito la sentenza di condanna per plagio.

A me nel 2005 sono stati corrisposti per tutti gli articoli 2117,70 euro di cui netti 1,800,00 euro. (allego prova documentale). Posso immaginare che più o meno siano queste le cifre che guadagnavano anche i giornalisti campani a cui hai copiato pezzi di articoli per pubblicarli nel tuo libro multimilionario.

Ma andiamo avanti: Nel raccogliere materiale per gli articoli di cronaca puoi immaginare quante botte io abbia preso, quanti cellulari mi abbiano strappato da mano, quanti registratori distrutto e quante intimidazioni subite. Così decisi che era diventato troppo rischioso e passai alla cronaca politica. Un altro settore che ti interessa.

Ho aperto un blog di inchiesta giornalistica e pubblicato video inchieste sulle organizzazioni della finanza speculativa che nel 2011 aveva rovesciato il Governo in diversi paesi europei tra cui l’Italia analizzando i legami tra queste organizzazioni ed i politici e tecnici arrivati al Governo dimostrando in maniera documentata che avevano fatto Cartello contro i popoli e contro le democrazie con la complicità dei nostri media mainstream. Probabilmente sono proprio le organizzazioni a cui stai facendo appello tu in questi mesi esortandoli a rovesciare nuovamente un Governo democraticamente eletto. Sono rimasto sorpreso della tua visita a Macron. La prima volta che io lo vidi ero nascosto fuori al Marriott Hotel di Copenaghen con un cecchino che seguiva dall’alto ogni mio passo (come dimostra il video postato in rete) e lui stava per fare il suo ingresso alla riunione del Bilderberg 2014. Ossia l’incontro a porte chiuse dei più importanti membri della finanza speculativa. Quelli che scrivono che “la democrazia non è sempre applicabile”; che dovremmo “stracciare le nostre Costituzioni”; che bisogna favorire le tecnocrazie non elette per superare gli “eccessi di democrazia”. In pratica quelli che disprezzano i popoli.

Tutte le mie ricerche sui legami tra politici, media e Cartello finanziario speculativo sono state pubblicate in due libri, l’ultimo dei quali La Matrix Europea è stato definito dal compianto Ferdinando Imposimato, Presidente Onorario della Suprema Corte di Cassazione (Giudice istruttore caso Moro) il miglior libro sull’argomento e citando le sue parole: “ Il tuo libro è importante come strumento di verità e libertà ma è assediato da silenzio e omertà. Mi congratulo con te per la tua ricerca che è preziosa per tutti noi cittadini di una società in cui le ingiustizie e diseguaglianze sono enormi. Il tuo libro mi ha fatto capire molte cose, chiaro, preciso, documentato coraggioso, incisivo. Ma non è facile far capire agli altri la verità.” Il Presidente mi chiese poi pubblicamente di collaborare con lui per una ricerca sul tema ma dovetti rifiutare perché non mi sentivo tutelato.

Stai tranquillo Saviano, non sto facendo uno spot al mio lavoro, immagino che per deformazione professionale penseresti questo. A differenza dei tuoi libri, che ce li ritroviamo davanti anche in Autogrill mentre prendiamo un caffè, il mio dopo una breve apparizione è sparito dai radar. Nonostante abbia un proprio codice ISBN se lo richiedi nelle librerie sembra che non sia mai esistito. Spero sia stato solo un errore dell’editore. Eppure i temi trattati nel libro sono stati oggetto di alcuni video su you tube. Uno dei quali ormai punta ai 6 milioni di visualizzazioni ( si hai capito bene 5 milioni di visualizzazioni già superate con un video di 18 minuti ossia un tempo assolutamente proibitivo per YouTube). E non è stato un caso. Ho superato ben 4 volte un milione di visualizzazioni anche quando ho dimostrato come vengono manipolate le interviste da parte di alcune note trasmissioni televisive del mainstream per punire chi prova a toccare argomenti che non dovrebbe toccare. Numeri enormi mai raggiunti da nessuno in Italia e forse neanche in Europa per video che trattavano questo tipo di argomenti. Pensa che il video più visualizzato sul tuo Gomorra Channel ha raggiunto 477.000 visualizzazioni contro i miei 5 milioni. Per intenderci sommando tutti i video caricati sul canale Gomorra Channel si raggiungono meno della metà delle visualizzazioni di un mio solo video. Nonostante Gomorra sia una serie televisiva, un film a cinema e tu, Saviano, sei inseguito da tutti gli editori, gli autori televisivi e sei presente in numerosi programmi in Tv. E allora cos’è che spinge tanta gente a guardare i video di uno sconosciuto ? Sei d’accordo con me che i conti non tornano? Te lo spiego subito: tu sei stato molto bravo ad attaccare i criminali comuni, molti dei quali già in carcere con l’ergastolo ma facendo sempre la massima attenzione a non attaccare il sistema dominante in politica (quello che la manovra) né il ruolo dei media, spesso usati come braccio armato da questi poteri forti. Sei diventato il cavallo di Troia che fa comodo ad un certo tipo di sistema per entrare nelle case degli italiani con una voce che possa fingersi amica, credibile, spostando l’attenzione sui criminali comuni senza mai toccare gli interessi del potere dominante né dei media che lo coprono.

Ecco di chi sei diventato voce. Ecco perché ti celebrano. Ecco perché sei in tutte le Tv. Una volta ci sono andato anche io in Tv alla trasmissione in Onda di Luca Telese su la 7 ma è stata la prima e l’ultima volta perché tirai in ballo giornalisti, media e politici che partecipavano alle riunioni di organizzazioni del Cartello finanziario speculativo che hanno interessi diametralmente opposti a quelli dei popoli. Sai come intitolarono la trasmissione? “La web guerra dei blogger antisistema”. Quando dici certe verità non sei un eroe sei un ANTI. Eppure ti assicuro che la crisi economica – che io dimostravo essere stata indotta dai membri del Cartello finanziario speculativo di cui facevo nomi e cognomi – ha fatto, indirettamente, molti più morti tra imprenditori e lavoratori che si sono suicidati di quanti ne abbia fatti, tra i criminali, la più sanguinosa delle faide di camorra. Ha fatto chiudere molte più aziende lo Stato per eseguire i diktat del capitale che i camorristi con il racket. Ma questo il pensiero unico dominante tra i media non ce lo fa sapere. E tu sei diventato l’icona di questo pensiero unico. Tu che parli di solidarietà verso i migranti, di accoglienza tout court pur sapendo bene che la maggior parte di quelli che arrivano dall’Africa sono in realtà i nuovi schiavi deportati dal capitalismo per abbassare il costo del lavoro e annichilire i diritti sociali nei paesi dove vengono accolti. Gente disposta a tutto come li definisce un noto filosofo: “merce umana nell’economia globale per le nuove pratiche dello sfruttamento neofeudale” pronta ad essere sostituita ai lavoratori europei che invece richiederebbero diritti sociali e rivendicazioni salariali.

Tu conosci questa pratica infame. Ma la copri, la appoggi. Per questo meriti programmi in Tv. Poi ti vedo attaccare Salvini indossando la maschera del paladino dei più poveri, e mentre con una mano reggi quella maschera con l’altra tiri acqua al mulino di quella sinistra che ha svenduto i lavoratori e i loro diritti al Cartello finanziario europeo e che è passata “dalla lotta per i lavoratori contro il capitale alla lotta per il capitale contro i lavoratori” che ha sacrificato volontariamente sull’altare dei globalizzatori i lavoratori italiani per gli interessi di una Europa che si è dimostrata il baluardo del capitalismo speculativo contro le classi lavoratrici ed i popoli europei.

Perché queste cose non le racconti ? anzi perché le neghi ? Taci perché preferisci essere esaltato dai media per interessi commerciali e contribuire al loro asfissiante, martellante, fuorviante lavoro di propaganda a favore del pensiero unico di chi intende dirigere le sorti dei nostri governi. Oltre Gomorra che ha soltanto fini commerciali, tu sei considerato un “intellettuale” amico dei popoli. E come può un intellettuale del genere, con il tuo seguito, preoccuparsi dei rimborsi trattenuti dalla Lega, senza mai menzionare i miliardi e miliardi di euro che ogni anno finiscono nelle mani di azionisti privati che si sono autonominati creatori e gestori della moneta del popolo.

Tu questi argomenti non li toccherai mai.

Io, invece, ho dovuto subire intimidazioni, ritorsioni, agguati mediatici, censure. Ed è per questo, che in seguito ad altri episodi che hanno coinvolto me ed i miei colleghi, ho deciso 3 anni fa di chiudere il blog, smettere di scrivere .

Ma il mio è solo un esempio di quello che accade a centinaia di ragazzi che hanno provato a fare questo mestiere senza volersi allineare al pensiero unico dominante. Per concludere: io non sono un politico, non sono un Ministro, non sono un capopartito; non puoi trovare altri interessi nella mie parole se non la voglia di ristabilire la verità. Te lo dico da ex giornalista. Da ex scrittore. Per farti capire che parliamo la stessa lingua. E te lo dico nel mio dialetto perché anche quello ci accomuna. Robè vir e fa l’ommmm. Francesco Amodeo

·         Quelli che vogliono solo scrittori partigiani.

Salone del libro 2017, il portavoce della sindaca "punisce" Repubblica: taglio al budget pubblicitario. I verbali dell'inchiesta sulla consulenza svelano gli interventi di Pasquaretta. Ottavia Giustetti, Sarah Martinenghi e Jacopo Ricca su La REpubblica il 18 ottobre 2019. Meno pubblicità a "Repubblica" dalla Fondazione che organizza il Salone del Libro, perché il giornale non si è dimostrato abbastanza favorevole a Chiara Appendino. Il particolare emerge dagli atti dell’inchiesta torinese che ha come principale indagato Luca Pasquaretta, l’ex portavoce della sindaca di Torino. L’indagine per peculato nasce quando si scopre che il giornalista è stato pagato come consulente del Salone per l’edizione 2017, ma dalle bollature in Comune risulta sempre in servizio a Palazzo Civico nei giorni della kermesse. In dubbio ancora il ruolo della sindaca che sostiene di non aver mai saputo di quella consulenza affidata al suo portavoce e ha portato un’altra chat di maggio 2018 al pm Gianfranco Colace dalla quale si capirebbe che lui l’aveva tenuta all’oscuro di tutto. Il 24 aprile di un anno prima però, mentre si preparava l’edizione del Salone per cui gli è stata pagata la consulenza, Pasquaretta scambia con lei questa sequenza di messaggi. “Sono passato un attimo dalla Fondazione per il Libro” scrive il portavoce ad Appendino, per giustificarsi di non aver risposto alla sua chiamata. “Dovevo controllare come hanno destinato il budget per la pubblicità”. Il proposito di Pasquaretta è modificare la distribuzione del budget pubblicitario della Fondazione sui diversi giornali cittadini. Lo spiega Nicola Gallino, capo ufficio stampa del Salone del libro, in sede di testimonianza il 7 luglio 2018: “In effetti, abbiamo - dove commercialmente sostenibile - ridotto gli investimenti con La Repubblica e Lo Spiffero, testate a dire del Pasquaretta non cosi favorevoli al Sindaco”. Il portavoce della sindaca redistribuisce gli investimenti pubblicitari della Fondazione sulle testate che sono politicamente più favorevoli ad Appendino e le preannuncia: “Ho sistemato un po’ di cose sul budget. Stasera ti faccio vedere. Così sono tutti contenti”. Lei risponde “ok”. Ma gli chiede anche: “Tutto ok in Fondazione? Tutti gasati?”. “Gasatissimi” risponde lui. Forse a maggio 2018 Appendino cadrà dalle nuvole, scoprendo che Pasquaretta aveva ottenuto la consulenza per il Salone. Ma certamente ad aprile 2017 sa che il giornalista si sta occupando della pubblicità della Fondazione e sembrerebbe avergli dato carta bianca anche sulla distribuzione sulle diverse testate giornalistiche in vista dell’evento. “Questa attività l’ho seguita io per anni e ho predisposto anche per il 2017 il piano di ripartizione degli investimenti pubblicitari – ha spiegato Gallino al magistrato -. Come espressione del vertice Pasquaretta diede delle indicazioni operative e concrete sulla ripartizione dei fondi consigliando alcuni siti o testate o comunque dando indicazione sul riposizionamento delle risorse presso le testate, indicazioni anche di tipo politico. In particolare, ricordo che mi diede precise indicazioni su tagli da applicare a testate meno favorevoli, a suo dire, alla Sindaca”. La ricostruzione di Gallino sembra confermata dal messaggio che lui stesso inviò al portavoce di Appendino alle 16,08, sempre del 24 aprile 2018: “Mi rimandi per cortesia quel prospetto. L’ho perso. Grazie”.

I conformisti del Salone di Torino. Alessandro Gnocchi, Sabato 04/05/2019, su Il Giornale. In nome del confronto e del dibattito, il comitato editoriale del Salone del libro di Torino, attraverso il suo direttore Nicola Lagioia, comunica su facebook la sua impressione sulla presenza dell'editore Altaforte (accusato di essere vicino a Casapound) alla manifestazione in partenza giovedì prossimo. L'impressione in sintesi è questa: niente apologia del fascismo o inviti all'odio etnico o razziale nel programma degli incontri. E ci mancherebbe, diciamo noi. Inutile quanto bizzarra la spiegazione di Lagioia: «Nessuna libertà può definirsi tale se non è tuttavia priva di argini». Continua Lagioia: «Per ciò che riguarda me e il comitato editoriale, crediamo che la comunità del Salone possa sentirsi offesa e ferita dalla presenza di espositori legati a gruppi o partiti politici dichiaratamente o velatamente fascisti, xenofobi, oppure presenti nel gioco democratico allo scopo di sovvertirlo». Conclusione: «Siamo antifascisti anche perché crediamo nella democrazia». Insomma, il comitato editoriale non può impedire ad Altaforte di acquistare uno spazio espositivo ma non è affatto contento e capisce chi in queste ore chiede chiarimenti. Ad esempio, Christian Raimo, consulente del Salone, che, su facebook, invoca il ritorno dell'antifascismo militante e pubblica la prima lista di epurazione: «Alessandro Giuli, Francesco Borgonovo, Adriano Scianca, Francesco Giubilei, etc tutti i giorni in tv, sui giornali, con i loro libri sostengono un razzismo esplicito, e formano think tank che sono organici con il governo». Razzismo esplicito? Viene da ridere per la grossolana faziosità. Raimo deforma la realtà per far credere (o forse lo crede davvero) che la cultura di destra sia razzista o cripto-razzista e coincida con il neo-post-ultra-fascismo. Scusate le lunghe citazioni ma sono indispensabili per capire lo spessore del comitato editoriale alla testa della manifestazione libraria più importante d'Italia. Apprendiamo con sgomento: che la libertà ha dei limiti decisi da Nicola Lagioia e i suoi collaboratori; che, secondo i criteri esposti da Lagioia, la casa editrice Einaudi, per la quale pubblica, in passato avrebbe dovuto essere nel mirino tanto quanto Altaforte edizioni: era vicina all'illiberale Partito comunista; che l'antifascismo coincide con la democrazia. In Italia, l'antifascismo non è stato democratico. Fa eccezione solo chi si proclamò sia antifascista sia anticomunista, quattro gatti. Altaforte ha replicato con una lettera su facebook. Non entriamo nello specifico del suo catalogo ma una osservazione generale vogliamo farla: alcuni (molti) dei testi più controversi stampati o distribuiti da Altaforte sono fonti primarie per la conoscenza del fascismo, dell'impresa di Fiume, del Futurismo, della rivoluzione conservatrice. Se le pubblica soltanto un editore di estrema destra, forse gli editori italiani «perbene» dovrebbero chiedersi se svolgono una vera attività culturale o si limitano ad alimentare il conformismo.

Salone del Libro di Torino. Se non sono autori di sinistra Lagioia non li vuole invitare. Secondo il direttore, "otto scrittori su dieci sono progressisti". Inutile cercare troppe voci contro, scrive Luigi Mascheroni, Giovedì 07/03/2019, su Il Giornale. Il Po scorre lento e trascina via tutto: fallimenti, debiti, aste, licenziamenti, lotte interne, guerre dei Saloni, fughe (come quella sospetta di Massimo Bray) e ritorni (come quello vergognoso di Ricardo Franco Levi e dell'Aie)...Il Po scorre a un metro e mezzo da qui, accanto allo spazio «Student Zone», ai Murazzi, che ieri ha ospitato la conferenza stampa di presentazione del Salone del Libro di Torino, edizione (complicata all'inizio, ora liberatoria) numero XXXII. In realtà i giornalisti sono il 5-6% - e le domande alla fine non ci sono -, gli altri sono politici, associazioni, fondazioni bancarie, bibliotecari, librai... gli amici del Salone e della Torino che conta, che canta vittoria, e che parla. Il primo a parlare è il proprietario del Salone - «Ma tutti sono i padroni del Salone...» -, cioè Silvio Viale, presidente dell'Associazione «La Città del libro» che lo scorso 24 dicembre - come in un film di Frank Capra, ricorda qualcuno - si aggiudicò l'asta per l'acquisizione del marchio con un'offerta (unica pervenuta) di 600mila euro, finanziata dalla Fondazione CRT e dalla Compagnia di San Paolo (le banche sono i bancomat necessari per far funzionare ogni vero grande progetto culturale, e forse è anche per questo che il Salone del libro di Milano è miseramente fallito). Viale guarda naturalmente avanti e sogna un Salone che sia come il Festival di Sanremo. Ha ragione: il Salone è il Salone, qualsiasi cosa succeda. «Mille grazie a tutti». I giorni che mancano all'apertura dei cancelli al Lingotto, il 9 maggio, sono molto meno: 63. Aspettando il Salone. Giulio Biino è il secondo a salire sul palco: è il presidente della Fondazione «Circolo dei Lettori», l'ente organizzatore del Salone. Biino parte alto con le citazioni - ma tutto il salone e l'intera letteratura sono fatti di citazioni. Prima Martin Luther King, e poi Mister Wolfe di Pulp Fiction: «Mi hanno chiamato per risolvere problemi». E per farlo ha dovuto riannodare i fili fra tutte le persone che sono qui, in prima fila: dal sindaco Appendino al governatore Chiamparino, dall'assessore regionale Antonella Parigi, ai rappresentanti di Adei, Aib, Aie, Ali... fino alla direttrice del Circolo dei Lettori, Maurizia Rebola, che dice «Basta!» alla querelle Milano-Torino e annuncia due appuntamenti targati Salone del Libro al prossimo Bookcity. Archiviate le grane, resta Lagioia. Nicola, il direttore editoriale del Salone che ridiventa «internazionale» del Libro di Torino: fa scorrere un video che riassume - attraverso i titoli dei giornali sul web - un anno di guai, dubbi e paure, e poi festeggia. «Ce l'abbiamo fatta». Ed ecco - il paragone è suo - l'unica manifestazione che in un momento di guerra tra popolo ed élite porta migliaia di persone comuni ad ascoltare in silenzio filosofi, premi Nobel, economisti laureati... L'anti-sovranismo passa dalle code in sala Gialla. Se i problemi sono stati grandi, il progetto del Salone del libro 2019 lo è ancora di più. Ambizioso e ecumenico. Il tema scelto è «Il gioco del mondo» - la cultura, infatti, non deve avere frontiere: porti aperti, come le menti, e giù tutti i muri: il Salone celebrerà i 30 anni della caduta di quello di Berlino (eppure, ammette Lagioia, «non è che dopo sia arrivata la pace che ci aspettavamo...») - e il titolo è quello di un romanzo di Julio Cortázar, scrittore simbolo dell'incontro fra culture. E infatti: la lingua ospite (non c'è più il Paese ospite, concetto troppo nazionalista, meglio la «lingua», più transnazionale) è lo spagnolo. Arriveranno autori e autrici dal Centro e Sud America, Cuba, Spagna... La città ospite è Sharja, negli Emirati Arabi, capitale mondiale del libro Unesco 2019. Mentre la regione ospite sono le Marche, per i 200 anni dell'Infinito di Leopardi e non solo («È anche la regione di Silvia Ballestra», aggiunge Lagioia...). A proposito di anniversari: a Torino si festeggeranno anche: i 100 anni dalla nascita di Primo Levi (qui girano già le cartoline-santino), i 30 dalla morte di Sciascia, i cento anche di Salinger (arriverà il figlio, Matt). Ecco, gli ospiti. La lectio inaugurale sarà affidata a Fernando Savater, poi è annunciato Wole Soyinka. E come terza star: Masha Gessen, giornalista e attivista russo. Cioè: l'essenza intellettuale dell'europeismo, il simbolo del terzomondismo letterario e un alfiere dell'anti-Putinismo e anti-Trumpismo. Bingo. Mi scusi, Lagioia, chiediamo a margine, ma in qualche piega del programma di provata fede progressista, c'è qualcosa che potrebbe disturbare l'affezionata professoressa democratica? «(sorpresa) Beh, certo. Se gli editori ce lo propongono sì. Giordano Bruno Guerri che parla di Fiume e dell'anarchismo di destra ci sarà». Però Guerri è al di sopra delle parti... «(perplessità) Avremmo voluto avere Vargas Llosa, ma non era disponibile. Steve Bannon? Magari venisse... Ancora meglio: Errol Morris, che ha girato un bel documentario su lui...». E gli editori e scrittori che il suo consulente Christian Raimo ha etichettato come «fascisti», ma ai quali riconosce che studiano e producono libri, riviste, idee? «(imbarazzo) Certo, basta che non sia CasaPound e possiamo invitare chiunque... E poi comunque il Salone è rappresentativo di ciò che succede nella società italiana. E se prendiamo dieci scrittori, otto sono progressisti, due conservatori...». (sorpresa, mia, ndr): davanti alle statistiche, ci arrendiamo. A proposito: i numeri dicono che ieri la conferenza era affollatissima, che il Salone durerà dal 9 al 13 maggio. E che se anche nel Paese si legge pochissimo, il Lingotto sarà strapieno. 

Anteprima dal libro “Dossier Op”, a cura di Lorenzo Ruggiero, ed. Kaos, pubblicata da “il Fatto Quotidiano” il 7 marzo 2019. Pubblichiamo alcuni brani tratti da "Dossier Op - Le notizie riservate di Mino Pecorelli". Questi articoli dedicati ad Andreotti dal discusso e spesso ambiguo "Osservatore Politico" sono del 1/3/1977 e del 16/4/1977. Un presidente del Consiglio dei ministri in carica non è, contrariamente a quanto sospetta la gente della strada, un automa, una macchina alimentata dal moto perpetuo al servizio quotidiano della comunità. È semplicemente un uomo al quale l'attività politica ha addossato un ulteriore fardello. Più di ogni altro sente perciò il bisogno, qualora le incombenze del suo alto incarico lo permettano, di rilassarsi, di estraniarsi dalle amare vicende della politica. L' attuale presidente del Consiglio dei ministri, Giulio Andreotti, è più di ogni altro suo predecessore vittima del surmenage: la bancarotta nazionale, i rapporti con il Pci, la Siai Marchetti, i conti all' estero, da uscirne pazzi. Più di ogni altro politico, perciò, Andreotti apprezza i rari momenti di libertà. Ci dicono che ami trascorrere alcune ore al mese gironzolando, seguito da scorta competente, nelle vie della vecchia Roma. I luoghi, in sostanza, che hanno visto attraverso trent' anni di vita politica la sua ascesa. Ci dicono che con particolare commozione si ritrova spesso a transitare sotto l'ex Albergo Dragoni. Ne ammira la facciata, e con l'occhio avido scruta le finestre delle stanze nelle quali, giovanotto focoso e già politico di razza, amava trascorrere le ore di libertà che allora erano più numerose di quanto siano ai giorni nostri. Inevitabilmente, nel corso di questo pellegrinaggio un sudore freddo gli attraversa la schiena. Ricorda quella drammatica sera nella quale stava per perdere al tempo stesso l'onorabilità e la futura carriera politica. Lui, pallido in attesa del fatidico: "Documenti"; i suoi giovanissimi ospiti in preda al timor panico. Una scena da incubo. È nel ricordare quella terribile esperienza che il cuore di Giulio Andreotti (che tutti riteniamo erroneamente essere una spugna secca) si allarga in un fiotto di riconoscenza per la buonanima di Giovanni De Lorenzo.

Concediamoci una pausa di distensione e di riflessione. Vivendo in mezzo al marasma di scandali di palazzo, di crisi istituzionali, di presidenti ladri, di sequestri camorro-politici, si ha bisogno, ogni tanto, di staccarsi dalla pesante realtà quotidiana e di affondare nell' oblio dei ricordi. Alcune settimane fa riferivamo delle deambulazioni notturne di Giulio Andreotti. Seguiamolo ancora: è un personaggio di prim' ordine dal quale tutti abbiamo qualcosa da imparare. Lo ritroviamo (quanta nostalgia!) sotto le finestre del palazzo che anni fa ospitava il compiacente Albergo Dragoni. Andreotti ripassa sempre più spesso sotto quelle finestre che gli ricordano le rapide ore rubate (del tutto legittimamente) al Paese e dedicate agli incontri con la sana gioventù romana degli anni 50 e 60. Ma l'itinerario romano del presidente del Consiglio non si esaurisce certamente all' Albergo Dragoni. In pochi minuti, con veloci passettini, Andreotti si ritrova in via degli Schiavoni, un tempo sede del primo postribolo della Repubblica gestito dall' indimenticabile Mary Fiore. Nel salotto di Mary Fiore sono passati i più augusti nomi della Repubblica, politici di primo piano, banchieri e industriali, monsignori e agenti segreti di mezzo mondo. Anche Andreotti ne era ospite abitudinario? Per carità! Mai un errore del genere: perché affittare il corpo di una donna in un luogo dove microfoni e telecamere erano lo strumento secondario ma determinante di reddito della proprietaria nominale?

Tensione al Salone, Raimo si dimette.  Lagioia: «Non  ci faremo intimidire». Pubblicato sabato, 04 maggio 2019  da Alessia Rastelli su Corriere.it. Prima le polemiche sulla presenza di Altaforte, editore vicino a CasaPound che pubblica il libro-intervista di Matteo Salvini, poi ieri le dimissioni di Christian Raimo, uno dei membri del comitato editoriale del Salone di Torino. Complice il clima nel Paese, è un avvicinamento a ostacoli, con toni che si alzano, quello alla trentaduesima edizione della più importante manifestazione libraria italiana, al via giovedì. Tanto che, in serata, dopo una giornata molto tesa, il direttore Nicola Lagioia interviene con acceso post su Facebook in cui, tra l’altro, ammonisce: «Il Salone si basa sulla condivisione. Chi guarda solo al proprio tornaconto vive solo e muore solo». Christian Raimo (Roma, 1975) Questi i fatti. Nei giorni scorsi si diffonde l’erronea notizia che il ministro dell’Interno presenterà al Salone il libro-intervista pubblicato da Altaforte, Io sono Matteo Salvini, di Chiara Giannini. L’editore è sotto i riflettori, il Salone sotto attacco, accusato sui social di essere «fascista» perché ospita un marchio della destra estrema. Deve intervenire Lagioia per chiarire che nessun politico presenterà i suoi libri al Salone: si vuole evitare che la campagna elettorale entri nella fiera. Il direttore precisa anche che «l’antifascismo è un valore in cui io e il comitato editoriale del Salone crediamo fortemente». È a questo punto che Raimo prende la parola con un lungo post su Facebook, poi cancellato. «Nell’ultimo anno — scrive — le cose sono cambiate. I neofascisti si stanno organizzando. (...) Matteo Salvini è dichiaratamente organico a quel mondo, e non a caso pubblica la sua intervista con Altaforte». Fino al passaggio che lo costringerà a dimettersi. «Le idee neofasciste, sovraniste sono la base per l’ideologia della forza maggioritaria di governo», afferma. Cita Alessandro Giuli, già condirettore del «Foglio» e direttore di «Tempi», oggi in tv su Raidue nella trasmissione Povera Patria; Francesco Borgonovo, vicedirettore de «La Verità»; Adriano Scianca, responsabile nazionale della cultura per CasaPound Italia; l’editore Francesco Giubilei; e dice: «Tutti i giorni in tv, sui giornali, con i loro libri sostengono un razzismo esplicito e formano think tank organici con il governo». Pure allo scrittore e saggista Pietrangelo Buttafuoco, nota, «al Salone non darei tutto questo spazio». Chiamata al telefono da Nicola Porro, in un video sul blog del giornalista, reagisce Lucia Borgonzoni, sottosegretario ai Beni culturali, leghista: «Sto verificando con il ministero tutti i provvedimenti del caso. La lista di proscrizione di Raimo, perché di questo si tratta, è una ferita alla democrazia, alla libertà, al pluralismo». Replica anche Francesco Giubilei: «Non sono né razzista né neofascista, sono un conservatore». E chiede che Raimo «si scusi e ritiri la sua affermazione, altrimenti dovrebbe dimettersi». Richiesta accolta in serata. «Ho deciso di presentare le dimissioni — dichiara Raimo — per proteggere il Salone dalle polemiche che hanno fatto seguito a un mio post, a titolo strettamente personale. Il Salone è uno spazio di libertà, di dibattito e confronto di idee, di cultura e di apertura, di molteplicità e democrazia». Con le dimissioni, aggiunge, «testimonio il mio sincero e profondo rammarico per una presa di posizione individuale che, ben al di là delle mie intenzioni, potrebbe, ma a nessun costo deve, risultare fuorviante rispetto a ciò che il Salone è da oltre trent’anni, e vuole essere oggi e in futuro». Non passa nemmeno un’ora e su Facebook appare il post di Lagioia: «Le dimissioni di Raimo mi addolorano. Mi dispiace per editori e autori che si sono sentiti offesi dalle sue dichiarazioni a titolo personale», premette. Poi attacca: «Mi dispiace per come uomini politici di partiti dove ci sono gli inquisiti per mafia abbiano cavalcato la vicenda (tanti servitori dello Stato si scambiano quotidianamente in tv parole irriferibili e non mi pare che questo crei loro, rispetto al bene del Paese, l’imbarazzo che ha toccato Raimo). Mi dispiace per come tanti commentatori cerchino di strumentalizzare il Salone ai fini della campagna elettorale o per avere visibilità. Sacrificare una parte di sé per un bene comune è ormai da pochi». E ancora: «Chi ha creduto di sfruttare il post di Raimo e le polemiche sui neofascismi per intimidirci, per scalfire l’indipendenza editoriale del Salone e quindi per danneggiare un progetto bellissimo e l’intero territorio, sbaglia di grosso. Il Salone si basa sulla condivisione. È il motivo per il quale, d’ora in poi, a parlare sarà il Salone e basta: gli incontri, i dibattiti, le presentazioni, la sua comunità». La dichiarazione chiude una giornata che si era aperta ancora sulla questione Altaforte. In merito all’editore vicino a CasaPound, Lagioia aveva anche spiegato che la vendita degli stand del Salone non è in capo né a lui né al comitato editoriale, ma al comitato d’indirizzo, l’organo di coordinamento delle attività organizzative. Al quale aveva chiesto di aprire un dibattito. La risposta è arrivata ieri mattina e, come già anticipato dal «Corriere», va nella direzione della libertà di pensiero. Una nota del comitato, presieduto da Maurizia Rebola, cita l’articolo 21 della Costituzione e richiama la «Legge Scelba del 1952, coordinata con la Legge Mancino del 1993, che sanziona e condanna chiunque propagandi idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, rendendo reato in Italia l’apologia di fascismo». Quindi «è materia della magistratura giudicare se un individuo o un’organizzazione persegua finalità antidemocratiche» ed «è indiscutibile il diritto per chiunque non sia stato condannato per questi reati di acquistare uno spazio al Salone». «Questa nota — chiude il presidente Giulio Biino — spiega che siamo aperti e democratici.

Il caso del libro su Salvini e l’editore vicino a CasaPound. Pubblicato sabato, 04 maggio 2019 da Corriere.it. Ci sarà Altaforte, l’editore del libro di Matteo Salvini, al Salone del Libro di Torino al via giovedì. Un marchio vicino a CasaPound la cui presenza scalda la vigilia della manifestazione e apre il dibattito, anche all’interno della rassegna stessa, se sia opportuno o meno lasciar partecipare un editore della destra estrema. Il marchio finisce sotto i riflettori quando si diffonde l’erronea notizia che il ministro dell’Interno presenterà a Torino il volume di Altaforte Io sono Matteo Salvini. Intervista allo specchio. Sui social il Salone viene attaccato, accusato di essere «fascista». È dunque il direttore Nicola Lagioia a chiarire innanzitutto che non ci sarà alcuna presentazione del vicepremier. Né di altri politici: le europee sono vicine e la campagna elettorale deve restare fuori dalla fiera. Poi affronta l’altro tema, che invece resta, se sia giusto «che un editore con simpatie fasciste, o peggio, abbia uno stand». «L’antifascismo — chiarisce Lagioia — è un valore in cui io e l’intero comitato editoriale del Salone crediamo fortemente, così come la città di Torino». Quindi spiega che se la stesura del programma è in capo a lui e al comitato editoriale, non lo è la vendita degli stand agli editori. Di questo si occupa un altro organo, il comitato d’indirizzo, che però segue «altre regole», per le quali «il principio di opportunità culturale s’intreccia con quello di legalità», nota il direttore. Che invita comunque ad aprire un dibattito e dare risposte. «Per ciò che riguarda me e il comitato editoriale crediamo che la comunità del Salone possa sentirsi offesa dalla presenza di espositori legati a gruppi o partiti politici dichiaratamente o velatamente fascisti, xenofobi, o presenti nel gioco democratico per sovvertirlo». Precisa comunque, «senza minimizzare, ma per dare le giuste proporzioni, che si parla di uno stand di circa 10 metri quadri su 60 mila totali». Del comitato che gestisce gli spazi fanno parte le associazioni di editori, biblioteche e librai, città di Torino e regione Piemonte, gli enti deputati alla logistica: Circolo dei Lettori e associazione Torino la Città del Libro. Garantire a tutti la libertà di pensiero, sarebbe la linea, da quanto filtra discussa in un incontro l’altro ieri. «È giusto siano presenti anche quelli di cui non condividiamo le idee», dice a titolo personale Ricardo Franco Levi, presidente dell’Associazione italiana editori, nel comitato d’indirizzo. Altaforte si dice stupita e annuncia «verso chi ci sta rivolgendo direttamente e sulla rete messaggi minacciosi», di voler «coinvolgere forze dell’ordine e polizia postale per identificarli».

Salone del libro, si dimette consulente di Lagioia dopo l'ok all'editrice di Casapound. Diego Longhin e Jacopo Ricca il 4 maggio 2019 su La Repubblica. Christian Raimo: "L'antifascismo è militante o non  lo è". Confermato il no ai politici scrittori. La polemica sulla presenza di editori neofascisti al Salone del Libro miete la prima vittima. Christian Raimo, consulente editoriale di Librolandia, si è dimesso questo pomeriggio: "Mi dimetto per proteggere il Salone del Libro di Torino dalle polemiche che hanno fatto seguito a un mio post, pubblicato a titolo strettamente personale - ha spiegato lo scrittore - Il Salone è uno spazio di libertà, di dibattito e confronto di idee, di cultura e di apertura, di molteplicità e democrazia. È il risultato del lavoro appassionato e della dedizione di centinaia e centinaia di persone. È importante per il paese e appartiene a tutti". Le sue posizioni, orientate a un "Salone militante e antifascista" - fortemente criticate da destra, tanto che il capogruppo leghista in consiglio comunale, Fabrizio Ricca, e la sottosegretario ai Beni culturali, Lucia Borgonzoni, ne avevano chiesto le dimissioni - non sono state condivise dal Comitato che non vuole che il Salone si trasformi in un palcoscenico elettorale e in una cassa di risonanza per i candidati. "L'antifascismo è militante o non è" avea scritto Raimo su Facebook criticando poi la presenza di Pietrangelo Buttafuoco al Lingotto: "Non gli darei tutto questo spazio". Raimo però spiega così la sua scelta: "Con queste dimissioni testimonio il mio sincero e profondo rammarico per una presa di posizione individuale che, ben al di là delle mie intenzioni, potrebbe, ma a nessun costo deve, risultare fuorviante rispetto a ciò che il Salone del Libro è da oltre trent'anni, e vuole essere oggi e in futuro". Insomma, c'è un primo effetto della decisione del Comitato di indirizzo del Salone del libro di dare via libera alla partecipazione di Altaforte, la casa editrice vicina a Casapound. Un passaggio del Comitato di indirizzo del Salone ha sconfessato la linea di Raimo su chi ammettere e chi no al Lingotto: "Allo stesso modo, se non si è stati condannati per reati legati all'odio razziale o all'apologia del fascismo, si può acquistare uno spazio al Salone. È un diritto, al pari del diritto di dissentire e criticare la linea di una casa editrice". Nella sostanza, il via libera alla partecipazione di Altaforte, la casa che edita tra l'altro il libro intervista a Matteo Salvini. Si legge ancora nel comunicato: "Il Salone ha scelto in piena consapevolezza di non diventare palcoscenico elettorale, al fine di non trasformarsi in una cassa di risonanza troppo facile da strumentalizzare; e ancora di essere plurale e aperto alla discussione, perché il dialogo è fondamento della democrazia". Il Salone è quindi ambasciatore della Costituzione e ricorda l'articolo 21 sulla libertà di espressione. Gli organizzatori ricordano la legge Scelba del 1952, coordinata con la legge Mancino del 1993, sanziona e condanna chiunque propagandi idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, rendendo reato in Italia l'apologia di fascismo. "Materia della magistratura, quindi, è giudicare se un individuo o un'organizzazione persegua finalità antidemocratiche - dicono - è pertanto indiscutibile il diritto per chiunque non sia stato condannato per questi reati di acquistare uno spazio al Salone e di esporvi i propri libri. Altrettanto indiscutibile è il diritto di chiunque di dissentire, in modo anche vibrante, dalla linea editoriale perseguita da un editore e dai contenuti dei libri da esso pubblicati. Quale migliore occasione del Salone stesso per affermare questa posizione promuovendo il dibattito sul tema". Il Comitato di indirizzo del Salone del Libro ribadisce pertanto la assoluta indipendenza nella totale adesione ai principi di democrazia enunciati dalla Costituzione e "auspica la partecipazione di tutti al Salone che sempre più si vuole affermare come luogo istituzionalmente aperto al dibattito e al confronto".

LAGIOIA? NO, LANOIA! Luca Ferrua per “la Stampa” l'8 maggio 2019. Alla vigilia dall' inaugurazione del Salone del Libro, la più importante kermesse editoriale d' Italia e la seconda d' Europa, lo scenario è dominato dalla polemica sulla presenza tra gli stand della casa editrice Altaforte vicina a CasaPound. Il direttore Nicola Lagioia si trova al timone di un evento dove si affronta, forse per la prima volta, uno dei conflitti culturali chiave dell' Italia di oggi, ma anche al centro di un caso che forse non esiste: chi li ha voluti?

Lagioia, se potesse tornare indietro al giorno in cui Altaforte si è iscritta, cambierebbe qualcosa?

«Se tornassi indietro accadrebbe la stessa cosa. Le domande di partecipazione non arrivano a me, arrivano al commerciale e noi non abbiamo un controllo, anche se siamo in dialogo costante. È vero che questa casa editrice è nata da poco e anche il commerciale non aveva idea di che cosa fosse, quindi non hanno neanche pensato di avvisarci. Una volta che lo spazio viene venduto, ci hanno detto, sarebbe illegale rifiutarli».

Però poi il problema ve lo siete posto?

«Quando hanno annunciato che avrebbero presentato il libro su Salvini li abbiamo smentiti e si è innescata la polemica. Il problema non è la libera circolazione delle idee, noi accogliamo tutte le opinioni. Il problema è se intorno a questa casa editrice si muove qualcosa che va contro la Costituzione, se intorno c' è apologia del fascismo».

Oggi la politica ha fatto un passo importante. L' esposto di Comune e Regione.

«Il nostro primo passo è stato coinvolgere il Comitato direttivo di cui fa parte tutta l' editoria italiana con Aie e Adire, e tutti ci hanno detto che non c' erano violazioni di legge. Ma il filo con la politica è stato continuo e dopo le ultime dichiarazioni di questo editore ci siamo allarmati: se l' allarme non fosse stato giustificato non saremmo arrivati all' esposto».

La comunità del Salone ha isolato Altaforte: ma non era inclusiva?

«Le dichiarazioni degli esponenti della casa editrice hanno cambiato le cose, questo programma che celebra il centenario di Primo Levi è antifascista, lo sono molti scrittori. La comunità del Salone è aperta, pacifica, inclusiva e non fa provocazioni. Loro si sono isolati con questo atteggiamento».

La accusano di aver voluto tenere la politica fuori del Salone ma la politica è rientrata e non l' avete gestita.

«Noi vogliamo parlare di politica in maniera complessa e profonda, i politici possono venire, ma non a fare campagna elettorale: la ricerca del voto trasforma il discorso in slogan senza profondità. Io spero che questa vicenda di Altaforte inneschi un dibattito serio e articolato, e che il Salone risponda con gli intellettuali, non con chi reagisce agli slogan con gli slogan. Il Salone è una delle ultime grandi agorà rimaste, la questione non è più Milano contro Torino ma sono i contenuti».

Però in passato avete avuto case editrici di destra e non è accaduto nulla, forse il libro di Salvini ha avuto un ruolo chiave?

«Il Salone non è una vetrina editoriale, è un luogo critico che prende posizione. La prima edizione l' abbiamo intitolata "Oltre il confine" e in questa abbiamo scelto non un Paese ospite ma una lingua che i confini li attraversa. Faccio un esempio. Il muro di Trump blocca il confine tra Messico e Stati Uniti, ma non la lingua: quella va dappertutto come la cultura. Sono tutte scelte poco neutrali. Perché prendiamo posizione, esprimiamo vicinanza. Salvini ha pubblicato con Rizzoli quando non era al centro delle scene e oggi pubblica con Altaforte. Anche questo è un segnale di cambiamento, una scelta di vicinanza. Per me sarebbe difficile vedere un libro che parla di me edito da una casa editrice che non ha nulla a che fare con me, quindi il segnale dato da Salvini significa per lo meno vicinanza a quella casa editrice».

Il fascismo eterno di Raimo. Luigi Iannone il 3 maggio 2019 su Il Giornale. Christian Raimo rimugina con una certa periodica ossessività sui propri tormenti che sono poi linfa vitale di certa sinistra; quella sinistra che, per decenni, ha monopolizzato cattedre universitarie, studi televisivi, case editoriali e tutto il resto. Congettura chissà quali scenari di fronte ad una realtà che, a leggerla con animo spurio da farneticante ideologia, rientra nella normale elaborazione culturale e nella più ordinaria discussione pubblica. Ma agli emancipati progressisti del nostro tempo provoca una sgradevole orticaria quella galassia di case editrici, convegni, associazioni culturali ed iniziative editoriali che, negli ultimi anni, sta incrementando a dismisura la propria presenza e pervasività. «I neofascisti si stanno organizzando» e poi «L’antifascismo oggi o è militante o non è» sembrano slogan dei tempi di Valle Giulia. La seconda affermazione di Raimo, tuttavia, non merita alcuna confutazione. Ho in più occasioni scritto che il fascismo fu mille cose ma essenzialmente traducibile e sintetizzabile nella figura di Mussolini. Storici di chiara fama (si dice così, no?) hanno spiegato molto bene questo concetto e sciorinato ogni possibile motivazione, prima e meglio di me. Senza Mussolini non è più possibile immaginare una riproposizione del fenomeno se non in termini folkloristici e, in alcuni casi, parodistici. Dunque, anche l’antifascismo di cui Raimo mena vanto è una caratterizzazione ideologica che si connota identitariamente grazie alla ineludibile necessità del riconoscimento di un nemico; che, però, come dicevo, non esiste. E che non esisterà più perché Mussolini è morto nel 1945. Certo, la bravura di questi signori è stata (ed è) quella di aver trasposto su un altro piano la questione e di averla agghindata col solito taglio moralistico e manicheo. Tanto bravi da aver trasformato un sostantivo in aggettivo e quindi, per definizione, dando la possibilità ad ogni controversia contemporanea di identificarsi e spiegarsi in quel termine: un uomo che picchia un altro uomo è infatti da ritenersi un «fascista»; un imbecille che importuna ed usa violenza verso una donna di colore è un «fascista», e così via. Ma questa è cosa nota! E se i ‘sinistri’ non vogliono capirla, noi ce ne faremo una ragione. Ciò che inquieta è il rimestare nel torbido; far passare l’idea che il solo fatto che piccole case editrici che hanno una discreta eppur significativa presenza sul territorio nazionale ma che non accedono ai soliti circuiti di Premi letterari, Fiere e cose del genere (sempre monopolizzati dalla sinistra tanto cara a Raimo e a tutti coloro che gli esprimono consenso ogni qual volta lancia slogan di questo tipo), sia esso stesso elemento preoccupante per la tenuta democratica. Insomma, un evento spurio dalla ‘normalità’ democratica. Sarei anche stanco di ribattere a questa solfa reiterata, antica e improduttiva almeno sotto il profilo dell’elaborazione culturale. Per ciò che mi riguarda continuo a credere che l’impegno di tanti amici e di tante penne brillanti come Giuli, Stanca, Giubilei, Dell’Orco, sia utile per articolare la discussione intellettuale e non renderla asfittica. E mi sembra ancora più offensivo e irrispettoso il fatto che citando le passate Fiere del Libro, Raimo affermi che «però era garantita la presenza di case editrici catacombali come le Edizioni di Ar». A ben intendere… si direbbe una sorta di ‘’operazione Panda’’, di cui quasi dovremmo ringraziarlo(li) per la indubbia magnanimità. Mentre adesso si debba segnalare come pericoloso il fatto che i libri pubblicati da case editrici ‘’non progressiste’’ (Raimo, va bene non progressiste?) inizino ad essere tanti, troppi, e allora il fenomeno andrebbe immediatamente regolato (ed uso il termine ‘’regolato’’ come eufemismo). Caro Raimo, si rassegni e soprattutto non metta nello stesso calderone picchiatori e complottisti, terrapiattisti e nazisti dell’Illinois, razzisti e chi reputa necessario regolare i flussi migratori, sovranismo e totalitarismo, conservatorismo e medioevo, chi legge Heidegger e chi vuole gasare gli ebrei, la questione rom, le curve di calcio, Luca Traini, Torre Maura e Primo Levi. E’ un giochetto che non funziona più! O meglio, funziona solo nei talk show politici, veri e propri teatrini del nulla, e nelle Fiere e nei Premi Letterari dove si incontrano e si premiano gli amici degli amici. Io scrivo di Ernst Jünger e di Prezzolini, di Scruton e di Longanesi, di Aron e di Simone Weil, e tento di non fare macedonie. D’altra parte il ‘sinistro’ Giovanni Raboni, dalle colonne del Corriere della Sera, disse che erano i più importanti scrittori del Novecento. Ma questa è storia a Lei nota. Eviti di farne anche Lei di macedonie! C’è un mondo al di fuori della sua finestra. Respiri a pieni polmoni e non abbia timore.

Wu Ming non sarà  al Salone del Libro: «Gomito a gomito  coi neofascisti? Mai». Pubblicato lunedì, 06 maggio 2019 da Valeria Catalano su Corriere.it. «Gomito a gomito coi neofascisti? Mai». È il titolo secco di un post dei Wu Ming sul blog Giap. E racchiude in breve la motivazione della decisione di annullare la partecipazione al Salone del Libro di Torino. Wu Ming 4 avrebbe dovuto presentare l’antologia di suoi scritti su J.R.R. Tolkien «Il Fabbro di Oxford», in uscita per la casa editrice Eterea domenica 12 maggio in Sala Bronzo. Ma non lo farà perché alla fiera del libro di Torino sarà presente anche la casa editrice vicina a CasaPound Altaforte che ha inoltre pubblicato il libro su Matteo Salvini, «Io sono Matteo Salvini, intervista allo specchio», a cura di Chiara Giannini. L’ufficialità della presenza di Altaforte è arrivata sabato tramite una nota del comitato di indirizzo del Salone. Ne sono seguite le dimissioni dello scrittore e consulente di Nicola Lagioia, Christian Raimo, finito nella bufera dopo un duro post in cui spingeva per un «Salone antifascista e militante» e definiva «neofascisti e razzisti» alcuni editori e giornalisti. I Wu Ming nel testo pubblicato sul blog esprimono tra l’altro solidarietà proprio a Raimo «per la campagna d’odio che sta subendo». E non sono i soli. Sulla stessa linea lo storico e saggista Carlo Ginzburg che pure fa sapere che diserterà l’appuntamento con il Salone: «Informo che annullerò la mia partecipazione al Salone del libro di Torino, prevista per l’11 maggio». Ginzburg avrebbe dovuto parlare del suo ultimo volume «Nondimanco. Machiavelli, Pascal», edito da Adelphi. «Condivido pienamente le dichiarazioni espresse dal collettivo Wu Ming a proposito della presenza al Salone della casa editrice Altaforte, legata a CasaPound - spiega Ginzburg -. La mia, tengo a sottolinearlo, è una scelta politica, che non ha nulla a che fare con la sfera della legalità. Desidero esprimere in questa circostanza la mia solidarietà a Christian Raimo». Il collettivo di scrittori bolognese spiega nel testo pubblicato sul blog la scelta di disertare l’appuntamento con il Salone torinese: «A Torino si è compiuto un passo ulteriore nell’accettazione delle nuove camicie nere sulla scena politico-culturale italiana». Questo perché secondo i Wu Ming, venendo meno ad un’assunzione di «responsabilità politica e morale» il comitato d’indirizzo del Salone ha risposto alle critiche mosse per la presenza dello stand Altaforte «nascondendosi dietro il “legale”. Casapound non è fuorilegge, dunque può stare al Salone, basta che paghi». «Per rigettare il fascismo — continua invece il collettivo — non serve un timbro della questura». «Noi — concludono— - riteniamo che i fascisti vadano fermati e, metro dopo metro, ricacciati indietro. Noi riteniamo necessario dare segnali sempre più chiari e forti, come è stato fatto venerdì scorso nella piazza di Forlì. Noi non abbiamo intenzione di condividere alcuno spazio o cornice coi fascisti. Mai accanto ai fascisti. Per questo non andremo al Salone del Libro». A dire la propria sul tema anche alcuni consiglieri del Movimento 5 Stelle di Torino: Damiano Carretto, Maura Paoli e Daniela Albano che sui loro profili social hanno pubblicato un post dal titolo «Fuori il fascismo dal Salone del Libro». «La nostra città, medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza — scrivono — non può e non deve accettare che vengano diffusi messaggi di chiaro stampo fascista all’interno del più importante evento culturale cittadino. Non ritengo che venga leso alcun diritto costituzionale nel voler sancire in modo chiaro e netto che chi si adopera per diffondere ideali che non dovrebbero più trovare spazio nel nostro Paese, non può trovare spazio in un evento della Città di Torino. Mi auguro - conclude il post - che il comitato di indirizzo del Salone riveda la propria posizione ed escluda la società Altaforte Edizioni dalla manifestazione».

Salone del Libro:  Ginzburg e Wu Ming non partecipano  Proteste per Altaforte. Pubblicato lunedì, 6 maggio 2019 da Corriere.it. «Annullerò la mia partecipazione al Salone del Libro di Torino». A pochi giorni dall’inizio della manifestazione, al via giovedì, arriva il colpo di un nome di peso come Carlo Ginzburg. Lo storico e saggista — figlio del letterato e antifascista Leone, che morì in carcere nel 1944 in seguito alle torture subite dalle SS — ha fatto sapere ieri in una nota che diserterà la fiera per la presenza di Altaforte, l’editore vicino a CasaPound che pubblica tra l’altro il libro-intervista di Matteo Salvini. Poche ore prima aveva annunciato che non avrebbe partecipato il collettivo Wu Ming. Mentre un gruppo di scrittori, tra i quali le autrici Michela Murgia, Chiara Valerio, Helena Janeczek, Teresa Ciabatti, sta lavorando a un documento (o anche più di uno, perché le posizioni sono articolate) con il quale, pur non disertando il Salone, s’intende esprimere il disagio di «condividere lo spazio con un editore che presenta il fascismo come l’epoca d’oro della società italiana». Il primo a farsi sentire, nella giornata di ieri, è Wu Ming. Nel mirino, il comitato d’indirizzo del Salone, l’organo deputato alla parte logistica e commerciale, al quale lo stesso direttore Nicola Lagioia aveva chiesto di aprire un dibattito sulla presenza di Altaforte. Il comitato ha risposto sabato richiamandosi alla libertà di pensiero garantita dalla Costituzione, quindi alle leggi Scelba e Mancino: «È indiscutibile il diritto per chiunque non sia stato condannato per aver propagandato idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, di acquistare uno spazio al Salone». Per Wu Ming, «un comunicato che, in sostanza, dice: CasaPound non è fuorilegge, dunque può stare al Salone, basta che paghi. Ci si nasconde dietro il “legale” per non assumersi una responsabilità politica e morale. Per rigettare il fascismo non serve un timbro della questura». E ancora: «I fascisti vanno fermati e, metro dopo metro, ricacciati indietro. Non abbiamo intenzione di condividere alcuno spazio o cornice coi fascisti». Via Facebook, anche i consiglieri Cinque Stelle di Torino, Damiano Carretto e Daniela Albano, chiedono che «il comitato di indirizzo del Salone riveda la propria posizione ed escluda Altaforte». Lo storico Carlo GinzburgGinzburg, che avrebbe dovuto parlare del suo libro Nondimanco. Machiavelli, Pascal (Adelphi), dice di condividere le dichiarazioni di Wu Ming. E sottolinea che la sua «è una scelta politica, che non ha nulla a che fare con la sfera della legalità». Lo storico esprime solidarietà a Christian Raimo, lo scrittore consulente del Salone che si è dimesso per le polemiche suscitate da un suo post su Facebook (poi cancellato) contro alcuni giornalisti ed editori accusati di «razzismo esplicito» e di formare «think tank organici al governo». La scrittrice Michela Murgia «Anche io sono a disagio per la presenza di Altaforte, ma non possiamo abbandonare lo spazio del libro più importante d’Italia» riflette Michela Murgia, autrice del pamphlet dal provocatorio titolo Istruzioni per diventare fascisti (Einaudi). «È importante esserci con il corpo. Stare. Uno stare di lotta, non passivo». Per questo, «io andrò al Salone e presenterò i volumi degli altri, ma non il mio, così da dare un segnale». Chiara Valerio, scrittrice«Non sono mai i libri che fanno male — dice Chiara Valerio —, nessun titolo deve essere messo all’indice. Per questo andrò al Salone a presentare i volumi dei colleghi. Ma sono anch’io a disagio nel far parte di un programma editoriale in generale antifascista, che però ospita un marchio collegato a CasaPound». In passato il Salone aveva già dato spazio a editori controversi, «ma quest’anno — nota Valerio — è il contesto politico che è cambiato». «Propongo picchetti davanti agli stand di editori di ultradestra. Non può farlo Raimo, facciamolo noialtri. Forza, Christian. Coraggio, Nicola Lagioia» scrive su Facebook l’editor Vincenzo Ostuni. Mimmo Franzinelli, storico. A Torino ci sarà anche lo storico del Novecento Mimmo Franzinelli. «Vado nello spirito di essere una presenza alternativa a Salvini e CasaPound». Quanto alla decisione del Salone su Altaforte, «sul piano formale è ineccepibile — dice —, ma nel merito me lo devono spiegare cosa ha a che fare CasaPound con la cultura». Il problema per Franzinelli è a monte: «Uno dei motivi per andare è chiedersi, nel panel di cui farò parte, se sia giusto che CasaPound, il cui filone è il fascismo radicale, sia legale».

Salone del Libro, si ritira anche Zerocalcare. Murgia: "#ioVadoaTorino, non lasciamo la fiera ai fascisti". Diego Longhin il 06 maggio 2019. Chiamparino: "Non si può impedire la presenza di Altaforte". Appendino: "Torino è antifascista e non abbandonerà il campo". Marcia indietro di Raimo: "Ci andrò, ma da privato cittadino". No dell'Anpi. Si è dimesso da consulente del Salone del Libro dopo le polemiche sul suo post in cui attaccava la presenza della casa editrice Altoforte e del libro intervista a Salvini al Lingotto. Lo scrittore Christian Raimo però al Salone ci andrà, ma da privato cittadino. Ci sarà anche la scrittrice Michela Murgia. E nasce l'hashtag #iovadoatorino cui hanno già aderito molti scrittori. E nella polemica intervengon  anche il presidente del Piemonte Sergio Chiamparino e la sindaca di Torino Chiara Appendino: "Da tempo ci troviamo davanti - dice Chiamparino - ad aperte apologie del fascismo e manifestazione politiche, penso a CasaPound o Forza Nuova, che esplicitamente fanno riferimento al nazismo e al fascismo. Il mio invito mio è che è tempo che su questi fenomeni le autorità preposte valutino se ci sono gli estremi di appellarsi alla Costituzione che vieta la rifondazione del partito fascista. In assenza di questo, al di là dei miei giudizi personali, cioè che non gradisco la presenza di quella casa editrice al Salone del Libro, altro conto è impedirle di esercitare un suo diritto".

Appendino è su una linea simile: "Torino è antifascista. Questo semplice concetto in premessa deve essere molto chiaro, così come deve essere altrettanto chiaro che, in democrazia, non esistono alternative praticabili a questa posizione. A quei valori liberali, democratici, antifascisti, vogliamo tenere fede. L’occasione è utile per ricordare che la Città di Torino, Medaglia d’Oro alla Resistenza, sarà presente al Salone del Libro. Sarà presente con il suo stand e i suoi eventi, incarnando nella sua bandiera quei valori di libertà e uguaglianza che fanno parte della nostra stessa identità. Di certo, non abbandoneremo il campo, perché le idee si combattono con idee più forti. Le nostre ci saranno e, insieme alle nostre, ce ne saranno tantissime altre. È solo con la cultura che possiamo porre un argine a ogni possibile degenerazione o ritorno di ciò che deve essere archiviato per sempre. Tanti e uniti. È così che si vince".

Zerocalcare e Anpi, si allarga anche il fronte del no. Ma si allarga anche il fronte del no. Dicono no al Salone, dopo  Wu Ming e lo storico Carlo Ginzburg, anche Zerocalcare e la presidente nazionale dell'Anpi (l'associazione nazionale partigiani) Carla Nespolo, che ha annullato la sua partecipazione al Salone del libro di Torino dove avrebbe dovuto presentare, il 10 maggio, il volume di Tina Anselmi "La Gabriella in bicicletta" edito da Manni. Il motivo è legato "all'intollerabile presenza al Salone della casa editrice Altaforte che pubblica volumi elogiativi del fascismo oltreché la rivista Primato nazionale, vicina a CasaPound e denigratrice della Resistenza e dell'Anpi stessa". Zerocalcare spiega  "Ho annullato tutti i miei impegni al Salone del libro di Torino, sono pure molto dispiaciuto ma mi è davvero impossibile pensare di rimanere 3 giorni seduto a pochi metri dai sodali di chi ha accoltellato i miei fratelli, incrociarli ogni volta che vado a pisciare facendo finta che sia tutto normale. Non faccio jihad, non traccio linee di buoni o cattivi tra chi va e chi non va, sono questioni complesse che non si esauriscono in una scelta  sotto i riflettori del salone del libro e su cui spero continueremo a misurarci perché la partita non si chiude così. Sono contento anche che altri che andranno proveranno coi mezzi loro a non normalizzare quella presenza, spero che avremo modo di parlare anche di quello". Non ci sarà anche la scrittrice Francesca Mannocchi.

Raimo: "Ci sarò da privato cittadino". Raimo annuncia invece la sua presenza al Salone con un altro post su Facebook: "Ogni spazio pubblico è un luogo di battaglia, culturale, politica, civile, antifascista - scrive -  Io andrò al Salone del libro di Torino, non più da consulente, ma ancora da autore, lettore e cittadino. Il programma che Nicola Lagioia e il comitato editoriale ha messo su per quest'anno (anche io ho dato una piccola mano) è straordinario, anche da un punto di vista della qualità del dibattito intorno alla politica e alla democrazi. "Li devo ringraziare molto come intellettuale prima che come compagno di un'avventura durata due anni. Andrò al Salone perché è un luogo prezioso, perché è ancora più cosmopolita e internazionale, con una lingua ospite invece di un paese ospite. Perché voglio ascoltare i genitori di Giulio Regeni, l'incontro con Wole Soyinka, la lettura che farà Fabrizio Gifuni di Cortazar e Bolaño, l'incontro su fascismo e antifascismo con David Bidussa, Mimmo Franzinelli e altri, l'incontro la vincitrice del National Book Award Martha Gessen, l'incontro di commemorazione su Primo Levi, e molte altre cose che verranno.

Nasce l'hashtag #iovadoatorino. E nasce l'hashtag #iovadoatorino In risposta alla scelta del collettivo Wu Ming e di Carlo Ginzburg di disertare il Salone per la presenza della casa editrice AltaForte, un gruppo di autori capitanati da Michela Murgia dice no al boicottaggio. Un messaggio che rimbalza su altri profili, da Chiara Valerio allo stesso  Raimo. Murgia propone letture antifasciste durante gli incontri al Salone.  “Se CasaPound mette un picchetto nel mio quartiere che faccio, me ne vado dal quartiere? Se Forza Nuova si candida alle elezioni io che faccio, straccio la tessera elettorale e rinuncio al mio diritto di voto? Se la Lega governa il paese chiedo forse la cittadinanza altrove?  No. Non lo faccio. E non lo faccio perché da sempre preferisco abitare la contraddizione piuttosto che eluderla fingendo di essere altrove”. Ecco perché è meglio essere al Salone e perché il gruppo che si riconosce nel post rispetterà gli appuntamenti. “Per questa ragione al Salone del libro di Torino io ci andrò e ci andranno come me molti altri e altre. Lo faremo non "nonostante" la presenza di case editrici di matrice dichiaratamente neofascista, ma proprio "a motivo" della loro presenza. Siamo convinti che i presidii non vadano abbandonati, né si debbano cedere gli spazi di incontro e di confronto che ancora ci restano.

Come segnare la differenza? Usare gli incontri in cui si presentano i libri “per leggere un testo che ricordi cosa ha fatto il regime fascista in questo Paese, chi ha perseguitato, chi ha ucciso, chi ha mandato al confino e quale responsabilità mai affrontata si porta addosso chi lo rimpiange”, scrive Murgia taggando il suo pensiero con diversi colleghi come Helena Janeczek, Chiara Valerio, Rossella Milone, Evelina Santangelo, Hamid Ziarati, Giacomo Papi, Giulio Cavalli, lo stesso direttore del Salone Nicola Lagioia, l'ex consulente Christian Raimo, Alessandro Giammei, Riccardo Cavallero, Adriano Salani Editore Leonardo Caffo, Giorgio Ghiotti, Tommaso Pincio, Antonella Lattanzi, Gaia Manzini, Ciro Auriemma, Renato Troffa.

Fascisti al Salone, una scelta politica. Andare o non andare all'evento in cui ci sarà anche la casa editrice vicina a CasaPound? Da Michela Murgia a Zerocalcare le nostre firme si schierano. Pubblichiamo i loro interventi scritti sui vari profili social e vi invitiamo a partecipare al dibattito. L'Espresso 6 maggio 2019.

ZEROCALCARE. Ciao, in effetti ho annullato tutti i miei impegni al Salone del libro di Torino, sono pure molto dispiaciuto ma mi è davvero impossibile pensare di rimanere 3 giorni seduto a pochi metri dai sodali di chi ha accoltellato i miei fratelli, incrociarli ogni volta che vado a pisciare facendo finta che sia tutto normale. Non faccio jihad, non traccio linee di buoni o cattivi tra chi va e chi non va, sono questioni complesse che non si esauriscono in una scelta sotto i riflettori del salone del libro e su cui spero continueremo a misurarci perché la partita non si chiude così. Sono contento anche che altri che andranno proveranno coi mezzi loro a non normalizzare quella presenza, spero che avremo modo di parlare anche di quello. Ciao. PS: non è che io so diventato più cacacazzi negli ultimi tempi, anzi so pure molto piu rammollito, è che oggettivamente sta roba prima non sarebbe mai successa. Qua ogni settimana spostiamo un po' l'asticella del baratro.

MICHELA MURGIA. Se Casa Pound mette un picchetto nel mio quartiere che faccio, me ne vado dal quartiere? Se Forza Nuova si candida alle elezioni io che faccio, straccio la tessera elettorale e rinuncio al mio diritto di voto? Se la Lega governa il paese chiedo forse la cittadinanza altrove? No. Non lo faccio. E non lo faccio perché da sempre preferisco abitare la contraddizione piuttosto che eluderla fingendo di essere altrove. Per questa ragione al Salone del libro di Torino io ci andrò e ci andranno come me molti altri e altre. Lo faremo non "nonostante" la presenza di case editrici di matrice dichiaratamente neofascista, ma proprio "a motivo" della loro presenza. Siamo convinti che i presidii non vadano abbandonati, né si debbano cedere gli spazi di incontro e di confronto che ancora ci restano. Ci sono casi - casi come questo - in cui l'assenza non ci sembra la risposta culturalmente più efficace. Per questo motivo non lasceremo ai fascisti lo spazio fisico e simbolico del più importante appuntamento editoriale d'Italia. Saremo invece l'uno accanto all'altra per leggere, parlare, testimoniare e incontrare i lettori e le lettrici in un momento in cui ogni spazio democratico va difeso palmo a palmo. Personalmente non cancellerò alcun incontro, ma userò l'unico in cui presentavo un libro mio per leggere un testo che ricordi cosa ha fatto il regime fascista in questo paese, chi ha perseguitato, chi ha ucciso, chi ha mandato al confino e quale responsabilità mai affrontata si porta addosso chi lo rimpiange. Chiedo ai lettori e alle lettrici che verranno a sentirmi SABATO 11 ALL'ARENA BOOKSTOK ALLE 18:30 di venire con un libro che per loro incarni e rappresenti i valori della democrazia, dell'umanità e della convivenza offesi dal fascismo e dal nazismo. Alla fine del reading vorrei vedere quei libri sollevati come uno scudo silenzioso, come un argine di storie potenti da contrapporre a chi la storia la vorrebbe negare e riscrivere. L'unica difesa contro un presente senza coscienza è ricominciare a proteggere la memoria insieme.

FRANCESCA MANNOCCHI. Ho osservato tutto da qui, dalla Libia. Ho letto comunicati ufficiali, dimissioni. Prese di distanza. E' il mio turno. Non sarò al Salone di Torino a parlare del mio libro e di migrazioni, dell'oblio dei morti nel Mediterraneo e delle politiche che l'hanno generata. Ho deciso di annullare la mia presenza il prossimo dodici maggio. Sarebbe stato troppo il disagio, personale e politico. Il privato è ancora politico? Il nostro paese non è il paese di dieci anni fa, di venti anni fa. E' il paese dei grembiuli, delle armi, dei balconi. E' la Macerata di Traini, candidato con la Lega Nord a Corridonia e degli stupratori di Viterbo, targati Casa Pound. E' il paese della sparatorie a Napoli e dei selfie del Ministro dell'Interno con Orban davanti al filo spinato. E' il paese in cui Salvini di fronte alle minacce razziste ('ammazza il negro') scritte sul muro della casa di Bakary Dandio e delle sua famiglia adottiva a Melegnano risponde: "Rispetto il dolore e condanno il razzismo, ma la signora rispetti la richiesta di sicurezza degli italiani“. La sicurezza degli italiani. Salvini ha scritto un libro intervista con la casa editrice di Casapound, Altaforte. E anche qui, il passaggio rispetto a pochi anni fa è chiaro. Non è più Rizzoli, come il libro precedente, non serve più mascherarsi dietro editori rispettabili. Significa che Altaforte è sdoganata, del tutto. Anche al Salone, più degli anni precedenti. Tutto questo è accaduto mentre la timidezza dei troppi, la ritrosia della zona grigia, l'opportunismo dei camaleonti di stato consentiva a gruppi fascisti (e partiti appoggiati da gruppi fascisti) di essere sostenuti dalla maggioranza del paese. Perciò no, annullo l'evento cui ero stata invitata e non sarò al Salone di Torino a far parte del "cartellone antifascista". Continuerò a fare il lavoro che faccio, come lo faccio. Che è la mia resistenza, il mio privato e politico antifascismo.

EVELINA SANTANGELO. Io andrò al Salone perché quei 10 metri non diventino 12, 13, 14...Io andrò al Salone perché vengo da una terra, la Sicilia, e da una storia, la lotta alla mafia, in cui le lotte si fanno sul campo non a casa propria. Io andrò al Salone perché so che saremo in migliaia a presidiare i valori antifascisti e democratici in un momento delicatissimo e rischiosissimo non solo per il nostro Paese, ma per l'Europa intera. Io andrò al Salone perché la mia assenza, come quella di ogni ospite che rinuncia, crea un vuoto, e io non voglio lasciare vuoti di pensiero democratico e antifascista. Io andrò al Salone perché da molti anni studio la rete neonazista e ho capito quanto sia sempre più pericolosa e capillare. E quel che so intendo continuare a testimoniarlo con la sostanza delle verità, non con proclami. Io andrò al Salone perché il Salone è patrimonio della cultura democratica di questo Paese, cui non intendo rinunciare. Io andrò al Salone perché se non andrò, la loro voce avrà già vinto sul mio silenzio. Per il resto, ognuno si assuma la responsabilità delle proprie scelte. Ps: E, sì, come dice Michela Murgia ognuno venga con un libro che per loro incarni e rappresenti i valori della democrazia, dell'umanità e della convivenza offesi dal fascismo e dal nazismo.

CHIARA VALERIO. io vado, come ogni anno. e penso che quest’anno presidiare il dissenso sia il gesto che più somiglia alla cultura e alla libertà. o comunque è quello che sono io. i libri, tutti i libri, non sono mai il problema. 

HELENA JANECKZEK. Vengo al Salone per celebrare l'eredità di Primo Levi nella città dov'è nato, un'eredità che oggi è quanto mai preziosa. Vengo al Salone per presentare un romanzo e un pamphlet dello scrittore austriaco Robert Menasse che illustra come la crisi dell'UE sia stata scatenata dalla prevaricazione degli interessi economici e politici delle nazioni più potenti, molto prima che prendessero la deriva "populista" e "sovranista". Vengo al Salone anche per presentare un mio libro. Ma nonostante questo libro rifletta, per esempio, sul fatto che di recente dei bambini stranieri siano stati esclusi dalle mense scolastiche, identifcati come nemico, "Cibo" non sarà l'unico oggetto dell'incontro. Portate i vostri libri - come vi invita a fare Michela Murgia -  e le vostre domande, io porterò qualcosa che parli di cos'è stato il nazifascismo ieri e che cosa sono oggi i processi già largamente in corso di esclusione e disumanizzazione. E se è di questo che parleremo per tutto lo spazio che mi è concesso, a me sta molto ma molto bene.

Libri ai camerati: ecco l'editore di CasaPound che pubblica Salvini e va al salone di Torino. Il filone di affari che oggi appare maggiormente in espansione nell'estrema destra è l’attività editoriale. E il principale esempio è la casa editrice Altaforte al centro delle polemiche in questi giorni. Andrea Palladino l'1 aprile 2019 su L'Espresso. Business. Affari. Vetrine nelle città. E una passione sconfinata per il ventennio fascista. Il territorio, per CasaPound, è prima di tutto questo. L’ultimo avamposto - tutto commerciale - lo hanno inaugurato solo pochi giorni fa nel quartiere Esquilino, a pochi passi dalla sede nazionale occupata abusivamente. In via Merulana - la strada storica che collega Piazza Vittorio con San Giovanni - un caffè è diventato ora Pivert store, il marchio sfoggiato allo stadio da Matteo Salvini. Venti punti vendita, un centro logistico a Cernusco sul Naviglio, pubblicità aggressiva in rete e un fatturato niente male. CasaPound non è solo moda. Il filone di affari che oggi appare maggiormente in espansione è l’attività editoriale. Un’operazione prima di tutto politica, che punta a coagulare i movimenti della destra neofascista attorno all’organizzazione fondata da Gianluca Iannone. Alla fine del 2017 hanno lanciato la rivista mensile “Il primato nazionale”, che dedica copertine al vetriolo a tutti i nemici politici, da papa Francesco a Saviano. L’ultimo numero cambia genere e ha l’aspetto di un manifesto politico, celebrativo di Benito Mussolini. Il 23 marzo è stato il centenario della fondazione dei Fasci di combattimento, il movimento di San Sepolcro, che prese il nome dalla omonima piazza milanese. È il vero faro ideologico di CasaPound, tanto da organizzare proprio in questa data il concerto milanese degli ZetaZeroAlfa, il gruppo musicale di Gianluca Iannone, famoso per i versi «non stare in pena, nel dubbio mena”». Il marchio editoriale di CasaPound è Altaforte, controllato dalla Sca 2080, più di 200 mila euro di fatturato nell’ultimo bilancio del 2017. Il socio principale è la Minerva Holding della famiglia Polacchi di Roma, lo stesso gruppo a capo della Pivert. Si presenta come “La casa degli editori” e distribuisce i libri di sei marchi dell’area della destra estrema. Nel catalogo di Altaforte sono entrati anche i fumetti di Ferro gallico, società legata a militanti di Forza nuova. Tra i soci ci sono Federico Goglio, alias Skoll, musicista identitario: «Ferro, fiamme, liberami! Estetica ed onore… L’era della spada tornerà», sono le rime di una delle sue canzoni più conosciute. C’è Alfredo Durantini, candidato di Forza nuova per le politiche del 2018 e Marco Giuseppe Carucci, già portavoce del partito di Roberto Fiore in Lombardia. Tra gli ultimi arrivati nel portfolio di Altaforte c’è poi Aga, gruppo editoriale diretto da Maurizio Murelli, ex terrorista nero tra i responsabili del lancio di una bomba a mano durante un corteo nel 1973 a Milano che provocò la morte dell’agente Antonio Marino. Legatissimo ad Aleksander Dugin, editore di alcuni suoi testi tradotti in italiano, Murelli fu tra gli organizzatori del tour dell’ideologo del nazionalismo russo in Italia lo scorso giugno, con tappa proprio nella sede di CasaPound di Via Napoleone III a Roma. Nel catalogo della Aga, distribuito dall’editore vicino a CasaPound, ci sono copertine evocative: “Gente di squadra”, con un pugnale e la foto degli squadristi degli anni ‘20. Sansepolcro e gli scagnozzi di Mussolini sono le icone immancabili.

Squadrismo e tanta Russia. Nella libreria dei fascisti del nuovo millennio - inserita nel catalogo di Altaforte - non possono mancare i libri della neonata casa editrice “Passaggio al bosco”. Tra i volumi offerti c’è “Donbass, una guerra in Europa”. Prefazione di Dugin con, tra gli autori vari, anche Gianluca Savoini, presidente dell’associazione Lombardia Russia, uomo di relazione con Mosca di Matteo Salvini. Nella lunga intervista di presentazione del libro pubblicata da Sputniknews, Savoini presenta così il saggio: «È un libro a più mani. Io mi sono occupato dell’aumento della tensione tra Russia e Nato dopo la fine dell’Urss, che ha portato alle finte rivoluzioni “colorate” antirusse sponsorizzate dagli americani». Nel catalogo di Altaforte c’è poi Idrovolante, editore che distribuisce le opere dell’avvocato storico di CasaPound Domenico Di Tullio e del figlio dell’ideologo del movimento Carlomanno Adinolfi. Idrovolante fa parte del gruppo editoriale che pubblica la rivista di “Nazione futura”, think-tank che nei giorni scorsi ha organizzato a Roma l’incontro “Europa sovranista”. Tra gli ospiti spiccava Benjamin Harnwell, punto di riferimento in Italia di Steve Bannon, tra i fondatori del Dignitatis Humanae Institute, la scuola dei populisti che ha preso in gestione il convento di Trisulti. C’erano anche Daniele Scalea, legato al sottosegretario agli esteri Guglielmo Picchi, Maria Giovanna Maglie e Mario Giordano. Il nuovo salotto identitario, il giro sovranista puntello ideologico del governo gialloverde. La distribuzione della casa editrice legata a CasaPound si dirige ora verso una stretta sinergia con la rete del marchio Pivert. Nei primi mesi del 2019 Altaforte ha aperto due librerie, prima a Bolzano e poi a Piacenza. Si appoggia agli store che già vendono da tempo le felpe e i vestiti preferiti dal partito di Iannone. I negozi si affidano alle strutture di partito locali, in un incrocio tra politica ed affari. Tra soci e consigli di amministrazione i dirigenti di CasaPound la fanno da padrone. Nell’ultimo marchio nato nel settore moda - le scarpe Stolen Dreams - oltre a Francesco Polacchi, ex capo del Blocco studentesco romano, ci sono Marco Clemente e Marco Casasanta, due nomi molto noti del movimento, e Ludovica Minoli, militante storica e socia del Pivert Store di Milano. A tenere le fila di Altaforte come direttore editoriale c’è poi Andrea Antonini, vicepresidente di CasaPound. Ha il curriculum giusto: una condanna in primo grado a tre anni e sette mesi di reclusione per gli scontri a Casal San Nicola, quando guidò i camerati contro i migranti, mentre nel 2016 è stato condannato in primo grado con l’accusa di aver aiutato il narcotrafficante Mario Santafede ad ottenere una carta di identità con false generalità. Oggi gira l’Italia presentando libri, disegnando complotti per la “sostituzione etnica”, con in tasca il catalogo del perfetto fascista del terzo millennio.  

 CHI E', CHI NON E' E CHI SI CREDE DI ESSERE FRANCESCO POLACCHI. Diego Longhin per “la Repubblica” l'8 maggio 2019. Un esposto in procura per apologia del fascismo contro Francesco Polacchi, l' esponente di Casa-Pound proprietario della casa editrice Altaforte che ha provocato un terremoto nel mondo editoriale e tra gli scrittori alla vigilia del Salone del Libro di Torino. La denuncia è la carta che la sindaca di Torino, la 5 Stelle Chiara Appendino, e il presidente Pd della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, si sono giocati per tentare, all' ultimo, di offrire agli organizzatori del Salone l' occasione per tenere fuori dalla manifestazione chi dice di « essere fascista » e che « l' antifascismo è il vero male di questo Paese ». La denuncia si basa su queste due frasi dette da Polacchi a Radio 24 e poi ribadite più volte lunedì, quando la polemica da culturale è diventata politica. Una denuncia che arriverà oggi alla procura di Torino e che confluirà in un fascicolo che sarà affidato al procuratore aggiunto Emilio Gatti. « Abbiamo deciso di dare un segnale politico molto forte», sottolinea il governatore Chiamparino. E aggiunge: «Riteniamo ci possano essere gli estremi che prefigurano la violazione delle norme in materia di ricostituzione del partito fascista » . La sindaca Appendino aggiunge che «l' intolleranza si combatte con il diritto » . La strada dell' esposto è un modo per lanciare un segnale politico e uscire dall' angolo. Non solo. Con l' apertura di un' inchiesta da parte dalla magistratura gli organizzatori del Salone, il Circolo dei Lettori e l' associazione Torino, città del libro, potrebbero avere un' arma in più per lasciare fuori dal Salone Altaforte. Dipende da cosa succederà nelle prossime ore, prima del taglio del nastro di domani. Intanto Polacchi ha abbassato i toni. La polemica scoppia sabato, quando il Comitato di indirizzo della Fiera, dopo una presa di posizione del direttore editoriale Nicola Lagioia che chiedeva di esprimersi sulla presenza di Altaforte, dice sì alla editrice vicina ai neofascisti. Un' esclusione può esserci solo in caso di condanna e di intervento della magistratura. Il primo effetto: le dimissioni del consulente di Lagioia, Christian Raimo (in seguito a un post sui social poi cancellato), e poi una serie di autori, da Wu Ming a Carlo Ginzburg, passando per Zerocalcare. In contemporanea c' è il fronte dell' hashtag # iovadoaTorino, capitanato da Michela Murgia. L' ultimo ad annunciare la sua presenza è Roberto Saviano. Alla fine le defezioni sono poche ma pesanti: anche l' Anpi con la presidente Carla Nespolo ha confermato che non sarà al Salone e l' appello della sopravvissuta al lager Halina Birenbaum, e del direttore del museo di Auschwitz Piotr Cywinski per non andare insieme ai fascisti hanno lasciato il segno. Per questo Appendino e Chiamparino hanno deciso di lanciare un segnale. Polacchi, oltre a non reagire, tira in ballo il ministro dell' Interno Matteo Salvini: « Ci attaccano per censurare lui » . Il ministro si tiene distante. « Io non sono fascista, sono antifascista, anticomunista, antirazzista, antinazista, tutto l' anti possibile». Non sarà al Salone di Torino. Domani potrebbe invece passare, prima del comizio serale, il leader di CasaPound, Simone Di Stefano. Un problema nel giorno di inaugurazione della Fiera. La scelta di Appendino e Chiamparino di coinvolgere la magistratura è appoggiata dai principali esponenti 5 Stelle del governo. «Condivido la denuncia fatta dalle istituzioni comunali e regionali contro delle dichiarazioni » , dice Di Maio. Condivisione anche da parte del ministro alla Cultura Bonisoli, che domani sarà all' inaugurazione del Salone « è un lungo di democrazia perché i libri sono idee».

Paolo Berizzi per “la Repubblica” l'8 maggio 2019. Francesco Polacchi sono quattro. Il capetto di CasaPound («sì, sono fascista»). L' imprenditore dell' abbigliamento (marchio Pivert, che piace a Salvini e «ai ragazzi che vanno allo stadio»). L' editore "sovranista". Il picchiatore («a volte servono le maniere forti»). Difficile stabilire dove si sia più distinto: ma i camerati che lo conoscono scommettono che questa fama improvvisa, arrivata grazie a Matteo Salvini dopo una lunga scia di "rogne" e processi, lo faccia godere tanto quanto prendere a legnate una «zecca rossa». Trentatré anni, romano, testa rasata, gavetta da "fascio" in carriera. Un tipo sgamato, Polacchi. Veloce con spranga e coltello, pure "bravo" nel commerciale. E poi a suo agio coi selfie. È lui che, nel 2015, a capotavola, immortala l' allegra compagnia fascioleghista riunita in trattoria: il "Capitano" Salvini assieme ai ducetti di CasaPound, gli ex alleati della Lega sovranista, Gianluca Iannone, i fratelli Di Stefano, e ovviamente "Checco", già diventato stilista o comunque si era inventato questo picchio (simbolo di "Pivert") che, stampato su polo e felpe, diventa il distintivo dei «fascisti del terzo millennio». Chissà se Polacchi avrebbe mai immaginato che tre e poi quattro anni dopo a fargli da testimonial e gancio (inconsapevole?) sarebbe stato proprio Salvini: «Fa piacere!», dice quando il 10 maggio 2018 Repubblica rivela che l' attuale ministro dell' Interno (allora stava per diventarlo) si presenta allo stadio Olimpico di Roma (finale di Coppa Italia Juventus-Milan) con il giubbino dei dirigenti e dei militanti di CasaPound. Un anno ancora ed ecco il libro-intervista galeotto: di nuovo, fatalmente, Salvini. Qui entra in gioco il Polacchi-editore. Il caso del Salone del Libro solleva il velo sulla casa editrice Altaforte e sulle vite precedenti, ma nemmeno troppo, di Polacchi. Altaforte è Polacchi e Polacchi è CasaPound («sono il coordinatore lombardo»). In passato è stato capo del Blocco Studentesco, la branca giovanile delle tartarughe nere. Che tra i soci di Altaforte - insieme a quello di maggioranza, la Minerva Holding della famiglia Polacchi - ci sia anche il pregiudicato Federico "Skoll" Goglio, musicista condannato per apologia di fascismo, non è un problema: anzi. Il curriculum forte è quello di Francesco Polacchi. «L' uomo Pivert combatte, si sporca le mani», è scritto sul catalogo Pivert. L' imprenditore-picchiatore è di parola. Infatti è tutt' ora sotto processo per violenze. Il primo episodio che lo fa conoscere alle cronache risale al 2008: a Roma Polacchi guida gli scontri dei giovani fascisti contro gli studenti dell' Onda. Botte in piazza Navona. Viene arrestato e condannato a un anno. Due anni prima - 21enne - è protagonista di un' estate turbolenta: in vacanza a Porto Rotondo, accoltella un giovane sassarese e ne ferisce altri due davanti a una discoteca. Violenza anche nella notte del 13 Aprile 2010, quando Polacchi e i suoi aggrediscono con cinghie e bastoni i militanti del Centro Sociale Acrobax che stanno attaccando manifesti a Roma Tre. "Checco" decide di prendersi una pausa e, dopo le risse, si butta nella moda. Amministratore unico di Pivert (sede legale a Roma, magazzini a Cernusco sul Naviglio, negozi a Milano, Brescia, Torino e Roma). Il mazziere di Piazza Navona fa affari. Ma la politica "di strada" bussa di nuovo. È il 29 giugno 2017: un gruppo di casapoundisti irrompe a Palazzo Marino, a Milano, durante un Consiglio comunale. L' obiettivo della protesta è il sindaco Giuseppe Sala. Ma nel blitz i militanti aggrediscono la delegazione di un comitato di inquilini della zona San Siro. Diciassette mesi dopo arriva il rinvio a giudizio (procura di Milano). 8 febbraio scorso, prima udienza: compaiono cinque di CasaPound. Nella citazione è scritto che due hanno aggredito le vittime con calci e pugni al volto e alla testa dopo avere apostrofato un ragazzo di colore ( «Nero di merda... che ci fai dentro?»). Uno dei due assalitori è lui, Polacchi. Di lì a poco entra in cascina il libro-intervista a Salvini e l' occasione del Salone del Libro. «Ci aspettavamo le polemiche, ma attacchi così violenti no», dice l' imprenditore-squadrista. Già, la violenza. Questa sconosciuta.

MA QUANTO GUADAGNA FRANCESCO POLACCHI? Da Sdnkronos.com l'8 maggio 2019. Francesco Polacchi, editore di Altaforte, è stato iscritto dalla procura di Torino nel registro degli indagati. L'accusa che gli viene mossa è di apologia di fascismo per alcune dichiarazioni fatte nel corso di una trasmissione radiofonica. Contro quelle dichiarazioni Regione Piemonte e Comune di Torino avevamo annunciato ieri la presentazione di un esposto alla Procura e oggi, a seguito della presentazione dell'esposto, la procura  torinese ha aperto un procedimento penale, precisa una nota, per il reato di cui all'art. 4  l. 645/52 (Legge Scelba, ndr). "Se mi arresteranno scriverò anch'io 'Le mie prigioni'" dice Polacchi, all'AdnKronos. Il coordinatore di CasaPound in Lombardia oltre che numero uno della casa editrice sovranista che ha pubblicato il libro di Matteo Salvini, non vuole tornare sulle frasi, pronunciate durante la trasmissione 'La Zanzara', che sono alla base dell'esposto presentato nei suoi confronti dal governatore del Piemonte Sergio Chiamparino e dalla sindaca di Torino Chiara Appendino. Però aggiunge: "Magari quoterò la casa editrice in borsa, dato che tutto il polverone degli ultimi giorni ha fatto volare le vendite dei nostri libri". L'editore di Altaforte e del Primato nazionale stigmatizza "l'antifascismo militante che diventa una mafia culturale". "Ringrazio i vari Raimo, Zerocalcare, Wu Ming - aggiunge poi - pensavano di farci un torto sabotandoci ma è grazie a loro se l’Intervista allo specchio a Matteo Salvini è un caso editoriale, ai vertici delle prevendite dopo l'enorme clamore mediatico sulla vicenda''.

Da Andreagiacobino.com l'8 maggio 2019. Farà anche tanto rumore al Salone del Libro di Torino, ma l’autoproclamatosi editore “fascista” di Altaforte Francesco Polacchi, esponente di CasaPound, non registra grandi numeri nelle sue diverse attività imprenditoriali. La mappa dei suoi interessi ruota attorno alla capogruppo Minerva Holding di cui socio al 50% è Maria Laura Venturelli, madre di Francesco che ne è socio al 25% mentre il restante 25% è della sorella Giulia. La Venturelli è sposata con Mauro Polacchi, un consulente fiscale la cui attività è documentata nel sito Andreagiacobino.com. Lo studio vede papà Polacchi come socio accomandatario. Mauro Polacchi è anche amministratore unico della Phoenix srl (di cui Minerva Holding ha il 98% e la Venturelli il restante 2%) che possiede il 33% di Virgo srl e il 50% di Ph2O. Nello specifico Minerva Holding ha chiuso il bilancio 2017 con 17mila euro di ricavi, una perdita di 2mila euro e un patrimonio netto di 338mila euro a fronte di debiti per 497mila euro. Minerva Holding controlla l’80% di Sca 2080 (di cui Francesco Polacchi ha il 20%) che possiede l’editrice Altaforte: nel 2017 ha venduto libri per 217mila euro guadagnando 15mila euro. Pivert è invece l’azienda di abbigliamento che produce le famose felpe di cui si è rivestito il vicepremier leghista Matteo Salvini la cui biografia è stata editata da Altaforte. Pivert, controllata da Francesco Polacchi al 70% e da Minerva Holding al 30% restante nel 2017 (ultimo bilancio disponibile) ha guadagnato solo 17mila euro su 266mila euro di ricavi. Ancor più modeste le dimensioni della neonata Pivert Milano con soli 18mila euro di ricavi: la società è per il 25% in mano a Polacchi, gli altri azionisti (alla pari) sono Ludovica Minoli, militante di CasaPound, Francesco Gaiara e Massimimo Frassy, candidato dell’omonimo gruppo alle ultime Regionali Lombarde. Polacchi non compare invece in Pivert Torino lanciata da Marco Racca, coordinatore di CasaPound in Piemonte, che nel 2017 ha fatturato 42mila euro perdendone 10mila: tra i soci l’avvocato Gino Michele Domenico Arnone, Matteo Rossino e l’avvocato Federico Depetris, tutti di CasaPound. Polacchi è poi socio al 25% della nuova Stolen Dreams – che produce scarpe – di cui azionisti sono Marco Clemente, Marco Casasanta (indicato come responsabile commerciale e produzione nel suo profilo LinkedIn) e Ludovica Minoli, tutti di CasaPound. Tutti lettori avidi, si suppone, dei libri di Altaforte fra i quali oltre la biografia di Salvini, spiccano quelli di Aleksander Dugin, ideologo del nazionalismo russo intimo del premier Vladimir Putin. L’ex agente del Kgb cresciuto a pane e comunismo, proprio quel comunismo che Benito Mussolini combatté fino all’ultimo dei suoi giorni. Ma l’oblio del passato è, purtroppo, un tratto comune a molta sedicente “destra”.

 “O noi o l’editrice di CasaPound”: il museo di Auschwitz avverte Torino. Comune e Regione ribadiscono: siamo antifascisti. Ma per ora la richiesta è senza risposta. Nei padiglioni del Lingotto fervono i preparativi per il 32° Salone del Libro di Torino che si aprirà al pubblico giovedì mattina per chiudersi lunedì 13 maggio. Luca Ferrua e Francesca Paci il 07/05/2019 su La Stampa. Volete Auschwitz o la casa editrice, vicina a CasaPound, Altaforte? Di provocazione in provocazione lo psicodramma del Salone del Libro di Torino mette gli organizzatori di fronte a un nodo che con il buonsenso non si potrà sciogliere. L’ultimo atto della vicenda risale a ieri sera, quando è arrivata la lettera firmata da Halina Birenbaum, sopravvissuta al lager, dal direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, Piotr M. A. Cywiński, e dal presidente e dall’ideatore del «Treno della memoria» ovvero Paolo Paticchio e il torinese Michele Curto (coinvolto, peraltro, in un’inchiesta sulla gestione dei fondi destinati ai Rom). Dalle lettera emerge una richiesta ferma, indirizzata al Comune di Torino come «istituzione e come azionista indiretto del Salone»: quella di scegliere tra avere al Lingotto Halina Birembaun e il museo di Auschwitz oppure lo stand della casa editrice Altaforte. Le parole non lasciano dubbi: «Non si può chiedere ai sopravvissuti di condividere lo spazio con chi mette in discussione i fatti storici che hanno portato all’Olocausto, con chi ripropone una idea fascista della società». E aggiungono: «Non si tratta, come ha semplificato qualcuno, del rispetto di un contratto con una casa editrice, bensì del valore più alto delle istituzioni democratiche, della loro vigilanza, dei loro anticorpi, della costituzione italiana, che supera qualunque contratto». La sindaca ieri ha sottolineato che «Torino è antifascista e al Salone ci sarà perché le idee si combattono con idee più forti». Ma la lettera chiede di rescindere il contratto con Altaforte. E quella è un’altra storia. Il contratto lo hanno stipulato gli organizzatori del Salone dicendo sì alla richiesta di una casa editrice che è stata accettata come tutte le altre e che ha già pagato il suo spazio ben prima di diventare un caso politico. I vertici del Comitato di Indirizzo che guida il nuovo Salone ieri sono stati riuniti fino a notte alta negli uffici del Circolo dei Lettori trasformato in bunker inviolabile. La loro posizione è sempre la stessa, anche di fronte alle ultime dichiarazioni del leader di Altaforte Francesco Polacchi che ieri evidenziava il suo sentirsi fascista: «Le dichiarazioni non spostano l’asse. Nessuna lo fa. Sappiamo che è una provocazione ma il Salone resta aperto a tutti». L’esempio che circola nei corridoi dello storico palazzo del centro di Torino rende bene l’idea: «Non vogliamo fare la fine di Totti che è stato provocato da Poulsen per tutta la partita ma ha finito per essere lui l’espulso». Una posizione che mostra tutta la sua complessità, anche perché nel cuore del Salone c’è pure l’Aie casa di tutti - ma proprio tutti - gli editori la cui presa di posizione si può più o meno sintetizzare in questo concetto: «Chiunque ami i libri e la lettura ha nel proprio Dna la libertà di pensiero, di espressione e in particolare di edizione in tutte le sue forme». Oggi alla luce della lettera firmata dal direttore di Auschwitz e delle continue provocazioni in arrivo da CasaPound è probabile che vengano prese in esame strade diverse, la situazione è in continua evoluzione. Solo ieri è arrivata la defezione di Zerocalcare, uno da folle oceaniche che al Salone mancherà e che in coda al post su Facebook con cui annunciava l’addio ha aperto forse il vero fronte di questa vicenda: «’Sta roba prima non sarebbe mai successa. Qua ogni settimana spostiamo un po’ l’asticella del baratro». Il caso è divampato in un momento di profonde lacerazioni politiche e sta travolgendo un Salone che sull’onda dell’entusiasmo dell’edizione del rilancio non ha fatto in tempo a mettere in campo gli anticorpi per evitare di essere strumentalizzato da Altaforte, capace di conquistare una visibilità inimmaginabile fino a pochi giorni fa. Il Salone comincia giovedì ed è il momento delle scelte, ma il peso non può restare solo sulle spalle degli organizzatori. Città e Regione - che ieri hanno sottolineato il loro essere antifascisti - devono fare la loro parte, magari cominciando a rispondere alla lettera partita da Auschwitz.

Salone del Libro di Torino. Il caso politico divide gli scrittori: «Mai con loro». «Presidio utile». Pubblicato lunedì, 6 maggio 2019  da Cristina Taglietti su Corriere.it. Si alza il livello dello scontro al Salone del libro di Torino, un appuntamento nel quale le polemiche, nel corso degli anni, non sono mai mancate. E se la rassegna è sempre stata lo specchio del Paese, quest’anno la presenza di Altaforte — editore sovranista vicino a CasaPound che pubblica, tra l’altro, anche il libro-intervista di Matteo Salvini — ha fatto esplodere molte contraddizioni. Il 6 maggio l’editore e fondatore di Altaforte, Francesco Polacchi, in una dichiarazione all’Ansa non ha lasciato più dubbi sulla reale orientamento della casa editrice rivendicando: «Io sono fascista, l’antifascismo è il vero male di questo Paese». Aggiungendo: «Se ci assaltano chi se le prende poi la responsabilità?». Quasi immediata la reazione della sindaca Chiara Appendino che ha ribadito che «Torino è antifascista» e che «in democrazia non esistono alternative praticabili a questa posizione. A quei valori liberali, democratici, antifascisti, vogliamo tenere fede». «Non gradite» le attività e la presenza di Altaforte anche per il governatore Sergio Chiamparino secondo cui, però, «non ci sono elementi per negarle l’accesso». 

Christian Raimo, scrittore tra i consulenti del direttore Nicola Lagioia, dopo le dimissioni dal ruolo, ha scritto un post per precisare che al Salone del Libro ci sarà, ma da «autore, lettore e cittadino» perché il «programma che Nicola Lagioia e il comitato editoriale ha messo su per quest’anno è straordinario». Raimo ci sarà anche perché l’inaugurazione, l’8 maggio sera, sarà l’intervista impossibile a Leonardo Sciascia, nata da un suo testo; tuttavia lo scrittore ribadisce con fermezza la contrarietà alla «presenza di editori dichiaratamente fascisti o vicini al fascismo» e invita il Mibac a «tutelare questo diritto per tutti» e le associazioni degli editori, ad «affrontare radicalmente la questione». 

Francesco Polacchi, 29 anni, è stato responsabile nazionale di Blocco studentesco: fanno capo a lui la casa editrice Altaforte, vicina al movimento di estrema destra CasaPound, e il marchio di abbigliamento PivertAlla lista di chi, dopo Wu Ming e Carlo Ginzburg, dice no alla rassegna torinese s’aggiungono altri nomi. Non ci sarà Zerocalcare, che, pur precisando di non voler tracciare linee di demarcazione tra buoni e cattivi perché si tratta di «questioni complesse che non si esauriscono in una scelta sotto i riflettori del Salone del Libro», ha scritto: «Mi è davvero impossibile pensare di rimanere 3 giorni seduto a pochi metri dai sodali di chi ha accoltellato i miei fratelli». Non ci sarà Roberto Piumini, allineato sulle posizioni di Carlo Ginzburg secondo cui non andare al Salone è una scelta politica («l’istituzione può cavillare, distinguere e riservare alla magistratura il compito di combattere il fascismo. Il singolo cittadino può invece praticare un antifascismo più diretto e sanguigno») e neppure Salvatore Settis e Tomaso Montanari che avrebbero dovuto presentare il loro manuale di storia per le scuole «perché una manifestazione promossa dal ministero per i Beni culturali della Repubblica italiana non può includere propaganda nazifascista». Non ci sarà Halina Birenbaum, sopravvissuta ad Auschwitz, che avrebbe dovuto parlare ai ragazzi.

Le defezioni hanno però spinto molti autori a unirsi intorno al Salone, a interpretare la rassegna come «un presidio di democrazia». Da Marco Missiroli ad Alessandro Robecchi, da Silvia Ballestra ad Antonella Lattanzi, molti sui social hanno rilanciato, motivandolo, l’hashtag #iovadoaTorino. Michela Murgia ha invitato i lettori a presentarsi al suo incontro di sabato (Arena Bookstock, ore 18.30) con un libro che per loro «rappresenti i valori della democrazia, dell’umanità e della convivenza offesi dal fascismo e dal nazismo». Scrive: «L’unica difesa contro un presente senza coscienza è ricominciare a proteggere la memoria insieme». Posizione sostenuta, tra gli altri, pure da Teresa Ciabatti, Alessandra Sarchi, Rossella Milone. Caterina Bonvicini, Helena Janeczeck e Chiara Valerio. Anche molti editori hanno ribadito la necessità di essere a Salone. Stefano Mauri, presidente del gruppo Gems, parla di «difesa della libertà di espressione responsabile, battaglia che si combatte con i buoni libri», ricordando alcuni titoli del gruppo che militano in questo senso, dal libro di Francesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone, alla scrittrice turca in esilio Ece Temelkuran, con il suo saggio sul populismo di Erdogan. Secondo Enrico Selva Coddé, amministratore delegato di Mondadori Libri Trade, «non è con l’esclusione che si alimenta il dibattito culturale, soprattutto in un consesso di lettori attento e appassionato». 

«Convinzione e impegno» sono le parole con cui Einaudi (editore sia di Raimo che di Lagioia) «pur comprendendo le diverse posizioni e i diversi punti di vista», parteciperà alla rassegna, nella certezza che « le parole, le idee e la presenza siano le armi più efficaci per la cultura e la democrazia». Anche minimum fax ha fatto sapere che sarà presente al Salone del Libro di Torino perché, «pur comprendendo le ragioni di chi invita» a boicottarlo, le ritiene «sbagliate nel metodo».

Polacchi (Altaforte), nella stessa giornata atteso al Salone del Libro e in tribunale. Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 da Corriere.it. Un giorno importante, venerdì, per Francesco Polacchi, editore di Altaforte. Perché proprio quella mattina è atteso contemporaneamente a Torino, al Salone del Libro, teatro di polemiche furibonde, e a Milano, dove è stato convocato dai magistrati per l’udienza per un processo che lo vede indagato per avere «aggredito a calci e pugni» due ragazzi intervenuti a difesa di un’altra persona insultata con frasi razziste. Polacchi, dichiaratamente fascista, è l’editore che pubblicherà la biografia di Matteo Salvini, ministro dell’Interno. La sua presenza a Torino è oggetto di una dura polemica, scatenata dalle dimissioni dal ruolo di consulente da parte di Christian Raimo, e rilanciata dall’annuncio di diserzione in segno di protesta di diversi autori. Il Salone si è detto impossibilitato a negare la presenza della casa editrice. E quello che non è riuscito a fare, o non ha voluto fare, l’organizzazione, potrebbe farlo la magistratura, che lo ha convocato per venerdì alle 11, all'aula 7 del 3° piano del palazzo di Giustizia di Milano (qui quando partecipò agli scontri in piazza Navona a Roma, nel 2008). Anche se Polacchi potrebbe decidere di restare in contumacia. E anche se sull’udienza pende la possibilità di un rinvio, a causa di un’astensione delle Camere penali di tre giorni, proclamato contro le ultime norme approvate dal Parlamento. Polacchi è stato citato dalla procura di Milano nella seconda udienza del processo che lo vede coinvolto per fatti che risalgono al 29 giugno 2017. Nell’accusa si legge: “Polacchi sferrava un pugno sulla testa di Masi e una serie di pugni sulla testa di Carazas”. Risultato, spondilosi cervicali, trauma nasali e distorsione del collo. Quel giorno Polacchi fa irruzione insieme ad alcuni militanti di Casa Pound a Palazzo Marino, a Milano, per protestare contro il sindaco Sala, coinvolto nelle indagini sull’Expo. All’uscita si imbattono in una delegazione locale dell’Anpi. C’è uno scontro verbale, poi l’aggressione. Polacchi non è nuovo ad episodi di violenza, il primo nel 2008 quando un gruppo di esponenti del Blocco Studendesco, ala giovanile di Casa Pound, attacca a colpi di mazze e cinghiate i ragazzi dell’Onda, il movimento di protesta. Non è l’unico episodio di violenza. Poi hanno il sopravvento gli affari, in stretta connessione con la militanza nella destra estrema. Polacchi fonda la casa di abbigliamento Pivert, il brand preferito dai neofascisti di Casa Pound. In concomitanza con l’ennesima aggressione milanese, fonda AltaForte. Il resto, con le polemiche legate alla biografia di Salvini, alla partecipazione al Salone di Torino e l’onda di indignazione degli intellettuali, è cronaca di questi giorni.

Al Salone del Libro scatta (e rientra) la mordacchia ai libri di Giubilei. Emanuele Beluffi il 06/05/2019 su Il Giornale Off. “Le idee neofasciste, sovraniste sono la base per l’ideologia della forza maggioritaria di governo. Alessandro Giuli, Francesco Borgonovo, Adriano Scianca, Francesco Giubilei, etc… tutti i giorni in tv, sui giornali, con i loro libri sostengono un razzismo esplicito”. Così lo scrittore Christian Raimo, già consulente dell’imminente Salone del Libro di Torino, attivatosi nei giorni scorsi con un post su Facebook poi eliminato, a proposito dell’editore Giubilei Regnani, “reo” di pubblicare autori fuori dal coro. La cultura in generale (e Il Salone del Libro in particolare) è uno spazio di libertà, dibattito e confronto di idee e tutte le opinioni devono trovare posto: è un peccato che ne si scambi il board per un comitato di salute pubblica in cui decidere chi sia degno di partecipare e chi no. Anche perché, come spiega Francesco Giubilei sul blog di Nicola Porro, l’editore pubblica “autori di ogni area politica, nelle nostre librerie si trovano i libri di editori di qualsiasi schieramento, in dieci anni di attività – e i nostri autori possono testimoniarlo – non abbiamo mai censurato nessuno e scelto i manoscritti da pubblicare solo ed esclusivamente in base al valore del testo a prescindere da chi fosse l’autore“. Forse siamo ancora lontani dall’aver raggiunto la vera e piena libertà di opinione, se ancora l’hybris censoria vuol mettere la mordacchia al libero pensiero. Continua infatti Giubilei: ” […] la mia sensibilità politico-culturale ha determinato la pubblicazione di libri ascrivibili al mondo conservatore, liberale, sovranista, popolare ma non ha impedito che trovassero spazio nel nostro catalogo autori con idee di tutt’altro genere perché ritengo che la cultura sia confronto, discussione e scambio di opinioni. Rigetto con tutto me stesso la volontà di alcuni pseudo intellettuali di arrogarsi il diritto di rappresentare e avere il monopolio della cultura che invece, piaccia o no, è un patrimonio di tutti gli italiani a prescindere dalle loro idee politiche”. Alla fine Christian Raimo si è dimesso dal Comitato editoriale del Salone spiegando, sempre su Facebook, che si è trattato di un’opinione strettamente personale e di non voler danneggiare il Salone, ma resta l’amaro in bocca per una querelle a senso unico che dovrebbe essere estranea al mondo della cultura.

Salone del libro di Torino: se Giubilei è un pericoloso neofascista può esistere ancora libertà di espressione? Paolo Gambi 6 maggio 2019 su Il Giornale. Non scrivo mai di politica perché come scrittore preferisco occuparmi di storie, emozioni e poesie. E le rare volte in cui ho sconfinato ho probabilmente scritto sciocchezze. Rispetto gli scrittori che mischiano letteratura e politica – d’altra parte è una tradizione novecentesca consolidata –, quando non esagerano, ma io preferisco starne fuori. Quando però ho letto della polemica intorno a Francesco Giubilei al salone del libro di Torino non sono riuscito a tacere. Conosco Francesco Giubilei da quando era un enfant prodige nella scoppiettante provincia romagnola. Era un ragazzino per l’anagrafe, un affermato manager con obiettivi chiarissimi per tutto il resto. Sarà probabilmente un ottimo politico. Chi come me a malapena è sicuro del proprio nome invidia chi come lui ha da sempre così tanta chiarezza nel darsi addirittura un’identità politica, che nel suo caso è sempre stata quella conservatrice. Quando ho letto che Raimo lo associava a un “razzismo esplicito” e addirittura al “neofascismo” mi sono ritrovato dentro parecchie domande e un velo di inquietudine. Perché se Francesco Giubilei è un razzista neofascista, quindi da isolare e censurare, allora forse bisogna iniziare a preoccuparsi per la libertà di espressione. Quando penso ai conservatori a me e al mio trascorso britannico viene in mente Winston Churchill, Margareth Thatcher, oggi Theresa May. Non mi paiono posizioni particolarmente estreme e certamente non censurabili, quasi conducessero ad una dittatura sanguinaria. A meno che gli occhi che le giudicano non siano intrisi di odio ideologico e non possano accettare un principio di pluralismo nel mondo culturale italiano. Perché allora un attacco del genere a un semplice conservatore? Cosa c’è realmente dietro? E ancora di più: può esistere in Italia una cultura che non filtra il mondo attraverso le lenti del fascismo/antifascismo o continueremo ad essere costretti anche noi estranei a queste categorie a subire questa guerra ideologica?

Salone del Libro, l'editore AltaForte: «L'antifascismo è il vero male del Paese». Pubblicato lunedì, 6 maggio 2019 su Corriere.it. «Io sono fascista» dice Francesco Polacchi, editore di Altaforte. «E l’antifascismo è il vero male di questo Paese». La casa editrice, vicina a CasaPound, è al centro di una forte polemica per la presenza di un suo stand al Salone del Libro di Torino. «Eravamo pronti alle polemiche - aggiunge Polacchi - ma non a questo livello allucinante di cattiverie. C’è addirittura chi sui social ha scritto che verrà a Torino per tirarci le molotov... Noi ci saremo perché ora è anche una questione di principio». Lo stesso Polacchi in un'intervista a Corriere Torino ha anche stigmatizzato l'atteggiamento della sinistra che, a suo dire, «predica libertà culturale poi però ci censura».A stretto giro la riposta della sindaca di torino Chiara Appendino: « Torino è antifascista. Questo semplice concetto in premessa deve essere molto chiaro, così come deve essere altrettanto chiaro che, in democrazia, non esistono alternative praticabili a questa posizione. A quei valori liberali, democratici, antifascisti, vogliamo tenere fede». «L’occasione - prosegue la sindaca - è utile per ricordare che la Città di Torino, Medaglia d’Oro alla Resistenza, sarà presente al Salone del Libro. Sarà presente con il suo stand e i suoi eventi, incarnando nella sua bandiera quei valori di libertà e uguaglianza che fanno parte della nostra stessa identità». «Di certo, non abbandoneremo il campo, perché le idee si combattono con idee più forti. Le nostre ci saranno e, insieme alle nostre, ce ne saranno tantissime altre. È solo con la cultura che possiamo porre un argine a ogni possibile degenerazione, estremismo o ritorno di ciò che deve essere archiviato per sempre.

Francesco Polacchi, dell'editrice Altaforte: "Sì sono fascista. Mussolini il miglior statista italiano". La Repubblica il 06 maggio 2019. E su Salvini: "E' uno che parla chiaro e tutto sommato mantiene le cose". "Sono un militante di Casapound, anzi il Coordinatore regionale della Lombardia. E sono fascista, sì. Lo dico senza problemi". Così, a La Zanzara, su Radio 24 Francesco Polacchi, responsabile della casa editrice Altaforte (quella che ha pubblicato l'intervista biografia con Matteo Salvini) al centro delle polemiche in questi giorni per la partecipazione al Salone del libro di Torino. Poi aggiunge: " L'antifascismo è il vero male di questo Paese". "Mussolini- dice ancora- è stato sicuramente il miglior statista italiano. Se mi portate un altro statista come lui parliamone, però non credo ce ne siano. De Gasperi o Einaudi? Einaudi? Ma stiamo scherzando?". Ma uno può dichiararsi fascista?: "Sì, certo. Nessuno te lo impedisce, nemmeno la legge. Allora rinunciate a tutte le conquiste fatte dal fascismo. Ritengo che il fascismo sia stato assolutamente il momento storico e politico che ha ricostruito una nazione che era uscita perdente e disastrata dalla prima guerra mondiale. Ha trasformato una nazione che era prevalentemente agricola in una potenza industriale. Anche con la dittatura? A volte servono le maniere forti. Poi, se vogliamo prenderci in giro, possiamo pure farlo". Ma la democrazia ha portato il nostro paese nel G7 e nel G8: "La democrazia è riuscita a raccogliere ciò che aveva seminato il ventennio". E di Salvini cosa pensi, sta facendo bene?: "La mia casa editrice è una casa editrice sovranista. Sull'immigrazione ha fatto benissimo Salvini. E anche sui Rom. Ci sono poi delle sfumature diverse, però tutto sommato Salvini è uno che parla chiaro e tutto sommato mantiene le cose". "Eravamo pronti alle polemiche - conclude - ma non a questo livello allucinante di cattiverie. C'è addirittura chi sui social ha scritto che verrà a Torino per tirarci le molotov... Noi ci saremo perché ora è anche una questione di principio".

E' più antifascista andare o non andare? Il mondo dell'intellighenzia di sinistra si spacca sul modo migliore per combattere il neofascismo. Scoppia il caso al Salone del Libro.  Giuseppe Fantasia 06/05/2019 su huffingtonpost.it. Si è più antifascisti se si va al Salone del Libro o se lo si boicotta? Il modo migliore per combattere Salvini e il salvinismo imperante è andare a Torino e protestare oppure fare uno strenuo Aventino? Su queste domande si sta consumando in queste ore il primo dibattito, o se volete, la prima spaccatura a sinistra su come ci si contrappone al neofascismo. Un dibattito che è scoppiato in quel mondo dell’intellighenzia che è stato l’elemento propulsore dell’esigenza di un cambio di passo nei confronti del pericolo sovranista. Da una parte chi ha deciso di andare nonostante la presenza della casa editrice dichiaratamente fascista e dall’altra chi non ha voluto mischiare la sua presenza con quella dell’editore nostalgico mussoliniano. Da una parte Montanari, Settis, Zero Calcare, Wu Ming e Piumini. Dall’altra Murgia, Affinati, Loewenthal, l’Arci e la storica casa editrice Einaudi. Pensavamo, come fossero ricordi già lontani, ai battibecchi continui nati tre anni fa quando venne annunciato un nuovo salone del libro di Milano, - oggi già finito - in “contrasto” con quello di Torino. C’era stato il rischio che quest’ultimo non potesse festeggiare i suoi primi trent’anni, c’erano stati vari scandali, problemi economici e dimissioni, ma poi fu proprio il suo direttore, già vincitore del Premio Strega con La Ferocia, a riportare - a gran fatica e grazie ai suoi validi collaboratori - tutto alla normalità. Quest’anno, per la sua 32esima edizione, intitolata “Il gioco del mondo”, tutto sembrava procedere a meraviglia fino a pochi giorni fa, quando è stata annunciata la partecipazione della casa editrice Altaforte, vicina a Casa Pound, con la presentazione del nuovo libro di Matteo Salvini, in assenza però di quest’ultimo. Sono seguite, nell’ordine, le dimissioni di uno dei consulenti del Salone, Christian Raimo e l’amarezza di Lagioia per l’addio di una persona con cui ha condiviso gli esordi in Minimum Fax (ma al Salone ci andrà, ha dichiarato, “come autore, lettore e cittadino”). Una decisione, quella di Raimo, mal sopportata dalla scrittrice Michela Murgia e da tutto un seguito di scrittori, artisti, case editrici, simbolo di quell’intellighenzia patria che attrae, distrae ma sempre coinvolge a suo modo. “Se Casa Pound mette un picchetto nel mio quartiere che faccio, me ne vado dal quartiere? Se Forza Nuova si candida alle elezioni io che faccio, straccio la tessera elettorale e rinuncio al mio diritto di voto? Se la Lega governa il paese chiedo forse la cittadinanza altrove? No. Non lo faccio – scrive sulla sua pagina Facebook la scrittrice sarda - e non lo faccio perché da sempre preferisco abitare la contraddizione piuttosto che eluderla fingendo di essere altrove. Per questa ragione al Salone del libro di Torino io ci andrò e ci andranno come me molti altri e altre. Lo faremo non ‘nonostante’ la presenza di case editrici di matrice dichiaratamente neofascista, ma proprio ‘a motivo’ della loro presenza”. In una manifestazione del genere, a far notizia è soprattutto chi non ci andrà, ad esempio lo scrittore e fumettista Zerocalcare, “una decisione sofferta e dolorosa”, come ha dichiarato, ma dettata da un suo disagio personale, “legato a una difficoltà a stare nella stessa stanza accanto a persone che sono sodali e camerati di chi ha fisicamente accoltellato i miei amici, oltre a tanta altra gente”. Come lui, non ci saranno Carlo Ginzburg, il duo Wu Ming e Roberto Piumini. “L’istituzione può cavillare, distinguere e riservare alla magistratura il compito di combattere il fascismo”, ha dichiarato il noto poeta e scrittore, soprattutto di libri per ragazzi. “Il singolo cittadino può invece praticare un antifascismo più diretto e sanguigno, per questo non sarò a Torino”. Tra i grandi assenti, anche i due storici dell’arte Salvatore Settis e Tomaso Montanari, perché – hanno spiegato - “una manifestazione promossa dal ministero per i Beni Culturali della Repubblica italiana non può includere propaganda nazifascista”. Stando alle loro parole, avrebbero dovuto dire di no gli editori e le autorità piemontesi che organizzano il Salone e “se loro non lo fanno, a dire di no non possono che essere gli autori”. Non ci sarà l’ANPI, l’Associazione Nazionale dei Partigiani e il suo presidente, Carla Nespolo, che avrebbe dovuto presentare un volume su Tina Anselmi. Ascanio Celestini, raggiunto a telefono dall’HuffPost, è tra gli indecisi, perché vuole prendersi ancora un giorno “per capire e prendere la decisione migliore”. Tra i presenti, ha dato conferma lo scrittore Eraldo Affinati (di cui pubblichiamo l’intervista) e la scrittrice, giornalista e traduttrice dall’ebraico Elena Loewenthal, capolista di +Europa, perché crede “nella forza delle idee, nel confronto pacato delle ragioni”. Boicottare il Salone in nome dell’antifascismo – ha spiegato - significa rinunciare al principio fondativo della democrazia: la libertà d’opinione”. Pur comprendendo le diverse posizioni e i diversi punti di vista, l’Einaudi, casa editrice-simbolo di Torino, ci sarà “con convinzione e con impegno, nella certezza che contro qualsiasi oscurantismo, le parole, le idee e la presenza siano le armi più efficaci per la cultura e la democrazia”. Hanno confermato tutte le altre, da Adelphi a Rizzoli, da Bompiani a NNEditore, giusto per citarne qualcuna e l’Arci stessa ci sarà, ma in futuro chiede l’esclusione di Altaforte. Ginevra Bompiani non ci andrà, ma su quello che è stato già soprannominato il “Salone delle discordie”, da grande donna dell’editoria quale è stata (si deve a lei la fondazione della casa editrice nottetempo) e neo candidata alle prossime Europee con Sinistra Europea, ci dice la sua. “È una situazione molto complicata – ci spiega al telefono – perché hanno ragione tutti, in un certo senso. Ha ragione il Salone quando dice che non ha un regolamento che gli permette di rifiutare un editore piuttosto che un altro; hanno ragione coloro che hanno deciso di non partecipare, o di dimettersi come Christian Raimo; ha ragione Michela Murgia che fa politica e forse ha in mente un qualche gesto rappresentativo…”. “Ma d’altra parte – aggiunge - hanno tutti torto”, perché il Salone “avrebbe potuto darsi delle regole per non accettare la casa editrice di Casa Pound e potrebbe fare ora una dichiarazione meno ponziopilatesca”. “E così tutti gli altri, - continua Bompiani, - perché in tal modo ottengono soprattutto un risultato: di fare pubblicità a un libro, quello di Matteo Salvini, che nessuno si sognerebbe mai di comprare, se non qualche fedele della Lega, capace di leggere”. “Questa situazione dimostra che c’è un grande disagio e furore e la percezione di quello che sta accadendo, ma purtroppo l’espressione di questi sentimenti è lasciata all’occasione, e questo non basta a cambiare le cose. Ci dovrebbe essere una opposizione vera e una resistenza continua, se vogliamo fermare la corsa di Salvini e non cadere nel crudele pantano che ci aspetta.”

Salone del Libro, Sandro Veronesi:  «Perché è giusto andare a Torino». Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 Sandro Veronesi su Corriere.it. La XII Disposizione della Costituzione italiana, detta «transitoria» ma ormai anche «finale», recita: «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista». («Sotto qualsiasi forma» è il passaggio chiave). La Legge Scelba, del 1952, sanziona col carcere da 18 mesi a quattro anni la ricostituzione del suddetto partito fascista nonché l’apologia del fascismo, la denigrazione dei valori della Resistenza e i metodi razzisti. Io partirei da qui. Finché saranno in vigore quella Disposizione e quegli articoli di legge sarà compito della magistratura e della Corte costituzionale individuarne la violazione e decidere di conseguenza. Poi si può manifestare, protestare e organizzare dimostrazioni di piazza per sostenere e rinforzare questi valori fondanti del nostro ordinamento, soprattutto in tempi, come l’attuale, nei quali essi sembrano sotto minaccia: ma chiedere agli autori di disertare il Salone del Libro di Torino perché tra gli editori presenti ce n’è uno che appartiene alla galassia del neofascismo italiano è un errore. Certo, le decisioni individuali sono insindacabili e non è nemmeno il caso di discuterle: esse però, per quanto sacrosante, devono rimanere fuori dal conto. E il punto importante è che un conto deve esserci, e deve essere presentato dagli organi competenti, e riguarda quali doveri e quali diritti si hanno, come cittadini italiani obbedienti al dettato costituzionale, e dunque democratici e antifascisti, dinanzi a tutte le manifestazioni politiche, culturali e comportamentali che ostentino una sospetta contiguità con il fascismo, i suoi fini, i suoi metodi e i suoi miti. Io andrò al Salone a presentare un libro scritto da Elena Stancanelli e nato proprio dalla necessità di contrastare alcune di quelle manifestazioni sospette — fatti reali, non discorsi, che nella fattispecie producono centinaia di morti a poche miglia dalle nostre coste. Presentare quel libro per me equivale a chiedere ancora una volta l’intervento di un arbitro che interrompa l’ottuso soliloquio di un figurante in divisa e stabilisca cosa si può dire e cosa non si può dire, e soprattutto cosa si può fare e cosa non si può fare, nel nostro Paese fondato sui valori della Resistenza. Tutte quelle rune, quei saluti romani, quei richiami al ventennio o direttamente a Mussolini, tutte quelle differenze di trattamento delle persone a seconda della loro provenienza, della loro religione e del colore della loro pelle, sono compatibili con la XII Disposizione della Costituzione e con la legge Scelba? Se gli organi competenti (che non sono gli elettori) ci diranno di sì, vorrà dire che sopporteremo quel ciarpame e lo combatteremo con gli strumenti della cultura e della democrazia; ma se per caso venisse fuori che no, che non sono compatibili, allora avremmo il diritto di vedere bonificata la nostra società da queste infestazioni. Come? Lo dicono la Costituzione e il codice penale: lo scioglimento, l’arresto, la detenzione. Sarebbe anche l’ora di finirla di giocare a nascondino, vigliaccamente, con queste faccende: sei fascista? Abbi il coraggio di dirlo e di consegnarti al tuo martirio; sei uno Stato democratico? Smetti di chiudere un occhio, o entrambi, dinanzi a questa questione, che è fondante. Arbitri, ci siete? Diteci come dobbiamo comportarci con questa gente. Non lasciate questo vuoto attorno al neo-fascismo che monta. Colmatelo con le decisioni che tutti, poi, saremo tenuti a rispettare. Altrimenti, accade che per pura frustrazione le persone per bene comincino a segare il ramo sul quale sono sedute. Accade che autori importanti e rappresentativi evitino di partecipare a una manifestazione culturale, senza con ciò recare il minimo danno a chi minaccia la libertà loro e di tutti. Accade che attorno a questa loro decisione si sprigioni una polemica arida e umiliante, che anziché affrontare la vera questione (il fascismo, se ci sia o no il pericolo di una sua recrudescenza) rinverdisca per l’ennesima volta la stucchevole tradizione della lotta intestina nella sinistra. Occorre dunque andare, se invitati (ma anche se non invitati, arrivo a dire) al Salone del Libro di Torino, a fare quello che era stato programmato, senza esitazioni. Ma occorre anche, una volta lì, che quante più voci possibile chiedano ciò che è giusto chiedere per tutelare l’onore nostro di italiani, dei nostri padri e dei nostri figli: intervenite, per favore, voi che ne avete l’autorità, il diritto e il dovere; diteci una buona volta se CasaPound, Forza Nuova, la casa editrice Altaforte, le Fiamme Nere e anche Avanguardia nazionale, già che ci siamo, sciolta nel 1976 ma ancora inneggiata nelle celebrazioni delle destre, hanno diritto di esistere, organizzare eventi, partecipare alle elezioni, chiedere il 2 per mille delle dichiarazioni dei redditi, occupare spazi in radio, televisioni e stand nei saloni del libro — o se invece, come sembra a molti, tra cui me, siano semplicemente un reato.

Basta con i proclami anni '70. I "nemici"? Ci si può parlare. Pubblicato giovedì, 9 maggio 2019 da Luca Doninelli su Il Giornale.it. Ho 63 anni e quindi una memoria (anche politica) di lungo corso. Appartengo, sia da parte di padre che di madre, a famiglia antifasciste e ho cominciato a collaborare a questo giornale con Indro Montanelli, indubbiamente un antifascista. Poi il giornale cambiò pelle ma, sia prima che dopo questo cambio, è stato per me il luogo d'incontro con tanti bravi giornalisti e cari amici, che non mi hanno mai chiesto di essere "in linea" con le posizioni ufficiali. Sono stato censurato (si fa per dire) solo una volta, perché scrissi un articolo elogiativo di Pasolini, che a Montanelli è sempre stato cordialmente sulle scatole. Chi mi conosce sa i miei tanti difetti ma sa anche che in me non c'è una sola briciola di fascismo. Ciò nonostante mi sono sentito dare diverse volte del fascista, sempre per ragioni che col fascismo non avevano nulla a che fare: perché appartenevo a un certo movimento cattolico, perché non mi era piaciuto un certo libro, perché non ero comunista... Erano altri tempi, mi sono detto tante volte. Ma nei giorni scorsi ho potuto vedere che questa idea - del tempo che macina tutto, tutto rappacifica, tutto confonde - non era del tutto esatta. A proposito della polemica sul Salone del libro di Torino mi è capitato di leggere parole e prese di posizione che sembrano tratti dalla naftalina dal baule degli anni '70. Anni in cui spesso un uomo veniva giudicato non in base a quello che faceva, diceva o pensava ma solo in base alla sua appartenenza ideologica, reale o presunta che fosse (perché proprio la presunzione, qui, gioca un ruolo determinante). Tutto questo mi ha comunque aiutato a crescere, e a farmi un'idea della prassi democratica. La Costituzione è lettera morta se la prassi democratica non entra in noi, perché la politica la fanno gli individui, il personale è politico. Poi viene la Costituzione, ma solo poi. Questa prassi ce la insegna la letteratura stessa. I libri, che il Salone di Torino celebra, giustamente. Tante volte mi è capitato di desiderare conoscere l'autore di un libro con il quale non ero d'accordo, e di non desiderare affatto di conoscere qualcuno con cui, viceversa, mi trovavo perfettamente in linea. La ragione è che un libro è importante non perché il suo autore la pensa come me, ma perché mi aiuta a pensare. Un conto è "pensare", un conto è "pensarla". Mi pare che la vicenda del Salone sia una specie di festival del "pensarla". Mi viene in mente un compagno di liceo che, diventato comunista, mi disse: da adesso con te non parlo più, perché io coi fascisti (cioè il sottoscritto) non ci parlo. Se, viceversa, vogliamo pensare, e non soltanto pensarla, allora dobbiamo andare in casa dei nostri presunti nemici e parlare con loro. Leggere quello che scrivono, studiare, argomentare. Sfidarli sul piano dell'intelligenza e della comprensione della realtà, ma anche ascoltarli. Tutto questo non voler parlare e ascoltare mi suona sospetto. Ci trovo la difesa di una rendita di posizione da un lato e, dall'altro, l'incapacità culturale di gestire un rancore politico, un risentimento che ha la sua radice anche nei nostri errori, negli errori di una democrazia mal gestita, mal compresa a furia di credere di averla già compresa. C'è, poi, un altro errore culturale: quello di credere che la cultura come tale sia antifascista. L'ho letto da qualche parte. Chi lo dice non sa bene quello che sta dicendo, perché se lo sapesse dovrebbe fare quantomeno i conti col fatto che la cultura fascista esiste, o comunque è esistita, e che basterebbe studiare quello che è stato prodotto - letteratura, poesia, teatro, architetture, arti visive - tra le due guerre mondiali in Italia per rendersene conto. È vero che chi operò a quel tempo fu costretto in qualche modo ad essere fascista, e che la loro opera, studiata a fondo, rivela radici che nulla hanno a che vedere col fascismo. Ma questo vale per tutte le ideologie che pretendono di predeterminare il corso delle idee, comunismo in primis. Fa parte del rapporto tra cultura e potere, e Michel Foucault ci ha insegnato che il potere non coincide con le cariche politiche, ed è qualcosa che si esercita ovunque, perché ovunque (famiglie, ufficio, scuola) si stabiliscono delle differenze tra gli individui. Il potere penetra i corpi. Se vogliamo davvero combattere l'editoria presunta fascista bisognerebbe che le opere degli autori fascisti fossero pubblicate dai grandi editori, Einaudi, Mondadori, Feltrinelli, come contributo alla conoscenza della storia di questo Paese. Il fascismo non è stato una "parentesi". È vero che, oggi, alcuni politici senza essere fascisti favoriscono con le loro parole pratiche fasciste. Favoriscono innanzitutto la non-conoscenza. Ma questa è una ragione in più per agire diversamente. Massimiliano Kolbe, Dietrich Bonhoeffer e Etty Hillesum hanno fatto contro il totalitarismo assai più della bomba di Hiroshima. Solo dopo averci provato possiamo decidere di innalzare muri. Anche a CasaPound, come dappertutto, ci sono persone con cui si ragiona e persone con cui non si ragiona. Cerchiamo le prime. Possiamo essere di sinistra o di destra (io non credo a nessuna delle due): il problema, molto più basico, è se crediamo ancora nell'uomo oppure no.

Salone del libro, esposto di Appendino e Chiamparino  «C'è apologia di fascismo». Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 da Corriere.it. Un esposto alla Procura della Repubblica, affinché i magistrati possano valutare se sussistano i presupposti per il reato di apologia di fascismo. È quello che Regione Piemonte e Città di Torino hanno deciso di presentare alla luce delle dichiarazioni sul fascismo rilasciate da Francesco Polacchi, della casa editrice Altaforte. Nelle sue dichiarazioni, le due istituzioni intravvedono «una possibile violazione delle leggi dello Stato» e considerano la sua attività «estranea allo spirito del Salone del libro». «Vogliamo dare un segnale politico forte - spiega il governatore Sergio Chiamparino -. Riteniamo che ci possano essere gli estremi che prefigurano la violazione delle norme statali in materia di divieto di ricostituzione del partito fascista. E quindi chiediamo alla magistratura di pronunciarsi. In questo modo diventa anche evidente che questa casa editrice è estranea allo spirito di tolleranza e confronto proprio del Salone del Libro. Noi pensiamo che l’intolleranza vada combattuto con le armi della democrazia è dello stato di diritto, e quindi abbiamo fatto l’esposto». Sul fatto che il leader della Lega Matteo Salvini abbia pubblicato un libro con Altaforte, il presidente della Regione aggiunge: “Questo mi fa lo stesso effetto che mi fa un ministro degli Interni che va a fare comizi e dire che manda a casa sindaci o presidenti, invece di essere rappresentante anche di chi non l’ha votato: è uomo di parte e questo è inquietante».

Salone del Libro, la parola alla Procura Speciale. Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 da Cristina Taglietti su Corriere.it. Adesso tocca alla magistratura. Mentre la fasciopolemica porta la rassegna anche sui media internazionali, la Regione Piemonte e la Città di Torino, alla luce delle dichiarazioni rilasciate (e in parte ieri smentite) da Francesco Polacchi, fondatore della casa editrice sovranista vicina a CasaPound («sono fascista, l’antifascismo è il male di questo Paese», «un po’ di dittatura non fa male»), hanno presentato un esposto alla Procura della Repubblica. Polacchi e la sua attività, dice l’esposto, «sono estranei allo spirito del Salone del libro». Apologia di fascismo e violazione dell’articolo 4 della legge Mancino che prevede venga punito chi «pubblicamente esalta esponenti, principi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche» sono i punti che potrebbero mettere fuori legge l’editore. L’esposto è stato preceduto di qualche minuto da una nota unitaria, firmata «Salone Internazionale del Libro», che afferma di «non raccogliere le provocazioni di chi vorrebbe solo visibilità» (e che visibilità sta avendo). Confermando che il Salone è «uno dei simboli della democrazia e della civile convivenza», gli organizzatori sottolineano che il problema «non è la libertà d’espressione, ma cosa si può muovere intorno a certe idee che non sono solo agli antipodi dell’impostazione culturale del Salone di quest’anno ma la cui messa in pratica turberebbe l’ordine democratico offendendo la Costituzione». La presenza di Altaforte passa insomma dal piano politico a quello legale, anche perché esiste il fondato timore per la sicurezza, a fronte di contestazioni già annunciate. Di certo non ci sarà Matteo Salvini che, autoproclamandosi «anticomunista, antirazzista, antinazista, tutto l’anti possibile», ha confermato di «non avere in programma una visita a Torino». Domani esce il libro-intervista di Chiara Giannini con il vicepremier, pubblicato proprio da Altaforte: «Ritengo che la cultura sia sempre cultura da qualunque parte venga», ha commentato Salvini. Mentre il ministro dei Beni culturali Alberto Bonisoli, che giovedì inaugurerà il Salone, ha sottolineato che «anche la difesa della libertà di espressione è un valore dell’antifascismo». Ricardo Franco Levi, presidente dell’Associazione italiana editori (Aie), che fa parte del Comitato d’indirizzo del Salone, ha affermato in una nota che l’Aie «continua ad auspicare la partecipazione di tutti al Salone del Libro di Torino» perché «chi opera professionalmente nel mondo dei libri e, in generale, chiunque ami i libri e la lettura ha nel proprio Dna, come principio fondante, la difesa della libertà di pensiero, di espressione e in particolare di edizione in tutte le sue forme». Resta in attesa di risposte anche l’Auschwitz Memorial che ha annunciato che se Altaforte sarà al Salone l’incontro con Halina Birenbaum, sopravvissuta al Lager, non verrà annullato, ma si terrà in un altro luogo della città, fuori dal Lingotto. Paolo Paticchio, presidente dell’associazione Treno della Memoria, referente dell’Auschwitz Memorial in Italia, conferma: «Aspettiamo la decisione, altrimenti oltre a quello con Halina, terremo fuori dal Salone, in città, gli altri nostri incontri: quello con Doris Grozdanovicova, sopravvissuta a Terezín, e la presentazione della rivista “Pagine della memoria”».

Delegano ai pm pure l’antifascismo. La polemica al Salone di Torino, Appendino denuncia CasaPound. Davide Varì l'8 Maggio 2019 su IL Dubbio. Il salone di Torino, il più importante evento dell’editoria italiana, il salotto letterario del nuovo millennio in cui idee e pensieri dovrebbero farci volare alto e allontanarci dalle nostre miserie quotidiane, è piombato nel pantano. Peggio: è riatterrato miseramente nel cortile di casa, lì dove la polemica, anche la più delicata e seria, assume sempre i caratteri del grottesco. Soprattutto dopo che la sindaca di Torino Chiara Appendino e il governatore del Piemonte Sergio Chiamparino hanno denunciato la casa editrice Altaforte per apologia di fascismo. Come dire: visto che non siamo in grado di decidere, lasciamo che ( anche) questa grana la risolva la magistratura. La vicenda ormai è nota: la casa editrice Altaforte legata all’organizzazione neofascista Casapound ha chiesto e ottenuto uno stand di circa 10 metri quadrati in uno spazio espositivo di circa 63mila totali. Certo, c’è da dire che Francesco Polacchi, il responsabile editoriale della casa editrice di estrema destra, non è l’immagine classica dell’editore. L’ultima foto che lo ritrae è quella scattata nel corso di un assalto a piazza Navona in cui il nostro, testa rasata e petto villoso, impugna e brandisce una mazza tricolore che non promette nulla di buono. Ma questo è il passato e bisogna stare bene attenti a non cadere in pregiudizi dal deciso retrogusto lombrosiano. E poi chi lo ha detto che un editore con la faccia da pugile non possa discutere di Proust con Roberto Calasso, Nicolo Lagioia e Christian Raimo? La cosa però si fa più seria quando una superstite di Auschwitz fa sapere che no, di respirare la stessa aria di uno che nega l’olocausto non gli va. Lì non rimane altro che chinare il capo e comprendere. Meno comprensibile è quando, in nome della libertà, si chiede agli organizzatori di censurare una casa editrice. Combattere un’idea illiberale e antidemocratica con la censura e il rogo simbolico dei libri sarebbe quantomeno paradossale. Almeno quanto l’idea di consegnare ai giudici la decisione di stabilire il limite tra fascismo e antifascismo.

Salone del Libro: fuori Altaforte, casa editrice vicina a CasaPound. Pubblicato mercoledì, 8 maggio 2019 da Corriere.it. Altaforte fuori dal Salone del Libro di Torino. La decisione è arrivata alla vigilia della inaugurazione della buchmesse torinese e dopo una lunga giornata di trattative. Decisiva la posizione di Halina Birenbaum, sopravvissuta ad Auschwitz, scrittrice, traduttrice e poetessa, nata a Varsavia nel 1929, e oggi residente a Herzliya, in Israele. 90 anni, sulla presenza della casa editrice vicina a CasaPound non ha avuto dubbi fin dall'inizio: «O noi, o loro». Così come ha scritto anche il Treno della Memoria in un post su Facebook. Sergio Chiamparino, Chiara Appendino e Nicola Lagioia in diretta facebook hanno annunciato la decisione tutta politica, come ha precisato il presidente della Regione Piemonte, di tenere Altaforte fuori dalla buchmesse torinese. «È una scelta politica di cui ci assumiamo tutta la responsabilità non potevamo permettere che certe ideologie entrassero in un Salone fortemente orientato ai temi dell'antifascismo vista anche la coincidenza del centenario dalla nascita di Primo Levi». Birenbaum, intervistata dal Corriere Torino, aveva spiegato che sarebbe andata al Salone del Libro per portare la sua testimonianza ma che l'avrebbe fatto fuori dai padiglioni del Lingotto.«È un fatto molto grave. Con i fascismi con si scherza In genere si muore - le sue parole - Io ci sarò per testimoniare quella tragedia. In fiera ci sarà la casa editrice di estrema destra, e io a 90 anni, ultima sopravvissuta dei campi di sterminio, preferisco rimanere fuori. Spero che qualcuno capisca cosa significhi davvero questo mio gesto. E si faccia un esame di coscienza. E magari cambi idea». Così è stato. E proprio questa mattina, mercoledì 8 maggio, la Procura di Torino ha aperto un’inchiesta contro Francesco Polacchi, fondatore della casa editrice Altaforte. Il fascicolo è aperto per apologia del fascismo e Polacchi è stato iscritto sul registro degli indagati. L’inchiesta è partita dopo che il fondatore di Altaforte ha rilasciato alcune interviste in cui ha detto: «Sono fascista e Mussolini è un grande statista italiano». In un’altra occasione ha aggiunto: «L’antifascismo è il vero male di questo Paese». Il Comune di Torino e la Regione hanno depositato un esposto in Procura contro Polacchi per le sue esternazioni.  

“MUSSOLINI? GRANDE STATISTA, LO DISSE PURE GANDHI”. Da “la Zanzara – Radio 24” l'11 maggio 2019. “Mussolini? E’ stato un grande statista, l’ha detto Churchill, quindi io non faccio che inchinarmi. Pure Ghandi disse qualcosa di molto positivo su Mussolini. Che sia stato uno dei più grandi statisti italiani è una cosa oggettiva, credo”. Lo dice a La Zanzara su Radio 24 l’assessore all’Istruzione della Regione Veneto Elena Donazzan. “L’economia con lui crebbe – continua - ci furono grandi opere infrastrutturali, ci furono tutte le azioni sociali…e pensate che non mi sono neanche fumata una canna”. “Trovo assurdo – dice ancora – dirsi fascista oggi. Poi qualche errore il Duce lo ha commesso, le leggi razziali su tutto. Ma resta nel mio cuore, resta nel cuore e nella testa della mia famiglia. Io vengo da una famiglia di militari che fecero la scelta di rimanere nel giuramento che fecero prima della guerra. E quindi io amo la mia famiglia prima di tutto. I partigiani? Come in ogni guerra civile che è forse la peggiore delle forme di guerra hanno fatto cose allucinanti, quando parliamo di partigiani rossi. Quelli bianchi erano tutt’altro, però si fa ancora fatica a distinguere tra partigiani bianchi e rossi”. Poi attacca i negozi che vendono cannabis legale: “Quello che propone Salvini l’ho già proposto io in Veneto. Questi negozi spacciano morte. E sono addirittura tutelati da questo perbenismo per cui se ho un negozio e si vende qualcosa vuol dire che non fa tanto male e posso andarlo a comperare anch’io. Questo è il meccanismo perverso dei negozietti aperti lì davanti a tutti con ragazzi che vanno e che vengono. Vanno proprio chiusi”. Volete chiudere un’attività economica: “Possiamo fare di meglio ed aprirne delle altre. La canna, la cannabis è una forma di evasione scelta da chi consapevolmente decide che si deve sballare e deve prendersi della droga. Chi si fa una canna è un coglione perchè non ha la forza né il coraggio di guardare in faccia le cose. Oggi ci sono i ragazzini che la mattina vanno a scuola con dentro lo zainetto e insieme all’astuccio hanno lo spinello. Tutti gli studi dicono che parti dallo spinello e puoi finire con droghe pesanti”. Ma nel campo della cannabis legale ci sono 10mila persone impiegate: “Le riqualificheremo. E’ come l’eternit. Sono attività che stanno facendo danni ai nostri giovani”.

L'editore di Altaforte: "Non mi piego alle 10 sarò al Salone per aprire lo stand". Polacchi su Facebook: non mi piego alla volontà del pensiero unico. Diego Longhin e Jacopo Ricca il 9 maggio 2019 su La Repubblica. "Alle 10 sarò al Salone del Libro di Torino per ribadire che la logica di Altaforte non si piega al pensiero unico". Lo annuncia su Facebook Francesco Polacchi, fondatore della casa editrice Altaforte, vicina a CasaPound, esclusa dalla kermesse culturale. "Se avete a cuore la libertà d'espressione - aggiunge - vi aspetto. I libri non devono conoscere censura". Martedì Regione Piemonte e Comune di Torino hanno presentato un esposto contro Polacchi e la procura ha aperto una inchiesta per apologia di fascismo. Poi ieri Chiamparino e Appendino, dopo una lunga giornata di trattative, in qualità di soci fondatori del Salone del libro, hanno chiesto al braccio operativo del Salone di espellere la casa editrice vicina a Casapound. Ma ora si annuncia questo braccio di ferro. In realtà lo stand non esiste più. E' già stato girato e chiuso. Polacchi ieri sera a mezzanotte, dopo che la vigilanza dell'ente fieristico aveva  invitato i collaboratori dell’editrice a lasciare il Lingotto, ha scritto una mail certificata in cui annuncia azioni legali contro il Salone. “Se non mi fanno entrare farò subito causa”. Due giorni fa era già stato deciso lo spostamento dello stand della casa editrice - in un primo tempo posizionata all'Oval, a due passi dalla Sala Oro, quella dove si tengono gli incontri principali del Salone - in una posizione più defilata, vicino allo stand del Ministero della Difesa, per "motivi di sicurezza", considerato le annunciate proteste e sit in davanti alla sede di Altaforte. La notizia dell'esclusione sta convincendo molti intellettuali e protagonisti della cultura a rivedere la decisione di non venire al Salone proprio per la presenza di Altaforte. Per esempio Carla Nespolo, presidente dell'Anpi: "Ho appreso con molto piacere la notizia dell'esclusione della casa editrice Altaforte dal Salone del Libro di Torino. Ha prevalso il doveroso rispetto della Costituzione e dell'antifascismo, bussole che non si devono perdere mai. Comunico, quindi, che domani sarò al Salone per partecipare alla presentazione del volume di Tina Anselmi 'La Gabriella in bicicletta', edito da Manni". E il direttore del Salone Nicola Lagioia, poco dopo l'annuncio dell'espulsione di Altaforte, aveva annunciato che ZeroCalcare, Carlo Ginzburg sarebbero tornati al Lingotto.

La vignetta del giorno: al Salone del libro vietato l'ingresso ai non allineati. Cristiano Soro Venerdì 10/05/2019 Fonte: ilgiornale.

IL SALOON DEL LIBRO. Da Ansa il 9 maggio 2019. È stato completamente smantellato al Salone del Libro lo stand di Altaforte, la casa editrice vicina a Casa Pound al centro delle polemiche, esclusa dalla kermesse. Vicino allo stand del ministero della Difesa è rimasta la sagoma dello stand. "Le mie dichiarazioni sono state usate come scusa, sono stato denunciato per un reato di opinione. Sono disponibile a chiarire la mia posizione con la Procura, ma ritengo che la pietra dello scandalo sia il libro “Io Matteo Salvini”. E' un attacco al ministro dell'Interno, che comunque non voglio tirare per il bavero", commenta Francesco Polacchi, editore di Altaforte. "Una revoca inaccettabile - aggiunge - andremo per via legali". "Siamo nel 2019 alla censura dei libri in base alle idee, al rogo dei libri che non ha mai portato fortuna in passato". Così Matteo Salvini durante un comizio a Pesaro, in cui ha criticato "la minoranza di sinistra che si arroga il diritto di decidere chi può fare musica, chi può fare teatro, chi può pubblicare libri. Alle idee si risponde con altre idee, non con la censura. Alla faccia dei compagni e dei democratici, che decidono chi può andare al Salone del Libro e chi non ha diritto ad andarci". "Sarò al Salone del Libro di Torino per ribadire che la logica di Altaforte non si piega al pensiero unico", aveva annunciato su Facebook Polacchi. "Se avete a cuore la libertà d'espressione - ha scritto - vi aspetto. I libri non devono conoscere censura". Martedì Regione Piemonte e Comune di Torino avevano presentato un esposto contro Polacchi e la procura ha aperto una inchiesta per apologia di fascismo. Una "scelta di campo": Città di Torino e Regione Piemonte definiscono così la decisione di tenere fuori Altaforte dal Solone del Libro per "tutelare la sua immagine, la sua impronta democratica e il sereno svolgimento della manifestazione". Dopo giorni di polemiche, divisioni e defezioni, sale dunque la tensione alla vigilia dell'inaugurazione della buchmesse. "E' una richiesta assurda. Faremo causa e la vinceremo", afferma Francesco Polacchi, che la Procura di Torino ha indagato per apologia del fascismo. Ci sarà anche Halina Birenbaum, 90 anni, sopravvissuta ad Auschwitz. "Le lasceremo la parola", annunciano la sindaca Chiara Appendino e il governatore Sergio Chiamparino, al termine di una lunga giornata di trattative. E' stata proprio la poetessa polacca, 90 anni, oggi residente in Israele, a spingere le istituzioni all'esclusione. "Era inimmaginabile avere una testimone della storia come lei fuori dal Salone e Alforte dentro...", dice la prima cittadina di fronte alla possibilità che la scrittrice tenesse la sua lezione agli studenti davanti ai cancelli del Salone. "Abbiamo lavorato tutto il pomeriggio - spiega Chiamparino - per trovare una mediazione, ma non è stato possibile, e io aggiungo comprensibilmente, per cui abbiamo preso l'unica decisione in linea con la trazione e i valori di Torino e del Piemonte".

Camilla Tagliabue per “il Fatto Quotidiano” il 9 maggio 2019. Quando, nel 2017, uscì il suo romanzo Bruciare tutto, su un prete pedofilo simile a don Milani, si svegliarono i censori, e molti si riempirono la bocca coi "limiti etici" della letteratura. Walter Siti, però, si smarcò con grazia, da squisito intellettuale e autore, certificato pure dallo Strega e dal Mondello (nel 2013 per Resistere non serve a niente, Rizzoli). E anche ora - nel mezzo delle polemiche su Altaforte - si sottrae al fuoco incrociato dicendosi innanzitutto spaventato dall' invocazione di un "codice etico".

Quindi sarà al Salone?

«Sì, sarò lì a presentare Scuola di demoni, un libro di "conversazioni" con Michele Mari, curato da Carlo Mazza Galanti (minimum fax)».

Si è mai posto il problema di non andarci?

«No, non ne vedo la ragione.

Molti suoi colleghi boicotteranno la fiera: non condivide la scelta o non la capisce?

«Al contrario, di alcuni capisco benissimo la motivazione: se Carlo Ginzburg dice che non va, con la sua storia, lo capisco benissimo. Poi se vuole facciamo un passo indietro».

Mi dica.

«Qualche giorno fa ho ricevuto un invito a firmare un appello: vi si parlava della deriva per cui certe cose neofasciste prendono sempre più piede e importanza e si concludeva chiedendo al Salone di stilare una specie di "codice etico" per selezionare gli autori e le case editrici. Davanti a quell' espressione mi sono un po' spaventato: mi sembra molto pericolosa. Se un' istituzione pubblica - qual è in un certo senso il Salone - comincia a parlare di codici etici, paradossalmente mi sono detto: "Be', è una cosa che avrei potuto leggere in una qualunque manifestazione culturale nella Germania del 1937: una mostra contro l' arte degenerata avrebbe potuto benissimo ospitare un' introduzione con un codice etico per selezionare gli artisti". Quell' espressione mi ha fatto paura; quindi ho risposto che non mi andava di firmare l' appello».

Da chi arrivava? Colleghi?

«Sì. Dopodiché ho iniziato a seguire il dibattito sui media. La mia idea è questa: è vero che c' è una situazione culturale e politica per cui alcuni gruppi che si richiamano apertamente al fascismo hanno l' impressione di aver acquistato più spazio. Ma penso che si debba agire culturalmente, discutendo con loro e dimostrando che le loro posizioni sono estremamente primitive. I libri non sono per definizione violenti: io sarei per accoglierli sempre tutti, di qualunque cosa parlino, perché non sono mai il problema; semmai lo sono le azioni violente».

Non è la prima volta che si pone la questione: può la democrazia dare voce a coloro che sono contrari alla democrazia?

«Io penso di sì: penso che la democrazia debba dimostrarsi abbastanza forte da concedere la parola anche a chi la detesta. Questo serve alla democrazia stessa per fare i conti con i propri errori e debolezze, che eventualmente hanno lasciato spazio alle forze non democratiche».

Che idea si è fatto dell' esposto in Procura di Chiamparino e Appendino?

«Quello è un altro problema ancora, di carattere legale. Se esistono regole interne al Salone, contro case editrici condannate per apologia di fascismo, basterà applicarle».

Teme disordini pubblici?

«Dipende da quanto monta la faccenda. Tutto era nato dal libro-intervista a Matteo Salvini: senza quel libro, probabilmente non si sarebbe innescata alcuna polemica. Se Salvini andasse a Torino, forse ci sarebbero problemi di ordine pubblico. Ma Salvini non ci sarà e in sua assenza, cioè in assenza del casus belli, non so se faccia comodo a CasaPound, a ridosso delle elezioni, venire ad agitare le acque; semmai giocheranno la carta delle vittime. Che Salvini cerchi voti nell' estrema destra non è una novità. Io mi sono occupato di borgate romane ancora nel 2017 e mi ricordo una di quelle persone dirmi con grande lucidità: "Qua per resta' fascisti tocca farsi pure salviniani". Che quella destra stia tentando di agganciarsi al carro vincitore di Salvini e che Salvini non faccia niente per rifiutare la contiguità mi pare evidente».

Associando in modo granitico Salvini al fascismo non si rischia di fare di tutta l' erba un fascio, anche littorio?

«Sì, a me di Salvini non vanno tre cose: primo, l' uso che fa del concetto di "natura", cioè di considerare "naturale" e "normale" tutto quello che è frutto di politiche conservatrici; ad esempio, la famiglia composta da un papà e una mamma. Secondo, tende sempre a semplificare i problemi complicati. Terzo, ha scarsa considerazione dei ruoli istituzionali. Queste tre cose insieme restituiscono un' immagine di destra muscolare che a me non piace per niente. Però non credo che questa possa essere riassunta sotto l' etichetta di "fascista"».

Salone del Libro di Torino ed il pollaio dei "purissimi". Le riflessioni di Davide Rondoni sulle polemiche di questi giorni sul Salone del Libro di Torino.  Davide Rondoni il 10 maggio 2019 su Panorama. Nel piccolo pollaio della fattoria "Purissimi" si era alzato un po' di starnazzaio. si udivano cicalecci più forti del solito, il tacchino che dava del tacchino al pollo e il pollo che dava del piccione al tacchino. Fuori, di la dalla provinciale, al bar, le chiacchiere e i silenzi degli avventori continuavano. I tir passavano, il vino brillava di fanali e occhi lucidi. Là, nel pollaio, si replicava la solita cosa. Ogni tanto qualche tacchino o galletto pensava che il suo compito fosse fare il Ministro del pollaio. Qualcuno addirittura si sentiva a volte, forse dopo un indigestione di becchime, il Papa del pollaio e girava a scomunicare. Il più delle volte, queste piccole manie di piccoli polli col petto in fuori pronti a ricever medaglie, non svegliavano nemmeno i colleghi adagiati sui pioli e sui pali, tranquilli e appagati. Nessuno si curava del loro presunto ruolo di oche del campidoglio. Sì, li avevano convinti infatti di esser la versione aggiornate delle famose oche che starnazzando salvarono il colle dall'assedio dei Galli. Agli abitanti del pollaio non avevano spiegato che si trattava di una leggenda e forse che quelle oche erano donne, e tipe pure toste, e non polli di allevamento tirati su a consulenze rai e piccoli palchi letterari e a libri che ti danno sempre ragione perchè stai-dalla-parte-giusta della storia. Perciò ogni tanto un pollo sentendosi eroicamente oca starnazzava contro i presunti Galli e Barbari. Di là dalla provinciale, intanto, avventori alle prese con tasse alte, crisi demografica, disoccupazione, guardavano la tv per distrarsi e chiacchieravano tra loro. Qualche pollo più anziano si destava quando c'erano queste parate e alzate di cicaleccio. Il suo nome così girava nuovamente tra i polli più giovani e si sa, alla stanchezza dei sensi e alla memoria sbiadita di orgasmi e entusiasmi, a volte può supplire, se pur pallidamente, un fremito di passegera gloria giornalistica. Il sussiego con cui a tratti taluni polli spiegavano agli altri come si fa a essere polli-come-si-deve era quasi ammirevole. Le pose, lo stentato gorgheggio, erano degne di miglior successo. Ma quegli abitanti del pollaio non avevano nessun interesse reale se non esser chiamate Oche del Campidoglio. Gareggiavano dunque a sentirsi sempre più oche. Non importava che non sapessero minimamente dove si trovasse il Campidoglio, chi erano i Galli e cosa passasse nella testa degli avventori del bar dall'altra parte della provinciale. Avevano riflessi automatici, forse dipendeva dal becchime sempre uguale e trattato chimicamente e ideologicamente che ingurgitavano in gran quantità. Forse dalla compressione cerebrale dovuta allo sviluppo del complesso dell'oca. L'aspirazione ad esser oca era talmente forte che a volte certi polli davan l'allarme se passava un gatto, o una lucertola, gridando "al lupo," Si schieravano, gonfiavano il petto, starnazzavano. Per sentirsi ancora una volta i "purissimi". E continuare la bizzarra recita. Qualche pollo che stava lì giusto per stare un po' al caldo, svegliato dall'inutile frastuono li mandava a cagare mormorando. Qualcun altro intonava vecchie canzoni pur di soddisfare la vanità del pollo starnazzante e per farlo tacere. Intanto in libri che i polli non avevano mai letto se in conversazioni da bar popolare stavano spiegate le ragioni del loro disagio e del loro complesso. Gli avventori nel bar di là dalla strada vedevano passare i giorni, i tir, le fatiche del lavoro e dell'amore. Sapevano, con la saggezza dei lavoratori e del bar, che i tempi cambiano e che il potere sa travestirsi, difficilmente mette la maschera del cattivo. E sapevano che il pollaio dei Purissimi non sarebbe cambiato granché, restando nella storia che pensavano di cambiare - tra avanguardie e retroguardie del pollaio - come un reperto, un simpatico luogo di strane vanità, e di furiose discussioni con poco capo e poca coda. nb. Non mi pare di aver visto boicottaggi né nulla se non omaggi e gorgheggi quando Chavez, un dittatore che ha affamato e mandato in vacca una nazione come il Venezuela, venne al Festival di Venezia... Questi sabotatori di Festival del Libro hanno il coraggio (e la capacita di lettura dell'epoca e della vita reale - e quindi della politica) di un tapiro. Mi ricordo quel geniaccio scomodo di Testori che mi disse che l'errore di Pasolini era di aver opposto al Palazzaccio del Potere il Palazzetto della cultura. Ora il palazzetto si è ridotto a un pollaio. Venerdì vado al Salone del Libro a parlar di poesia e libertà. Senza chiedere il permesso a nessuno e girerò tra gli stand dove, come ogni anno, staranno libri di ogni genere

Inizia la fiera, in nome dell’antifascismo. Salone del Libro. Il ministro Bonisoli, all’inaugurazione, d’accordo con la scelta di Comune e Regione che ha escluso la casa editrice vicina a CasaPound. Fuori dai cancelli del Lingotto la protesta del titolare di Altaforte. Mario Di Vito 10.05.2019 su Il Manifesto. Lo stand di Altaforte è fuori dal Lingotto di Torino. Un mucchio di ferraglia sopra un bancale di legno. È rimasta soltanto l’insegna gialla a testimoniare una provocazione che alla fine non c’è stata. Il Salone del Libro ha aperto ieri mattina, depurato dalle presenze neofasciste e pieno di scolaresche in visita, oltre che di visitatori “semplici” disposti a passare una giornata a camminare in lungo e in largo per poi uscire con il portafogli svuotato e chili di libri nelle sporte rigorosamente marchiate da una qualche casa editrice.

È il solito salone: extralarge, ingombrante, con le code agli ingressi e davanti ai punti di ristoro, gli incontri nelle varie sale, i personaggi dell’universo letterario italiano che si aggirano e qualche volta vengono fermati dai giornalisti e dai blogger (ce n’erano in gran quantità) per un’intervista, una dichiarazione, al limite un selfie. Dove inizialmente era previsto lo stand di Altaforte adesso non c’è niente, ma la differenza non si noterebbe comunque: la calca in quella zona del terzo padiglione era tutta per il rivenditore di hamburger e patatine fritte. Ai cancelli del Lingotto, a un certo punto, si è presentato pure Francesco Polacchi, il titolare della casa editrice vicina a CasaPound. Un’occasione buona per farsi qualche foto e qualche video da postare sui social network perché, perduta la piazza reale, resta sempre quella virtuale per annunciare che la presentazione del famigerato libro su Salvini verrà presentato lo stesso a Torino, sabato, in un luogo ancora da definire.

Lo stesso Salvini – che alla vigilia dell’apertura del Salone aveva scaricato i camerati di CasaPound in diretta televisiva, parlando di un ipotetico sgombero a Roma e negando di aver firmato contratti con Altaforte – alla fine si trova a gridare alla censura. L’esclusione dell’editore sovranista, chiesta e ottenuta infine dal sindaco di Torino Chiara Appendino e dal governatore piemontese Sergio Chiamparino, ha già fatto discutere più del dovuto, e così le parole del ministro rimbalzano stancamente dentro al Lingotto, destando al massimo qualche sopracciglio alzato tra gli organizzatori. «Siamo nel 2019 – ha detto il leader leghista – e alla censura dei libri in base alle idee: i roghi in passato non hanno mai portato fortuna. Alla faccia dei democratici che decidono chi può andare al Salone e chi invece deve essere escluso».

In apertura di giornata, al Salone, è intervenuta Halina Birembaum, poetessa e scrittrice ebrea di origine polacca, una delle ultime superstiti di Auschwitz. È stata lei, di fatto, a seppellire Altaforte, dicendo agli organizzatori che avrebbero dovuto scegliere tra la sua presenza e quella dei neofascisti. «Sono riuscita a sopravvivere e vedere un mondo diverso, non sarei qui se non avesse perso l’idea fascista, nazista del nuovo ordine in Europa», ha detto lei, chiudendo definitivamente il discorso.

A sorpresa – anche se non dovrebbe essere così – la scelta di buttare fuori i fascisti ha incontrato il favore del ministro della Cultura Alberto Bonisoli, presente ieri all’inaugurazione, che ha dichiarato di essere «al cento percento d’accordo» con la scelta di Appendino e Chiamparino. «Mi fido della città di Torino – ha aggiunto -. Se questa è la scelta sarà stata la cosa giusta». Il direttore Nicola Lagioia ha poi chiarito definitivamente la posizione della direzione editoriale del Salone: «Il Salone accoglie tutte le opinioni, però c’è un limite che è quello dell’apologia di fascismo e dell’odio etnico e razziale che si devono mettere fuori». Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, infine, con un messaggio inviato allo stesso Lagioia ha dato il suo sostanziale beneplacito alla gestione della vicenda, citando Primo Levi e «la necessità di non dimenticare ciò che è avvenuto negli anni della Seconda Guerra Mondiale come tragica conseguenza del disprezzo dei diritti di ogni persona». Intanto il Salone ha riconquistato tutti gli scrittori che avevano annunciato la propria assenza per protestare contro Altaforte: «I nazisti stanno a casa e quindi ci vediamo al Salone», ha scritto su Twitter Zerocalcare. Il collettivo di scrittori bolognesi Wu Ming, invece, con un post sul proprio blog hanno riassunto i motivi per cui si può parlare di vittoria e hanno stilato un elenco di suggerimenti e di buone pratiche per affrontare al meglio situazioni come quella che si è venuta a creare a Torino. I gruppi neofascisti, ormai, hanno imparato alla perfezione come ci si infila nelle falle del sistema ed è scontato che proseguiranno su questa strada, di provocazione in provocazione. Il Salone, però, li ha fermati.

I Soloni del libro inaugurano il Salone della censura. Epurato l'editore Altaforte, c'è chi pensa di aver «salvato l'umanità» e chi invoca un inquietante «codice etico». Luigi Mascheroni, Venerdì 10/05/2019, su Il Giornale. Cosa ci si mette per festeggiare il rinato Stato democratico della Repubblica del Libro? La pochette? Gli anfibi? La Resistenza non è una cena di gala. La sindaca Appendino tailleur giacca-pantalone nero, molto chic, il governatore Chiamparino spezzato e cravatta che vira al rouge, Nicola Lagioia, il Direttore del risorto Salone del Libro di Torino, rifondato su solite basi antifasciste, neanche fosse il 25 aprile dell'editoria italiana, una semplice T-shirt stropicciata, come la faccia: la notte del Gran Consiglio è stata dura. «Ma ora fuori splende il sole», esordisce Lagioia, aprendo i discorsi ufficiali per l'inaugurazione della più turbolenta edizione del Salone dell'era sovranista, e il pubblico della Sala Oro, dentro l'Oval - il recuperato spazio espositivo del Lingotto - accenna un timido applauso liberatorio. Le lunghe ore delle decisioni irrevocabili sono passate. Espulso l'editore vicino a CasaPound e soffocati i rigurgiti neofascisti, Giustizia e libertà sono fatte. La democrazia è salva. L'abbiamo scampata bella. Mentre l'Italia è stretta fra crisi di governo, recessione economica, tensioni multietniche, rischiavamo di non accorgercene. La cultura, come la politica, è un circolo vizioso. E così tutto ritorna dove ogni cosa è iniziata: ore 9,30 del mattino, il corteo delle autorità (ministro Bonisoli in testa) comincia per rispetto istituzionale dal padiglione della Difesa. Accanto a quello che doveva essere lo stand delle edizioni Altaforte, smontato nella notte prima ancora di essere finito. Della tentazione fascista non c'è più traccia. Nel piazzale d'ingresso, intanto, Francesco Polacchi, l'editore «allontanato» dal consesso democratico, solitario, affronta un pugno di cronisti e improvvisa una conferenza stampa in diretta Facebook: annuncia che presenterà comunque il libro incriminato con l'intervista a Matteo Salvini, ovviamente non dentro il Lingotto. Sarà sabato alle 12, ma il luogo rimane riservato. Invece l'autrice, Chiara Giannini, ha già dato mandato ai suoi avvocati per diffidare il Salone e procedere con causa civile per danno d'immagine. La democrazia costa. A proposito di cause. Se Altaforte dovesse vincere la sua contro il Salone, come è molto probabile, cosa succederà? Se la legge gli darà ragione, l'anno prossimo bisognerà inventarsi qualcosa per tenere fuori gli editori sgraditi. Qualcuno, nel codazzo del corteo, tra i vertici del Salone, parla chissà di un Codice etico. Qualcun altro rabbrividisce. Veloce giro per i padiglioni con tappa reverenziale davanti a ciò che resta dell'Einaudi azionista torinese e poi cerimonia d'apertura. Parla il ministro Bonisoli (che della vicenda alla fine se ne è lavato le mani: «Se questa è la scelta di Torino, mi fido: sarà la cosa giusta»), poi Nicola Lagioia, che come tutti gli altri sembra essersi liberato di un peso, ma tradisce un certo nervosismo (poi in giornata dirà che la svolta politica si è resa necessaria). E subito dopo, a sorpresa, per riparare lo scampato sfregio fascista, la novantenne sopravvissuta ad Auschwitz Halina Birenbaum: ringrazia per la decisione coraggiosa che le ha permesso di essere qui, racconta la sua storia di testimone vivente della Shoah, e la Sala Oro si alza in piedi. L'applauso è lunghissimo. Breve il resto della cerimonia. Sia Appendino sia Chiamparino saltano il giro dei discorsi (hanno già parlato nella notte: sono loro ad avere chiesto e ottenuto l'allontanamento di Altaforte). Nessuno cita esplicitamente il fatto del giorno: è tutto un alludere, un accennare. Rimane il presidente del Circolo dei Lettori, che di fatto organizza il Salone, Giulio Biino: parla di una scelta di campo che ha evitato uno sfregio a Torino, al Paese «e forse all'umanità» - per dire i toni esagitati con cui si sta affrontando la questione e dice che da notaio «prendere una decisione che forza la norma» è stato difficile e faticoso. Ci crediamo. Intanto scorrendo i dati di Amazon puoi scoprire che il libro censurato di Altaforte è top seller del giorno, e forse lo sarà della settimana. Da una (tragica) intuizione di Christian Raimo ecco il caso di marketing involontario più gigantesco della storia mondiale del libro. E poi, adesso che l'Uomo nero è stato allontanato (e il guaio è che finirà col passar per martire), l'intellighenzia antifascista di fanatismo e di battaglia le Murgia&Co., gli antagonisti già pronti a cantare Bella ciao nei corridoi del Salone, le anime belle che volevano scaricare centinaia di copie di Primo Levi davanti allo stand incriminato - contro chi leverà alto i suoi scudi? Alla fine, restano - da una parte - le liste di proscrizione, che hanno chiamato in correo editori e intellettuali del tutto incolpevoli (come Francesco Giubilei, al massimo un conservatore: «È stato bello stamattina vedere gente che veniva nel nostro stand ad acquistare libri per solidarietà. Paura? Purtroppo abbiamo ricevuto minacce di morte. Cosa dice ora chi ha alimentato questo insopportabile clima d'odio?») e dall'altra - fuori dal Lingotto, i miliziani di Potere al popolo che distribuiscono volantini «Contro l'antifascismo di comodo di Chiamparino e Appendino». Per loro sono stati troppo morbidi, ambigui e tardivi. Com'è la storia che c'è sempre un puro più puro di te? La giornata, in qualche modo è andata. Il Salone è aperto. Si aprono i libri, si aprono le menti. Speriamo.

Il Salone parte senza Altaforte  Salvini: «È censura» Speciale. Pubblicato giovedì, 09 maggio 2019 da Alessia Rastelli su Corriere.it. «Non sarei qui se non avesse perso l’idea nazifascista». Nella Sala Oro, la più grande della fiera, c’è Halina Birenbaum, la superstite della Shoah che aveva annunciato di non entrare al Salone se fosse rimasta Altaforte, la casa editrice vicino a CasaPound. Fuori dai cancelli Francesco Polacchi, il fondatore di Altaforte, parla ai giornalisti di un «attacco a Matteo Salvini: le mie dichiarazioni sono state usate come scusa». È la fotografia dell’inaugurazione del Salone del Libro di Torino, all’indomani della decisione, a poche ore dal via, di escludere Altaforte rescindendo il contratto. Una «scelta politica», aveva spiegato il governatore Sergio Chiamparino, artefice della decisione con la sindaca Chiara Appendino e il direttore del Salone, Nicola Lagioia. E così, mentre dentro la fiera il responsabile editoriale, pur riconoscendo che è stato «un percorso complicato», esprime soddisfazione per «aver fatto emergere i temi del nostro tempo, come fascismo e antifascismo», fuori la polemica politica si accende. È lo stesso Salvini a intervenire: «Nel 2019 siamo ancora alla censura in base alle idee, al rogo dei libri, che però non ha mai portato fortuna in passato». «La minoranza di sinistra — accusa — si arroga il diritto di decidere chi può fare musica, chi può fare teatro, chi può pubblicare libri. Alle idee si risponde con altre idee». Ribatte Chiamparino: «Forse avrebbe preferito stare con il fascista editore della sua intervista e avrebbe lasciato fuori la vittima di Auschwitz». Mentre sul ministro, che a livello nazionale è alleato di governo, la sindaca pentastellata Chiara Appendino chiarisce: «Non è una rivalsa verso Salvini ma una scelta a protezione della rassegna e del Paese». «Il Salone ha una sua impostazione culturale ma questo non significa — aveva già detto Lagioia — che non accolga tutte le opinioni. C’è però un limite ed è nell’apologia di fascismo e nell’odio etnico e razziale. Che si devono mettere fuori». Nelle prime ore del mattino lo stand di Altaforte non c’è già più. Alle 10 arriva Polacchi, ma resta fuori. Conferma che la casa editrice si muoverà per vie legali: «Inaccettabile la revoca del contratto». Quindi, attacca: «Sono disponibile a chiarire con la Procura, ma la pietra dello scandalo è stata il libro-intervista di Salvini. Che comunque, uscito ieri, è già in ristampa». L’editore annuncia che sarà presentato domani a Torino, ovviamente non al Salone, e invita ad andare alcuni nomi che negli ultimi giorni si sono spesi per la libertà di espressione, tra i quali Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Giampiero Mughini, Vittorio Sgarbi. Sul libro, Polacchi aggiunge di non aver mai parlato con Salvini: «Abbiamo un contratto con l’autrice Chiara Giannini. Salvini mi ha conosciuto cinque anni fa, in una situazione conviviale. È possibile che non si ricordi di me». Nel frattempo, l’autrice annuncia che chiederà i danni al Salone per averla associata al fascismo. E in città arriva il leader di CasaPound, Simone Di Stefano, per un comizio. Al Salone non va, ma «l’accusa a Polacchi — dice — è una bolla di sapone: se non c’è un tentativo di sovvertire l’ordine democratico non esiste apologia». In serata la casa editrice sovranista Giubilei Regnani denuncia minacce su Facebook da parte degli antagonisti. Tra i padiglioni diversi editori mettono in mostra messaggi antifascisti. E dichiara appoggio alla mossa di Chiamparino e Appendino il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli, intervenuto all’inaugurazione: «Sono state dette cose gravi, non si può far finta di nulla». Forte si fa sentire Sergio Mattarella in un messaggio al direttore del Salone, che prende il via dalle celebrazioni per il centenario di Primo Levi. «I valori che ha trasmesso — scrive il presidente della Repubblica — specialmente la necessità di non dimenticare ciò che è avvenuto negli anni della Seconda Guerra Mondiale come tragica conseguenza del disprezzo dei diritti di ogni persona, costituiscono la base fondamentale per una società pacificate e una rispettosa convivenza sociale».

 CasaPound espulsa dal Salone di Torino. Il libro del leader leghista vola. Polacchi protesta ma esulta: «colpiscono me per colpire il ministro. Intanto abbiamo venduto più di 6mila copie» Rocco Vazzana il 10 Maggio 2019 su Il Dubbio. «La pietra dello scandalo è il libro su Salvini, c’è un attacco al ministro dell’Interno». Francesco Polacchi, editore fascista per propria ammissione, urla al complotto: Altaforte, la casa editrice che ha dato alle stampe Io sono Matteo Salvini – Intervista allo specchio, scritto da Chiara Giannini, è stata ufficialmente esclusa dal Salone del libro di Torino. Gli organizzatori hanno preferito non rinunciare alla testimonianza di Halina Birenbaum, sopravvissuta ad Auschwitz, che non avrebbe messo piede nei padiglioni della fiera se all’interno ci fosse stato lo stand di Altaforte. Ora l’editore di CasaPound promette il ricorso alle «vie legali» per l’ esclusione dal Salone, ma il primo, e più importante, risultato l’ha già ottenuto: sei mila copie già vendute e libro già in ristampa. Niente male per un imprenditore, che per l’ennesima volta riceve una mano importante dal ministro dell’Interno, quanto meno sul piano promozionale. Sì, perché Polacchi non è solo un editore, i suoi interessi economici spaziano su più campi, compreso quello dell’abbigliamento. I capi della Pivert, l’azienda di proprietà del giovane fascista del terzo millennio, piacciono parecchio a Matteo Salvini, che il 10 maggio del 2018 sfoggia un giubbino col logo del picchio in occasione della finale di Coppa Italia Juventus- Milan. Il marchio di Polacchi finisce così sugli schermi di milioni di tifosi e si alza un nuovo polverone mediatico. «Ciao Matteo, volevo ringraziarti per aver creato tutto questo casino per la giacca Pivert che neanche fossi diventato Presidente degli Stati Uniti o Papa!», scrive ironico su Facebook l’editore del ministro dell’Interno. Condannato in primo grado a un anno e quattro mesi di reclusione per gli scontri di piazza Navona del 2008, quando Polacchi, all’epoca leader di Blocco Studentesco, la giovanile di Casapound, assaltò a colpi di mazza gli studenti dell’Onda che manifestavano contro la riforma Gelmini, il giovane imprenditore di estrema destra nega di avere alcun rapporto personale con il segretario della Lega. «Confermo ciò che Salvini ha detto, mi ha conosciuto cinque anni fa una volta», dice, davanti alla fiera che ospita il Salone del libro. E a meno che non si tratti di un semplice errore di calcolo, il vice premier e l’editore si sono incontrati almeno un’altra volta, quattro anni fa, nel 2015. È l’ 11 maggio e al teatro Brancaccio, nella Capitale, va in scena «Roma: si parte da qui», convention sovranista in cui il futuro inquilino del Viminale condivide il palco con Simone Di Stefano, vice presidente di CasaPound che in quell’occasione veste i panni dell’esponente di ‘ Sovranità, prima gli italiani’, una delle sigle che in quei mesi compare spesso insieme ai simboli del Carroccio. Nessuna tartaruga di CasaPound in sala, gli unici loghi presenti sono quelli di “Noi con Salvini” e le tre spighe gialle su sfondo blu di “Sovranità”, il contenitore in cui neofascisti e lega si trovano spesso a dialogare. «Lunedì sera al Teatro Brancaccio di Roma è stato un vero e proprio trionfo per Matteo Salvini e Simone Di Stefano. Presenti 1300 persone, esauriti i posti a sedere», scrive con toni trionfalistici Primato Nazionale, il quotidiano «sovranista», edito dalla stessa Altaforte. La serata si conclude con una ce- na in trattoria tra pochi intimi, con tanto di foto di gruppo. A tavola figurano Matteo Salvini, Simone e Davide Di Stefano, Francesco Polacchi e Gianluca Iannone, fondatore di CasaPound e leader della band ZetaZeroAlfa, autore di pezzi molto noti nel panorama underground, comeCinghiamattanza e Nel dubbio mena. Due mesi prima, del resto, il vice presidente dei fascisti del terzo millennio condivide col “capitano” un palco ancora più prestigioso: quello di Piazza del Popolo, dove il Carroccio ha organizzato una manifestazione contro Renzi. «Ci chiedono: ma perché state in piazza con Matteo Salvini e con la Lega? Perché noi condividiamo ogni singola parola del programma di Matteo Salvini», scandisce al microfono Di Stefano. Ma i rapporti tra Lega e CasaPound affondano le radici almeno al 2014, quando Mario Borghezio viene candidato all’Europarlamento nel collegio dell’Italia centrale. Impresa impossibile per un partito che all’epoca si chiama ancora Lega Nord. Meglio cercare alleati “indigeni”. E Borghezio li individua facilmente e la spunta. «Ho invitato gli iscritti a votare per la Lega Nord con preferenza a Borghezio. Siamo contenti che sia stato eletto, è una persona onesta, coraggiosa e merita il nostro rispetto», dichiara Iannone, dopo aver battuto per mesi la Capitale in compagnia del leghista. Il resto è storia recente, CasaPound cavalca la paure delle periferie invocando case popolari solo per gli italiani, ma occupa illegalmente un intero palazzo nel centro di Roma. Nessuno, al momento, ha intenzione di sgomberarli.

Comprate i libri di Altaforte: inizi ora la battaglia di libertà, la battaglia generazionale contro la miseria umana e culturale della sinistra peggiore. Emanuele Ricucci 9 maggio 2019 su Il Giornale. È l’ora di una battaglia generazionale che sancisce l’esistenza oltre la resistenza. Liste di proscrizione, censure, impedimenti, diarrea linguistica (dal “Ministro della Malavita” di Saviano, riferito a Salvini, al “nazisti” di Zerocalcare verso gli editori che non la pensano come lui. Nazisti…). Un circo da chiudere per il bene comune. Un incredibile affronto al buon senso di ogni italiano libero, oltre le sigle. Ancora una volta prevale l’opinione e l’ossessione ideologica, fuori tempo e fuori luogo, al dibattito, alla misura dei contenuti, delle visioni, delle idee. Del rispetto altrui. Alimentando così il presente non si fa altro che cadere in un passato peggiore. Epurazione, non cultura. E ora uniti, in una battaglia generazionale ben più grande di una tessera di partito. Altaforte ufficialmente fuori dal Salone del libro. Il libro dei morti. Dei morti viventi, come la sinistra peggiore, neanche lontana ombra di quella che, anni fa, difendeva a spada tratta l’articolo 21 della Costituzione, il diritto di potersi esprimere nella libertà della democrazia, che avrebbe agito sui messaggi che cambiano la storia; quella che si sarebbe fatta ammazzare pur di difendere il diritto all’esistenza culturale e al dibattito democratico. Perché avrebbe chiamato il contrario FASCISMO. Lontana da ogni forma di incredibile maturità civile, garanzia di libertà nella cultura, e viceversa, come quella espressa da Giampiero Mughini, Pierluigi Battista, Vittorio Sgarbi, e molti altri, in queste ore, solidali con l’editore cassato dalla rassegna torinese, pur godendo di due prospettive diverse del mondo. Il libro dei morti viventi, come Altaforte, che grazie a questa ignobile e stupida bagarre, cade sul campo del Salone deli libro, ridotto a tinello delle belle menti incattivite da una spietata adolescenza isterica, sintomo del terrore di perdere l’egemonia e la gestione del sentore comune, e risorge in libreria, con le vendite che schizzano alle stelle, con la dignità culturale che popola i temi dei suoi libri, la semplice possibilità di esprimere un apparato teorico, la propria visione del mondo. Quello vistosi a Torino è un assalto alla cultura, sputi in faccia alla dea madre, una coltellata al suo significato più profondo, alla sua più sincera evocazione: coltivazione. Coltivazione dello spirito, del pensiero critico che rende davvero gli uomini liberi, che si srotola nella vita di ognuno, collettiva e individuale, tramite lo studio, le esperienze, il contatto con la propria profondità sensoriale, istintiva, intima. Processo vitale che richiede nutrimento. Per non crepare di fame come bestie nel villaggio globale, etichettate, come uomini replicati, versione marcia degli uomini ancora integri, sovrani, sì, ma prima di tutto di se stessi, ancora prima che della propria economia. Volere la democrazia, vietandola. Volere la libertà, censurandola. La legge non è uguale per tutti. La libertà non è (uguale) per tutti. La democrazia non è (uguale) per tutti. La cultura non è (uguale) per tutti. L’Italia non è un posto per tutti. Potremmo star qui a sottolineare la morte dell’egemonia culturale dominante, del progressismo pensante. Ma sarebbe banale. Da figli del nostro tempo, invece, dobbiamo incarnare la nuova storia, che non si alimenta solo di romanticheria di piombo, e storie militanti che furono. Assumersi le nostre responsabilità in un mondo che vuole discolparsi da tutto, sottraendosi da ogni eredità nazionale, di identità, storica, spirituale. E allora eccola la vera battaglia generazionale che risponde a una domanda fondamentale: come può questa egemonia culturale, questa cricca di censori, la sinistra pensante, che ripete spesso che senza la Resistenza oggi non potremmo liberamente esprimerci, che censura, uccide la democrazia con martellate alla testa e il dibattito, impedisce e fornisce un esempio di contraddizione totale sulla predica del Vangelo pacifista, garante delle libertà, rappresentare il modello culturale italiano? Come può generare la cultura di massa? A quale titolo? La sinistra esce sconfitta da questo incredibile teatro. La sua egemonia è in pezzi. Cadranno i tiranni? Nel prototipo umano di troppo antagonismo uscito fuori da ogni schema, nell’allungo a una visione salvifica e accettabile del presente. Antifascismo urlato, strillato, senza confronto sui contenuti. Oggi muore la sinistra pensante. Che diventa depensante: che rinuncia, ovvero, all’offerta dei propri contenuti teorici, capaci di influenzare il presente e la storia, per divenire antistoria, anacronismo e distacco dal reale, smettendo di pensare per realizzare la trappola al mondo ad essa alternativo. E tutto si riduce a una bagarre, a una castrazione. Oggi muore, ancora un po’ di più, la libertà e la democrazia. Ecco perché dietro alla cacciata di Altaforte Edizioni dal Salone del libro di Torino (che a qualcuno costerà caro in termini economici, vista la volontà dell’editore di fare ricorso, avendo regolare contratto per la partecipazione alla rassegna), c’è di più. Molto di più. C’è una battaglie generazionale, per la difesa della democrazia e della generazione del presente. Contro i nuovi Torquemada coi social, contro il nuovo oscurantismo, contro la dittatura del pensiero. Hic et nunc. Dietro tutto ciò esiste una chiamata alla coesione. Un feudalesimo irrimediabile nel doversi rendere conto che la sinistra, ormai cadavere politico, ancora gestisce il sentore comune, genera la cultura di massa. La battaglia, oltre che generazionale, è culturale, non tanto politica. E solo se il sovranismo, o comunque si chiamerà l’alternativa a quell’anacronistico e vaneggiante mondo antifascista, della sinistra più irragionevole di sempre, si codificherà in un movimento culturale strutturato si potrà sperare di influenzare la storia e annullare l’egemonia. Il momento, per le menti libere, è ora.

“LA SINISTRA NON SI RASSEGNA AL SUCCESSO DI SALVINI”. Da Radio Cusano Campus il 13 giugno 2019. Chiara Giannini, giornalista e autrice del libro intervista a Matteo Salvini edito da Altaforte, è intervenuta ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sulle polemiche legate al libro. “Siamo alla terza ristampa, ogni ristampa è 5mila libri –ha affermato Giannini-. Stanno arrivando molti altri ordini. E’ stato un grande successo. Ovviamente la ridondanza mediatica che c’è stata ha favorito le vendite. Il mio libro è stato additato come libro vicino ad una casa editrice fascista, cosa non vera, è stata una strumentalizzazione. Altaforte è una casa editrice sovranista, non fascista, pubblica libri che non sono fascista, pubblica libri di importanti giornalisti e scrittori. Visto che è una casa editrice che non è stata dichiarata illegale, chi fa polemiche di questo tipo si commenta da solo. Il mio libro sull’Afghanistan, sempre pubblicato con Altaforte, è stato presentato al Senato e al Campidoglio e nessuno ha fatto polemica. Queste sono polemiche strumentali di una certa sinistra che non si rassegna al successo di Salvini. Io politicamente sono imparziale, ma sono contenta che il mio libro abbia portato un po’ di voti alla Lega perché bisogna iniziare a scardinare questi meccanismi della sinistra. Quando hanno governato Renzi e Gentiloni ho avuto dei problemi, sono stata depennata dai contatti del Ministero della difesa, non ricevevo più rassegna stampa, non venivo più invitata a nessuna cerimonia militare. La prima pagina del libro su Salvini con il pupazzetto di zorro? Era ironica, se le persone che hanno fatto polemica e mi hanno presa in giro avessero letto anche le pagine successive lo avrebbero capito. Ho usato una forma particolare per questo libro. Ci ho messo un mese a scrivere questo libro, lavoravo la notte per scriverlo. La cosa che viene fuori dal libro è che gli italiani volenti o nolenti amano Salvini perché lui è un leader che sta in mezzo alla gente e non c’erano stati in passato politici di questo tipo. Lui è uno di noi, essendo una persona alla portata di mano della gente, piace alla gente. Salvini è davvero così, è una persona estremamente schietta e semplice. I suoi amici storici che ho intervistato lo definiscono come una persona estremamente buona che è rimasta uguale, non è cambiata. Se dopo le polemiche l’ho sentito? L’ho visto a un comizio pubblico e ci siamo salutati come sempre, con una stretta di mano, non abbiamo parlato del libro”.

Altaforte con Salvini. È tutta questione di… salvaguardia. Salone del Libro 2019. Ed è stata subito bufera. Alessandro Bertirotti il 10 maggio 2019 su Il Giornale. Ormai tutti sappiamo che a questo importantissimo appuntamento culturale si è presentata la Casa Editrice Altaforte con un libro-intervista al ministro Salvini e che proprio l’editore, Francesco Polacchi, si è dichiarato “fascista nell’unico senso possibile”, denunciando che “l’antifascismo è il vero male di questo Paese”. Per questo motivo, importanti autori del panorama intellettuale italiano hanno deciso di non partecipare al Salone, i pm hanno aperto un fascicolo per apologia di fascismo, in seguito all’esposto del Sindaco Chiara Appendino e del presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, e ora lo stand della suddetta casa editrice è stato smontato. E certo la cosa non finirà qui, ma avremo notizie del suo protrarsi in sede legale, perché l’editore non si arrende. Non mi interessa la ragione per cui il ministro ha accettato di legare il proprio nome alla casa editrice di un italiano che si dichiara “fascista nell’unico senso possibile”, ovvero secondo il fascismo del ventennio. Non intendo neppure entrare nel merito delle parole del signor Polacchi. Nonostante gli sforzi di CasaPound, il fascismo è un’esperienza storica non più riproponibile ad alcun livello politico. D’altro canto, la questione è stata lapidariamente definita dal Sindaco di Torino che, in qualità di Primo Cittadino, nonché di esponente di uno dei due partiti di Governo, ha dichiarato “La mia città è antifascista”. Si tratta di una vicenda che dev’essere valutata sotto altri aspetti, secondo me. Altaforte è una Casa Editrice presente da tempo nel mercato editoriale italiano e, quindi, non solo conosciuta dal pubblico più o meno di settore, ma nota anche alla Agenzie delle Entrate presso cui ha aperto la propria partiva IVA, al Registro degli Editori e Stampatori presso la Prefettura territorialmente competente, alla Camera di Commercio (anch’essa competente per territorio), cui è stata comunicata la sua apertura. La storia del camerata Francesco Polacchi è nota. A questo si aggiunga che Altaforte ha un suo sito web, dove non si celano affatto le ideologie fasciste. Insomma, un buon numero di Istituzioni Pubbliche (Prefettura, Questura di Sassari, Agenzia delle Entrate, Camera di Commercio) conoscono la galassia Altaforte-Polacchi, da un discreto numero di anni. Peccato che la XII Disposizione Transitoria e Finale della Costituzione italiana, famosissima per il suo precetto. “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”, esista da molto tempo prima. Quello che voglio dire è che le Autorità pubbliche in ambito editoriale si trovavano nella materiale e giuridica possibilità di sottoporre  la Casa Editrice Altaforte, ed anche il signor Polacchi, al vaglio della Magistratura, affinché quest’ultima valutasse se l’esistenza di Altaforte, in relazione all’ideologia politica del suo fondatore, fosse in contrasto o meno con la Disposizione XII. Per quanto mi consta, non vi è notizia di un provvedimento giurisdizionale che abbia espunto Altaforte dall’universo editoriale a causa delle sue tendenze fasciste. Anzi, con tutta evidenza, la casa editrice gode di ottima salute ed edita un’immagine mussoliniana del Ministro Salvini. Ciò posto, mi chiedo: nel silenzio istituzionale precedente ai fatti torinesi di questa Fiera, è stato giusto esigere che Altaforte lasciasse il Salone del Libro? In altre parole, una Casa Editrice esercita il proprio diritto sia di opinione politica sia di partecipazione agli eventi editoriali che la riguardano. In mancanza di un provvedimento giurisdizionale che censuri quell’opinione e vieti quel diritto di partecipazione, si può esigere che Altaforte non partecipi al Salone del Libro, oppure la si può espungere da questa kermesse?. No, secondo me, non si può. Significherebbe comprimere la libertà di espressione e di manifestazione del pensiero, diritti di cui ognuno di noi è titolare. Questa è solo una mia opinione che, peraltro, può non piacere. Ma questo è lo stato dell’arte. Le libertà cedono dinanzi ad un provvedimento della magistratura che, motivatamente, comprime il diritto di libertà. Ecco perché, secondo me, la partecipazione di Altaforte è stata, al momento attuale, legittima. Ora, vedremo come si pronuncerà la magistratura, in seguito all’apertura del fascicolo di cui abbiamo appena parlato. Invece, sugli autori che hanno annunciato la propria defezione dal Salone a causa della presenza Altaforte, mi esprimo così. Anche io sarò presente al Salone di Torino dove viene presentato, in anteprima dalla casa editrice Paesi Edizioni, il mio ultimo libro “Blockchain, il futuro tra le mani. Aspetti antropologici e opportunità di una rivoluzione culturale”, scritto con l’avvocato e giurista Katia Bovani, e la Prefazione della Dott.ssa Ilenia Sbrugnera. Personalmente sono un anticomunista, ma alla mia coautrice ed alla prefatrice, mi accomuna il mio essere antifascista “nell’unico senso possibile”, con la stessa forza intellettuale con cui mi sento anticomunista. Né a me, né a Katia Bovani e ad Ilenia Sbrugnera è passato per la testa di ritirarci dal Salone a causa della presenza di Altaforte e ciò per due ragioni precise. In primo luogo, se a ritirarsi sono gli antifascisti, il fascismo avrà primeggiato per aver avuto campo libero. È soltanto rimanendo che si possono riaffermare gli ideali democratici di una forma di governo repubblicana e parlamentare. In secondo luogo, proprio perché antifascisti, abbiamo a cuore la difesa dei diritti di libertà di espressione, comprimibili soltanto con motivato atto giurisdizionale. Solo la magistratura potrà davvero esprimersi nei confronti della Casa Editrice Altaforte, e fino ad allora Altaforte rimane testimone dei propri valori fascisti “nell’unico senso possibile”, e noi rimaniamo testimoni di valori antifascisti. Tutto, banalmente qui.

Matteo Salvini, la vergogna della sinistra: il passaggio del libro-intervista per cui gli danno del fascista. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 10 Maggio 2019. L'unica frase del testo riferita al fascismo serve a denunciare quanto quella ideologia sia ormai morta e sepolta. Ennesima conferma di come tutto il polverone sollevato in merito al libro-intervista a Matteo Salvini, pubblicato dalla casa editrice Altaforte, fosse infondato. Il volume Io sono Matteo Salvini. Intervista allo specchio (pp. 168, euro 17), "proibito" al Salone del Libro di Torino dove doveva essere esposto nello stand poi revocato alla casa editrice vicina a CasaPound, è un' agevole chiacchierata in cui il vicepremier si racconta, tra pubblico e privato, alla brava giornalista Chiara Giannini che ieri ha incaricato il suo legale di diffidare gli organizzatori della kermesse torinese per danno di immagine. Un danno cui si è associata curiosamente una straordinaria pubblicità al libro che, prima ancora di essere pubblicato, aveva già venduto 6mila copie. Venendo al testo, è saliente il passaggio in cui Salvini dichiara la sua distanza da ogni ideologia estrema, sia di destra che di sinistra. Già ai tempi del liceo, racconta, «i miei coetanei si dividevano tra "fasci" e "kompagni", una distinzione che puzzava di vecchio, rattrappita com' era tra l' idealizzazione di un passato che non avevano vissuto i primi e un sol dell' avvenire decisamente al tramonto per i secondi». Altro che apologia di fascismo contenuta nelle pagine del libro incriminato. A maggior ragione Salvini giustifica la sua scelta di militare nella Lega, lontana da ogni vecchio schema ideologico: «Parlava al presente e al futuro», dice, «con una trasversalità liberatoria rispetto alle eredità del passato che soffocavano le altre tradizioni politiche». E, in quest' ottica, ricorda come il suo unico vero mito politico, da ragazzo, sia stato Umberto Bossi, colui che ebbe il coraggio di rompere con la Prima Repubblica (così come Salvini ha avuto il coraggio di rompere con la Seconda, è il sottinteso), il capo che «mi telefonava a casa per rimproverarmi di non aver fatto questo e quello. E io ero contento che Bossi trovasse il tempo di parlare con me». A proposito di presente e futuro il vicepremier si sbilancia anche sugli equilibri politici di oggi e domani. E, pur definendo Di Maio «una persona seria, corretta» e Conte «una figura di grande spessore», non chiude le porte al centrodestra, anzi lascia intuire la possibilità di ravvivare la coalizione con Forza Italia e Fratelli d' Italia: «In Parlamento abbiamo convergenze importanti sul tema fiscale, sulla sicurezza», ammette. «Penso che potremo fare molta strada insieme. A partire dalla prossima legislatura, chi può dirlo». Anche perché la camicia di forza dell' alleanza coi 5 Stelle inizia a stargli un po' stretta tanto che Salvini si concede una battuta sugli eccessivi vincoli imposti da quell' accordo: «Ho smesso di fumare, sempre che Di Maio sia d' accordo. Devo consultarmi con lui perché questa del fumare non è nel contratto di governo». Per il resto il segretario leghista rivendica i risultati ottenuti nel contrasto all' immigrazione, con quella dose di realismo che gli è propria: «I porti chiusi non sono la soluzione al problema. Servono per curare il sintomo, ma non la malattia. Per agire sulle cause profonde occorre un' intesa a livello europeo». E, interrogato sul caso Diciotti, spende parole ficcanti sull' attivismo di alcuni magistrati. Pur riconoscendo che «quello del magistrato è il lavoro più duro del mondo», pone l' accento sull' esistenza di «inchieste strampalate e infinite» a causa delle quali «la magistratura rischia di perdere credibilità». Da ultimo, c' è il Salvini privato, non nostalgico ma rievocativo: ricorda il pupazzo di Zorro rubatogli all' asilo, suo primo sopruso subito, le ruspe (giocattolo) con cui si dilettava da bimbo, e la sua prima fidanzatina che si chiamava Francesca. Come la sua attuale compagna. O «come tantissime altre persone», chiosa lui, «che hanno in comune lo stesso nome».

Salvini, tutti lo attaccano ma tutti lo vogliono. Record di ascolti dalla Gruber e libro in cima alle classifiche di vendita anche nelle librerie "nemiche". Sono giornate particolari quelle di Matteo Salvini. Il leader della Lega infatti si trova, come non gli capitava da tempo, sotto attacco; praticamente circondato. Lo attacca Di Maio, sul caso Siri, lo attacca Conte sulla vicenda dei migranti della Mare Jonio, fatti sbarcare a Lampedusa malgrado il "no" del Viminale. Lo attaccano i soliti "esclusivisti" della cultura che hanno cacciato una casa editrice dal Salone del Libro di Torino, colpevole di essere vicina all'estrema destra e soprattutto colei che ha pubblicato l'ultimo libro del Salvini stesso. Però...C'è sempre un però, soprattutto quando si parla del politico di maggior successo attualmente presente in Italia, quello che (amato o odiato che sia) scatena reazioni come nessun altro. Il però è che tutti lo vogliono. Lo vuole la Gruber e, guarda caso, l'ascolto della tanto attesa puntata di "Otto e Mezzo" (con annessa intervista ovviamente "equilibrata") è stato molto ma molto superiore alla media, un ascolto da record. Lo vuole anche la Feltrinelli, non Altaforte, la casa editrice di riferimento della sinistra che mette in vendita il tanto discusso libro "Io sono Matteo Salvini - Intervista allo Specchio", e che è in testa alle classifiche, perché alla fine "pecunia non olet". Lo vogliono le decine di parlamentari (di ogni schieramento) che temono uno scioglimento delle Camere prima della naturale fine della legislatura e che, mentre i loro partiti affondano o restano prigionieri all'opposizione, cercano una nuova ribalta proprio tra le braccia del leader della Lega al quale sono pronti a giurare fedeltà assoluta. La morale? Che è facile essere contro Salvini. Difficile fare (soldi, spettatori, carriera politica) senza di lui...

 “Più dell’antifascismo ci vorrebbe l’anti imbecillismo”, dice Padellaro. A proposito del Salone del libro di Torino, della casa editrice vicina a CasaPound e del libro su Salvini. Che nessuno ha letto.  Salvatore Merlo su Ilfoglio.it l'8 Maggio 2019. “L’antropologia dell’eterno antifascista è Truce come quella di Salvini”. E un po’ gli scappa da ridere, ad Antonio Padellaro, che è da sempre di sinistra. “Ma di che stiamo parlando?”. Beh, stamattina leggendo Repubblica abbiamo scoperto che ci sono i fascisti e gli antifascisti. Alcuni stanno boicottando il Salone del libro di Torino, e chi non boicotta protesta, perché è ospitata anche una piccola casa editrice vicina a CasaPound. “Ma a Torino si presentavano i libri di Franco Freda!...

Il Salone del libro e la censura del politicamente corretto.  Marco Gervasoni l'8 maggio 2019 su Nicola Porro.  Non lasciamoci ingannare dal sapore di «rosso antico» che emana dalla ridicola vicenda del Salone del Libro di Torino. Dietro la patina vintage, che pure è assai presente, si cela qualcosa di nuovo, e persino di peggiore: la dittatura del politicamente corretto. Gli interventi di Christian Raimo e di Nicola Lagioia che hanno fatto partire tutto insistevano infatti su due punti. Non tanto il fascismo, quanto il presupposto «razzismo» di alcuni editori. E la preoccupazione degli organizzatori del Salone di non «offendere». «Offendere»: questa è la parola chiave dietro la quale si celano i nuovi censori. Siccome non si può dire che si toglie la parola a qualcuno per le proprie idee, lo si fa con la scusa che queste parole «offenderebbero», in questo caso i sopravvissuti dai campi nazisti, in altri casi gli Lgbt, in altri ancora i «migranti ». Da anni ormai negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e più recentemente in Francia (vedi la censura ad Alain Finkielkraut a Sciences Po) si contestano professori e scrittori, si impedisce loro di parlare, di tenere lezione, di pubblicare, si interdice loro la presenza sui media, li si fa cacciare dalle università in cui si insegnano, dai giornali in cui scrivono, dalle tv o dalle radio in cui dirigono programmi: anzi, diventa vietato persino invitarli come ospiti. I casi sono talmente numerosi che non serve neppure citarli. E però, come molti di noi temevano, la tabe sta arrivando anche in Italia e la stupida querelle del Salone del libro ne è un esempio. Siccome la censura ha sempre bisogno, nella visione del nuovo Minculpolcorr (Ministero della Cultura politicamente corretta) di appoggiarsi su una «legge», ecco inventato l’escamotage: il codice etico. Vale a dire un insieme vago e confuso di precetti, talmente generici da far rientrare tutti e nessuno, e talmente banali da sembrare innocenti, che il soggetto deve firmare prima di essere assunto da un ateneo, da una impresa, da un giornale e così via. Il fulcro concettuale del codice etico è appunto questo: il soggetto si impegna a non «offendere». Il povero non può non firmarlo (non sarebbe assunto) ma una volta fatto, si trova sotto il capestro di «norme» talmente vaghe da poter essere interpretate a piacere dalla dirigenza della impresa o dell’università o del giornale prima per blandire, poi per minacciare e infine se serve per licenziare chi non rispetti il codice etico. Ovviamente basta una segnalazione di una qualsiasi fantomatica organizzazione, oppure la lamentale persino anonima di «utenti», che si sentono «offesi» dalle parole del reprobo, per aprire il procedimento inquisitoriale che, come quello di allora (con tutto il rispetto per la Santa Inquisizione) è basato sul presupposto di colpevolezza dell’accusato. Qui si ironizza ma altrove docenti, giornalisti, manager hanno perso il posto per questo.

Da noi questa barbarie è solo all’inizio, ma sta prendendo piede. E a farsi censori e invocare le cacciate sono spesso quelle organizzazioni che dovrebbero rappresentare coloro che sono stati perseguitati per secoli: gli omosessuali. Leggiamo infatti da un articolo di Antonio Grizzuti sulla «Verità» dell’8 maggio che alcune organizzazioni Lgbt italiane vorrebbero che gli editori introducessero un «codice etico» per i libri che pubblicano, per impedire che essi stampino testi considerati «offensivi» per le minoranze. Ovviamente, l’editore che si dovesse rifiutare di utilizzare questo codice, e quindi di rendere schiave le sue scelte culturali dei diktat degli Lgbt o di altre organizzazioni, verrebbe subito additato come sospetto, se non parte integrante della temibile onda nera. Per ora queste notizie ci fanno sorridere. Ma facevano sorridere anche anni fa negli Usa, in Inghilterra e in Francia. E ora guardate dove sono finiti.

La censura ideologica che resuscita i vecchi fantasmi. Mario Ajello Venerdì 10 Maggio 2019 su Il Gazzettino. Il 25 aprile non è appena passato? Macché. La festa della Liberazione, non dal Duce ma dal Truce, non da Mussolini ma da Salvini o dal suo editore espulso dal Salone del libro, si sta svolgendo adesso qui, al Lingotto. E si festeggia il pericolo scampato di dover dividere lo spazio con quelli di CasaPound, mandati via ope legis con l’accusa di apologia del mussolinismo. Ma se contiene una lezione questa vicenda del Salone tutto orgoglioso del proprio ritrovato antifascismo militante è la seguente: non si riesce a capire come la classe intellettuale del Paese può contribuire alla costruzione di una società liberale, se insiste con gli anatemi e con le censure contro gli altri, ma senza avere idee nuove e reale capacità di azione politica al posto della solita retorica invecchiata. Sembra dominare appunto la retorica nei padiglioni del Lingotto liberati dai barbari editori di Altaforte - ed è tutto un coro: «Una mattina, mi son svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao...» - che però si coniuga, almeno in un caso, con la toccante testimonianza dell’ultranovantenne Halina Birenbaum. Sopravvissuta al lager, donna forte che non voleva venire al Lingotto finché era prevista la presenza di quelli di CasaPound, ora che loro sono stati cacciati lei può raccontare qual è la parte giusta dove bisogna stare quando si parla di fascismo, nazismo e rifiuto della democrazia. Standing ovation. Ma occhio allo stand delle Edizioni Gruppo Abele dove campeggia il cartello: “Editore defascistizzato”. Altri espongono il faccione del Che, l’icona del partigiano Johnny di Fenoglio, il tweet del fumettista combat Zerocalcare che rivede la sua posizione di non volerci essere e lo fa così: «I nazisti stanno a casa e quindi io al Salone arrivo». E c’è chi ricorda affettuosamente quando Curcio e la Faranda furono ospiti graditi della fiera, e chiamiamolo doppiopesismo o truffa-truffa-ambiguità questo atteggiamento di ipocrisia ideologica. L’importante è aderire alla vulgata vincente: «I fascisti non devono esistere e non devono parlare». Lo dicono tutti quelli che vanno in pellegrinaggio nell’angolo del padiglione 3 dove c’era - ben circondato e neutralizzato in mezzo agli stand librari della polizia di Stato, dei carabinieri e del ministero della Difesa e addossato al muro di una hamburgeria puzzolente - lo spazietto dei neri di Altaforte sloggiati in extremis. Quel vuoto che è rimasto si è trasformato in una sorta di sacrario delle virtù dell’antifascismo che ha sbaragliato l’invasor. Quasi nessuno si discosta dall’imperativo della censura “democratica”, ma l’editore Giuseppe Laterza tra i pochissimi ha il coraggio di farlo davanti al proprio stand dove si risponde - sull’onda dell’ultimo saggio dello storico Emilio Gentile così intitolato - a un questionario su “chi è fascista”. Dice Laterza: «È stato un errore escludere Altaforte. Questo è uno spazio pubblico in cui tutti dovrebbero poter parlare. Se si comincia a mettere in dubbio la libertà di espressione, ci si mette su un percorso molto scivoloso». Ma c’è il presidio dei ragazzi di Potere al popolo dove risuona lo slogan: «Ora e sempre Resistenza!». Ed ecco centinaia di persone che vanno ad omaggiare Chiamparino e Appendino, un tandem soprannominato Chiappendino ed è quello che denunciando in Procura l’editore di CasaPound ne hanno decretato l’espulsione. I fan si rivolgono loro dicendo: «Ci avete liberato dai bruti». Senza calcolare però che in passato addirittura la casa editrice di Franco Freda (do you remember Piazza Fontana?) ha avuto il suo spazio al Lingotto. E comunque: la coppia Chiappendino si gode il successo. Un anziano si avvicina al governatore piemontese e gli fa: «Compagno Sergio, io sono pronto, se serve, a salire in montagna e a riprendere la guerra partigiana contro Salvini». Chiamparino sorride, come per dire: esageruma nen (traduzione dal torinese: non esageriamo). In posizione nobile, ecco lo stand imbandierato di rosso dell’editore Red Star, strapieno di icone forti: dall’immagine di Marx alle gigantografia di Socrates che era il “centrocampista marxista” della nazionale di calcio brasiliana. Racconta il funzionario della casa editrice combat: «Io so come trattare i fascisti. Come ho cercato di fare con Salvini quando nel 2016 venne al Salone. Lo affrontai fisicamente e dovettero fermarmi, ricordo ancora la paura di Morisi davanti alla scena. Qui quella gente la odiamo tutti». Un vecchietto circola lungo i padiglioni distribuendo il testo fotocopiato della legge Scelba contro la ricostituzione del partito fascista. «I neri? In galera!», dice. Una signora è arrivata da Alessandria portando uno zaino pieno di libri pesanti: «Lo voglio tirare in testa a quel nazista. Ma dov’è? È già scappato?». Si riferisce al patron di Altaforte. E la festa della Liberazione continua. Anche se l’egemonia culturale ha dovuto chiedere aiuto ai pm per salvarsi dalla presenza degli editori neri. E anche se la sinistra, sparita dalle periferie cittadine, in realtà è sempre più tremebonda dentro l’ultimo fortino, difeso con le unghie e con i denti e quasi con una cortina di ferro, che le è rimasto e che è quello editoriale, della lettura, dei lettori. E in certi casi dell’Ego, come quello pensoso di Gustavo Zagrebelsky, che delizia gli ammiratori parlando del suo ultimo libro “Mai più senza maestri” e il maestro, ai suoi occhi, è innanzitutto Io. Dunque questo è il Salone della prova di forza contro gli invasori. Ma in realtà senza darlo a vedere - e nonostante la super star partigiana Christian Raimo non fa che ripetere a tutti: «Abbiamo fatto scoppiare l’operazione Salvini-CasaPound e abbiamo vinto» - una sorta di psicodramma coinvolge la crema dell’intellighenzia di sinistra. Quella parte politica che ha dominato la cultura a partire dal secondo dopoguerra, grazie alla lezione di Gramsci sull’egemonia, ma ora si sente sempre più fragile anche in questo campo. Come dimostrano le reazioni scomposte contro il minuscolo editore nero. Rischia di non reggere più, insomma, neppure il trend degli ultimi tempi: cioè lo sparire dalle periferie per abbarbicarsi alle librerie. In quelle presenti alla fiera mancano purtroppo - anche se ci sono raffinatissimi editori liberali come Aragno - le opere di Augusto Del Noce. Ed è un peccato perché le pagine del filosofo sono quelle che meglio sintetizzano la scena. La trasformazione dell’antifascismo in religione - diceva Del Noce - ha prodotto un’interpretazione “demonologia” del fascismo come «surrogato del diavolo in un secolo in cui i teologi hanno smesso di crederci». Da qui la sua natura proteiforme, inafferrabile, per cui il fascismo c’è sempre. Anche quando non c’è. Ma ora si è fatto tardi, e bella ciao.

Salone del libro, rivolta contro l'editore di estrema destra, quando la censura diventa "democratica". Martedì 7 Maggio 2019 Mario Ajello su Il Messaggero. «No pasaran!». E anche: «Ora e sempre Resistenza!». Il salone del libro di Torino, anche se il partigiano Johnny di Fenoglio non c'è più, diventa la nuova-vecchia trincea contro il fascismo eterno. Accusato di sparare raffiche dallo stand, regolarmente pagato e normalmente accolto con spirito pluralista dal direttore della fiera, Nicola Lagioia, scrittore di sinistra, della casa editrice Altaforte, legata a Casa Pound. Orrore: fascisti che pubblicano libri, e magari (ma non è detto) li leggono. Non stupisce che l'enfant prodige dell'antifascismo militante, il vippissimo-alternativo fumettista Zerocalcare, idolo dei giovani di sinistra, abbia disdetto ogni invito al Salone perché «mai con i fascisti!». E non stupisce nemmeno l'assenza-resistenza, «No al fascismo!», sbandierata dallo storico dell'arte Salvatore Settis (con Tomaso Montanari al seguito) perché del conformismo il Settis è una star e in questo tipo di conformismo non rientra evidentemente il principio che la libertà culturale è un valore irrinunciabile in ogni società liberale e che la fragilità della democrazia (dare la voce a tutti) è ciò che la rende forte e ineguagliabile.

E Michela Murgia? «Istruzioni per diventare fascisti» è il suo, si fa per dire, capolavoro, e Pasolini o Sciascia (la felicissima formula, che trova conferma in questa vicenda, è attribuita a entrambi) magari l'avrebbero inserita nella categoria del «fascismo degli anti-fascisti» visto che anche la scrittrice sarda contesta la presenza degli editori Altaforte ma vuole andargli a gridare in faccia il suo disgusto. E «al Salone del Libro ci sarò, non lasciamolo ai fascisti!». Dunque è più antifascista andare o non andare? Questo il dilemma. Ciò che più stupisce, nella truppa dei neo-resistenziali, guidati da Wu Ming 1 («Mai con i neri!», proclama in modalità Volante rossa lo scrittore cult), è lo sdegnoso forfait di Carlo Ginzburg, uno degli storici più riveriti al mondo, figlio di Leone e Natalia Ginzburg. Che un super-sapiente così non conosca Voltaire il quale diceva che «la censura è la cosa più stupida del mondo»? Impossibile. Eppure di censura si tratta, a dispetto del principio per cui le idee devono circolare tutte e se qualcuno fa apologia di fascismo o di razzismo va perseguito con le leggi ad hoc, la Sturzo e la Mancino, e per il resto, al netto di reati, ognuno è libero di parlare e di stampare libri. Anche quelli brutti e non condivisibili, come molti presumono che sia il volume su Salvini proposto dall'editrice vicina a Casa Pound. E ancora. Stupisce che una figura del suo calibro meritato e indiscusso, e stiamo parlando sempre di Ginzburg, sottile indagatore di indizi, di paradigmi, di tracce nascoste e di importanti complessità, non riesca a capire che nella democrazia c'è qualcosa di profondo e in questa profondità rientra il fatto che non ci si può comportare chiudendo le porte al pensiero degli altri. Ma è tipico di grandi personaggi saper vedere bene da lontano, addentrandosi nella storia con «Occhiacci di legno» (titolo di un suo saggio, e il sottotitolo: «Nove riflessioni sulla distanza»), per perdere di originalità invece alle prese con il contingente. E che fine hanno fatto la prosa delicata e la voce musicale di Roberto Piumini, ottimo raccontatore di fiabe per bambini? Sono state sostituite così: «Serve un antifascismo più diretto e sanguigno, contro il riemergere delle umane pestilenze». Quindi, si rifiuta di andare a Torino a presentare la sua ultima fatica, «Storie per voce quieta». E così via: il presidente dell'Anpi, Carla Nespolo, disdice la sua partecipazione alla kermesse che comincia giovedì. L'Arci è infuriata. E così un pezzo di Pd, guidato dal deputato Fiano, e tutta la sinistra a sinistra dei dem. Mentre a Roberto Polacchi, vicino a Casa Pound, convinto che il Duce sia stato «il migliore statista italiano, l'antifascismo è il vero male italiano» e patron di una casa editrice non fuorilegge che pubblica libri come «La dottrina del fascismo» di Mussolini e Gentile, stanno facendo tutti un gran favore. Perché se verrà fisicamente contestato, avrà tutta la scena per sé. Se non lo contestano, dirà che gli anti-fascisti non sono più quelli di una volta. «Ci aspettiamo di venire attaccati anche dai centri sociali», gongola lui. Ovvero: gli squadristi non siamo certo noi. Ma quelli dimentichi del fatto che la cultura si nutre anche delle idee dei fascisti (non bisognerebbe ammettere Mondadori e Neri Pozza che hanno pubblicato Ezra Pound? Via Corbaccio ed Einaudi e Guanda che hanno stampato Celine? Fuori Feltrinelli per colpa di Mishima e il Mulino a causa di Drieu La Rochelle?), la conoscenza delle quali può contribuire a superare e a storicizzare quel male. Mentre negare a priori certe idee rischia di risultare una sorta di replica tragicomica del peggio di cui i totalitarismi si sono fatti vanto: l'odio e il fuoco per i libri dannati. E pensare che la lotta contro la censura, nel cinema per esempio al tempo in cui i democristiani erano fin troppo occhiuti o quando Vitaliano Brancati si scagliava con un libello contro il «Ritorno alla censura» nell'Italia bigotta ha rappresentato uno dei capitoli migliori del progressismo nel nostro Paese. Basterebbe, contro lo stanco revival resistenziale, tornare ai fondamentali. A Benedetto Croce che diceva: «La mia religione della libertà mi induce ad aborrire qualsiasi comportamento che violi non solo la mia libertà d'opinione ma anche quella altrui». O alla semplice constatazione che la democrazia moderna non è sostanziale, è fatta di procedure (per esempio quella di non si può silenziare nessuno che non infranga le leggi) e, se non le segui, a svalutare la democrazia sei tu. Anche se ti credi migliore degli altri.

Giampiero Mughini per Dagospia il 5 maggio 2019. Caro Dago, e per quanto noi italiani viviamo oggi in un Paese che s’è specializzato nel vivere tempeste grandi quanto una chicchera da caffè, resto allibito innanzi alle polemiche scaturite dal fatto se sì o no al Salone del libro di Torino sarebbe stato presentato un libro/intervista di Matteo Salvini edito da una casa editrice attigua a Casa Pound. Credevo che schifezze di questo genere - cui ero abituato nella mia giovinezza - fossero fuori dal nostro tempo. E invece leggo un post culturalmente miserevole di uno degli organizzatori del Salone, lo scrittore Christian Raimo, il quale vorrebbe mettere fuori gioco tutti quelli che lui giudica intinti nella salsa del “fascismo” , dal giornalista Francesco Borgonovo (mio vecchio amico) ad Alessandro Giuli allo stesso Pietrangelo Buttafuoco, che una colpa in verità ce l’ha. I suoi scritti sono dieci volte più sugosi e stimolanti di quelli di Raimo. A proposito di Raimo, e siccome sono un bonaccione, avevo letto quel suo librino dell’anno scorso (“Ho 16 anni e sono fascista”) e ne avevo scritto civilmente su questo sito. Era un libro noioso, in cui non c’era una vera tensione a capire e decifrare i sedicenni che si dicono “fascisti”; però a me sembrava positivo che uno così nettamente di sinistra e così vigorosamente “antifascista” come Raimo fosse andato a interrogarli. Vedo adesso che l’ “antifascismo” di Raimo (a proposito, dirsi “antifascisti” oggi non vuol dire nulla di nulla) è intinto mica male nella salsa del settarismo, e che lui vorrebbe togliere un po’ di spazio sui mass-media a Borgonovo e a Buttafuoco. Dio, che miseria e che offesa ai valori dell’ “antifascismo” il cui primo valore è: “Darò la vita perché tu possa esprimere le tue idee anche se non le condivido”. Quanto al settarismo, al tempo della mia giovinezza quando molti di quelli che frequentavo davano del “fascista” a Montanelli o dicevano peste e corna dell’editore Rusconi reo di avere pubblicato non ricordo più quale intellettuale europeo “di destra”, ne ho viste di cotte e di crude. Ad esempio lo sciopero dei tipografi di una casa editrice italiana rea di star pubblicando un libro favorevole all’azione israeliana all’aeroporto di Entebbe del 4 luglio 1976, quella in cui cadde Yonathan Netanyahu, e su cui ha scritto un gran bel libro Michele Silenzi. Se Raimo vuole, gli faccio un corso universitario su quei tempi, magari sul fatto che era stato un editore adamantino come Vanni Scheiwiller a pubblicare i libri di Evola e quelli di Pound. Libri bellissimi. Casa Pound ha tutto il diritto di avere una casa editrice e di pubblicare i libri che vuole, che giudicheremo di volta in volta. Quanto poi al voler schiacciare la fisionomia di Matteo Salvini su quella del fascismo italiano 1922-1943 (quello successivo è tutt’altra cosa, è il tempo di una guerra civile) è veramente da analfabeti. Magari fosse così semplice identificarlo, e dunque così semplice contrastarlo. 

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 maggio 2019. Caro Dago, leggo sulla “Stampa” di oggi che oltre 120 librai della catena Feltrinelli hanno scritto una lettera alla direzione centrale della loro catena commerciale chiedendo che il libro-intervista con Matteo Salvini edito dalla casa editrice Altaforte venga bandito dagli scaffali delle loro librerie. Leggo, e trasecolo. E per fortuna che Alessandro Monti, il direttore delle vendite Feltrinelli, ha risposto che i libri hanno tutti il diritto di essere messi in vendita e chiunque ha il diritto di sceglierli e leggerli. L’ottimo Monti rievoca un episodio di quando era un giovane libraio. Che un suo cliente gli chiese per telefono una copia del “Mein Kampf” e che lui si rifiutò di procurarglielo. Due ore dopo il cliente di presentò in carne e ossa a Monti. Era ebreo, faceva il notaio, aveva patito le leggi razziali, voleva che suo nipote leggesse quel libraccio sì da conoscere le canagliate che vi erano contenute. Ovviamente il giovane Monti gli fece avere il libro. Sì, i libri negli scaffali ci devono stare tutti. Tutti. E a questo proposito, trasecolo nuovamente nel leggere un riquadro del quotidiano torinese dove Mario Baudino ha l’aria di cercare libri immeritevoli di stare sugli scaffali, o meglio che qualcuno (non lui) potrebbe giudicare immeritevoli. Da qualche parte ha trovato “I Protocolli dei Savi di Sion”, l’atroce accozzaglia di invenzioni della polizia zarista che l’antisemita Giovanni Preziosi aveva pubblicato una prima volta nel 1919 e poi ripubblicato al tempo delle fetentissime leggi razziali. Ebbene, ci mancherebbe altro che quel libro non stesse sugli scaffali. Trenta o quarant’anni fa mi ero precipitato a comprarlo e leggerlo e trasecolare di tali bestialità. Poi Baudino scivola sulla banana dell’antifascismo e dà del “fascistaccio” al futurista noto con il nome di battaglia di Volt. Ebbene Volt è l’autore nel 1916 di uno dei libri più strepitosi delle Edizioni futuriste di poesia, “Archi voltaici”. Nel catalogo della mia collezione di libri futuristi che avevo dato da vendere alla Libreria Palmaverde figurava al numero 695 al prezzo di 3200 euro. Naturalmente lo vendettero all’istante e io ancora mi mordo le mani al pensiero di non avere più quel gioiello. E poi a un certo punto, tra i libri sospetti o sospettabili Baudino indica i libri di Pierre Drieu La Rochelle. Ecco, questo no, questo davvero no. Uno che non avesse percorso i libri di Drieu La Rochelle (morto suicida, quasi avesse scelto di pagare il fatto di essere fascista), ai miei occhi sarebbe soltanto un analfabeta. Trent’anni fa andai alla casa parigina di suo fratello Jean, e che l’ho innanzi agli occhi i libri della biblioteca personale di Pierre. Fu suo fratello Jean a editare postumo il suo “Récit secret”, il diario dei giorni in cui Drieu La Rochelle si apprestava a chiudere la sua vita, uno dei libri più struggenti dell’intera letteratura del Novecento. Non scherziamo su queste cose.

 (askanews 10 maggio 2019) – Vittorio Sgarbi scende in campo a difesa di Francesco Polacchi e della sua “Altaforte Editore”, la casa editrice esclusa dal Salone del Libro per una presunta “apologia del fascismo”. “Dopo Mimmo Lucano – osserva Sgarbi – mi tocca difendere anche Altaforte e Francesco Polacchi. Se non recassi danno al Salone del Libro, avrei adottato la stessa posizione di Ginzburg. Come lui difendo la libertà, ma per me la libertà è libera e non è la libertà solo di una parte. Per questo difendo il diritto di Francesco Polacchi e della sua casa editrice di essere al Salone del Libro. Difendo il diritto di dire “io sono fascista”: solo se una tale dichiarazione impedisse ad altri di esprimere la propria convinzione, lotterei, fino alla morte, per combatterla. La politica non può sostituirsi alla magistratura e, supponendo un “reato”, rendere esecutiva una “pena” non uscita da nessun dibattimento. Chiedo ai censori politici: Impediranno all’editore di pubblicare ancora libri? Ma soprattutto: può essere impedito il diritto di parola a un editore che pubblica il garante del rispetto della Costituzione, il Ministro degli Interni, che, oggi, si chiama Matteo Salvini?”. 

 Salone Libro Torino, per Sgarbi la polemica è inutile: “Nessuna censura alle idee”. Sulla discussione sorta intorno al Salone del libro di Torino è intervenuto anche Vittorio Sgarbi. Per il critico d’arte e sindaco di Sutri si tratta di “una polemica del tutto pretestuosa”. La libertà di parola, per lui, va sempre difesa e non bisogna negare a nessuno il diritto di esprimere la propria opinione. Titti Pentangelo su Fanpage il 7 maggio 2019. "Si tratta di una polemica del tutto pretestuosa". Ai microfoni di Radio Radio è intervenuto Vittorio Sgarbi e, come al solito, è andato dritto al punto. Durante il programma "Un Giorno Speciale" di Francesco Vergovich con Fabio Duranti, ha detto la sua sulla polemica sorta dopo la marcia indietro di diversi autori ed editori dal Salone del Libro di Torino a causa della presenza di Altaforte, casa editrice vicina a Casapound, che ha pubblicato il libro su Matteo Salvini, «Io sono Matteo Salvini, intervista allo specchio», a cura di Chiara Giannini. Per lo storico d'arte e sindaco di Sutri quella di autori come Carlo Ginzburg e Zerocalcare non è la giusta reazione. "La parola, anche la più terribile, non deve essere censurata", ha ripetuto più di una volta.

Nessuna censura, ma Salvini ha sbagliato. Sgarbi ha, poi, ripercorso le varie tappe della polemica, sottolineando la dichiarazione "provocatoria" di Francesco Polacchi, responsabile della casa editrice Altaforte, e la presa di posizione dello scrittore Carlo Ginzburg, secondo lui un autore "sopravvalutato" e un "improvvisato" storico dell'arte. "La presenza dei fascisti non deve essere intesa come un motivo per cui gli altri non devono andare. Non c'è un'esaltazione attiva del fascismo, non stanno ricostituendo il partito, quindi non capisco perché creare questa polemica". La polemica per Sgarbi rischia di creare un cortocircuito: "Proibire loro di andare sarebbe censura, mentre non andare è una forma di autocastrazione". Inoltre non partecipare al Salone significherebbe "limitare l'espressione di cose giuste e importanti". Un libro è "sacro" e la sua essenza va protetta sempre. Anche quando si parla di argomenti scomodi. Il riferimento è andato a Roberto Saviano che "crea un'incitazione alla camorra" e a Massimiliano Parente e al suo romanzo "Mamma". Poi, il sindaco di Sutri, ha analizzato la scelta di Matteo Salvini di affidare il materiale dell'intervista ad una casa editrice come Altaforte:  Da quando ho saputo che l'editore era Altaforte ho valutato l'errore di comunicazione di Salvini, ossia la contiguità con una parte politica molto discussa e messa, spesso, davanti alla contraddizione della Costituzione. Casapound non è un partito fascista, ma non rinnega il fascismo. Salvini avrebbe dovuto affidarsi ad un editore generalista per avere una diffusione adeguata ed evitare di diventare fiancheggiatore di quello che non conosce. Qualcuno ci vedrà qualche disegno dietro, ma secondo me non l'ha fatto premeditatamente. Sarebbe un genio del male, altrimenti. Infine, ha ricordato cosa sia il fascismo: "Qualsiasi editore stampa delle idee e nessuna idea va censurata. Censurare è fascismo. Ognuno è libero di esprimere le proprie idee e scrivere cosa pensa. Escludere è fascismo." 

Sgarbi: “Contro Altaforte soltanto censura e intolleranza”. Eugenio Palazzini su Primato Nazionale l'8 Maggio 2019. Mostrare di avere sale in zucca di questi tempi sembra essere merce rara. Capita sovente di imbattersi in intellettuali, o presunti tali, che sparano fesserie tanto per farsi pubblicità. Peccato che quasi sempre risultino noiosi, supponenti e ottengano dal pubblico la peggiore (per loro) delle reazioni: sonori sbadigli. Vittorio Sgarbi non è tra questi e sulla polemica scatenatasi riguardo alla partecipazione della casa editrice Altaforte al Salonde del Libro di Torino, ha detto cose semplicemente sensate. Quindi, sempre considerati i tempi, condivisibili e apprezzabili. Si tratta, ha detto ai microfoni di Radio Radio il critico d’arte, di una “polemica utile al dibattito, ha fatto capire l’intolleranza di quelli che vogliono fare gli esclusivi”. Secondo Sgarbi infatti “proibire a loro (Altaforte, ndr) di andare sarebbe stata una censura, non andarci perché ci vanno loro è una forma di auto-castrazione”. Non fa una grinza. “Se non c’è un’esaltazione attiva del Fascismo, ciò vuol dire una ricostruzione del partito (che non è in atto), non si capisce quale logica debba indurre a dire ‘io vado, io non vado’. Creare un effetto di contrasto rispetto al libro, la cui sostanza, anche del più brutto libro, è importante e utile che esista perché dobbiamo garantire l’esistenza anche del nemico, vuol dire limitare l’espressione di cose intelligenti, di cose giuste e anche di cose contrastanti”. Tutto lapalissiano, dunque non gradito agli inquisitori dell’ultima ora.

La parola non si può censurare. Sgarbi poi considera un errore la “scelta del ministro dell’Interno”, una sorta di ingenuità. Una scelta che per la verità è dell’autrice del libro, come ovvio che sia. E’ abbastanza capzioso tentare di stabilire una gerarchia degli editori, come se qualcuno avesse una corsia preferenziale, ma tant’è. “Ho valutato l’errore di Salvini, che si può spiegare. Un errore di comunicazione. Avrebbe dovuto fare il libro con un editore generalista, per evitare di diventare fiancheggiatore di quello che non conosce. Io stesso fino all’altro ieri non sapevo che ci fosse questa casa editrice e dubito che lo sapesse lui. Ha dato il suo materiale all’intervistatrice, dando evidentemente piena disponibilità di scegliere chi voleva. Ci sono molti errori in questa vicenda… Una specie di mancanza di approfondimento, perché se lui avesse calcolato questo casino sarebbe un genio del male”. Infine Sgarbi precisa: “Questo è fascismo: censurare, escludere, cacciare, non volere le idee degli altri. La parola, qualunque essa sia, anche la più terribile, non deve essere mai censurata”. A parte il fatto che non vi sono fascisti in circolazione che vietano di esprimersi a qualcuno, pratica al contrario diffusa tra gli antifascisti, il discorso sulla libertà di parola è centrato. Finalmente. 

Salone di Torino, escludere un editore è l’equivalente del rogo dei libri. Diego Fusaro, Filosofo, 10 Maggio 2019 su Il Fatto Quotidiano. È a Nicola Lagioia in quanto direttore del Salone del Libro di Torino che vorrei rivolgermi. Con piglio socratico, al di là degli schiamazzi scomposti che si succedono in questi giorni. Caro Lagioia, non è sconvolto dal fatto che si sta verificando a Torino l’equivalente di ciò che un tempo era il rogo dei libri? E che in nome della lotta alle idee fasciste, si stanno di fatto approvando i peggiori metodi squadristi? Il fascismo sta tornando, ma a parti inverse: l’antifascismo è oggi l’alibi per usare metodi fascisti. Censura, insulti, ostracizzazione, persecuzione.

Censurati per proprietà transitiva. Marcello Veneziani La Verità 9 maggio 2019. Osservavo in silenzio, con disgusto ormai antico, l’eterno ripetersi della Discriminazione Antifascista anche in quel carnevale del libro che è diventato il Salone di Torino. Liste di proscrizione, scomuniche, dimissioni, presìdi, mobilitazioni. Il solito repertorio che ormai conosciamo e vediamo ogni giorno. È una coazione a ripetere, gli antifascisti coatti sono forzati ai loro esorcismi, non possono farne a meno anche se sanno di sortire l’effetto opposto. Ho cercato di superare la nausea per studiare con distacco la loro pantomima e per cogliere la molla che scatta in questi casi: cos’è, da dove nasce, a che scopo, per poi manifestarsi col solito rituale. E ho scoperto che al fondo agisce una legge logico-matematica con un inquietante risvolto medico-sanitario: alla base di tutto c’è l’applicazione della proprietà transitiva. Seguitemi nel ragionamento, vi propongo lo schema generale. Se sei ritenuto a torto o ragione di destra, sei inevitabilmente colluso con la destra estrema, altrimenti ti dissoceresti in modo netto e vistoso. E se sei colluso o perlomeno contiguo all’estrema destra, sei in odore di fascismo, altrimenti ti dichiareresti antifascista; ma se sei in odore di fascismo, sei automaticamente in odore di nazismo e di razzismo. Ergo, sei il terminale di una filiera che parte da casa tua e arriva diritto ad Auschwitz. È quel che è accaduto a Torino: per la proprietà transitiva sono partiti dall’editore vicino a Casa Pound per censurare a cascata editori e autori di destra. Con me si sono evitati il problema in partenza: sono escluso da anni, sono fuori salone. Se gli inviti ricevuti ti allietano, gli inviti negati ti onorano. Comunque, ammetto, non ne soffro la mancanza. In realtà l’obbiettivo finale è oggi Salvini, il Gatto Mammone di turno. Immaginate cosa accadrebbe se la proprietà transitiva si applicasse anche a sinistra? Arriveremmo dalle Br e i gulag a Zingaretti e la Repubblica. Follia. E si caccerebbe, per citarne solo uno, un grande storico come Luciano Canfora perché è comunista. Discriminazione che nessuno a destra ha mai auspicato. La stessa progressione si pratica verso chi ritiene che si debbano frenare i flussi migratori, verso chi simpatizza per Salvini o si definisce patriota, conservatore e via dicendo. Dallo stop ai migranti al campo di sterminio c’è un filo conduttore, anzi un filo spinato, come hanno mostrato i propagandisti dell’Eterno Nazismo, utilizzando una foto di Salvini con Orban sui confini. La proprietà transitiva qui è condita con la frase: così cominciò Hitler. E allora se Hitler cominciò la sua rivoluzione in birreria mettiamo fuori legge tutte le birrerie? La proprietà transitiva applicata al tempo si chiama “sequenza fatale”; si comincia così, da un filo spinato, e poi si sa dove si va a finire. E io che continuavo a identificare il filo spinato con la cortina di ferro dei regimi comunisti, da cui non si poteva uscire…La proprietà transitiva regala sorprese; per esempio se sei di destra, per i vasi comunicanti suddetti, ti trovi complice di due sciagurati ragazzi di CasaPound che hanno violentato una ragazza. T’illumini d’infamia per la proprietà transitiva: se l’editore Altaforte, vicino a Casa Pound, pubblica un libro-intervista con Salvini, allora Salvini è dalla parte del nazifascismo, del terrorismo e dei due violentatori. La stessa proprietà transitiva vale in senso verticale come ereditarietà: tu puoi essere alla quarta generazione ma se ti chiami Mussolini per la proprietà transitiva che risale dal figlio al padre, al nonno e al bisnonno, non puoi candidarti, sei contaminato, di stirpe maledetta; sei criminale nel sangue. L’ereditarietà della pena è l’applicazione biologico-giuridica della proprietà transitiva. Indipendentemente da quello che sei e che hai fatto in vita tua, in quanto pronipote di Mussolini, sei colpevole per ragioni di sangue, di nome e dna: ma questo non è razzismo allo stato “puro”? Come si può capire, la proprietà transitiva sottintende un criterio medico-sanitario: se A è vicino a B e B è vicino a C che a sua volta è vicino a D, allora A ha contaminato D. È una catena di infetti. E’ necessario isolare A, B, C, D e tutti coloro che sono vicini a loro o solo d’accordo; è necessario metterli in quarantena, espellerli, escluderli. Sono intoccabili nel senso dei paria indiani, la casta infame da tenere separata per non contaminarsi. Dunque è necessario allestire un cordone sanitario per isolare gli infetti e i loro stand e al contempo esercitare a scopo di profilassi una discriminazione razziale a cascata. Un effetto perverso di questa proprietà, già sperimentato con successo da diversi decenni, è istigare a spezzare la catena per immunizzarsi: è così accaduto che i moderati, i liberali, i democristiani, spaventati dall’accusa di collusione e contagio, siano stati costretti a erigere muri verso la destra. E questa chiusura ha beneficiato i loro avversari: infatti era possibile il centro-sinistra ma non il centro-destra, l’agibilità del centro poteva allargarsi a sinistra fino alla sinistra estrema e ai comunisti, ma non poteva allearsi con la destra, perché – in virtù della proprietà transitiva – ti allei di fatto con l’estrema destra, razzista e xenofoba e quindi coi nazifascisti. Berlusconi, va detto, spezzò questa catena e questo interdetto, così il centro-destra diventò maggioranza e andò al governo. Ma Hitler non andò al potere…L’effetto più curioso che produce la proprietà transitiva, con la relativa sequenza fatale, è l’applicazione dell’effetto farfalla: come il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano in un’altra parte del mondo, così un saluto romano a Canicattì può provocare un uragano su Salvini e paraggi. La fisica al servizio del delirio partigiano produce queste assurde scemenze.

Francesco Polacchi, l'editore del libro-intervista a Matteo Salvini: "Non è un fascista ma un furbo". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 15 Maggio 2019. A uccidere il Salone del Libro di Torino alla fine non è stato Tempo di Libri, il festival dell' editoria che Milano ha allestito per due anni e l' organizzazione sabauda ha combattuto in ogni modo, fino a provocarne la soppressione. Il salotto della cultura letteraria si è inferto da solo il colpo mortale, espellendo Altaforte, casa editrice di proprietà di un militante di CasaPound, dopo averne accettato lo stand. La cacciata è avvenuta perché Torino si è piegata al ricatto di alcuni editori di sinistra, i quali hanno minacciato di boicottare la manifestazione dopo aver saputo che Altaforte avrebbe presentato un libro-intervista al leader della Lega, pomposamente intitolato Io sono Matteo Salvini. Solo allora i neofascisti sono diventati sgraditi e, in nome della difesa dei valori democratici, sono stati messi al bando. Il risultato è che, come accade a Milano con la fiera del mobile e del design, anche a Torino il fuori salone, quel che accade fuori, è diventato più importante degli eventi interni alla manifestazione. «Ci hanno fatto passare le pene dell' inferno» racconta Francesco Polacchi, 33 anni, militante di CasaPound e titolare di Altaforte, «ma questa storia ci ha fatto anche molta pubblicità. Sabato alla conferenza stampa di presentazione del libro su Salvini, c' era un sacco di gente».

Perché volevate andare al Salone di Torino?

«È la fiera dell' editoria più importante in Italia e volevamo farci conoscere. Lo scopo era nobile».

Gli organizzatori, quando li avete contattati, vi hanno fatto dei problemi per il vostro orientamento politico?

«Assolutamente no. Tutti sanno che Altaforte è vicina a CasaPound e noi non abbiamo nascosto nulla, ma gli organizzatori non ci hanno fatto problemi, non ci hanno sottoposti a test di democraticità né ci hanno chiesto quali libri portavamo. Erano interessati solo alla natura commerciale del rapporto».

Quando sono iniziati i problemi?

«Appena si è saputo che avremmo presentato l' intervista a Salvini siamo stati travolti da una valanga di polemiche. Alcuni miei colleghi, che si ritengono più democratici di me, hanno minacciato di boicottare per protesta l' evento e il presidente del Salone, Nicola Lagioia, spalleggiato da certi suoi collaboratori, si è dissociato dalla nostra partecipazione, formulando accuse gravi, come che la casa editrice avrebbe tendenze razziste e antisemite».

La qual cosa non è?

«È una casa editrice d' ispirazione identitaria, non xenofoba, e non abbiamo una linea editoriale fascista.

Nel nostro catalogo ci sono titoli su temi d' attualità come l' immigrazione, il neocolonialismo, il femminismo. Abbiamo un' impronta sovranista, anzi rivendico la paternità del termine, usato per la prima volta, nel 2014, sulla nostra rivista, Primato Nazionale».

Editate materiale fascista?

«A fare i soldi con il Ventennio sono gli editori di sinistra, che ci cacciano da Torino o che hanno assistito in silenzio a questa violazione della libertà del pensiero. Il fascismo va bene se serve a gonfiare i profitti dei potenti. Non ce n' è uno, tra i grandi, che non abbia pubblicato sul tema Mussolini, anche in toni non negativi, visto che molti storici oggi parlano del fascismo con obiettività, puntando il dito sulle sue colpe ma non nascondendone le eredità positive che ha lasciato. Se però noi ci azzardiamo a parlare non dico di Mussolini, ma di Salvini». Quindi vi hanno cacciato solo per colpa del libro su Salvini?

«Il fatto che un' azienda vicino a CasaPound editasse un' intervista al leader della Lega ha mandato la sinistra in cortocircuito. Non ci hanno capito più niente, hanno cominciato a menar fendenti senza logica e noi ne abbiamo fatto le spese. È cambiato tutto in poche ore, siamo stati cacciati con una mail a tarda sera e abbiamo dovuto sbaraccare a poche ore dell' apertura del Salone. Mi rifarò in tribunale».

Sicuro di vincere?

«Inadempimento contrattuale e diffamazione ci sono tutti. Mi hanno insultato violentemente e minacciato. È partita una caccia alle streghe contro di me, con il risultato che in rete i seguaci degli antifascisti hanno attaccato perfino i miei figli. C' è chi mi augura che diventino gay, anche se io non ho mai detto nulla contro gli omosessuali, chi li compatisce per il padre che hanno, chi mi dice che dovrei vergognarmi per aver messo al mondo qualcuno viste le idee che ho. Vanno ancora all' asilo e già gli hanno cucito addosso una bella lettera scarlatta. Non posso dire che la cosa non mi turbi parecchio».

Si aspettava questo polverone, o l' ha addirittura cercato?

«Al contrario, ne sono rimasto sconvolto. Al Salone del Libro ha esposto per anni la casa editrice di Freda, la Edizioni Ar, con pubblicazioni inneggianti al fascismo, e dall' altra parte c' erano Curcio e la Faranda, gente finta dentro per terrorismo. A questa gente nessuno ha mai detto nulla, in compenso io mi ritrovo indagato per apologia di fascismo. Pensi lei da chi devo prendere lezioni di democrazia».

Mi risultava che i rapporti tra Salvini e CasaPound non fossero idilliaci: come mai avete deciso di pubblicare il libro-intervista?

«Chiara Giannini è una nostra autrice da tempo. Quando mi ha proposto il libro io ne ho parlato con i vertici di CasaPound, proprio perché noi spesso abbiamo criticato il leader leghista, ma mi è stato risposto che non potevo perdere un' occasione professionale simile: hanno agito contro i loro interessi e in difesa della libertà di stampa e di impresa, bella lezione ai progressisti che mi hanno censurato».

E il libro, è così esplosivo?

«Vale più per il ritratto umano di Salvini, che parla delle sue donne, dei suoi hobby, di com' era da ragazzo, dei figli, dei vizi. Poi certo, su cento domande ce ne sono anche di politiche, ma non lancia idee nuove attraverso questa intervista. Anche per questo la reazione di Torino è inspiegabile».

Salvini cosa sapeva?

«Nulla. Noi non l' abbiamo mai sentito. Sicuramente la Giannini gli avrà detto che pubblicava con Altaforte, ma non penso che Matteo ci abbia riflettuto sopra».

Che rapporto c' è tra Salvini e CasaPound?

«Indefinibile. Ci fu una cena cinque anni fa, ma ognuno è sempre andato per la sua strada».

Che giudizio ha di lui?

«Come ministro dell' Interno è il migliore che abbia mai visto: ha promesso e fatto. Come leader di partito è troppo politico: non è un duro come noi, si muove con compromessi e secondo opportunità. Per esempio sull' Europa e l' euro ha fatto retromarcia rispetto alle sue posizioni estremiste».

Cosa pensa delle accuse di essere fascista che gli muovono?

«Mi fanno ridere. La sinistra dice che Salvini fa politica sull' odio e la paura della gente, ma sono proprio i democratici che gli stanno scatenando contro una campagna diffamatoria e di insulti solo perché non hanno altri argomenti. Non si rendono conto che così gli fanno un favore, e non parlo solo dell' autogol del Salone di Torino. Più da sinistra accusano Salvini di fascismo, più emerge il suo profilo rassicurante: evocare Mussolini a sproposito in realtà evidenzia le differenze tra il leader leghista e il duce».

Salvini però ammicca al fascismo: certe frasi, certo piglio.

«È un genio del marketing, ma finisce lì. La verità è che Mussolini ormai appartiene all' immaginario italiano al di là della storia, di ciò che ha fatto e non ha fatto. Tant' è che i suoi calendari sono i soli che oggi si vendono, e non li comprano solo i nostalgici».

C' è oggi un allarme fascismo in Italia?

«Il rischio dittatura c' è, ma da sinistra. Pensi alla dittatura del pensiero unico, qui a Torino. Pensi alla magistratura, che mi indaga perché ho difeso il mio libro».

Però le manifestazione violente di CasaPound nelle periferie romane sono un fatto.

«Le definirei dure, quelle violente le fanno i no global e i centri sociali, che spaccano i finestrini delle auto, imbrattano i muri e si menano con la polizia. Noi siamo dei gentleman a confronto».

Il fascismo vero dentro il Salone del libro di Torino. L'assurda polemica sul Salone del libro di Torino è l'ennesima riprova del fascismo al contrario che pensa di poter decidere per gli altri. Panorama l'8 maggio 2019. Le polemiche e le discussioni sul Salone del Libro di Torino meritano una riflessione. Innanzitutto partiamo dai fatti. Alla kermesse letteraria infatti per la prima volta parteciperà Altaforte, un editore vicino all'estrema destra, a CasaPound e editore (pensate un po' quale scandalo) di un libro dedicato a Matteo Salvini (il fascista per eccellenza del 21° secolo). Tanto (o poco, dato che stiamo parlando di uno stand di pochi metri quadrati) è bastato per scatenare la protesta di molti autori "liberali", "Progressisti" ed "Illuminati" (ovviamente solo loro) che hanno disdetto la partecipazione ad alcuni eventi già presenti in calendario ed invitato i colleghi e la gente a "boicottare" il Salone del Libro. Tra questi: Zerocalcare, Carlo Gizburg, il collettivo Wu Ming, l'Anpi, mentre alti come Michela Murgia hanno annunciato altre forse di protesta, del tipo, ci vado ma non presento il mio libro... mentre Raimo si è dimesso da membro del comitato Editoriale del Salone di Torino ma ci sarà, per criticare.

Ad esempio, nel dettaglio, questa la spiegazione di Zerocalcare, via fb, della sua protesta: “…mi è davvero impossibile rimanere 3 giorni seduto a pochi metri di chi ha accoltellato i miei fratelli, incrociarli ogni volta che vado a pisciare facendo finta che sia tutto Normale. Non faccio Jihad, non traccio linee di buoni o cattivi tra chi va e chi non va.

PS: non è che io so diventato più cacacazzi negli ultimi tempi, anzi so pure molto piu rammollito, è che oggettivamente sta roba prima non sarebbe mai successa. Qua ogni settimana spostiamo un po' l'asticella del baratro". 

Immancabile poi il gruppo fb che sta organizzando un ritrovo davanti allo stand di Altaforte per cantare "Bella Ciao". Non è la prima volta che la sinistra ed un certo mondo culturale nel suo ritenersi unico possessore della giustizia, depositario della verità assoluta, unico polo culturale e liberale esistente al mondo si dimostra più fascista dei fascisti. Il problema è che sembrano non capire mai che errare è umano ma perseverare diabolico. Il Salone del Libro non è loro. E' della gente (tanta) amante della lettura e della cultura. Gente che ogni giorno sceglie: quale libro leggere, quale scrittore amare, quale nuovo scoprire, e deciderà liberamente quale stand visitare e quale no. Per quanto riguarda i soliti "soloni" si tranquillizzino. La presenza al Salone del Libro di Altaforte e la "legalità" della loro attività sono gestite e controllate dalla legge. Se la rispettano hanno tutti i diritti di pubblicare libri, posizionare stand, esistere. Ma, state tranquilli, dall'alto dei loro "altari" criticheranno la legge o la sua applicazione. Come i fascisti.

Al Salò di Torino gara a chi è più fascista. Alessandro Gnocchi, Mercoledì 08/05/2019, su Il Giornale. In Italia siamo fermi alle dispute su fascismo e antifascismo. Non è il ritratto di una nazione ma il suo epitaffio. Offrire la disgustosa parodia delle tragedie del Novecento è il nostro massimo contributo alla cultura mondiale. I nostri genitori e i nostri nonni hanno pagato a carissimo prezzo le divisioni ideologiche. Essere antifascisti sotto il Duce comportava rischi. Essere antifascisti oggi non ne comporta nessuno. Pochi (...) (...) giorni fa si è aperta una polemica sulla presenza al Salone del libro di Torino di un libro-intervista con Matteo Salvini firmato dalla nostra Chiara Giannini. Visto che il volume, ancora in tipografia, era inattaccabile, il mirino si è spostato sulla casa editrice Altaforte, colpevole di essere «vicina» a CasaPound. Evitiamo di riassumere le dichiarazioni, i distinguo, le orazioni degli scrittori in lotta contro lo stand (dieci metri quadrati su sessantamila) «dei fascisti». Ci limitiamo a notare che la passione antifascista non arriva al punto di rinunciare a vendere i propri libri al Salone. Il rischio, in questi casi, è che sia tutto finto e che sia tutta pubblicità. Deve averlo pensato anche Francesco Polacchi, l'editore di Altaforte. Esaltato dall'improvvisa pubblicità, ha pensato male di fornire armi ai censori, lasciandosi andare a dichiarazioni da banchetto di Predappio: io sono fascista, il Duce è stato il massimo statista italiano, l'antifascismo è il vero male di questo Paese. L'ultimo atto (per ora) è stato scritto ieri da Sergio Chiamparino e Chiara Appendino. Il governatore del Piemonte e il sindaco di Torino hanno inviato un esposto alla Procura della Repubblica «affinché i magistrati possano valutare se sussistano i presupposti per rilevare il reato di apologia di fascismo» nelle parole di Polacchi. A questo punto, escludere Altaforte dal Salone non è un reato, anche se i titoli pubblicati dall'editore non sembrano in aria di apologia. Simbolicamente, il ricorso ai giudici testimonia la crisi della sinistra, incapace di articolare un'idea originale davanti al mutare del mondo: gli squilibri della globalizzazione, lo spappolamento della classe media, lo spaesamento da immigrazione incontrollata, il traffico di schiavi nel Mediterraneo. Contributo della sinistra: zero assoluto al di là della retorica. La destra invece ha qualche idea in merito. A proposito: la destra è un mondo più ampio di CasaPound. In questi giorni in troppi hanno cercato di far passare il concetto che tutto ciò che non è progressista sia razzista, fascista, xenofobo. Eloquente è il famigerato post di Christian Raimo che accusava di «razzismo esplicito» giornalisti ed editori che non hanno nulla a che vedere con il razzismo. Rimane da chiedersi: le opinioni di Polacchi sono un reale pericolo per la democrazia al punto da dover ricorrere ai tribunali? Giudicate voi. Il prossimo passo, dopo la condanna, è inviare Polacchi al confino a Ventotene. Come farebbe un regime fascista.

I fascisti del libro. Andrea Indini il 7 maggio 2019. Ma davvero le idee fanno ancora paura? È mai possibile che si sia così ideologizzati da voler estromettere un editore dal Salone del Libro di Torino solo perché questo si definisce “sovranista” e edita scrittori, opinionisti e saggisti di destra? È drammatico, ma sì. L’editore Altaforte ha avuto l’ardire di mettere piede nel regno rosso dell’editoria e farsi un suo stand al Lingotto scatenando l’odio e le ripicche dell’intellighenzia di sinistra. Da sempre la cultura è ad appannaggio loro. Non ti fanno nemmeno entrare in quel circolo privato di pensatori, ideologi e opinion maker. Pur non rappresentando minimamente il popolo, si sentono padroni del sapere comune. Francesco Polacchi, editore di Altaforte, non è uno di loro: si dice tranquillamente “sovranista”, pubblica libri sul fascismo e, più in generale, sul pensiero destrorso e viene accostato a CasaPound. Il diavolo, insomma, per quelli che al Lingotto bazzicano da anni. Se ci aggiungiamo che adesso è uscito in libreria con Io sono Matteo Salvini, una lunghissima intervista scritta dalla giornalista Chiara Giannini sulla base di cento domande poste al ministro dell’Interno, l’epurazione dal Salone del Libro era già scritta sulla carta. E così, uno dopo l’altro, i soliti radical chic dei circoletti rossi sono usciti allo scoperto per pestare duro contro il “fascista”. Il primo ad aprire le danze è stato il collettivo Wu Ming, poi è a cascata i soliti noti che dettano legge nei premi letterari, nei talk show, nei salotti buoni: lo storico Carlo Ginzburg, il vignettista Zerocalcare, la presidente dell’Anpi Carla Nespolo, gli scrittori Michela Murgia e Christian Raimo e qualche parlamentare in cerca di visibilità. I toni sono da Anni di Piombo. “Mi è impossibile pensare tre giorni seduto a pochi metri dai sodali di chi ha accoltellato i miei fratelli – dice Zerocalcare boicottando l’evento – incrociarli ogni volta che sia tutto normale”. “Non lascerò ai fascisti lo spazio fisico e simbolico del più importante appuntamento editoriale italiano”, fa eco la Murgia che al Lingotto è invece presente. C’è chi boicotta e chi no. Ma tutti picchiano con violenza. Non possono proprio tollerare la presenza di un editore che la pensi diversamente da loro e che pubblica saggi sul razzismo contro i bianchi, sulla morte dei popoli e sull’inganno antirazzista; graphic novel sulle foibe, su Jan Palach e Louis-Ferdinand Céline; il mensile “Primato nazionale” che prende di mira proprio personaggi come la Murgia e compagnia cantante. Nessuno di questi radical chic si è mai sognato di protestare con Altoforte. Almeno non prima che questo si presentasse al Salone del Libro. Finché un editore di destra (o sovranista, a dir si voglia) se ne sta, reietto, nel sottoscala dell’industria letteraria non c’è alcun problema. Ma, appena approda sull’Olimpo dei pensatori progressisti, non può che essere sbattuto giù. Anche con la forza, se serve. Perché quel mondo lì è solo loro e non può essere contaminato. Una riserva indiana dove le élite possono gloriarsi, lontano dal popolino ignorante e destrorso. Sia chiaro, il Salone è solo un episodio, ma è ovvio che si tratta di un pretesto. Non solo la cultura mainstream non vuole che sia “sporcato” il Lingotto, ma nessuno vuole che queste idee abbiano spazio. Non dare visibilità agli editori “diversi” è la stessa cultura che ha negato per anni visibilità a un mondo cui si chiedeva di “tornare nelle fogne”.

Il Minculpop rosso. Domenico Ferrara 8 maggio 2019. Paola Caridi, Ilide Carmignani, Mattia Carratello, Giuseppe Culicchia, Fabio Geda, Giorgio Gianotto, Alessandro Grazioli, Loredana Lipperini, Giordano Meacci, Eros Miari, Francesco Pacifico, Valeria Parrella, Rebecca Servadio, Lucia Sorbera, Annamaria Testa, Christian Raimo. Questi sono i consulenti culturali facenti parte del comitato editoriale del Salone del libro. Senza rischiare di cadere nell’approssimazione, non è un errore collocarli più o meno tutti in quell’area politica di sinistra che va dal globalismo al comunismo. Scorrendo la lista, c’è Ilide Carmignani che scriveva per il Manifesto, c’è Alessandro Grazioli che ritwitta messaggi antisalviniani come questo: “…il Paese in cui vivo, dove #Salvini impone politiche che varcano le soglie del fascismo”, c’è Giordano Meacci che nel 2011 considerava “la Lega un partito neonazista col quale non si deve scendere a patti e che non deve essere legittimata”, c’è Valeria Parella che in una intervista a Micromega del febbraio 2014 si definiva “comunista” e lanciava la sua candidatura con la lista L’Altra Europa con Tsipras, c’è Rebecca Servadio, che condivide l’idea di ballare e cantare Bella ciao davanti allo stand di Altaforte “perché capiscano che spazi di cultura non fanno per loro”. Quattro di loro, su sedici, compaiono nell’elenco di quelli che hanno fatto l’appello per la liberazione di Cesare Battisti. Si tratta di Mattia Carratello, Giorgio Gianotto, Loredana Lipperini e Christian Raimo. Quest’ultimo, sostenitore dell’amnistia per l’ex terrorista dei Pac, si è dimesso dal comitato editoriale dopo aver pubblicato su Fb la lista di proscrizione dei giornalisti e scrittori di destra che “con i loro libri sostengono un razzismo esplicito”. E poi ci si stupisce se il comitato editoriale sia insorto contro la casa editrice Altaforte che ha pubblicato un libro su Salvini?

Le pericolose liste di proscrizione dei mandanti morali alla Raimo. Le Opinioni Di Francesca Totolo il 7 maggio 2019 su culturaidentita.it. In seguito al post, chiaramente diffamatorio contro editori e giornalisti, pubblicato dal consigliere del Salone del Libro, Christian Raimo, sul proprio profilo Facebook, e alla babele mediatica scaturita dal tentativo di esclusione di Altaforte Editore dalla manifestazione di Torino, abbiamo intervistato Francesco Giubilei, editore di Historica e Giubilei Regnani Editore. Partiamo dall’inizio della vicenda che ti ha visto come protagonista, insieme ai giornalisti Francesco Borgonovo, Alessandro Giuli e Adriano Scianca, ovvero il post pubblicato su Facebook da Christian Raimo, consigliere del Salone del Libro di Torino, dove ti definiva razzista e fascista. Secondo il tuo parere, perché Raimo ha voluto stilare una lista di proscrizione degli editori non allineati, tra questi Historica, Giubilei Regnani Editore e Altaforte Edizioni? La polemica è partita dalla partecipazione al Salone del Libro di Altaforte Edizioni, nonostante il comitato e il consiglio di indirizzo avessero già da tempo autorizzato e concesso lo spazio all’editore, non essendoci motivazioni reali per la sua esclusione. La diatriba si è scatenata in seguito alla notizia, poi risultata infondata, della partecipazione di Matteo Salvini, durante il Salone per presentare il libro-intervista di Chiara Giannini. Da qui, è partito il post Nicola Lagioia, direttore della manifestazione torinese, contrariato per la presenza di un editore “fascista e xenofobo”. Il punto, che ritengo allucinante, è che Raimo, avendo un ruolo istituzionale come consigliere del Salone del Libro e assessore di un Municipio di Roma, ha scritto un post contenente attacchi personali, chiaramente diffamatori e fuori luogo, nei confronti miei, di Giuli, Borgonovo e Scianca. Il post, una vera lista di proscrizione, ha causato le ovvie richieste di dimissioni dalla carica ricoperta. Presumo che lo scopo di Raimo fosse quello di alzare sempre più i toni. Ricordo che partecipo come editore al Salone di Torino da cinque anni, e non ho mai assistito ad una così forte polemica. Abbiamo sempre avuto in catalogo libri di orientamento conservatore, cattolico e sovranista, ma non è mai accaduto nulla di tutto ciò. La vicenda ha generato subito clamore mediatico, grazie al tempestivo video di Nicola Porro e all’interessamento di Lucia Borgonzoni, Sottosegretario al Ministero per i beni e le attività culturali, annullando così il tentativo di censura dei consiglieri del Salone del Libro. Perché la cultura non allineata al “pensiero unico” spaventa così tanto una determinata parte politica? A differenza di quanto avvenuto dal dopoguerra fino alla fine del secolo scorso, stiamo ora assistendo ad una presa di coscienza della cultura che possiamo definire non conforme, che è rappresentata da tante correnti e voci. Negli ultimi anni, sono nate tante realtà, case editrici, riviste e associazioni, che stanno portando avanti un lavoro meritevole e di qualità, riuscendo anche ad ottenere degli spazi prima negati a causa anche dell’egemonia cultura progressista. Esiste quindi anche una cultura di destra e conservatrice, che piaccia o meno, e che non deve essere censurata. Abbiamo già assistito in passato ad attacchi con finalità censorie della cosiddetta “intellighenzia di sinistra”. Così non dimostra, ancora una volta, di aver perso il contatto con la realtà, come i partiti di sinistra hanno perso il contatto con gli elettori? Questo è esattamente il punto centrale, ovvero l’aver perso il contatto con la realtà. Additare come razzista il catalogo di Historica e Giubilei Regnani Editore significa proprio questo. Questi attacchi gratuiti sono peraltro pericolosi perché, in una città storicamente legata ai centri sociali e con un determinato humus sociale, chi può garantire che qualche facinoroso non venga al nostro stand all’interno del Salone del Libro? Questa è una vera campagna d’odio diffusa contro gli editori non allineati, come il sottoscritto e Altaforte Edizioni, che può facilmente degenerare passando dalle parole a fatti violenti, come successo nel passato quando le teste calde sono state fomentate da pseudo intellettuali. La censura è anche un’arma a doppio taglio, a causa dell’effetto Streisand, ovvero il fenomeno mediatico per il quale un tentativo di censurare o rimuovere un’informazione ne provoca, contrariamente alle attese, l’ampia pubblicizzazione. Quindi perché si continua con un progetto così controproducente? Basta leggere i commenti all’editoriale de La Repubblica, al post di Raimo e a quelli dei diversi intellettuali progressisti che si sono espressi in merito, per capire il pensiero sottostante: Raimo è diventato una vittima, quasi un eroe per quella corrente di pensiero, perché si sarebbe dimesso dal consiglio della manifestazione torinese come risposta alla presenza di neofascisti e razzisti al Salone del Libro. Il disegno sembrerebbe quello di isolare chi non si omologa al loro pensiero. La Repubblica ha riportato infatti che Raimo si sia dimesso in risposta alla presenza di Altaforte. Quali sono invece le vere ragioni delle sue dimissioni da consigliere del Salone del Mobile? Il ruolo del giornalista dovrebbe essere quello di riportare ciò che veramente è accaduto. Questa volta purtroppo non è successo. Infatti Christian Raimo non si è dimesso per la presenza di Altaforte perché costui era già presente nel consiglio del Salone quando è stata approvata la domanda dell’editore. Quindi anche lui ha avvallato lo stand concesso, perché non esisteva nessun elemento per l’esclusione. Il motivo delle dimissioni è stato proprio il post diffamatorio pubblicato su Facebook, contro il sottoscritto, Giuli, Borgonovo e Scianca, che non poteva essere graziato anche per ristabilire giustamente la verità. Da qui è partita la levata di scudi mediatica, e poi il conseguente interessamento dell’Onorevole Lucia Borgonzoni. Se non avessimo agito di conseguenza, questo sarebbe passato, come spesso succede, sotto traccia. Perché, secondo il tuo parere l’editore Altaforte Edizioni, a cui era già stato accordato da tempo lo spazio all’interno del Salone e che aveva già pubblicato diversi libri, tra questi “L’era delle streghe” di Borgonovo e “La Nazione fatidica” di Scianca, è stato così duramente attaccato per il libro-intervista “Io sono Matteo Salvini, intervista allo specchio” di Chiara Giannini? Infatti tutto è nato dalla pubblicazione di quel libro e dalla presunta, ma subito smentita, presenza di Matteo Salvini al Salone del Libro. Peraltro, aggiungo che se anche il Ministro fosse intervenuto non vi era nulla di disdicevole visto che diversi politici hanno partecipato negli anni alla manifestazione. Ogni editore può presentare, durante il Salone, i libri in catalogo e invitare chi preferisce, senza alcun tipo di restrizione. Ogni politico, che sia di destra o sinistra, può partecipare. Questa si chiama democrazia, non rispettata spesso proprio da chi se ne riempie la bocca. Molti tra intellettuali e personaggi noti, come Wu Ming, Carlo Ginzburg, Zerocalcare e Carla Nespolo, presidente nazionale di Anpi, hanno dichiarato che non parteciperanno al Salone del Libro in risposta alla presenza di Altaforte Edizioni. Secondo il tuo parere, così non si rischia di tornare ad una rivisitazione degli “anni di piombo”? Perché non c’è la possibilità di un confronto sereno? Sembra che si vogliano esacerbare ulteriormente i toni dello scontro, creando una divisione inutile e certamente non favorendo un confronto. Questo è pericoloso. Portando in alto l’asticella dell’odio, magari non al Salone del Libro ma a qualche altro evento, esisterà un rischio reale di qualche rappresaglia. Nel momento in cui redigi una lista di proscrizione, definendo come razzisti e fascisti giornalisti e editori, stai coscientemente fungendo da mandante morale e devi assumerti le responsabilità di quelle che potrebbero essere le conseguenze.

L’arma disarmante. Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 da Massimo Gramellini su Corriere.it. Mi si nota di più se non vado al Salone del Libro perché lascia spazio ai fascisti, oppure se ci vado perché non voglio lasciare spazio ai fascisti? Il dilemma del pensatore sinceramente democratico è sempre il solito: come comportarsi di fronte all’Uomo Nero, che ieri si chiamava Berlusconi e oggi Salvini. La presenza tra gli stand torinesi di una casa editrice vicina a CasaPound passerebbe quasi inosservata, se non si trattasse della stessa che pubblica «Io sono Matteo Salvini», selfie del Truce in forma di parole dal titolo liberamente ispirato a «Oui, je suis Catherine Deneuve». Siamo allo scontro tra due ossessioni. Come Salvini incolpa i «comunisti» di qualsiasi cosa non venga fatta, specie di quelle che aveva promesso di fare lui (dove sono finiti il taglio delle tasse e l’autonomia del Nord?), così certi intellettuali che dispensano patenti di democrazia si indignano ormai solo se c’è Salvini di mezzo. È appena accaduto a Napoli, dove una parte del mondo mediatico ha cominciato a interessarsi al ferimento di una bambina quando si è accorta di poter usare la notizia per scagliarla contro «il ministro dell’Inferno».Lungi da me l’intenzione di passare per Pilato o magari per Osho (il santone, non il comico), ma chi contrasta l’odio con l’odio rischia di fare il gioco di coloro che sulla strumentalizzazione del disagio sociale hanno impostato una strategia e una carriera. La tolleranza vigile è una forma di forza. La più lontana dal fascismo, perché è un’arma disarmante.

Buon Salone: di tutti i libri. Pubblicato lunedì, 06 maggio 2019 da Pier Luigi Battista su Corriere.it. Alla vigilia del Salone del libro, mentre sembrano ruggire ancora i maniaci seriali della censura e del bavaglio, appare necessario ricordare agli intolleranti di ogni colore quella base minima, ma propria minima, di princìpi che dovrebbero stare alla base di una civiltà che consideri la libertà culturale come un valore irrinunciabile. Eccoli, in estrema sintesi. Non mettere al bando nessuna casa editrice. Non chiudere con il lucchetto stand dove siano esposti libri sgraditi. Non rovesciare (materialmente e metaforicamente) i banconi delle librerie che promuovono idee diverse, o addirittura opposte. Non mettere all’indice scrittori sgraditi. Non interrompere con i metodi che sono dello squadrismo di ogni tipo e, ancora una volta, di ogni colore, la presentazione di libri ideologicamente agli antipodi. Non considerare la libertà culturale come una variabile da manipolare arbitrariamente e da rivendicare solo per sé e per, citando Aberto Sordi, i «compagnucci della parrocchietta». Non soffocare le idee diverse, anche se considerate spregevoli. Non impedire l’allestimento di spettacoli teatrali considerati riprovevoli. Non impedire mai, mai e poi mai concerti, film, mostre d’arte: mai, mai e poi mai, per nessuna ragione al mondo. Non considerare le opinioni diverse, anche sideralmente diverse, come reati: i reati d’opinione sono odiosi, sempre. Non pensare di far valere la proprie ragioni con l’aiuto della polizia: tentazione dei meschini, oltre che degli intolleranti. Non discriminare autori sgraditi, che presentano i loro libri sgraditi in una manifestazione culturale che dovrebbe conoscere piuttosto la bellezza della battaglia delle idee, non il conformismo di chi pretende di averne il monopolio. Non avanzare ipocritamente presunte buone intenzioni per giustificare la censura e il rogo dei libri: i regimi autoritari, di destra e di sinistra, si sono sempre fatti scudo delle migliori intenzioni. Non cedere al demone dei divieti, delle messe al bando, del silenziamento coatto, la scorciatoia tipica di chi non sa sostenere le proprie ragioni ad armi pari. La censura è sempre una forma di vigliaccheria di maggioranza. E la vigliaccheria al potere è la nemica numero uno della libertà culturale. Non censurare mai, mai e poi mai: è molto semplice, basta dominare l’intollerante che è in noi. Buon Salone del libro, di tutti i libri. 

"Io, autrice del libro nella bufera". Chiara Giannini, Martedì 07/05/2019 su Il Giornale. Ci sono voluti quasi cinque anni per scrivere Come la sabbia di Herat, il mio primo libro. Era il 2014 quando decisi di mettere nero su bianco le mie esperienze di inviata di guerra. Volevo rendere omaggio ai caduti dell'Afghanistan, terra su cui ho messo i piedi undici volte. Nel 2015 mi sono ammalata di cancro al seno e ho messo da parte il mio progetto editoriale. Quando sono guarita ho deciso di fare la cosa più naturale per una giornalista: ho messo i miei pensieri su carta, o, meglio, sullo schermo di un telefono cellulare, perché il mio primo volume l'ho scritto così, come faccio con tutti i miei articoli. Ho proposto il mio lavoro a tante case editrici, in passato, ma nessuno lo voleva. Finché un giorno qualcuno mi chiede: «Vorresti pubblicare con Altaforte»? Era una casa editrice agli esordi, piccola, ma ben organizzata. Ho deciso di dare fiducia a chi mi dava la possibilità di raccontare la mia storia e quella di gente morta per la propria Patria. Il mio libro è stato un successo: l'ho presentato al Senato grazie al gruppo Lega e poi in Campidoglio e in tanti altri posti. Il direttore, Alessandro Sallusti, ha fatto una prefazione bellissima. Avevo intervistato molte volte il ministro Matteo Salvini e da Altaforte mi propongono di fare un instant book in vista delle Europee. Un libro intervista da 100 domande all'uomo più discusso d'Italia. Chiedo ai collaboratori del ministro e la richiesta viene accordata. Scrivo in tempo record, tra notti insonni, appesantite dall'attesa dell'ennesimo intervento post cancro. Ne esce un libro a mio parere equilibrato e giornalisticamente buono. Non avevo motivo di pensare che Io sono Matteo Salvini, in uscita il 9 maggio, avrebbe scatenato polemiche ancor prima di essere in libreria. Mi accusano di aver pubblicato con la casa editrice di CasaPound. Ma io Francesco Polacchi non l'ho mai neanche incontrato. La garanzia dell'indipendenza di Altaforte sta nei nomi degli autori che con essa hanno deciso di pubblicare i propri libri: Adriano Scianca, Francesco Borgonovo, Francesca Totolo, Ilaria Bifarini. Le prefazioni dei volumi sono di Maurizio Belpietro e Alessandro Sallusti, per i miei titoli, Marcello Veneziani, Mario Giordano e altri per il resto del catalogo. Quando esce la notizia che «Salvini ha pubblicato con la casa editrice di CasaPound» mi sorprendo. Come si può strumentalizzare così? Come si può creare polemiche prima di aver letto il libro? Il direttore del Salone del Libro, Nicola Lagioia, dice che non sarà presentato, Christian Raimo accusa i miei colleghi di essere fascisti o razzisti. E la parte buonista d'Italia si schiera. Contro il giornalismo indipendente, contro gente che lavora con serietà, contro il ministro Salvini, perché, lo spiego nel libro, quest'uomo solo al comando di un'Italia allo sbando è diventato capro espiatorio di qualsiasi cosa succeda nel Paese. Subito si levano gli scudi della brigata antifascista. Si grida allo scandalo. La verità è che nessuno tiene conto del fatto che l'articolo 21 della Costituzione sancisce la libertà di espressione. Per tutti. Altaforte è una casa editrice fuorilegge? No. Salvini è un ministro fuorilegge? No. Chiara Giannini è una giornalista fuorilegge? No. Io sono una giornalista. Punto. Ho pubblicato un libro con una casa editrice, non con la casa editrice di CasaPound. Punto. Leggetelo il mio libro, magari vi accorgerete che avete preso tutti una grossa cantonata.

L’autrice del libro su Salvini “aggredita” al Salone del libro al canto di “Bella ciao”. Carmine Crocco sabato 11 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. Chiara Giannini, l’autrice del libro intervista su Salvini, è  riuscita comunque a far parlare di sé al Salone del libro, nonostante che  il sindaco di Torino Chiara Appendino e il governatore Sergio Chiamparino abbiano fatto bandire dal Lingotto l’editore Altaforte. La giornalista e scrittrice ha voluto  essere presente in qualche modo alla manifestazione incontrando i visitatori e mostrando loro una copia del volume  messo all'”indice”. La sua presenza ha creato un piccolo parapiglia al Salone.  Mentre girava  con Io sono Matteo Salvini in mano, l’autrice è stata, prima attaccata da un collaboratore della casa editrice Feltrinelli,  e poi  “aggredita”  da alcuni visitatori che, intonando Bella ciao, hanno cercato di zittirla. Chiamatela come volete, ma si tratta comunque  di una forma di violenza e di intimidazione anche se non sono volati schiaffi  o spintoni, ma solo un  canto e alcuni saluti comunisti in segno  di scherno.  Il video che proponiamo è tratto da Repubblica tv.

Salone, l’autrice del libro su Salvini: sono stata censurata. Ma il pubblico intona «Bella Ciao».  Pubblicato sabato, 11 maggio 2019 da Alessia Rastelli su Corriere.it. «Sono stata censurata, il mio testo può e deve entrare ovunque». Chiara Giannini, l’autrice del libro-intervista Io sono Matteo Salvini, pubblicato da Altaforte, marchio vicino a CasaPound, varca i cancelli del Salone di Torino, da cui il suo editore è stato escluso. Questa volta a rispondere non è l’organizzazione, ma direttamente un gruppo di visitatori che intona la canzone partigiana Bella ciao. C’è la folla del weekend, famiglie e passeggini. Giannini cammina con il volume in mano, scortata dalla Digos e dal suo avvocato. Quasi nessuno la nota fino a che non si ferma allo stand Feltrinelli, raggiunto appositamente «perché diversi librai del gruppo hanno detto che non esporranno il mio libro». Campeggia il volto di Inge, scomparsa lo scorso settembre. Una signora non si trattiene, chiede a Giannini di «rispettare la tradizione di un editore come Feltrinelli». Quindi un dipendente dello stand intona Bella ciao e altri visitatori lo seguono. «Ho iniziato a cantare — spiega — perché sono un antifascista, un democratico. Hanno sbagliato a escludere Altaforte, ma non sono d’accordo che si venga a provocare davanti a Inge. È morta nemmeno un anno fa. Io la conoscevo». Feltrinelli, e in generale il Salone, erano già finiti nel mirino qualche ora prima, alla presentazione del libro di Giannini che si è tenuta fuori dalla fiera, all’hotel Golden Palace in centro a Torino. «Una polemica vergognosa — attacca l’autrice, che ha diffidato il Salone —, mi auguro per l’anno prossimo un nuovo direttore e un nuovo comitato editoriale». C’è pure il fondatore di Altaforte, Francesco Polacchi. Presente un centinaio di persone tra giornalisti e membri di CasaPound, ma nessuno dei commentatori invitati da Polacchi — tra i quali Sgarbi, Mughini, Sansonetti — per aver «difeso la libertà di espressione». Qualche tensione quando un inviato delle Iene incalza l’editore, poi tra un membro di CasaPound e un poliziotto. «Non abbiamo un contratto con Salvini — ribadisce Polacchi — ma con l’autrice». E lei ripete che tutto il caso è «un attacco al ministro dell’Interno». Salvini non c’è, ma interviene più tardi da Alessandria, dove si trova per un comizio: «Polemiche surreali. Mi spiace che certa sinistra si ritenga moralmente e culturalmente superiore. D’altra parte mi risulta che al Salone siano stati ospitati ex brigatisti». Dall’interno della fiera, alla quale alla fine ha partecipato, parla lo storico Carlo Ginzburg, tra i primi ad annunciare la defezione se fosse rimasto l’editore vicino a CasaPound: «C’è bisogno oggi di prese di posizione. L’eco sui media della vicenda di Altaforte mostra che è diventata una questione politica che va al di là del Salone. È come se si fosse lanciato un segnale che si può arginare, contenere, una deriva che sembrava inarrestabile». A margine della presentazione del libro-intervista a Salvini, si parla pure di Halina Birenbaum, la superstite della Shoah che ha aperto il Salone. Anche lei aveva detto no ad Altaforte, spiegando, dopo le dichiarazioni di Polacchi, che sarebbe rimasta fuori dai cancelli. Nei giorni scorsi l’editore si era definito «fascista», dicendo di apprezzare la dittatura. Frasi per le quali è indagato per apologia del fascismo. «Nutro rispetto — dice Giannini rispondendo ai giornalisti — per gli scampati all’Olocausto. Hanno vissuto un capitolo della storia vergognoso». Poi, aggiunge: «Hanno subìto una restrizione della libertà: la stessa che sto subendo io». Affermazione quest’ultima, «folle e vergognosa — replica Dario Disegni, presidente della Comunità ebraica di Torino e del comitato per il centenario di Primo Levi —: a milioni le vittime della Shoah sono state bruciate nei forni crematori». Nel corso dell’evento Altaforte conferma infine che farà causa al Salone e annuncia il prossimo libro: sarà del giornalista Paolo Bargiggia, sul calciomercato. Lo conferma l’autore: «Distinguo il lavoro da imprenditore di Polacchi dalle sue idee personali».

Squadrismo al salone del libro: così vogliono zittire la Giannini. L'autrice del libro Io sono Matteo Salvini sfida la censura della sinistra e va al Salone del libro. Ma quando prova a parlare, i visitatori cantano "Bella ciao" per farla tacere. Sergio Rame, Sabato 11/05/2019 su Il Giornale. La presenza di Chiara Giannini al Salone del Libro, dopo che il sindaco di Torino Chiara Appendino e il governatore Sergio Chiamparino hanno fatto bandire dal Lingotto l'editore Altaforte, non è passata inosservata. E, mentre stava girando per gli stand con una copia del libro Io sono Matteo Salvini in mano, è stata attaccata da un collaboratore della casa editrice Feltrinelli e da alcuni visitatori che, intonando Bella ciao, hanno cercato di zittirla. "Le censure sono brutte e questa è la dimostrazione che il mio libro può e deve entrare ovunque", stava dicendo la giornalista del Giornale a chi voleva sapere della sua presenza alla kermesse. "Ho portato una copia del mio libro - ha aggiunto - per fare vedere a tutti quelli che me lo hanno impedito, compreso il signor Lagioia e la sindaca Appendino, che la cultura spacca i ponti e può entrare ovunque". Nonostante l'esclusione di Altaforte, la casa editrice di Francesco Polacchi finita nella bufera per la sua vicinanza a CasaPound, la Giannini ha deciso ugualmente di sfidare la censura dei radical chic e farsi un giro tra gli stand del Lingotto con il suo volume in mano che è ormai tra i più venduti da Amazon. La polemica è scattata quando la giornalista del Giornale si è fermata a scattare una fotografia davanti allo stand della Feltrinelli. "Il mio libro è stato censurato dal Salone del Libro e alcune librerie hanno detto che lo censureranno - ha denunciato - lo diffondo su altri canali perché credo che in Italia debba esistere la libertà di espressione". E a chi le chiedeva conto delle parole di Polacchi, che durante una trasmissione si è proclamato "fascista" e ha additato l'antifascismo come "vero male di questo Paese", ha risposto: "L'editore parla a nome personale, io non sono fascista, sono una giornalista libera e indipendente, non mi sono mai schierata politicamente. Per quale motivo impedirmi di presentare il libro? Non lo capisco". A quel punto i soliti anti democratici hanno intonato Bella ciao per provare a farla tacere. "Questi - ha replicato la giornalista - sono gli italiani che impediscono la democrazia. Viva la democrazia e viva l'Italia". "La polemica su Altaforte si è scatenata prima delle dichiarazioni di Polacchi", ha spiegato la Giannini che resta convinta del fatto che dietro le polemiche della sinistra ci sia "semplicemente un attacco strumentale" a Matteo Salvini. "Quando ho fatto la richiesta ai suoi più stretti collaboratori di poter pubblicare il libro-intervista - ha raccontato - ho inviato una mail dicendo che l'avrei fatto con Altaforte. Il ministro non ha rilasciato un'intervista ad Altaforte, ma a Chiara Giannini come ha fatto tante altre volte in questi anni". E per quanto riguarda tutta la polemica legata alla vicinanza con CasaPound, la giornalista ha ricordato che non è un partito illegale. "In Italia - ha, infine, concluso - non esiste il reato di apologia di fascismo, c'è una sentenza della Corte Costituzionale, esiste semmai il reato di ricostituzione del passato partito fascista".

Via i "fasci" da Torino? Allora epurate anche questi editori...Autori compromessi, cataloghi «sospetti» e vicinanze politiche: non si salva nessuno. Alessandro Gnocchi, Martedì 07/05/2019 su Il Giornale. L'editore Altaforte ha pubblicato il libro-intervista di Chiara Giannini a Matteo Salvini. Oltre a stampare ciò che gli pare, Altaforte ha addirittura la pretesa di avere uno stand al Salone del libro di Torino. Sarebbe tutto normale se l'editore, Francesco Polacchi, non fosse un militante di Casapound, non si dichiarasse apertamente fascista e l'intervistato non fosse il bau bau di tutta la sinistra. Scatta dunque la polemica e si levano gli scudi (per ora solo dialettici ma attendiamoci di peggio) contro la democrazia offesa da troppa libertà d'espressione anche se sarebbe da difendere soprattutto quando costa qualcosa spendersi. Siamo vicini alle elezioni. Il bersaglio si direbbe in primis Salvini. Ma già che ci sono, i difensori della libertà di pensiero (solo il loro) ne hanno approfittato per delegittimare un'intera area culturale, la «destra», a loro palesemente sconosciuta. A meno che non siano in cattiva fede e vogliano dunque far credere che la «destra» coincida col fascismo e il razzismo. Un'idiozia ma la discriminazione ideologica non si ferma neppure davanti alla certezza di fare la figura degli ignoranti.. Cosa accadrebbe se venissero davvero applicati i criteri ai quali si ispirano il direttore Nicola Lagioia e il comitato editoriale del Salone del libro di Torino? Scrive Lagioia: «Per ciò che riguarda me e il comitato editoriale, crediamo che la comunità del Salone possa sentirsi offesa e ferita dalla presenza di espositori legati a gruppi o partiti politici dichiaratamente o velatamente fascisti, xenofobi, oppure presenti nel gioco democratico allo scopo di sovvertirlo». L'ex consulente Christian Raimo aveva invece compilato una lista di epurazione che comprendeva «razzisti» del calibro di Francesco Giubilei o Alessandro Giuli. Pura diffamazione, che ha costretto Raimo alle inevitabili dimissioni. Per facilitare il lavoro del Comitato editoriale del Salone 2020, ecco una prima lista di proscrizione. Case editrici da escludere perché pubblicano libri fascisti: Mondadori e Neri Pozza (Pound); Corbaccio, Einaudi, Guanda (Céline); Feltrinelli (Mishima), Adelphi (Simenon); Il Mulino, Passigli e Sellerio (Drieu la Rochelle), Rizzoli (Berto). Sono escluse dal Salone anche le case editrici che abbiano in catalogo almeno un titolo dei seguenti autori per evitare offese alla sensibilità della comunità del Salone: Maurice Barrès, Gottfried Benn, Leon Bloy, Jorge Luis Borges, Emile Cioran, Paul Claudel, Benedetto Croce, Gabriele d'Annunzio, Thomas Stearns Eliot, Edward Morgan Forster, Carlo Emilio Gadda, Knut Hamsun, Hermann Hesse, Eugene Ionesco, Marcel Jouhandeau, Ernst Jünger, Tommaso Landolfi, Thomas Mann, Filippo Tommaso Marinetti, Francois Mauriac, Charles Maurras, Eugenio Montale, Henri Millon de Montherlant, Vladimir Nabokov, Aldo Palazzeschi, Giovanni Papini, Luigi Pirandello, Giuseppe Prezzolini, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, William Butler Yeats. L'elenco si può allungare a piacimento con molti altri reazionari, conservatori e neoconservatori. L'editore Altaforte, al centro dello scandalo, è stato accusato di essere vicino al movimento politico CasaPound. Feltrinelli promuove senza sosta i libri di Matteo Renzi, Mondadori ha pubblicato chiunque ma soprattutto i post comunisti come Massimo D'Alema e i post democristiani come Enrico Letta. Non mancano però i discorsi di Silvio Berlusconi. Rizzoli ha dato alle stampe i tomi di Alessandro Di Battista e Matteo Salvini (tu quoque, Rizzoli). La Nave di Teseo ha in catalogo Piero Fassino e Dario Franceschini. Einaudi non si è lasciata scappare Walter Veltroni. Il Mulino punta su Romano Prodi. Sperling&Kupfer ha scelto Giorgia Meloni. Forse si vuole tappare la bocca ad Altaforte perché dà voce a chi vuole togliere la voce ad altri. Non è vero e comunque cosa dire allora degli editori che danno voce agli autori che vogliono togliere agli altri la vita oltre alla voce? Feltrinelli pubblicava Castro, Guevara, ma anche Mao, Ho Chi Minh, Giap. Un Guevara non fa male a nessuno (a parte tutta la gente che ha fatto fucilare e rinchiudere nei lager). Ce l'hanno in catalogo anche Mondadori e Baldini&Castoldi. Einaudi era più sovietica e quindi ecco Lenin apprezzato anche da Editori riuniti e Newton Compton. Bompiani, pur di avere il Duce in persona, ha pubblicato i diari «veri o presunti» di Mussolini. Diciamo la verità: Benito è il prezzemolino dell'editoria italiana. Compare più o meno nel catalogo di chiunque. In ordine sparso: Castelvecchi, Mondadori, Mondadori Electa, Bur, Chiarelettere, Il Mulino, Leg, Rubbettino, Salerno per limitarci alle più note. Rizzoli ha tagliato la testa al toro: Il mio testamento politico. Autore: Adolf Hitler. Torino sarà la parata dell'antifascismo, speriamo non violento a questo punto, visto che c'è chi già straparla di picchetti davanti agli stand sgraditi. Il Salone del libro è l'evento più importante del settore in Italia. Invece di lasciar parlare tutti, il comitato editoriale ha dato l'impressione di essere politicamente schierato e di essere ben lontano dal promuovere il confronto. È un fatto grave. Torino è una fiera internazionale. Chissà cosa penseranno gli stranieri degli italiani che litigano sul fascismo invece di promuoverne la conoscenza storica, nel pluralismo delle opinioni. Il Salone, in origine, era una manifestazione con una chiara impronta libertaria. Con questo comitato editoriale ha raggiunto il polo opposto. Da libertario a liberticida. In nome della democrazia, ci mancherebbe.

Il Salone del libro e il privé dell’odio rosso. Domenico Ferrara 6 maggio 2019 su Il Giornale. Al Salone del libro di Torino ci sarà Altaforte, la casa editrice vicina a CasaPound. La notizia non è piaciuta ad alcuni scrittori che vedono il fascismo ovunque. Ma chi sono questi “disertori” rossi? Carlo Ginzurg, che ha definito “vergognosa” la sentenza su Adriano Sofri, sulla cui colpevolezza nutre seri dubbi e del quale ha dichiarato: “Cattivo maestro? Se l’Italia avesse molti cattivi maestri di questo genere, sarebbe un Paese migliore. Non si perdona a quest’uomo l’ orgoglio di difendere la verità e il proprio onore”. Wu Ming, collettivo che ha più volte “abbracciato” Roberto Saviano, uno dei principali portatori della fiaccola dell’antifascismo postmoderno e che ha firmato l’appello del 2004 per la liberazione di Cesare Battisti. Christian Raimo, lo scrittore che ha pubblicato su Fb, salvo poi rimuoverla, la lista di proscrizione dei giornalisti e scrittori che “con i loro libri sostengono un razzismo esplicito”. Raimo che 14 anni fa firmò anche lui l’appello per la liberazione del terrorista dei Pac e che ha dichiarato: “Sono per l’amnistia anche per un personaggio così, serve una riflessione, non la galera”. Zerocalcare, che nel marzo dell’anno scorso, disegnò l’adesivo “Qui abita un antifascista” per gli attivisti di Movimento Pavia qualche settimana dopo la manifestazione per ricordare le vittime delle Foibe segnata dalla violenza proprio degli antifascisti. Nonostante tutto questo, a nessuno di loro è stata – giustamente – vietata la partecipazione né ora né negli anni passati. Perché una società liberale si fonda sul rispetto delle idee diverse, perché la casa editrice in questione sarà pure vicina a CasaPound ma CasaPound a oggi non risulta un partito fuorilegge, perché vietare la pubblicizzazione di un libro è un atto squadrista, perché in passato al Salone del libro sono stati presentati altri testi di case editrici non proprio di sinistra ma nessuno alzò la mano. Nel nome dell’ipocrisia. Adesso i tempi sono cambiati. E il Salone del libro diventa il privé dell’odio rosso.

Dall’estrema sinistra solito antifascismo per legge. Spegnete la luce su internet. Francesco Storace lunedì 6 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. Avete un diritto: diffondere solo le idee nostre. Non cambiano mai, restano comunisti di testa. Preparatevi, cultori del pensiero unico. L’estrema sinistra ha da calare sul tavolo una delle sue leggi migliori per soffocare ogni opinione alternativa su internet. Magari il giorno in cui ci sarà bisogno dei suoi voti per un governo antisovranista. Se un sito non dovesse passare il vaglio dei compagni dell’ufficio censura, stop, chiusura e magari galera. Quando prevale la caccia al sangue nemico tutto può entrare in una “legge”. Suscita attenzione e fa accapponare la pelle la proposta presentata da un deputato di Leu, Luca Pastorino, che mira a mettere in piedi un non meglio identificato osservatorio per “monitorare” quel che succede nella rete. E siccome internet ha un perimetro oggettivamente enorme, il compagno Pastorino- bontà sua – indica che cosa mettersi a spiare. Ovviamente, “ogni forma di manifestazione fascista o di discriminazione razziale, etnica, nazionale, di orientamento sessuale, religiosa o nei confronti di persone con disabilità“. Tutto fa brodo, tanto l’obiettivo è chiaro. Sarà un “osservatorio indipendente” a mettere nel mirino ogni post e a catalogarli secondo l’unico criterio di cui sono capaci: la faziosità. A caccia di fantasmi.

Idee spacciate per malattia. Perché secondo questo discendente della migliore cultura staliniana “la rete internet è divenuta un pericoloso « non-luogo », uno spazio prediletto da quanti impunemente vogliono propagandare idee antidemocratiche”. Come? “Creando un proselitismo che, viste le caratteristiche dello strumento, assume velocemente forme pandemiche”.  E, poffarbacco, “cronicizza l’insofferenza e il disagio quotidiano in forme aggressive finalizzate a degradare e disumanizzare l’altro”. Un linguaggio assolutamente chiaro. Quali sarebbero le idee antidemocratiche manco a dirlo; che curiosamente assumono persino la dimensione della pandemia. E se ad essere malate fossero semplicemente le teste di deputati di tal fatta?

Magari premieranno piazzale Loreto…Siccome metà della popolazione italiana frequenta i social, scrive l’onorevole censore nella relazione alla sua abominevole proposta di legge, è bene stare in campana. Perché nella rete si annidano pericolosi soggetti. Costoro danno vita a “pagine internet (specialmente pagine, profili e gruppi Facebook, profili Instagram e Twitter) dedicate esplicitamente alla propaganda fascista o nazista e alle discriminazioni”. E come potevi sbagliarti. Invece daremo una medaglia a chi propone avversari politici a testa in giù? Foto che magari non sarebbero sanzionabili. Bisogna solo setacciare e colpire duramente chi diffonde esclusivamente “immagini e video dai contenuti inaccettabili in virtù dei valori fondanti della nostra democrazia e delle disposizioni del nostro ordinamento volte alla tutela dei diritti dell’uomo”. Per dire, piazzale Loreto meriterebbe valorizzazione per i cultori della materia ancora rifugiati nelle grotte comuniste. Ovviamente, sarebbe la politica a decidere chi “monitorare” e cancellare. Già perché nella cosiddetta autorità indipendente preposta al vaglio di internet e delle sciocchezze elencate nella proposta di legge penserebbero quattro personcine nominate dal ministero dell’Interno. Ovviamente quando sarà cambiato l’attuale titolare. Sarebbero loro i nuovi custodi della democrazia. Sarebbero costoro a segnalare reati alle procure, a proporre sanzioni. Le idee colpite a maggioranza, Pastorino sa come si fa. Decide il governo,  comanda il Viminale. Applausi a scena aperta. E poi si lamentano del cosiddetto “populismo”. Siamo al trionfo della polizia segreta. I nipotini di Marx e del KGB non mollano.

A Torino chiudono i battenti i negazionisti (pure sulle foibe) della verità e della storia. Francesco Storace lunedì 13 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. Oggi cala il sipario su una commedia triste. Mai come quest’anno al Salone del Libro di Torino c’è stata una recita acida. L’antifascismo più bolso è retorico si è esibito con scialbi e canuti protagonisti di un tempo che fu. È il loro modo di essere negazionisti, cancellare le idee altrui, perché se c’è confronto perdono di brutto. La storia e la cultura a senso unico arretrano una comunità, le impediscono di crescere libera. E quanto è successo a Torino in questi giorni fa abbastanza orrore. Si mette sul banco degli imputati una casa editrice, viene puntata come vicina a CasaPound, si pretenderebbe il rogo dei suoi libri. Il nazismo a loro insaputa.

La  legge Ciriani. Sono quelli che pretendono genuflessioni il 25 aprile e dimenticano, omettono, cancellano il 10 febbraio. Chissà se il prossimo anno al Salone del Libro ci sarà spazio per presentare un’opera che racconti lo sterminio degli italiani nelle Foibe, ad esempio. E come reagiranno, i profeti del negazionismo in salsa partigiana, se il capogruppo al Senato di Fratelli d’Italia, Luca Ciriani, dovesse riuscire a far calendarizzare una proposta di legge per punire chi oltraggia i martiri del macellaio comunista Tito allo stesso modo delle vittime della Shoah. Farebbero barricate fasulle, perché il sangue dei vinti non conta. C’è un articolo del codice penale, il 604 bis, che punisce l’esaltazione del massacro del popolo ebraico – o la negazione della Shoah – con una pena da due a sei anni di reclusione. Ciriani propone di aggiungere quattro parole. Dopo “apologia della Shoah” inserire “dei massacri delle foibe”. Proprio quanto accaduto a Torino dimostra che c’è bisogno di intervenire legislativamente. Perché finché la cultura è sorda alla verità è evidente che c’è da lavorare ancora sul piano normativo. Il motore di ricerca del Salone del Libro registra uno sconsolante “zero risultati” se scrivi la parola “foibe”. Il che lascia agevolmente intuire quale sia il clima che si respira nel paese e in ambienti che dovrebbero invece raccontare una storia libera da pregiudizi.

Un libro al Salone…Ci chiediamo che cosa accadrebbe se venisse discussa un’opera dedicata a Norma Cossetto, oppure al trattamento infame riservato agli esuli nella stazione di Bologna. Anche loro “vicini a CasaPound”? L’Italia dovrebbe celebrare ogni anno la ricorrenza del 10 febbraio. Lo ha stabilito la legge Menia, approvata dal Parlamento. Ma ancora oggi si incontrano resistenze alla memoria di quei drammatici fatti, che colpirono tantissimi italiani per la loro nazionalità. Solo per la loro nazionalità. Eppure, c’è chi nega ancora. È come se ci fosse un permanente Salone del Libro Loro, non solo a Torino ma ovunque alberghi la faziosità con i suoi cantori. È questa la loro triste Italia, che si ciba di odio e di vendetta. Magari venisse approvata la legge Ciriani, attraverso una norma – da applicare – cesserebbe il coro stonato dei professionisti della menzogna. Perché poi alla fine, se a Torino abbiamo assistito al triste spettacolo di questi giorni, è proprio perché sembra che ci si debba rassegnare al trionfo della storia scritta dai vincitori. Ma non ce lo può chiedere – o imporre – proprio nessuno.

Islam, Sgarbi attacca il Salone del Libro: "E gli antifascisti cosa dicono?" Dopo la censura di AltaForte, Sgarbi smaschera il doppiopesismo del Salone: "Nulla da dire sullo stand degli Emirati?" Sergio Rame, Domenica 12/05/2019, su Il Giornale. "Gli antifascisti della domenica su questo non hanno nulla da dire?". Con un post su Facebook Vittorio Sgarbi smaschera tutta l'ipocrisia del Salone del Libro di Torino che da una parte censura l'editore AltaForte e dall'altra chiude entrambi gli occhi sulla presenza degli Emirati Arabi, "con uno stand generosamente collocato all'ingresso", nonostante le torture, i maltrattamenti, le esecuzioni capitali e le discriminazioni siano all'ordine del giorno. "Il vero scandalo del Salone - scrive il critico d'arte - non è il libro-intervista di Chiara Giannini al ministro Salvini". Sharjah, uno dei sette emirati che compongono gli Emirati Arabi Uniti, è il paese ospite d'onore al Salone Internazionale del Libro di quest'anno. Nominata dall'Unesco Capitale mondiale del libro 2019, l'omonima città ha portato ha presentato in questi giorni 57 titoli tradotti per la prima volta dall'arabo all'italiano. Ma, dopo la polemica con Francesco Polacchi, cacciato dal Lingotto per essersi proclamato "fascista" e aver additato l'antifascismo come "vero male di questo Paese", e la conseguente censura di Io sono Matteo Salvini, il libro-intervista di Chiara Giannini, la presenza di quello stand finisce per smascherare il doppiopesismo del Salone del Libro. Perché, oltre a coccolare gli estremisti rossi, ecco che si inchina a un Paese in cui vige la pena di morte, le donne vengono discriminate e maltrattate e i reclusi vengono torturati e condannati. A sollevare la polemica, proprio mentre la kermesse di Torino chiude i battenti, è stato Sgarbi che, condividendo il rapporto annuale di Amnesty International, ha accusato apertamente gli organizzatori e punzecchiato "gli antifascisti della domenica" che solo ieri cantavano Bella ciao per mettere a tacere la Giannini. "Il vero scandalo del Salone non è il libro-intervista di Chiara Giannini al ministro Salvini, edito da Altaforte Edizioni, ma la presenza degli Emirati Arabi", attacca Sgarbi facendo notare su Facebook che gli organizzatori hanno garantito al Paese sunnita "uno stand generosamente collocato all'ingresso" del Lingotto. Lì, ha ricordato il critico d'arte, "vige ancora la pena di morte" e "avvengono gravi violazioni dei diritti umani". "Gli antifascisti della domenica su questo non hanno nulla da dire?".

SILENZIO, PARLA GIAN ARTURO FERRARI, DELL’EDITORIA ITALIANA. Maurizio Caverzan per “la Verità” il 12 maggio 2019. Libri ovunque, naturalmente. Alle pareti, sui tavoli e sulle madie. Nell' attico di Casa Rustici in corso Sempione a Milano, vive Gian Arturo Ferrari, gran signore dell' editoria italiana. «Anche se ritengo che il libro sia la più importante invenzione dell' uomo», premette, «io non sono un bibliofilo. Certo, ne possiedo di antichi, questa è una cinquecentina di Manuzio e mi piace... Ma soprattutto m' interessa quello che c' è scritto dentro. La lettura è come una droga, quando ne scopri il segreto non smetti più». Nato a Pavia, storico direttore generale di Mondadori, autore della voce Libro nella prestigiosa collana dei Sampietrini di Bollati Boringhieri, Ferrari ha calcato anche le stanze di Rizzoli, Einaudi, Electa, Sperling & Kupfer, Piemme. Ora, a settantacinque anni portati senza il sussiego proverbiale di molti intellettuali, si gode la splendida abitazione progettata da Giuseppe Terragni, massimo esponente italiano dell' architettura razionalista. E soprattutto si diverte. Come quando impreziosisce Dago in the Sky di Roberto D' Agostino o scruta con disincanto il polverone che avvolge il Salone del libro di Torino.

Che idea se n' è fatto? Con Francesco Polacchi, editore di Altaforte vicino a Casapound, indagato per apologia di fascismo e lo stand espulso è tutto a posto e niente in ordine?

«In questi giorni mi è tornato alla mente un episodio di gioventù. Era il 1975 e alla Fiera di Francoforte l' editore Giuseppe Ciarrapico aveva proposto una ristampa anastatica di Signal, la rivista delle Ss italiane. Noi smaniavamo nell' onda lunga del Sessantotto e la Germania era un paese conservatore. Con alcuni amici organizzammo una chiassosa protesta, salvo scoprire una quindicina di anni dopo con stupore che Ciarrapico era diventato grande amico di Carlo Caracciolo, editore dell' Espresso e di Repubblica, e mediatore nella spartizione di Mondadori. Perciò, chissà, non escludo che tra qualche anno anche questo Polacchi possa avere un futuro nell' establishment. La nostra Italia è un paese di sorprese e trasformismi».

La levata di scudi contro Altaforte è giustificata o è un eccesso d' intransigenza ideologica?

«Forse è anche il desiderio dei protagonisti di mettersi in evidenza. Personalmente, ritengo che la libertà di espressione non sia negoziabile, esattamente come il non uccidere. Mi sembra evidente che questa querelle sia nata dalla pubblicazione del libro intervista a Matteo Salvini. Tutti i politici hanno fatto libri di interviste. Anche gli ex brigatisti rossi li hanno fatti. Il Salone del libro di Torino è una manifestazione importante e prestigiosa e l' editore si è proclamato fascista. Ma partecipare a una fiera non è una decorazione al merito della Repubblica italiana: si paga per avere uno stand».

La vera causa di tutto è il libro di Salvini?

«Quest' ondata d' indignazione ha illuminato un editore sconosciuto. Finora chi conosceva questa piccola editrice? Di solito i libri dei politici vendono poco, magari stavolta no. Se non produrrà vendite clamorose sarà solo perché in maggioranza i lettori italiani dissentono dalle opinioni di Salvini. Alle europee si prevede che la Lega conquisti la maggioranza relativa, è comprensibile che catalizzi tanta ostilità».

Altaforte c'è da un anno circa, il nome nasce da una sestina di Ezra Pound.

«In Italia ci sono parecchie case editrici orientate a destra, altrettante a sinistra e, in passato, anche, pericolosamente, all' estrema sinistra. Fortunatamente ognuno può pubblicare ciò che vuole. Vogliamo discutere Ezra Pound, uno dei maggiori poeti del Novecento, mentore di Thomas Stearns Eliot? Sì, era un fascista un po' come Fernand Céline, addirittura nazista. Saremmo tutti contenti se la qualità artistica coincidesse con quella morale. Spesso non è così».

Chi esce peggio da questa vicenda?

«Mi ha stupito in negativo l' intervento del Comune di Torino e della Regione Piemonte. Non capisco perché le autorità pubbliche debbano stabilire i criteri di ammissibilità degli editori che pagano per esporre i propri libri».

Regione e Comune sono tra i fondatori del Salone.

«Sono favorevole alla distinzione dei ruoli. La sfera morale appartiene solo alla coscienza dei singoli».

L'aut aut posto da Halina Birenbaum, la scrittrice ebrea superstite del lager, ripropone il tema dell' intangibilità della vittima le cui condizioni sono sempre incontestabili e vincenti?

«Io sono un cultore dell' Olocausto. In Rizzoli ho pubblicato il testo di Shoah, il documentario capolavoro di 9 ore di Claude Landzmann sui campi di sterminio in Polonia. Poi l' ho ripubblicato con il dvd da Einaudi. Ho letto quasi tutto sull' argomento, pochi giorni fa ero ad Auschwitz e non per la prima volta. Era comprensibilissimo che la scrittrice deportata non volesse vedere persone che si dichiarano fasciste ed era un suo sacrosanto diritto non partecipare».

L'Olocausto giustifica la censura?

«L' Olocausto è qualcosa da meditare due o tre volte al giorno per capire che cosa gli uomini possono arrivare a fare. Tuttavia, deploro che il potere politico si erga ad arbitro, non credo sia suo compito».

Hanno sostenuto la tesi della censura giusta.

«È un'idea che c' è sempre stata. La civiltà moderna è nata proprio contro questo. Giuste o sbagliate: tutte le censure sono censure tout court. Poi ci possono essere delle questioni di coscienza. Per esempio, un libro che elogia la pedofilia Ma se si censura, allora dovremmo bruciare anche Lolita di Vladimir Nabokov».

Cosa pensa dell' idea di un codice etico che vagli i partecipanti al Salone?

«Spero proprio di no. Chi decide? Chi è il tribunale titolato a giudicare in caso di controversie?».

Gli editori «salonabili» dovrebbero essere graditi agli intellettuali giusti.

«Allora la stessa cosa dovrebbe valere anche per i festival cinematografici e per ogni altra manifestazione di cultura. Non scherziamo. Questa povera sinistra culturale si trova a vivere in un Paese in cui la maggioranza dell' opinione pubblica non la segue più e prova a difendere la propria roccaforte. La vaccinazione morale è un' assurdità. Siamo prontissimi a difendere la libertà d' espressione quando si tratta della nostra, mentre invece va difesa quando riguarda le opinioni a noi avverse».

Stavolta il soggetto censurato ha fatto apologia di fascismo.

«Non è che nel 1945 i fascisti siano spariti. Quello che la Costituzione soprattutto impedisce è la ricostituzione del partito fascista. Per molto tempo qualcuno ha ritenuto che il Msi fosse fuorilegge, dopo di che la Dc decise di non accanirsi. In Germania si è scelta una linea più rigida, con risultati da verificare. Io non sono un giurista e preferisco l' ironia al muro contro muro. La scena dei Blues Brothers in cui John Belushi e il suo socio si lanciano in macchina contro un gruppo di fanatici inneggianti al Führer, procurando loro un bagno fuori programma, mi diverte sempre».

Nel nostro milieu intellettuale pochi possiedono l' arte dello sberleffo dei Blues Brothers. In passato non senza una certa dose di cinismo sono stati pubblicati I Diari di Mussolini «veri o presunti».

«Erano falsi, usiamo le parole nel loro significato. Li rifiutai nonostante le molte pressioni. Gli storici a cui li feci analizzare ne dimostrarono la falsità. La prova regina era il divario cadenzato tra il giorno delle udienze a Palazzo Venezia e quello in cui ne dava notizia Il Popolo d' Italia. Nel diario erano sempre annotate le date della pubblicazione sul giornale».

Il complesso di superiorità di un certo mondo intellettuale è una forma di razzismo culturale?

«Questo era vero 30 o 40 anni fa. La sinistra ha egemonizzato la cultura italiana fino agli anni Ottanta. Oggi sono rimasti solo i brandelli di quel glorioso manto. Certo, provano a stenderlo di nuovo, ma con scarso successo».

Ha mai pubblicato o fatto pubblicare un libro maledetto?

«Quand' ero in Mondadori, unici editori al mondo, pubblicammo i Versetti satanici di Salman Rushdie dopo la fatwa dell' ayatollah Khomeini. Io e altri dirigenti girammo con la scorta per sei mesi. Una parte degli intellettuali criticò la nostra decisione sottolineando che ogni civiltà ha i propri valori, di fatto difendendo le posizioni del regime iraniano. Anche le polemiche per il Libro nero del comunismo furono accese. Molti asserirono che era stato Silvio Berlusconi a volerlo. In realtà, insieme con il capo della saggistica Marco Vigevani lo acquistammo da un editore francese in un corridoio della Fiera di Francoforte. Berlusconi non c' entrava niente. Pensavamo solo che avrebbe venduto molto. Se nel caso di Rushdie, tra i dubbi di molti dirigenti, fu Carlo De Benedetti a darci una mano a stamparlo, nel caso del Libro nero del comunismo quando fummo attaccati, ci difese Berlusconi, ben contento di farlo».

Secondo Augusto Del Noce, diventando una religione l' antifascismo ha trasformato il fascismo nel demonio moderno, da qui la sua inafferrabilità e onnipresenza, anche fasulla. Fascismo eterno di Umberto Eco ne ha confermato il carattere soprannaturale. È il nemico necessario per ricompattare la sinistra?

«Il fascismo è la maggiore invenzione politica italiana dell' età moderna. Non a caso Adolf Hitler nutriva grande ammirazione per Mussolini. Prese il potere nel 1922 come risposta alla rivoluzione bolscevica del 1917. Il nazismo, arrivato nel 1933, ha aggiunto l' elemento darwinista della superiorità ariana alla guerra tra comunismo e capitalismo. Gli italiani hanno il copyright mondiale del fascismo, da qui l' ipersensibilità della sinistra sull' argomento. In Germania il nazismo è sepolto, in Italia il fascismo potrebbe tornare. Additarlo, anche dove non c' è, è un' efficace scorciatoia per ricoagulare le stanche truppe dei suoi antagonisti storici».

Altaforte, dai tagliatori di teste del Borneo a quelli nostrani, quant’è breve il passo degli antifascisti. Paolo Lami domenica 12 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. Un paio di sere fa, sul treno diretto a Pietra Ligure, fra una chiacchiera e l’altra con gli occasionali compagni di viaggio, spunta un ricercatore, Luca, un ragazzo pacato e dal viso pulito che racconta, con grande trascinante passione ma anche con umiltà e ritrosia – solo perché sollecitato dalle insistenti domande – il suo straordinario e oscuro lavoro. Lo ascoltiamo con interesse e curiosità mentre si addentra in termini complessi conducendoci per mano in un mondo affascinante. Si occupa di ricerche sul cervello. Vive e lavora a Firenze. E, ogni tanto, prende il treno per tornare a trovare i genitori – papà ferroviere, mamma casalinga – un paio di volte al mese, in Liguria. Gli domandiamo perché non si trasferisce all’estero dove i ricercatori italiani sono così apprezzati e, anche, ben più pagati e valorizzati che in Italia. Risponde con candore lasciandoci di stucco: “Amo questo Paese, amo l’Italia. Voglio restare qua”. Poteva risponderci in mille modi. Anche dirci che qui si trova comodo. No, ci ha risposto proprio così, in maniera commovente: “Amo questo Paese, amo l’Italia”. Anche la bigliettaia, giunta nel frattempo, in questo scompartimento mezzo vuoto del regionale Genova–Pietra Ligure che affetta la notte e la pioggia sferragliando fra il mare e la montagna, si ferma estasiata e sorridente di fronte a questa ingenua e spontanea dichiarazione d’amore che ha sorpreso tutti. Ma è la sera delle sorprese, per fortuna. Da un posto alla fine della carrozza si alza una ragazza piccolina, che non avevamo visto. Dice, mentre si appresta a scendere alla prossima fermata: “Voglio dire una cosa. Ho ascoltato tutto. Anch’io sono una ricercatrice, ho lavorato per due anni in Olanda. Ho deciso di tornare in Italia definitivamente. Come si vive qui non si vive da nessun altra parte”. Ripenso a tutta questa scena surreale e in qualche maniera dolcemente struggente mentre leggo, sul Fatto Quotidiano, l’articolessa di un’antropologa, anch’essa  ricercatrice – di cui non facciamo il nome perché non merita alcuna pubblicità – che, arrampicandosi sugli specchi scivolosi dell’antifascismo, spiega perché è giusto che dal Salone del Libro di Torino siano stati cacciati con sdegno l’editore Altaforte, i suoi scrittori e, in particolare, la giornalista e scrittrice Chiara Giannini, autrice del libro-intervista a Matteo Salvini. L’antropologa antifascista, racconta di aver viaggiato in mezzo mondo – Iran, Cina, Borneo, etc. etc. – e cita la sua esperienza fra i “regimi” più oscurantisti agitandola sotto il naso dei lettori come fosse una patente che le dà diritto di pontificare e dividere, ad accettate, i buoni dai cattivi, i sinceri democratici, degni di sfilare con la loro inutile paccottiglia antifascista al Salone del Libro, dai paria che non hanno alcun diritto, tantomeno quello di parlare e perfino di pensare, tantomeno ad alta voce. Invece di fare l’antropologa, si improvvisa prima costituzionalista – in Italia ci sono 60 milioni di tecnici di calcio, nessuno si stupirà, avrà forse pensato, se un’antropologa si veste un attimino da costituzionalista per giustificare una odiosa e vergognosa censura – e, poi, fine penalista per dare supporto “legale” all’azione censoria contro Altaforte in nome della legge Scelba. E si spinge a sostenere che sì, insomma, è giusto così, è giusto togliere la parola e mettere all’indice le idee e il diritto alla parola degli altri non graditi come l’editore Altaforte perché “la libertà d’espressione finisce quando attacca i principi della Costituzione” e perché se è vero che “i nostri padri Costituenti hanno voluto garantire la libertà di espressione, difendendola quale fondamento della democrazia, anche a costo del pericolo di diffamazione o di espressione di pensieri estremi…altresì ci stiamo rendendo conto che questa “estrema libertà” potrebbe portare a estremismi pericolosi e preoccupanti, soprattutto qualora non vengano controllati”. Ovviamente il controllo, per questa gente, non lo svolge la magistratura o le forze di polizia, come funziona, normalmente, in uno Stato democratico, ma questi nostrani severi e accigliati “Guardiani della Religione Antifascista”, questi intellettuali–pāsdārān in servizio permanente effettivo pronti a insorgere, a sdegnarsi, a cacciare i diversi, a tappare la bocca a chi non la pensa come loro. In nome della democrazia, naturalmente. Uno spericolato esercizio  secondo il quale scrivere, pubblicare, come fa Altaforte, o promuovere un libro–intervista su Matteo Salvini – ministro della Repubblica italiana eletto in Parlamento attraverso una libera e democratica elezione –  rappresenta un attacco alla Costituzione. Sul suo profilo l’antropologa–costituzionalista spiega di aver svolto (in qualità di antropologa e non di costituzionalista, stavolta) “una ricerca inedita presso i tagliatori di teste del Borneo”. Forse è lì che ha imparato a tagliare teste. E, con le teste, anche le idee e i cervelli che le contengono. Fra tanti ricercatori, i cosiddetti “cervelli in fuga”, c’è chi resta qui, come Luca, perché ama questo Paese. E chi ritorna e, forse, era meglio che restava all’estero. Magari proprio in mezzo ai tagliatori di teste del Borneo.

Cari ragazzi, il libro che vi farà amare la politica ve lo consigliano i nostri lettori (comunisti nda).

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Antonio Tabucchi ed Elsa Morante. Machiavelli e Harry Potter. Dopo saggi e romanzi consigliati dagli intellettuali per coltivare una coscienza civile, la parola a chi ha risposto all'invito dell'Espresso, scrive Angiola Codacci-Pisanelli il 16 gennaio 2019 su "L'Espresso". Quali letture possono aiutare i diciottenni ad affrontare le urne per la prima volta? Qualche tempo fa lo abbiamo chiesto a intellettuali, filosofi, scrittori. Ne è nata un'inchiesta che ha avuto un grande seguito. E che si chiudeva lanciando una sfida ai nostri lettori: fateci sapere quale libro consigliereste voi! Andare a rintracciare tutti i commenti scaturiti da un articolo che è stato straconsigliato e stracondiviso in rete sarebbe impossibile. Però una ricerca abbiamo provato a farla. Abbiamo raccolto una quantità di consigli interessanti. Ne giriamo una selezione ai nostri lettori più giovani. E non solo a loro... "La strada" e "Un eroe borghese". Ma anche Arendt e Bassani, migrazioni e femminismo. Abbiamo chiesto a intellettuali e scrittori quali letture preparano meglio all'impegno civile. Per i diciottenni e per i loro professori. Con una domanda finale: e voi quale libro consigliereste?

Vanno per la maggiore i grandi classici del pensiero politico. Silvia De Marchi cita " La Repubblica " di Platone: «Ma anche "Intellettuale ad Auschwitz"di Jean Améry, che ci ricorda cosa avviene quando le persone sono svuotate della loro dignità e umanità». Alberto Zambonelli è tranchant: «Basta leggere il "Critone" di Platone. Poche pagine ed in 45 minuti si capisce il senso della democrazia, del rispetto delle leggi ed il potere usato in forma legittima. Per il resto della vita».

Xantia Melandro (bel nome o bellissimo pseudonimo!) consiglia "Il Principe" di Niccolò Machiavelli: «Resta una vera pietra miliare per la politica, soprattutto quella italiana e soprattutto per la conseguente accezione psichiatrica di "macchiavellismo" di cui sono degnissimi esempi i politici italiani dal dopoguerra ad oggi». Anna Rita Melis invece si dice «stupita dal fatto che non si citi Antonio Gramsci, fortunatamente letto studiato e approfondito in molte scuole».

I saggi vanno per la maggiore - Massimiliano Verrocchi consiglia tutto Noam Chomsky - e tra i romanzi il più citato è "Sostiene Pereira" di Antonio Tabucchi: Filomena Meile Loizzi racconta che «per mia esperienza personale di insegnante, questo libro piace molto ai giovani liceali e li spinge all’impegno civile e politico». Claudio Caramadre invece raccomanda "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «Lasciate perdere le distopie», raccomanda ai diciottenni, «quelle le leggerete subito dopo».

Agli adolescenti Annalisa Tasinato consiglia "Il sangue della speranza" di Samuel Pisar, «storia di un gruppo di ragazzini ebrei che all'interno di un campo di concentramento per sopravvivere ricorrono a mille sotterfugi, anche illegali. Aiuta a comprendere perché molti profughi "clandestini" debbano arrangiarsi non avendo altra possibilità per restare in Italia». E Sabina Vannucchi si chiede: «E "La Storia" di Elsa Moranteno?».

Intorno ad alcuni titoli sono nate discussioni: ad Antonvilla che consigliava "Il Manifesto" di Carl Marx e Frederich Engels, L'Insolente ha ribattuto citando «il poeta, saggista e scrittore Ezra Loomis Pound. Leggeteli entrambi per farvi un'idea propria oltre che una cultura di base, almeno in questi tempi».

Matteo Torriglia invece bacchetta i consulenti del giornale in nome della lettura avvincente: «Ma chi è il diciassettenne che si impegna nella lettura de "Il Secolo Breve" o di un qualunque saggio filosofico o politico? Bisogna consigliare libri scritti in maniera semplice, veloci, semplici da leggere e al contempo carichi di significato. Libri di avventure, coinvolgenti, che sappiano inchiodare al libro anche chi non ha mai letto. Altrimenti come puoi coinvolgere un ragazzo? In questo senso"1984" di George Orwell mi pare il consiglio più azzeccato. Un libro che non ti fa respirare per tutta la sua durata, che mentre lo leggi non ti fa pensare ad altro, che mostra in maniera evidente le devastazioni che una società autoritaria comporta».

Tra tanti consigli, anche qualcuno di "addetti ai lavori". Vanessa Roghi, storica e documentarista che a Don Milani ha dedicato un libro, consiglia «"Lettera a una professoressa", che mi colpisce non abbia suggerito nessuno. Un libro scritto da ragazzi». Rosa Matteucci, scrittrice e collaboratrice dell'Espresso, rimanda a "Se questo è un uomo". Mantre Angela Scarparo di fronte al nome di McCarthy - l'autore de "La strada" consigliato nell'inchiesta da Roberto Esposito - commenta: «Speravo che fosse Mary McCarthy, che ha scritto anche di politica!».

Un libro qualsiasi, ogni libro va bene, perché ogni lettura spinge a pensare, commentano Andrea Carrieri («Sarebbe già buono solo il leggere») e Pietro Bizzarro: «Oggi qualcuno mi ha ricordato che la libertà di informazione che viviamo, potendo accedere a qualsiasi contenuto ogni giorno, è in realtà limitata dall’algoritmo che decide, in base alle mie preferenze, quali notizie mostrarmi e quali no. Per questo prendete un libro, in questo sarete sempre liberi di scegliere».

C'è chi cita il titolo come in una bibliografia (Percy A.Allum,"Anatomia Di Una Repubblica. Potere E Istituzioni in Italia", Milano, Feltrinelli, 1976», detta Edoardo Campolo) e chi la butta sul ridere: «Leggete Harry Potter: non si sa mai che diventiate dei maghi, così potrete salvare l'Italia. Buona fortuna», scrive Andrea Scalabrini.

E c'è anche chi risponde in rima: il twitter-poeta che si nasconde dietro il nom-de-plume di Lapo Calissi, che così commenta la nostra inchiesta: «Già il titolo, vi dirò, mi rincuora / ché alla faccia del nostro pessimismo / voi affermate che voteremo ancora».

Cari ragazzi, ecco cosa leggere per imparare ad amare la politica vera. (Consiglio che viene dalla sinistra nda). "La strada" e "Un eroe borghese". Ma anche Arendt e Bassani, migrazioni e femminismo. Abbiamo chiesto a intellettuali e scrittori quali letture preparano meglio all'impegno civile. Per i diciottenni e per i loro professori. Con una domanda finale: e voi quale libro consigliereste? Scrive Angiola Codacci-Pisanelli il 22 ottobre 2018 su "L'Espresso". Se un mattino d’autunno un ragazzo alla soglia del diciotto anni chiedesse un consiglio su cosa leggere per farsi un’idea della politica? Se, con l'aiuto di un professore illuminato, decidesse di mirare le sue letture scolastiche alla preparazione del primo appuntamento elettorale? Se cercasse rinforzi per non lasciarsi travolgere dalle bufere politiche quotidiane, che saranno pure tempeste in un bicchier d'acqua ma possono demotivare chi ancora non è stato chiamato alle urne? La sua domanda l’Espresso l’ha girata a scrittori, storici, intellettuali. Che hanno risposto con entusiasmo. Accettando la sfida di indicare a un elettore di domani qualche bussola per orientarsi nel mondo della politica. Non solo saggi, ma anche romanzi e racconti che raccontino la “res publica”. Che facciano venire voglia di impegnarsi in politica. O almeno di non rispondere con l’astensione al primo appuntamento con una scheda elettorale. Ne è venuta fuori una biblioteca invidiabile, che ha molto da consigliare anche a lettori adulti, veterani del voto ormai sfiduciati dalla vita pubblica. E un pantheon degli autori di riferimento che va da Altiero Spinelli a Stefano Rodotà, da Norberto Bobbio a Gitta Sereny. Ma anche grandi romanzieri come Primo Levi e Cormac McCarthy, George Orwell e Giorgio Bassani. Solo un libro è stato indicato due volte, quello, uscito postumo, di Alessandro Leogrande. Un onore, quello della doppia citazione, che il compianto giornalista tarantino condivide con due grandissimi: Hannah Arendt e Altiero Spinelli, anche loro citati due volte, ma per due libri diversi.

Il primo a consigliare “Dalle macerie” di Leogrande (Feltrinelli) è lo storico Adriano Prosperi, che in queste “Cronache sul fronte meridionale” trova «un buon esempio di impegno umano e quindi in senso ampio politico. Lo segnalerei ai giovani lettori per il modo in cui racconta esperienze dal vivo di migranti». Luigi Manconi invece lo consiglia «per capire che i confini sono tracciati dagli uomini affinché gli uomini possano superarli». Un motivo simile a quello per cui l’ex parlamentare sceglie “I sommersi e i salvati” di Primo Levi (Einaudi): «Levi ci esorta a lottare perché ciò che chiama materia umana - gli esseri viventi - mai venga ridotta a mera materia».

Per il resto, Prosperi trova che segnalare a un giovane un libro “politico” sia «una sfida davvero difficile, perché vedo una tale estraneità verso la politica negli italiani di tutte le generazioni...». C’è anche un problema pratico: «Parlare di politica senza aver studiato la storia del Novecento, che un ragazzo di 17 anni a scuola non ha ancora affrontato, è davvero difficile. Per questo gli consiglierei di partire da “Il secolo breve”».

Il saggio di Eric Hobsbawm, che certo breve non è (700 pagine nella traduzione pubblicata da Rizzoli), permette al giovane lettore di farsi un’idea del Novecento. Una base da completare con “Vivere la democrazia” di Stefano Rodotà(Laterza): «Una raccolta in cui si riassume tutto l’arco del suo impegno, dalle battaglie per i diritti civili ai problemi posti dall’attuale epoca dell’informatica». Ritorna al tema dei diritti civili il consiglio di narrativa: “Gli occhiali d’oro” di Giorgio Bassani (Feltrinelli), «perché racconta un uomo che, come omosessuale e come ebreo, sotto il fascismo soffre di una doppia discriminazione».

Per orientarsi nella politica bisogna conoscere la storia: è d’accordo con Prosperi Dacia Maraini, che per i suoi consigli però alla saggistica preferisce la narrativa, e sceglie «tre libri bellissimi, tre volumi da leggere con piacere che consiglierei a tutti, non solo ai diciassettenni». Si parte dal passato recente con “Un eroe borghese” di Corrado Staiano (Il Saggiatore): la storia di Giorgio Ambrosoli, l’avvocato liquidatore della banca di Michele Sindona che rifiutò di obbedire ai ricatti di mafia e politica e venne ucciso, «fa vedere come la criminalità organizzata possa infiltrarsi fino ai massimi livelli delle istituzioni».

Si passa a Gitta Sereny, «una scrittrice meravigliosa», per farsi raccontare la Shoah come un caso di cronaca: “In quella tenebra” (Adelphi), che racconta il comandante di Treblinka per ricostruire come siano nati i campi di sterminio e come molti responsabili siano riusciti a fuggire grazie a complicità insospettabili, «non è solo una testimonianza storica ma è il racconto di una scrittrice straordinaria». Per finire si risale al Risorgimento con Maria Attanasio, che nella “Ragazza di Marsiglia” (Sellerio) «riscopre la storia dimenticata dell’unica donna che partecipò alla spedizione dei Mille. Rosalia Montmasson si sposò con Francesco Crispi ma quando lui fece carriera si vergognò di avere sposato una popolana, la abbandonò dicendo che il matrimonio non era valido, e lei finì nel dimenticatoio».

Dalla storia alla cronaca, da una personaggio fondamentale dell’Europa a una polemica che tiene banco da mesi dagli Stati Uniti al resto del mondo: Helena Janeczek consiglia “Come ho tentato di diventare saggio” di Altiero Spinelli (Il Mulino) ma anche “Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschile” di Rebecca Solnit (Ponte alle Grazie). «L’autobiografia di Spinelli è un volumone che si legge con piacere e che riporta alle radici dell’idea di Europa unita. Il pamphlet di Rebecca Solnit invece parte da un problema che non riguarda solo gli Stati Uniti: quello che le americane chiamano “mansplaining”, cioè l’insopportabile tendenza maschile a spiegare in modo paternalistico a una donna anche cose che lei sa meglio di lui. E partendo da qui mette a fuoco in modo nuovo diverse questioni che riguardano la differenza e il rispetto tra uomini e donne, cioè il nuovo femminismo».

Per Valeria Parrella invece «chi vuole farsi un’idea di come avvicinarsi alla politica deve passare per la filosofia morale. Per questo consiglio due libri scritti quando si stava configurando un nuovo ordine politico del mondo: “Le origini del totalitarismo” di Hannah Arendt e “il principio responsabilità” di Hans Jonas», (tutti e due nella Piccola Biblioteca Einaudi). «Certo sono libri pesanti», ammette la scrittrice napoletana, «ma soprattutto quello della Arendt si legge con passione perché è scritto con il cuore. Racconta una pagina che oggi è importante ricordare, e cioè come il totalitarismo nasce con l’idea che l’altro non esiste, nasce dalla caccia all’ebreo, al rom, al diverso». Il libro di Jonas invece «articola la struttura che porta dal singolo all’istituzione, dal padre di famiglia – e quindi anche dalla madre di famiglia al Capo dello stato fino a Dio, parlando come se esistesse...».

Non filosofia morale ma “narrazione morale” è un punto importante nei consigli di Massimo Bray, direttore generale della Treccani. I suoi consigli sono “Guasto è il mondo di Tony Judt (Laterza) e “Il libro del potere” di Simone Weil (Chiarelettere). «Scelgo Judt perché in questo libro analizza con grande lucidità le illusioni e le gravi conseguenze del capitalismo finanziario e della globalizzazione. Per superare queste situazioni occorre cambiare punto di vista, pensare un modello di società più equa, elaborare una “narrazione morale”. Dobbiamo provare a interpretare il mondo con occhi nuovi e impegnarci a cambiarlo».

Un libro che spinge a fare, impegnarsi concretamente nella vita pubblica, insomma. Mentre il libro della Weil chiarisce cosa non fare, mai: accettare la violenza: «Nei tre saggi si sottolinea il rifiuto della forza e della violenza nella gestione della cosa pubblica, il valore del radicalismo per superare situazioni di ingiustizia, la ricerca di un linguaggio politico differente, condizioni necessarie per dare un futuro al mondo e un significato alla propria esistenza».

«Quando avevo diciassette anni c’erano due grandi questioni mondiali che sembravano impossibili da risolvere», ricorda Giuseppe Antonelli, «il conflitto arabo-israeliano e l’apartheid in Sudafrica. I problemi in Palestina in effetti sono ancora lì, ma il Sudafrica ha chiuso quella pagina, e lo ha fatto senza un bagno di sangue. Per questo consiglio di leggere l’autobiografia di Nelson Mandela, un libro che racconta una parabola umana e politica che riempie di entusiasmo». Accanto a “Lungo cammino verso la libertà” (Feltrinelli), lo storico della lingua mette «una distopia e un’utopia, “1984” e “Il manifesto di Ventotene” di Altiero Spinelli».

Il romanzo di George Orwell (Mondadori) «mostra i pericoli del totalitarismo, il modo in cui si impone un pensiero unico, e quindi mi sembra adatto per svegliare nei ragazzi la voglia di resistenza. A me che sono uno storico della lingua, poi, sta particolarmente a cuore perché la propaganda passa attraverso una ristrutturazione della lingua, l’imposizione della famigerata “neolingua”. E cono cose che stiamo vivendo ora, in Italia e nel mondo, anche se con tutt’altre modalità». Il libro di Spinelli (edito da Mondadori) invece è una lettura importante «perché è pieno di entusiasmo, e della fede in un’utopia che nasce dall’antifascismo e sogna un futuro che supera gli egoismi nazionali che oggi stanno riprendendo piede».

Anche Michela Marzano per i suoi consigli è andata a ripescare una lettura che è stata importante per lei: «Mi è subito tornato in mente “Fontamara”, che ho letto a quindici anni ed è stato importantissimo per me. Mi ha fatto sentire molto meglio di libri di storia e documentari la necessità di impegnarsi perché cose come quelle non accadano più. È una storia ambientata negli anni del Fascismo, ma ancora oggi mi sembra una buona lettura da fare nel momento in cui nei ragazzi si forma una coscienza critica. E poi è raccontata benissimo da un grande scrittore oggi dimenticato».

Se per scegliere il romanzo di Ignazio Silone (Mondadori) Michela Marzano ha ripensato a sé, per il secondo titolo si ispira ai suoi studenti: «Ai miei studenti del primo anno alla Sorbona faccio leggere “Destra e sinistra” di Norberto Bobbio (pubblicato da Donzelli, n.d.r.). In un momento in cui, in Francia come in Italia, tutte le politiche sembrano uguali in una confusione generale che porta al populismo e al qualunquismo, è importante spiegare che invece le differenze esistono e che ogni scelta politica ha una matrice ideologica: favorire i ceti privilegiati è una politica di destra, avere a cuore la giustizia sociale e l’uguaglianza è di sinistra».

Anche Massimo Cacciari resta in ambito universitario con due saggi, uno più divulgativo l’altro più impegnativo: “Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale” di Vittorio Emanuele Parsi (il Mulino), «è una rassegna delle varie situazioni internazionali e un quadro del mutamento degli equilibri politici interpretati alla luce della fine di un’epoca, quella del welfare, della socialdemocrazia». “Persone e mondi” di Angelo Panebianco (il Mulino) «è un testo che propone tesi che stimolano la discussione e può orientare bene un giovane lettore rispetto alla situazione internazionale, evitando che resti inchiodato a discussioni sul governo attuale o sulla situazione politica italiana».

Roberto Esposito sceglie un testo di Hannah Arendt «un testo introduttivo dove fissa i concetti di base della sua interpretazione che vede della politica, che vede insieme discorso e azione». Ma trova anche un romanzo da consigliare: “La strada” di Cormac McCarthy (Einaudi): «Padre e figlio vagano in un mondo uscito da un disastro nucleare, un mondo di fantascienza spettrale infestato da bande di predoni, e devono ricominciare a vivere e riscoprire i fondamenti di una convivenza civile. Raffigura il mondo come sarebbe dopo una guerra, evenienza purtroppo sempre possibile, ma mostra anche su quali basi si costruisce una comunità».

Il destino della terra sta a cuore anche Carla Benedetti, che invita i giovani lettori ad alzare la testa dalla politica banale per aprirsi a pensare al futuro della terra. «Ho scelto due libri che danno una prospettiva più ampia sui rischi dei viventi, dei terrestri: il “Discorso sulle tre guerre mondiali” di Günther Andersh (il titolo è “I morti”, edizioni Medusa, n.d.r.) e “La grande cecità”, uscito da Neri Pozza: un saggio in cui Amitav Gosh, che è un grandissimo romanziere, si concentra sull’emergenza climatica».

Due titoli scelti per «allargare il campo, lasciando quello ristretto e poco interessante della politica italiana. Uscire dalla prospettiva piccola della politica egoistica odierna e allargare l’orizzonte a una politica dell’interesse del pianeta. Una politica che ancora non c’è, che è ancora tutta da costruire». Un domani che è giusto affidare ai diciassettenni di oggi.

·         «Attenti al fascismo degli antifascisti».

Il saggio di Rampini, l’errore della sinistra. Ha dimenticato i «penultimi». Pubblicato sabato, 01 giugno 2019 da Aldo Cazzullo su Corriere.it. Inesorabile, implacabile, ogni anno arriva l’appuntamento con la serata della consegna degli Oscar. L’attendo con ansia quando vedo che la data si avvicina. So già che cosa mi riserva. Tutti i media progressisti — americani, mondiali — quella sera danno il peggio di sé. Un’orgia di banalità politically correct, una discesa verso gli inferi dell’ipocrisia. Le star di Hollywood lo sanno benissimo, hanno imparato a manipolare la dabbenaggine dei commentatori. Ogni celebrity ha i suoi addetti alle relazioni esterne, che ne curano anche l’immagine “valoriale”; la passerella degli Oscar viene usata per mandare messaggi che provocano l’orgasmo dei media progressisti. Di volta in volta, l’attrice o l’attore verranno edotti dagli esperti di comunicazione, istruiti in anticipo. Bisogna sapere se quell’anno va più di moda il cambiamento climatico o il razzismo, gli immigrati o le molestie sessuali. La star deve avere bell’e pronto il suo discorsetto sugli orsi polari, o le violenze della polizia americana contro i neri, o gli abusi sulle donne (meglio se attrici), o il dramma dei morti annegati nel Mediterraneo...». «La notte della sinistra» (Mondadori, pagine 180, euro 16)È un Federico Rampini che non ti aspetti. Di solito, leggendo i suoi libri, si impara sempre qualcosa. È così anche questa volta (molto belle, ad esempio, le immagini su un Paese da oltre cento milioni di abitanti di cui non si parla mai, l’Etiopia). Ma La notte della sinistra (Mondadori) è anche un’invettiva. Con punte di amara ironia; come il passaggio sugli orsi polari interscambiabili con i bambini annegati, che torna in altre pagine del libro, come memento della spregiudicatezza delle star progressiste di Hollywood (e dei loro uffici stampa). È un libro di grande coraggio intellettuale. Qualcuno, in buona o in malafede, l’ha frainteso — o ha finto di fraintenderlo — e ha concluso: Rampini è diventato di destra. È vero il contrario. L’autore non rinnega la militanza giovanile, e neanche lo sguardo con cui ha seguito le vicende degli ultimi decenni, nei molti luoghi dove la vita e il mestiere l’hanno portato: la Bruxelles dell’Europa nascente, la Parigi di Mitterrand, la Milano di Mani Pulite, la San Francisco della new economy, la Pechino e la New Delhi del boom di Cindia, la New York di Obama e ora di Trump. Ma proprio per questo Rampini è giustamente indignato per quello che la sinistra è diventata. E per i suoi errori, che l’hanno portata a perdere il popolo. Pendere dalle labbra dei miliardari dello spettacolo — e dai padroni della rete che accumulano denaro e potere senza neppure pagare le tasse — è solo uno degli abbagli gauchisti che hanno spalancato le porte alla Brexit, a Trump, ai fenomeni che l’autore cerca di capire, rifiutando di liquidarli frettolosamente come «fascismo alle porte» e «peste nera». Perché a eleggere Trump sono stati gli operai bianchi del Michigan, della Pennsylvania, dell’Ohio che per due volte avevano eletto il primo presidente afroamericano della storia. «Razzisti anche loro?» si chiede Rampini. Federico Rampini (Genova, 1956), editorialista de «la Repubblica» Demonizzare l’avversario, ecco un altro errore. Tutto è colpa di Trump, pure il rischio dell’estinzione delle balene (almeno secondo Ian Buruma). E appena si scopre che non è stato Trump ma la polizia messicana a far scrivere un numero — in pennarello — sul braccio dei bambini alla frontiera, non è stato Trump ma Clinton ad avviare la costruzione del Muro, non è stato Trump ma Obama ad avviare la pratica orrenda di separare i figli dai genitori, ecco che l’argomento alla gran parte dei media non interessa più. Denunciare questo non significa essere trumpisti; al contrario, significa segnalare il pericolo che un grande comunicatore come Trump si avvalga dell’evidente parzialità del sistema dell’informazione, per dire agli elettori: vi stanno ingannando, loro sono l’élite, voi il popolo; e io sto con voi. Esattamente quel che è accaduto nella campagna elettorale del 2016, e sta accadendo ancora. Ma l’errore più grave della sinistra è stato non accorgersi che, preoccupata degli ultimi — per buon cuore o anche per autocompiacimento —, si stava scordando dei penultimi. Degli americani — e degli italiani — poveri. Degli operai che hanno perso il lavoro, o dei «nuovi operai», il commesso di Amazon, il centralinista dei call center, i giovani precari che si sentono e a volte sono davvero scavalcati da migranti arrivati clandestinamente e disposti a lavorare molto in cambio di poco, magari in nero; del resto, se sono entrati in un Paese violando le sue norme, perché dovrebbero rispettarle in seguito? Ricorda Rampini che i messicani o gli africani non sono certo venuti in America o in Italia per comprimere i diritti e i salari dei lavoratori; ma un’immigrazione senza controllo è destinata inevitabilmente a comprimere i diritti e i salari dei lavoratori. Non a caso i due presidenti-icona del progressismo del XX secolo, Franklin Delano Roosevelt e John Fitzgerald Kennedy, fecero una politica molto dura sull’immigrazione, chiudendo di fatto le frontiere; mentre i capitalismi d’assalto di frontiere non vogliono sentir parlare, perché hanno bisogno di manodopera a basso costo. Rampini fa giustizia di molti luoghi comuni. Non è più vero che «gli immigrati fanno i lavori che i nostri giovani non vogliono più fare». Non è vero neppure che «gli immigrati ci pagheranno le pensioni»; perché anche loro invecchieranno e avranno diritto a una pensione, ma a quel punto serviranno altri immigrati che lavorino per pagare la loro, e quindi se davvero la Social Security o l’Inps devono dipendere dalle migrazioni, allora le migrazioni devono continuare all’infinito. A chi abbia giovato, ad esempio, la carovana dall’Honduras messa in piedi da organizzazioni umanitarie come sfida a Trump, è evidente: ha giovato a Trump, che anche così ha salvato la maggioranza in Senato nelle elezioni del novembre 2018. Ma siamo sicuri che l’emigrazione giovi ai Paesi poveri? Certo che no. «Aiutarli a casa loro» non è una formula di destra, ricorda Rampini. E cita l’esempio del Malawi: metà dei medici formatisi nel Paese africano sono ora a Londra; questo agevola la sanità inglese e i suoi pazienti, ma distrugge la possibilità del Malawi di darsi un sistema sanitario efficiente.

LA VERSIONE DI MUGHINI. Dago spia il 2 giugno 2019. Caro Dago, tu lo sai che a me piacciono i libri che se ne stanno un po’ di lato, quei libri un po’ clandestini e un po’ maledetti, rarissimamente letti e rarissimamente citati. Ne sto leggendo uno, il “Compagno mitra” che Gianfranco Stella, un professore cattolico e ardentemente anticomunista (alle recenti elezioni europee s’era candidato nelle liste del partito di Giorgia Meloni) si è autoedito qualche mese fa e che nel frattempo è arrivato alla terza edizione. Più precisamente Stella da trent’anni ha puntato il mirino sulle tragedie della guerra civile italiana del 1943-1945, su cui ha scritto almeno quattro o cinque libri di cui si è enormemente giovato Giampaolo Pansa. Libri che Stella adopera come un’ascia da combattimento, tale è la sua avversione totale al “partigianato marxista” cui attribuisce una indomita e indomabile attitudine alla violenza e allo strazio dell’avversario. Né Stella attenua o camuffa di un etto questa avversione totale, assoluta. Di più: i suoi libri sono dei pamphlet prima ancora che delle documentatissime narrazioni. Libri dai quali è assente qualsiasi espediente letterario, com’è invece nei racconti del mio amico Pansa. Stella mette in fila crimini, massacri di intere famiglie, squartamenti di prigionieri, stupri collettivi di ausiliarie poi uccise con un colpo alla nuca. E nomi, nomi, nomi. I nomi dei morti assassinati innanzitutto, e poi i nomi degli assassini. Le loro foto, anzi. Di tutti gli assassini fa i nomi e cognomi, e quanti anni hanno fatto di galera, e le loro fughe in Cecoslovacchia protetti dal Partito comunista, e le grazie presidenziali di cui hanno goduto e le medaglie al valoro militare della Resistenza che talvolta sono state revocate dinnanzi a condanne nell’ordine dei vent’anni e passa, talvolta no. Fosse vero un decimo di quello che Stella racconta, questo libro non dovrebbe comunque mancare dagli scaffali di un cittadino repubblicano vorace della verità di quegli anni drammatici quale il sottoscritto. Altro che le testimonianze degli ex partigiani combattenti di cui vedo che la Rai sta approntando un programma. Il fatto è che le verità di quegli anni bruciano, e le rammemorazioni improntate all’antifascismo non ti ci portano vicino. Trent’anni fa, quando io ero ancora largamente nutrito da quelle rammemorazioni – e non che fossi un ragazzo ancora ignaro e acerbo, è che non sapevo molto dell’essenziale – mai avevo sentito il nome dei sette fratelli Govoni martoriati nei pressi di Argelato da una banda di partigiani comunisti l’11 maggio 1945, e ho detto partigiani e avrei dovuto dire invece delinquenti. Il loro nome me lo fece per la prima volta Giano Accame, un ex volontario della Repubblica sociale italiana, un intellettuale fra i più adamantini che io abbia mai conosciuto: il suo nome in Israele sta nel parco riservato ai “Giusti”. Nel discutere con lui io mettevo avanti la tragedia dei fratelli Cervi, come a dire la superiorità della parte politica che aveva avuto quei martiri. Giano mi replicò che la sua parte ne aveva di martiri similari, per l’appunto i sette fratelli Govoni. Aveva perfettamente ragione Giorgia Meloni, la quale pochi giorni fa (nell’anniversario del massacro) lamentava che il nome dei Govoni non esiste nei libri di storia, non viene fatto alle scolaresche, è tabù per le istituzioni e per i grandi media. Tabù. I sette fratelli Govoni non s’erano macchiati di alcuna azione infame. Nessuna. Due dei sette fratelli, Marino e Dino, erano stati convocati dal CLN subito dopo il 25 aprile e immediatamente rilasciati. L’11 maggio i partigiani della brigata garibaldina “Paolo”, gente non particolarmente ingombrata dall’uso dei guanti bianchi nei confronti dei loro avversari politici, sequestrò prima il fratello Marino, poi la sorella Ida e gli altri cinque fratelli. (Si salvò un’ottava sorella, Maria, che s’era maritata e viveva ad Argelato.) Il camion della morte andò via caricando altre dieci persone, fra cui un sottotenente di artiglieria dell’esercito italiano del sud, uno che aveva combattuto contro i tedeschi. Tutti e diciassette i sequestrati vennero rinchiusi nella casa colonica di un partigiano. Dove vennero massacrati a calci e a colpi di bastone e infine strangolati con il filo del telefono. Nessuna delle vittime morì per arma da fuoco. I corpi vennero ritrovati molti anni dopo, nel 1951. Il processo contro quei delinquenti camuffati da partigiani cominciò poco dopo a Bologna e si concluse nel 1953. Il commissario politico della brigata partigiana venne condannato all’ergastolo e così il vicecomandante della brigata e il partigiano che aveva guidato il sequestro. Riuscirono tutti a fuggire in Cecoslovacchia per poi usufruire delle numerose amnistie relative ai fatti di guerra del 1943-1945. Tornato in Italia, Vitaliano Bertuzzi, uno dei condannati all’ergastolo, ritrovò il suo lavoro di bigliettaio ai trasporti urbani di Bologna. Lo Stato italiano riconobbe ai genitori dei Govoni una pensione di settemila lire al mese, mille lire per ognuno dei figli assassinati. Mi auguro di sentirli alla Rai, prima o poi, questi fatti e questi nomi. O forse no?

Giampiero Mughini per dagospia il 6 giugno 2019.  Caro Dago, un tuo lettore ci scrive rammaricandosi di alcuni miei giudizi a proposito di uno degli episodi più efferati della guerra civile 1943-45. Quello dell’11 maggio 1945 dalle parti di Argelato, quando in una casa colonica vennero massacrati dai partigiani (che nel mio articolo definivo “delinquenti” prima che “partigiani”) diciassette civili fra cui i sette fratelli Govoni, tutti accusati di essere dei fascisti e colpevoli di non sono quali reati. Fra i morti c’era anche un ventenne che aveva combattuto dalla parte degli Alleati a Montecassino. Mai un elemento che attestasse la colpevolezza dei Govoni è venuto fuori in questi ottant’anni che ci separano dal massacro. Lo Stato italiano a un certo punto s’è sentito nel dovere di risarcire i genitori dei Govoni, ai quali venne concessa una pensione di settemila lire al mese, mille lire per ciascuno di quei ragazzi uccisi in modo bestiale.  I comandanti partigiani responsabili di quel massacro vennero tutti condannati a pene altissime, solo che riuscirono tutti a fuggire in Cecoslovacchia per poi usufruire delle successive e numerose amnistie relative ai fatti di guerra del 1943-45. Ebbene il tuo lettore ci scrive al modo di uno che sa bene di che cosa sta parlando, perché uno di quei comandanti partigiani lui lo conosceva bene: era suo zio. Altro che “delinquente”, scrive, era una bravissima persona. E io non dubito che lo fosse (anche se Gianfranco Stella, dal cui ultimo libro avevo preso le mosse, lo qualifica ripetutamente come un assassino seriale), non dubito cioè che fosse una bravissima persona nel suo mestiere di zio: quando rammemorava con il nipote i tempi del suo coraggio e della sua risolutezza di partigiano combattente. Quei partigiani che, stando a una nenia diffusissima, con il loro coraggio e il loro sacrificio piantarono il primo mattone della “nuova Italia”. L’Italia nata dalla Resistenza, quante volte ciascuno di voi ha sentito questa dizione specie nei giorni attigui a ciascun 25 aprile della storia repubblicana. Ebbene quel giorno dell’11 maggio 1945 dalle parti di Argelato, i comandanti partigiani che autorizzarono i loro uomini a uccidere a colpi di bastone diciassette prigionieri inermi non piantarono affatto i mattoni della “nuova Italia”. In quel momenti lo zio del nostro lettore era tutto fuorché una bravissima persona, era un uomo assetato di sangue e di vendette e che non distingueva neppure minimamente tra i presunti avversari da uccidere. Uccidere, questo sì era il suo ideale. Togliere di mezzo nella maniera più violenta e atroce possibile chiunque rappresentasse un seppur minimo ostacolo al presepe della società che lui voleva mettere al mondo, il comunismo realizzato. Perché erano quasi tutti comunisti i partigiani di cui Stella in questo suo ultimo libro (sono trent’anni che scava l’argomento in questione, lo stesso Pansa gli deve molto) elenca uno a uno gli omicidi di prigionieri inermi, gli stupri di ausiliarie della Rsi, il mancato rispetto dei patti di lasciare in vita i militi repubblichini di Oderzo. Uno a uno, nome per nome, assassinio per assassinio, condanna poi amnistiata dopo l’altra, 600 pagine fitte fitte di nomi e fatti. Una fiumana di sangue e di violenza e seppure nel contesto drammatico di una guerra civile dove nessuno indossava i guanti bianchi e dove nessuno - o forse pochissimi - erano delle brave persone. Il 28 aprile 1945, quando i partigiani entrarono a Oderzo (nel basso trevigiano, i comandanti dei circa 600 allievi ufficiali della Rsi firmarono un atto di resa e di consegna delle armi in cambio della vita e del loro ritorno a casa. Nel frattempo arrivarono a Oderzo i partigiani di una formazione garibaldina (comunista) il cui comandante aveva come nome di battaglia “il Tigre”. Decisero che per loro quell’accordo non aveva nessun valore. A partire dal 30 aprile cominciarono le fucilazioni dei giovanissimi repubblichini, scelti a come coglio-coglio, senza la benché minima procedura di giustizia e relativa difesa delle vittime, 113 in tutto se non sbaglio. Pochi anni dopo i cinque comandanti partigiani che ordinarono la strage vennero condannati a pene che andavano da vent’anni all’ergastolo. Le amnistie annulleranno le condanne. Alla loro scarcerazione i cinque comandanti partigiani vennero accolti formalmente e affettuosamente a Botteghe Oscure da Togliatti, Longo e Pajetta. Esiste una foto di quell’incontro. Tutti e cinque delle bravissime persone, come lo zio del nostro lettore? Giudicate voi. La prima volta che nella cittadina di Oderzo s’è discusso pubblicamente di quella strage è stato nel 2010, a 65 anni di distanza dal massacro. Potrei continuare a lungo, nella strada della ricerca della verità di quegli anni. E del resto i libri che quella verità la portano alla luce sono ormai tanti, quelli di Stella, quelli di Antonio Serena, quelli (famosissimi) di un giornalista che s’era laureato con una tesi sul valore e sui valori della Resistenza, il mio amico Giampaolo Pansa. Di uno che quando lo accusano di essere “un revisionista”, dice di no, che lui è semplicemente “un completista”. Uno che di quei due anni drammatici racconta tutto ciò che per mezzo secolo e oltre era state taciuto. Uno che racconta per bene le verità drammaticissime che erano negate.

La violenza dell’antifascismo ha rotto i coglioni! Rossi o neri: un appello a prendere le distanze da un simile schifo incivile e antidemocratico. Questa non è una lectio magistralis sui massimi sistemi. Ma una poco compassata mediazione sulla prossimità. Emanuele Ricucci 24 maggio 2019 su Il Giornale. Mi sono rotto i coglioni! Genova. Od ovunque sia. Botte, su botte, su botte, su botte, su botte, su botte, su botte, su botte, su botte, su botte alla Polizia. Che poi, fantozzianamente, s’incazza per davvero. E talvolta, s’incazza fin troppo, a forza di attutire, magari colpendo chi c’entra poco, o forse nulla. Ferma, immobile, schierata. A prendere mazzate da sterili e lombrosiani fasci di nervi che escono dalle gabbie di sicurezza montate sui mezzi del Reparto Mobile, colpiscono e, come di loro buona abitudine, tornano a nascondersi. Ancora, e ancora, e ancora, e ancora, e ancora. Anno dopo anno, dopo anno. Ma perché!? Ancora, una volta ancora. Il consueto casus belli: impedire lo svolgimento di un evento pubblico autorizzato di una compagine politica che si esprime nei ranghi della democrazia per chiudere la campagna elettorale, come succedeva con Casa Pound Italia. Volere la democrazia, vietandola. Ma siamo tutti impazziti? Siamo totalmente usciti fuori di senno. Esplosa la zucca. Non importa il motivo, la manifestazione, la contingenza: è impossibile rendersi conto che l’antifascismo in questo Paese pulcinellesco, felliniano, è uno dei fattori chiave della contrapposizione e della divisione sociale, della violenza urbana, della frammentazione della pace civile, della morte del dibattito, del pensiero critico?

Questa non è un’invettiva ideologica, né un appello fazioso. Scrivo, come di consueto, da uomo libero. È inutile dirlo. Non si viene ascoltati. È inutile chiedere alla politica istituzionale di prendere le distanze. Non solo non lo farebbe ma rischierebbe, a suo modo, di partorire uscite francamente evitabili, come quella di Nicola Fratoianni o di Donatella Di Cesare. Il primo capace di chiedersi perché la Polizia sia una risorsa dello Stato sprecata a difendere i fascisti, la seconda, addirittura, dall’alto della sua necessaria santità, ci richiama all’attenzione, twittando: “La #polizia di un paese democratico difende un gruppo di #neofascisti che si richiamano al passato del totalitarismo razzista. La polizia aggredisce con #violenza i #cittadini che vorrebbero impedire quella manifestazione. Succede in Italia – #Genovamaggio 2019. Attenzione!”.

Cosa ha visto, dunque, la Di Cesare? Quelli che picchiano i poliziotti con delle spranghe, commettendo nello stesso momento vari reati, sono degli innocui cittadini che vogliono difendere la democrazia dal gruppo di neofascisti? Ma ci siamo bevuti il cervello?! O siamo nel pieno coup de théâtre di marketing ideologico, in piena sindrome della visibilità? Ricordando come la Polizia di un Paese democratico non possa e non debba compiere scelte: proprio perché presente in quella piazza come “strumento” della democrazia, deve poter garantire a ognuno di esprimersi liberamente e in serenità, attenuando ogni tentativo antidemocratico di impedimento di questo processo. È inutile dirlo, pensarlo, vale la pena chiederselo pubblicamente: le vetrine rotte, la città danneggiata, la paura dei passanti, le botte sul casco ai poliziotti, padri di famiglia, servitori dello Stato, comandati di servizio troppo spesso per essere in una piazza a fare da barricata tra chi, comunque, che piaccia o no, si esprime secondo le regole del gioco, pubblicamente accettato dalle istituzioni democratiche, e gli idioti incivili, figli di babbo architetto con l’Iphone in tasca e l’horror vacui nel cervello, cosa sono? Nulla, vero, dotti maestri, esegeti, philoshophi, intelligibili intellettuali, duchi del sapere?

Parlo a te, lettore. Parlo a te perché per quel poco che mi rimane da scrivere in libertà, vista l’aria pesante, torquemadesca, di castrazione del pensiero, vista la quasi impossibilità di dialogo democratico con coloro che praticano una visione alternativa alla mia. Poiché la democrazia, direbbe qualcuno, “è roba loro”. La democrazia è antifascista, o non è. Non esiste liberalità, non esiste apertura, intelligenza critica. La democrazia così come la generazione della cultura di massa, del sentire comune. Parti di un anacronistico ingranaggio che forma l’egemonia culturale imperante.

Allora parlo a te. Se permane una misera brace di barlume in te, lettore, renditi conto. Renditi conto alle urne, renditi conto nella tua vita sociale, oltre la somma delle individualità. Ovunque tu sia, di qualsiasi credo tu sia, qualsiasi sia la suggestione che alimenta il tuo cuore e i tuoi occhi, poco importa: renditi conto. Torna a dare un nome alle cose. Sii libero di pensare, nonostante il coma profondo della democrazia liberale, che la violenza, fisica e verbale, l’onanismo culturale, l’inutilità antropologica, nella loro massima espressione, possano derivare indipendentemente da destra o da sinistra, o da ciò che ne rimane. Entra pure nel merito delle proposte politiche, del livello di democrazia di certe scelte. Sentiti libero di votare, sostenere, criticare, condannare chi tu ritieni più adeguato, o meno, a seconda dei casi. Distilla. Ma se la maggior parte della violenza, fisica e verbale, nelle sue forme più manifeste, pesanti, continuative, finanche sottili, l’impedimento, la censura, in questo momento ha un nome, quello è necessariamente uno: antifascismo. Ricordatelo.

Prevaricazione. L’antifascismo, così composto e predisposto, è oltraggio alla democrazia, tanto quanto ogni eccesso da estremismo. Una provocazione alla pace civile che, ogni giorno, stuzzica la rissa da bar. Che sia su un quotidiano, su una censura, su una castrazione, su una condanna. Non importa. Che sia dal certificato antifascista, nei Comuni, da firmare per ottenere l’autorizzazione ad esprimerti liberamente in piazza, alla diarrea linguistica dei Saviano, maestro della retorica capace di definire con convinzione – pare inutile richiamare ogni altro significato nascosto, l’intento del motto è chiaro – “Ministro della Malavita”, Salvini – che piaccia o no, ministro della Repubblica Italiana -, o di Zerocalcare che definisce i dirimpettai, tout court “nazisti” (e come dimenticare l’educatissima signora di cinquant’anni che si è staccata dal corteo a Bologna per andare a vomitare odio in faccia ai poliziotti, come la maestra di Torino, e poi tornare, tra i festeggiamenti, dai suoi sodali?), fino alla censura della cultura, non come necessario posizionamento ideologico contro la restaurazione di chissà quale regime, ma come castrazione, impedimento, come accaduto al Salone del libro di Torino con la casa editrice Altaforte, verso cui grandi figure ed eccellenze di questo Paese marcio hanno espresso solidarietà super partes, da Vittorio Sgarbi, a Piero Sansonetti, passando per Luca Telese e Giampiero Mughini, citandone solo alcuni, talmente è alto il senso di lesione della liberalità, la vitale libertà di espressione da garantire.

L’antifascismo teorico, che è sempre senza peccato da scagliare la prima pietra, a suo avviso; lo stesso che ricorda la santità del culto della Resistenza, ormai imposto come Credo laico sostitutivo, secondo cui è soltanto grazie alla Resistenza che, in Italia, si è liberi di esprimersi, ma è sempre nel suo nome, e dell’antifascismo che ha generato come sempiterna eredità, che si censura proprio la costituzionale possibilità di esprimersi liberamente. Parlando, scrivendo, financo facendo piroette nella vasca da bagno, se necessario.

Che rabbia. Antifascismo teorico e pratico. Perché i cittadini italiani dovrebbero scegliere e legittimare QUESTO antifascismo, come modello di elevazione sociale e di purificazione da ogni male? Perché dovrebbero seguire questo non esempio? Allora siamo legittimati ad alzare le mani, quando riteniamo una situazione antidemocratica o ingiusta? Allora siamo legittimati a odiarci l’un, l’altro, e ad esprimerlo? Non mi rispondiate con una controaffermazione, “perché il fascismo è il male”, bensì con una positiva affermazione: “questo antifascismo, nel pieno delle sue facoltà, nella responsabilità dei suoi atti (schivando il senso della iperdemocrazia orteghiana che affligge le masse, come emancipazione priva di responsabilità verso la storia e verso il proprio tempo), è il modello salvifico per l’Italia perché…”. Chi persegue l’antifascismo come visione ideale della storia, come fondamento dell’evoluzione sociale, come eredità, in democrazia, ha diritto di farlo. E ad esso, qualora necessario, riservo l’onore delle armi, dell’ “avversario”. Ma se ha la coscienza pulita prenda le distanze, nel tessuto connettivo più prossimo e minuto, nel volgo bastardo, nel proletariato di ritorno, nelle case, nelle vie più lorde dell’Italia più profonda, nelle piazze, dalla violenza verbale e fisica di questa modalità di antifascismo. Prenda le distanze, ora. La vera censura non è l’impedimento, ma la non legittimazione. Il silenzio. Il rifiuto.

Fatelo, amici, prendiate le distanze. Poiché altrimenti ci legittimerete a pensare che l’assenza di sinistra genera antifascismo. La copertura di un buco. Trauma dell’abbandono di orfani. L’assenza di leader, l’aver calpestato le radici, i costrutti, le eredità storiche. Ci legittimerete a pensare che l’assenza di un partito forte di riferimento, fa tornare tanta sinistra all’ultimo punto di ripristino utile. Che, però, proprio per questa sua natura, rimane pesantemente fuori tempo e fuori luogo. Antifascismo in assenza non di fascismo, ma anche e soprattutto di sinistra. Poiché è l’uso strumentale che si fa del termine che essa combatte, come abbiamo visto, con ogni mezzo. Uso in scatola, modernamente privo di senso, di ragioni storiche. Un uso insultante, meramente divisivo, illiberale, strillato. Scusa di violenza verbale e fisica, scusa e giustificazione di esistenza di troppi orfani del comunismo, del socialismo. A tal punto che è la sinistra, anche la più soft, che si aggrega, per dovere, per esistere e resistere, nell’antifascismo odierno, quasi costretta, e non è più il contrario naturale, ovvero la sinistra come movimento umano, politico e culturale ad aggregare l’antifascismo. Così, allora, l’antifascismo genera fascismo, modernamente inteso, come copertura di un buco. Un modo, antistorico, fuori tempo e fuori luogo, di chiamare tutto ciò che non si condivide. Ci legittimerete a pensare che si tratta di una nuova adolescenza. L’antifascismo moderno è una reazione nervosa, senza una lettura del reale, del presente. Illiberale. Violento. È un pretesto. Un “modo di chiamare” qualcosa che non esiste più o che è evoluto, ma non viene interpretato. È un movimento di rottura incapace di rappresentare la maturità democratica. Se ancora esiste la democrazia è non è solo un simulacro, parlando con Galli…

Matteo Salvini, il vero obiettivo degli antifascisti. Azzurra Barbuto su Libero Quotidiano il 16 Maggio 2019. Vittima collaterale di un' offensiva serrata che ha come obiettivo il ministro dell' Interno, l' editore Francesco Polacchi, militante di CasaPound, è stato estromesso dal Salone del Libro di Torino per avere pubblicato un libro-intervista su Matteo Salvini. Eppure il crimine peggiore che egli ha subito non è stato l' essere ostracizzato né l' essere spogliato della libertà fondamentale di espressione, pensiero e parola, bensì il venire etichettato con la spillatrice per ciò che non è, ossia un razzista omofobo da condannare al pubblico ludibrio e all' emarginazione sociale. È il fio che pagano tutti coloro che si interfacciano, gravitano o apprezzano il leader della Lega. Persino i suoi elettori sono considerati umanoidi sottosviluppati e rozzi, ignoranti e retrogradi. Così che votare a favore di Salvini diventa una macchia sulla fedina penale, qualcosa da nascondere per non guadagnarsi lo sdegno di quel gruppetto di sedicenti intellettuali spocchiosi che si proclamano "antifascisti", sostenitori dei valori democratici a parole, mentre nei fatti si dimostrano allergici a chi non la pensa come loro e intolleranti, tanto da mettere al bando una casa editrice che - udite, udite - fa ciò che fanno tutte le case editrice: edita opere letterarie e roba simile.

Gli antifascisti altro non sono che un' associazione di bulli che vantano la pretesa di essere migliori di tutti gli altri, di avere in tasca verità assolute e che hanno individuato in Salvini non un semplice avversario politico, piuttosto un vero e proprio nemico pubblico da colpire con qualsiasi mezzo, da screditare con qualsiasi insulso pretesto e da annientare il prima possibile. Peccato però che queste operazioni di guerra aperta si concludano sempre con flop clamorosi, che non fanno altro che giovare alla Lega e fare di Matteo una sorta di eroe che resiste e incassa ogni colpo, così come ha recato vantaggio al titolare di Altaforte, editore di nicchia che conoscevano appena quattro gatti e che oggi è rinomato da Nord a Sud tanto che il libro incriminato è andato a ruba. Ad incidere in modo positivo è di certo anche l' atteggiamento non belligerante del vicepremier, il quale alle provocazioni usa rispondere con il sorriso e con la filosofia della non-violenza alla stregua di Mahatma Gandhi o di Martin Luther King, altro che novello Mussolini! Davanti al pacifismo salviniano i nazi-antifascisti si incazzano ancora di più, poiché non si rassegnano al fatto che Matteo piaccia e che il loro accanimento spietato non sortisca gli effetti desiderati.

MANCANZA DI IDEE. Ogni motivo è buono per esprimere indignazione ed urlare allo scandalo. Salvini indossa la felpa ed è criticato, mette su la divisa della polizia ed è attaccato. Mangia un panino e fa schifo, divora le tagliatelle ed è un burino. Sta in giro per incontrare ed ascoltare i cittadini ed è giudicato assenteista del Viminale; non si reca in fretta e furia a Napoli dopo la sparatoria in cui è rimasta vittima la piccola Noemi ed è lontano dagli italiani. Interrompe la relazione con Elisa Isoardi e viene insultato, si fidanza con Francesca Verdini e viene disapprovato. Fa colazione con la nutella e ne esce fuori un' amara polemica, pranza con la polenta e finisce anche peggio. Cena con "quattro salti in padella" ed apriti cielo. Insomma, "qualsiasi cosa fa, ovunque se ne sta, lui sempre pietre in faccia prenderà", parafrasando una celebre canzone. L'invettiva politica ha toccato punti miserrimi, che ci rivelano quanto piccolo sia l' essere umano oltre che una generale mancanza di argomentazioni ed idee. Rievocare il fantasma di Mussolini paventando il sicuro ritorno della dittatura al fine di screditare il titolare del dicastero dell' Interno è oltre modo ridicolo. Del resto si sa che la sinistra italiana, incapace di mettersi in discussione e di riconoscere le proprie colpe e debolezze, si è impantanata in un tipo di propaganda non costruttiva bensì distruttiva (soprattutto verso se stessa). Essa non espone programmi, obiettivi, intenzioni, valori, semina soltanto livore in quanto incapace di proporsi come efficace baluardo delle fasce deboli della popolazione, che ha abbandonato da un bel pezzo per indulgere alla magniloquenza e battersi per lo ius soli e l' accoglienza sfrenata di chiunque desideri varcare la frontiera italiana e viverci sul groppone.

La sinistra, che si dice antifascista, è un coacervo di contraddizioni: mediante metodologie fascistoidi intende avversare il presunto totalitarismo leghista, ricorrendo persino alla censura, all' estromissione forzata, al boicottaggio. Organizza manifestazioni pro-migranti e poi lascia marcire per strada gli immigrati stessi, accolti sì ma poi buttati sul marciapiede come spazzatura. Si dichiara "democratica" e dopo calpesta i principi fondanti di ogni regime siffatto, come pluralismo e libertà di opinione. Allorché si manifestano tali spropositate crisi di identità, è utile lo psichiatra. Ma qui servirebbe l' esorcista. Azzurra Barbuto

Repubblica sogna fascismi e dimentica Br e Prima linea. Paolo Guzzanti, Giovedì 16/05/2019 su Il Giornale. Ezio Mauro, che è stato per vent'anni direttore di Repubblica dopo il fondatore Eugenio Scalfari, ieri ha scritto un articolo sullo stesso quotidiano intitolato Normalità del fascismo 2.0. La tesi è questa: non importa se non esiste alcun rischio reale di ritorno a un regime dittatoriale come quello di Mussolini. Tuttavia, argomenta Ezio Mauro, qui c'è poco da discutere se i sedicenti neo-post fascisti siano o no fascisti, perché sono loro stessi che si definiscono così, fascisti, dunque lo sono e vanno considerati e trattati come tali. Segue una disamina dei caratteri di questo neofascismo, peraltro ondivaghi e occasionali come in tutte le democrazie del mondo occidentale, per impartire un solenne monito affinché la Repubblica nata dalla Resistenza affronti il problema riguardante la sua stessa natura democratica. Dunque, dobbiamo affrontare un «fascismo 2.0» non perché esista davvero un pericolo fascista, ma perché sono in vita e agiscono delle persone che chiamano se stessi fascisti che fanno uso di violenza. Nessuna menzione del fatto che la violenza è usata molto di più e con danni ben più devastanti, dai centri sociali, dai black bloc e dagli anarchici, perché la violenza da sola non è una prova sufficiente per dare l'allarme di un pericolo per la democrazia. Perché ciò accada, occorre che qualcuno si dichiari fascista, e allora possiamo mettere le bandierine giuste sul tavolo. Occorre dunque quel pre-requisito, e cioè che soggetti diversamente violenti, picchiatori o persino editori, si dichiarino. Un po' come quando, nel sistema giudiziario americano, devi tu, imputato, dichiararti colpevole o innocente. Le conseguenze, poi, conseguono. Qui il criterio sembra stesso: quale che sia la tua violenza, ciò che conta è come ti dichiari. Questo ragionamento non regge. Durante la lunga e orrenda stagione del terrorismo rosso, coloro che agivano sotto i nomi di Brigate rosse o Prima linea «Lotta armata per il comunismo» assassinando con un colpo alla nuca giudici, giornalisti, intellettuali e poliziotti, chiamavano se stessi «comunisti». Si chiamavano fra loro compagni, molti provenivano dalle file del Partito comunista, specialmente a Torino dove il giornalista Ezio Mauro era un accurato testimone e cronista. E allora? Forse lo Stato, i partiti, gli intellettuali e i giornalisti hanno per questo concesso loro il diritto, peraltro legittimo, di dichiarare se stessi comunisti? Ma quando mai. Quello che tu dici di essere, lo decido io. Infatti si doveva dire che si trattava delle «cosiddette» Brigate rosse dietro le quali non potevano che esserci la Cia, i servizi segreti israeliani o, meglio ancora, dei veri fascisti che si volevano spacciare per comunisti. Ma mai e poi mai fu concesso loro di essere considerati per ciò che dicevano di essere e per cui combattevano come comunisti, uccidendo e anche morendo. Altro che CasaPound, altro che questi giovanotti che non hanno la più pallida idea della storia, fascisti sotto una carnevalata di simboli runici della saga nazional-socialista nibelunga. I comunisti che hanno insanguinato la Repubblica per anni erano tali perché chiamavano se stessi comunisti e avevano dietro e intorno una fascia sociale violenta, sovversiva e antirepubblicana formata da Autonomia operaia e organizzazioni extraparlamentari come Potere operaio e Lotta continua. Tutti comunisti perché dicevano loro di esserlo. Ma cui non era permesso di essere creduti e chiamati e combattuti per quel che erano. Soltanto quando furono sconfitti dallo Stato e dalla democrazia senza alcun uso di leggi speciali, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga li sdoganò ad uno ad uno in carcere chiamandoli boy scout della rivoluzione. E nel Partito comunista, trattati con condiscendenza come «i compagni che sbagliano». Dopo di che, quei bravi ragazzi che ammazzavano per uccidere anche la democrazia nata dalla Resistenza, ce li siamo ritrovati in cattedra nelle Università per darci loro - lezioni di democrazia e, come ti sbagli, di antifascismo. Giusto per ricordare. Giusto per non dimenticare. Giusto per un miglior uso dei due pesi e delle due misure.

QUANDO LEONARDO SCIASCIA ANNUNCIO’ LA NASCITA DEL “CRETINO DI SINISTRA”. Antonio Socci Da “Libero”, 20 agosto 2018. C’è un libro di Leonardo Sciascia, “Nero su Nero”, uscito nel 1979 e recentemente riproposto da Adelphi, che nelle sue ultime pagine contiene un annuncio clamoroso: “Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l’evento non ha trovato registrazione. Tra non molto, forse, saremo costretti a celebrarne l’Epifania”.

Naturalmente è sempre stato facile (e lo è anche oggi) individuare, mettere all’indice e fustigare il cretino di destra, di centro o il cretino generico e apolitico. Ma quello di sinistra no. Tuttora si fa fatica a trovare segnalazioni delle sue gesta nelle narrazioni ufficiali del nostro tempo che sono i giornali. Lo scrittore siciliano – pur avendo un rapporto di prossimità con la Sinistra – aveva notificato l’evento epocale della sua nascita sperando se ne seguissero le imprese, ma sapeva che sarebbe stato deluso. Lui del resto aveva un interesse speciale per i cretini di ogni tipo. E proprio in quel libro aveva colto una svolta antropologica, lamentando il fatto che non ci sono più i cretini di una volta. S’imponevano nuove tipologie di stupidità umana: “È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino… e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto tutte le volte ci assalgono che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh i bei cretini di una volta! Genuini, integrali. Come il pane di casa. Come l’olio e il vino dei contadini”. Quello zibaldone di pensieri e di considerazioni letterarie che è “Nero su nero”, fra gustose pagine dedicate a Pirandello, Tolstoj, Tomasi di Lampedusa, Stendhal, alla Sicilia e alla Toscana, contiene, disseminati qua e là, formidabili frammenti di una “fenomenologia del cretino”. Qualche perla. “Mark Twain diceva che ‘ogni minuto nasce un imbecille, tutto sta nel saperlo trovare’ ”; “L’imbecillità è molto più complicata dell’intelligenza”; “Dei cretini intelligentissimi. Sembra impossibile: ma ce ne sono”. Spunti che fanno intravedere l’abbozzo di un divertente “Bouvard e Pécuchet” che lo scrittore siciliano avrebbe potuto scrivere. Ma forse a Sciascia mancò la perfida misantropia di Flaubert per mettere ferocemente in scena degli “idiots savants” e darci un affresco della generale stupidità del suo tempo. Resta però l’intuizione dell’avvento di nuove forme di stupidità informata e colta, intuizione che sembra quasi profetica visto che oggi i media vedono tale stupidità dispiegata pienamente grazie all’avvento di Internet e dei Social. C’è del vero naturalmente. Ma siamo sicuri che proprio i media non ne siano un palcoscenico ancor più raffinato e salottiero? In effetti Bouvard e Pécuchet sembrano precorrere i tempi dei “leoni da tastiera” ed è divertente immaginare cosa avrebbe potuto scrivere Flaubert dell’epoca di Google, ma i media non sono un teatro élitario e colto della stupidità del nostro tempo? Lasciamo ai posteri l’ardua sentenza. Sarebbe interessante sapere cosa ne direbbe oggi Sciascia e come, lui che ne annunciò la nascita, racconterebbe l’evoluzione del “cretino di sinistra” negli anni in cui – scomparso il comunismo – imperversa nel mondo il conformismo “politically correct”. Lo scrittore siciliano visse gli anni Sessanta e Settanta e – pur avendo un personale rapporto con la Sinistra – avvertì allora che “una nuova formidabile ondata di conformismo sta per abbattersi sul nostro paese (…) tanto più grave nella misura in cui è spontanea, non mossa dalla preoccupazione del pane quotidiano…. tra la gente di buon senso non si trova più uno disposto a dichiararsi anticomunista”. Anzi “non si trova più uno che non abbia simpatia per i comunisti, che non abbia in loro fiducia, che non speri vadano finalmente al governo e presto”. Era un conformismo che impediva di vedere perfino l’evidenza. Sciascia ricorda quando si trovò a sostenere “che le Brigate Rosse erano rosse – e non nere come tutti i partiti del cosiddetto arco costituzionale desideravano che fossero, volevano”. E si chiede: “Possibile che in un paese in cui tanta carta stampata quotidianamente si muove, tante analisi si fanno e tanti ingegni vi si provano… possibile che io sia stato il solo, l’unico, ad arrivare a una così semplice verità?”. Ironizzando un giorno su un manifesto del Pci che si diceva di lotta e di governo fu aspramente ripreso da un militante che “dandomi quasi dell’ignorante” spiegò che “in Polonia, il Partito Comunista appunto lottagoverna: com’è che non me ne rendo conto? Sono rimasto talmente allibito, o forse addirittura sconvolto, che credo di non aver saputo dargli una risposta, almeno nella forma, persuasiva”. In un altro intervento di quegli anni Sciascia notò: “Il guaio della sinistra in Italia è di aver seminato una doppia morale: una cosa è giusta se è fatta da un uomo di sinistra o da un gruppo o da un partito di sinistra; sbagliata se fatta da un uomo di destra”. In “Nero su nero” lo scrittore torna sull’argomento e spiega: “a me, uomo di sinistra, è permesso, è lecito, è da approvare quel che non è permesso, è illecito, è riprovevole a un uomo di destra. Pericolosissimo principio, se si considera la facilità, e a volte la comodità, con cui si può essere uomo di sinistra, oggi”. Un altro flash sull’epoca del conformismo di sinistra: “Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere… è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è”. Poi cita il caso di “una ragazza molto rivoluzionaria che ha sposato un uomo molto ricco” e che diceva di Dubček: “Era un fascista”. Non è detto che oggi siamo tanto lontani da questo clima. Però non abbiamo più grandi voci libere come Sciascia.

Il monito di Pasolini: «Attenti al fascismo degli antifascisti». Luciano Lanna, cronache del garantista su Radicali.it. Quarant’anni fa, il 16 maggio 1974, Pier Paolo Pasolini scriveva sul Corriere della Sera uno dei suoi editoriali che ancora oggi restano nell’immaginario continuando a farci interrogare sul cuore del "caso italiano". Il tema era oggettivamente pasoliniano: "Il fascismo degli antifascisti". E il ragionamento che il poeta vi svolgeva era la continuazione di quanto andava spiegando da oltre un mese, a cominciare dall’editoriale "Gli italiani non sono più quelli", del 10 giugno, a quello su "Il potere senza volto", del 27 giugno, sino alle note riflessioni sulla rivoluzione antropologica e l’omologazione in Italia, dell’il luglio. Si tratta di alcuni degli articoli che verranno poi raccolti in un libro nel novembre 1975 nell’ultima opera pubblicata in vita da Pasolini: Scritti corsari. In tutti quegli articoli l’autore denunciava il fatto che nessuno in Italia si mostrava in grado di comprendere quanto stava realmente accadendo: «Una mutazione della cultura italiana, che si allontana tanto dal fascismo che dal progressismo socialista». In realtà, precisava Pasolini, era in atto un fenomeno devastante e inarrestabile di mutazione antropologica conseguente alla trasformazione del sistema di Potere: «L’omologazione culturale che ne è derivata riguarda tutti: popolo e borghesia, operai e sottoproletari. Il contesto sociale è mutato nel senso che si è estremamente unificato. La matrice che genera tutti gli italiani è or- mai la stessa…».

Sino al passaggio più importante: «Non c’è più dunque differenza apprezzabile, al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista -e un qualsiasi cittadino italiano antifascista. Essi sono culturalmente, psicologicamente e, quel che è più impressionante, fisicamente, interscambiabili…». E anche guardando ai giovani che in quel 1974 si chiamavano e venivano definiti "fascisti", Pasolini spiegava che si trattava di una definizione puramente nominalistica e che portava fuori strada: «È inutile e retorico – concludeva fingere di attribuire responsabilità a questi giovani e al loro fascismo ,-nominale e artificiale. La cultura a cui essi appartengono è la stessa dell’enorme maggioranza dei loro coetanei». Il problema, semmai, era il nuovo Potere, non ancora rappresentato simbolicamente e dovuto alla omologazione della classe dominante, il quale stava omologando la società italiana. Si trattava – annotava preoccupato Pasolini – di un una omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l’imposizione dell’edonismo e della joie de vivre». E la strategia della tensione ne era a suo avviso una spia significativa che ne svelava l’altra faccia della medaglia…

Pasolini insomma, in totale controtendenza rispetto agli altri intellettuali suoi contemporanei, invitava a cogliere e contrastare il volto disumano del nuovo potere piuttosto che a rimuovere il problema rispolverando un antifascismo fuori contesto e fuori tempo massimo. «E bisogna avere il coraggio – aggiungeva – di dire che anche Berlinguer e il Pci hanno dimostrato di non aver capito bene cos’è successo nel nostro paese negli ultimi dieci anni». Perché infatti, si domandava il poeta, rilanciare trent’anni dopo la fine della guerra e del fascismo un’offensiva antifascista (che oltretutto portava fuori strada) invece di aggredire dalle fondamenta il nuovo potere senza volto, magari con le sembianze di una società democratica e di massa, «il cui fine è riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo»? E in questo passaggio Pasolini aggiungeva un’autocritica inedita e importante: «In realtà – confessava ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente. Non nascondiamocelo: tutti sapevano, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale… Ma nessuno ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del Male. E magari erano degli adolescenti e delle adolescenti diciottenni, che non sapevano nulla di nulla…». Chissà quanto si sarebbe scongiurato di quanto è avvenuto dopo in termini di messa in moto dell’antifascismo militante, della conflittualità destra/sinistra e dello stesso spontaneismo armato successivo – se si fosse dato ascolto, allora, a Pasolini? Ma la storia non si fa con i "se" e quanto lui scriveva oggi vale soprattutto come controcanto a una vicenda ancora tutta da analizzare storiograficamente.

Importante, inoltre, il fatto che il succo dell’articolo del 16 luglio riguardasse il "silenzio" mediatico e politico sui vincitori del referendum del 13 maggio, Marco Pan- nella e i radicali. Di fronte all’affermazione crescente di un potere a vocazione totalitaria – che si reggeva sul patto Dc-Pci-Confindustria-cultura consumista – i radicali apparivano a Pasolini come il solo fenomeno irriducibile ed eccedente. «Nessuno dei rappresentanti del potere – annotava – sia del governo che dell’opposizione, sembra neanche minimamente disposto a compromettersi con Pannella e i suoi. La volgarità del realismo politica sembra non poter trovare alcun punto di connessione col candore di Pannella, e quindi la possibilità di esorcizzare e inglobale il suo scandalo». Il Partito Radicale e il suo leader Marco Pannella erano, spiegava il poeta, i reali vincitori del referendum sul divorzio del 12 maggio e proprio questo non gli veniva perdonato da nessuno. Ma, «anziché essere ricevuti e complimentati dal primo cittadino della Repubblica, in omaggio alla volontà del popolo italiano, volontà da essi prevista, Pannella e i suoi compagni – scriveva Pasolini – vengono ricusati come intoccabili. Invece che apparire come protagonisti sullo schermo della televisione, non gli si concede nemmeno un miserabile quarto d’ora di tribuna libera». Antifascismo pretestuoso e fuori tempo massimo, da un lato, e censura della presenza radicale, dal[‘altro. Una domanda è inevitabile: quanto c’è, quarant’anni dopo, di continuità con quella logica del potere?

·         Tra Pluralismo e Relativismo. Gli Haters. Ossia: gli odiatori.

Hater, Troll e la cultura dell'oltraggio.

Hater: l’utente che interagisce con la vittima tramite messaggi provocatori, irritanti, insultanti con il solo obbiettivo di fomentare l'animo animi e di causare dolore.

Troll: l’utente che interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti, insultanti con il solo obbiettivo di fomentare gli animi e di causare dolore alla vittima.

Nadia Toffa, le Iene contro Aldo Grasso: "Grazie per la sensibilità e l'eleganza". Commento sconcertante. Libero Quotidiano il 28 Agosto 2019. "Nel commovente comunicato con cui le Iene annunciavano la morte di Nadia Toffa, c'era una promessa finale: Nulla sarà più come prima. Ecco, speriamo davvero che nulla sia più come prima, che ci sia maggiore attenzione ai servizi: niente più complottismi, gogne mediatiche, ignoranze scientifiche, casi Stamina o i suicidi inventati della Blue Whale". Nella sua rubrica sul Corriere della Sera, Aldo Grasso commenta così, polemicamente, l'ultima puntata del programma di Italia 1 dedicato al misterioso omicidio di Willy Branchi. Il critico tv accusa gli autori delle Iene di approssimazione e sensazionalismo, e su Facebook arriva la risposta piccata e polemica: "Grazie ad Aldo Grasso per l'attenzione che dedica sempre al nostro lavoro e per la sensibilità e l'eleganza con cui tratta non solo le vicende di cui ci occupiamo, ma la nostra stessa vita". Questa mattina ci siamo svegliati e abbiamo letto sul Corriere della Sera l’analisi acuta e scrupolosa che Aldo Grasso ha dedicato allo speciale delle Iene “Willy Branchi” andato in onda su Italia 1. Una frase ci ha particolarmente toccati, e la riportiamo qui sotto. Grazie ad Aldo Grasso per l’attenzione che dedica sempre al nostro lavoro e per la sensibilità e l’eleganza con cui tratta non solo le vicende di cui ci occupiamo, ma la nostra stessa vita.

LA “CULTURA DELL’OLTRAGGIO”. Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 28 agosto 2019. Neppure la morte ferma l'odio social. Nadia Toffa se ne è andata a 40 anni dopo aver lottato contro un tumore e appena qualche minuto dopo, su Facebook, sono comparsi miserabili insulti alla sua memoria. La conduttrice delle Iene in vita era stata spesso vittima degli haters che la rimproveravano di spettacolarizzare la sua malattia: il male, come lo chiamava lei, non era l'unico mostro contro cui dover combattere. E adesso che non c'è più, gli haters continuano a imbrattare il web. Ma come è potuto succedere così velocemente la riconversione della tecnologia in strumento di violenza personale? Perché eravamo un Paese quasi normale, col bello e il brutto, e in un paio d'anni siamo diventati un popolo feroce che non ha rispetto neppure per la morte? La “cultura dell’oltraggio” in cui si viene identificati e umiliati in rete per la propria identità o per le proprie opinioni costituisce un problema sociale che è difficile contrastare perché questi haters non dispongono di evidenti centri organizzativi. Nel gergo del Web, lo chiamano “trolling” l’utente che interagisce con gli altri tramite messaggi provocatori, irritanti, insultanti con il solo obbiettivo di fomentare gli animi e di causare dolore. Il trolling è in realtà una forma di guerriglia civile dove chi non ha alcuno status o potere riconosciuto formalmente, esercita l’unico potere che ha, ovvero il “character assassination”, distruggere la reputazione di una persona, sabotarla e umiliarla tramite l'ingiuria più gratuita e volgare in base a rancori e fobie e paranoie. Le parole diventano così un’arma, strumenti di violenza che evidenziano le debolezze umane per sfruttarle. L’offesa, che i troll perseguono con godimento sadico, è spesso considerata una forma di vittoria, che arriva a sfociare nell’illegalità nei minacciosi messaggi di odio ormai costantemente inviati alle figure pubbliche, soprattutto donne (vedi il caso dell’attivista Greta Thunberg). Al posto della società reale, Internet ci offre una selezione di giochi di guerra virtuali da fare per divertimento, amicizia, convenienza o per sfogare l’emotività. Il limite tra “libertà di parola” e violenza però si confonde, mentre lo scopo finale è di causare dolore e danni psicologici ad personam. (Del resto, i computers sono in origine strumenti di guerra, così come le reti che li collegano). Questi troll cercano di fare più male possibile (trattando le parole come armi) per poi ritirarsi immediatamente sulla posizione opposta, dichiarando cioè che è solo uno “scherzo” o invocando la “libertà di parola” (trattando le parole come simboli innocui). Non basta. L’arma fondamentale nell’arsenale dei troll è spesso l’anonimato. Piattaforme come Twitter e Instagram agevolano la possibilità di partecipare alla discussione pubblica senza rivelare la propria identità. Il nemico è reso più trasparente possibile mentre il colpevole resta all’oscuro. Pura vigliaccheria. Secondo una delle interpretazioni, perché le ambizioni tecnologiche di Zuckerberg si realizzino, Facebook e Instagram hanno bisogno che i loro utenti siano sempre più espressivi e infiammabili dal punto di vista emotivo. Così la nostra rabbia, gioia, tristezza e orrore può fornire dei contenuti alle macchine, perché imparino a comportarsi come umani. In secondo luogo, esprimendo i nostri sentimenti più autentici o miserabili offriamo dati precisi su di noi, tramite i quali si può vendere ulteriore pubblicità. E’ questa ora la nostra realtà.

Haters, l’antidoto viene da lontano La lezione di Berlin e di Montaigne. Pubblicato sabato, 03 agosto 2019 da Mario Garofalo su Corriere.it. Il libro di Giancarlo Bosetti «La verità degli altri. La scoperta del pluralismo in dieci storie» (Bollati Boringhieri, pagine 198, euro 19). Chiusi come siamo nelle nostre «camere dell’eco», abituati ad ascoltare soltanto le opinioni di chi la pensa come noi attraverso la lente deformante dei social network, stiamo forse tornando ad essere come quegli uomini primitivi che vedevano il centro del mondo nel palo che era conficcato al centro del proprio villaggio o della propria capanna. La loro malattia si chiamava «etnocentrismo», come spiegava nel 1906 William Graham Sumner, e consisteva nel considerare l’in group, il «noi», la «tribù», superiore all’out-group, il «loro», «gli altri». La cura, scrive oggi il giornalista e saggista Giancarlo Bosetti, si chiama «pluralismo», la capacità di uscire dalle nostre echo chambers e di ascoltare La verità degli altri che ha dato il titolo al suo libro (Bollati Boringhieri).

Pluralismo, si badi bene, è cosa diversa dal relativismo, che suscita polemiche a volte fondate.

Il pluralismo, infatti, riconosce come «umano» un numero limitato di valori: non li persegue tutti, ma ne riconosce in qualche modo la plausibilità e, soprattutto, non rinuncia alla critica dei valori non umani.

Per il relativismo, invece, tutto è possibile: ognuno ha i suoi valori e se ci si scontra pazienza. Un pluralista inorridisce di fronte alla pratica di lapidare le donne adultere negli stadi che è in uso presso i talebani in Afghanistan, un relativista si limita a prenderne atto. Questa distinzione tra pluralismo e relativismo era ben presente nel pensiero di Isaiah Berlin, il primo dei dieci eroi del pluralismo passati in rassegna da Bosetti. Il filosofo britannico vedeva in Machiavelli in un certo senso il fondatore del pluralismo. Nel momento in cui contrapponeva i valori pagani di forza, giustizia e coraggio a quelli cristiani di carità, misericordia e sacrificio, certamente Machiavelli parteggiava per i primi, ma nel contempo esponeva al dubbio qualunque costruzione «monista», basata cioè sull’esistenza di un’unica possibile verità. Era l’inizio di una scoperta: che ci sono principi ugualmente degni e tuttavia in possibile conflitto tra di loro come libertà ed eguaglianza, clemenza e giustizia, amore e imparzialità. In quest’ottica, perfino il mito della torre di Babele assume un’altra connotazione: Dio non era irritato dall’altezza della torre, ma proprio dalla monotonia della lingua. Far parlare gli uomini in tanti modi diversi fu un dono, non una punizione.

Così come era un dono quello che Ashoka, sovrano dell’impero Maurya, che si estendeva tra gli attuali Afghanistan e Bangladesh, fece ai suoi sudditi nel III secolo avanti Cristo: una serie di editti in cui rendeva onore a tutte le religioni e disponeva che tutte venissero studiate. 

E se Michel de Montaigne poneva il dubbio provocatorio se fossero più barbari gli indios della Nuova Spagna che mangiavano i loro nemici o gli occidentali che li bruciavano vivi, è forse quella di Origene la lezione pluralista più gravida di conseguenze. A 33 anni il filosofo predicatore si trovò ad Antiochia di fronte a Giulia Namea, che gli chiedeva consigli per l’educazione del figlio. Giulia era la nipote di Settimio Severo, per le cui persecuzioni il papà di Origene, Leonida, era stato decapitato. Il clima non era dunque quello di una discussione da salotto. Ma Origene ostentò serenità e sicurezza e disse due cose fondamentali. La prima: che i testi sacri non vanno presi alla lettera (la fondazione del «metodo allegorista»). La seconda: che c’è salvezza per tutti, non solo per i cristiani. 

Ashoka, dal canto suo, non si occupò solo di religioni, scrisse anche di come dibattere in pubblico: «È massimamente padrone di sé chi sa dominare la sua lingua. E non esalti sé stesso e non denigri gli altri». Un antidoto agli haters ventitré secoli prima dei social network.

Il relativismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il relativismo è una posizione filosofica che nega l'esistenza di verità assolute, o mette criticamente in discussione la possibilità di giungere a una loro definizione assoluta e definitiva. In Europa se ne riconosce la prima comparsa all'interno della sofistica greca; in seguito posizioni relativiste furono espresse dallo scetticismo antico e moderno, dal criticismo, dall'empirismo e dal pragmatismo.

Pluralismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il pluralismo, nelle scienze sociali, è la condizione di una società in cui individui e gruppi diversi per razza, etnia, religione, cultura, orientamento politico o altro, coesistono nella tolleranza reciproca, conservando un'autonoma partecipazione alla vita pubblica e mantenendo una gestione autonoma delle proprie tradizioni culturali o ideologiche; in filosofia il pluralismo indica invece una concezione che considera la realtà costituita da una pluralità di principi considerati tutti come fondamentali e non riducibili uno all'altro, al contrario del monismo.

Monismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Monismo (dal greco μόνος «solo», «unico») è una dottrina che riporta la pluralità degli esseri a un'unica sostanza o a un unico principio. Il termine sembra risalire al filosofo tedesco Christian Wolff che così lo descriveva: «si chiamano monisti (monistae) i filosofi che ammettono un solo genere di sostanza». Il monismo è una concezione dell'essere che si oppone a quella del pluralismo, o più spesso a quella del dualismo e che può essere adottata sia dai sistemi idealistici che da quelli materialistici in quanto essa afferma che la totalità della realtà nonostante l'apparente molteplicità, diversità e mutabilità dei fenomeni può essere ricondotta a un unico principio unitario. Qualsiasi distinzione tra materia e spirito, tra mondo e Dio è falsa e quindi, secondo una visione monistica, la molteplicità fenomenica e il dualismo percepiti dagli esseri umani sono solo il frutto di una illusoria parvenza sensibile. Accompagna sempre il monismo il determinismo per il fatto ineluttabile che le parti dipendono necessariamente dal tutto a cui sono legate ontologicamente come suoi aspetti non sostanziali. Solo l'unità, che è nel contempo totalità, ha infatti sostanza reale. Sul piano della conoscenza, il monismo non distingue le scienze della natura da quelle spiritualiste. L'edificio scientifico è concepito nella sua unitarietà con interazioni fra la filosofia e la scienza. Talune prospettive (religiose o filosofiche) non-dualiste sostengono che nella natura della realtà non esiste una fondamentale distinzione tra mente e materia, e che l'intera realtà è una costruzione illusoria, essendo costituita essenzialmente dalla "mente divina". L'Induismo, il Buddhismo, il Taoismo, lo Zen, il Panteismo, il Panenteismo e altri similari sistemi filosofici-religiosi (in particolare orientali) condividono elementi mistici e spirituali monistici. Alcune teorie post-moderne e visioni new Age del mondo si rifanno a questi concetti in maniera sincretistica.

Dualismo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il dualismo è un termine usato per definire ogni dottrina che si riferisca in qualsiasi campo di indagine (filosofico, religioso, scientifico, metodologico ecc.) a due essenze o principi inconciliabili e che, come tale, si opponga al monismo.

·         L’odio figlio dell’Invidia.

Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 17 dicembre 2019. Portare rancore è un lavoro molto impegnativo, e la maggior parte delle volte non ne vale proprio la pena. Il rancore è un' emozione negativa causata da una situazione avversa che si è verificata, dalla quale ci si sente feriti, una condizione che non si è affrontata apertamente e che non si è risolta, la quale prolunga a tempo indeterminato il malessere alimentando sentimenti di dolore e rabbia rispetto ad un accadimento o verso una persona che si è comportata male. Il rancore è sempre preceduto dal risentimento, un carico emozionale anch' esso negativo che non permette di ristabilire l' equilibrio psicologico, perché il ricordo dell' ingiustizia subita o del danno provocato spingono a restituire il dolore, a progettare atti di vendetta, favorendo atteggiamenti di ostilità e di aggressività verso la persona responsabile della sofferenza e del danno inflitto. In realtà l' unica persona che soffre è la stessa che porta rancore, che prolunga la sua insoddisfazione senza risolvere il problema, ed anche se il tempo la allontana da quella situazione sgradevole vissuta e da colui/colei che l' ha provocata, chi custodisce il rancore si infligge sofferenza e conflitti interiori dai quali non tende a liberarsi La parola rancore deriva dal latino "rancore(m), derivato da "rancere", ossia essere rancido, acido o guasto, ed è usata da secoli per descrivere colui che prova astio, rabbia inespressa, profonda e persistente, covata talmente a lungo e così tenacemente da essere in grado di guastare o irrancidire l' animo umano. Questo sentimento di profonda avversione nasce solitamente a seguite di un torto subìto o un' offesa ricevuta, e si traduce spesso in un desiderio represso di rivalsa, che però non viene manifestata immediatamente nel momento del danno subìto, bensì tenuta nascosta e covata nell' animo, in modo silenzioso e logorante, al punto che tale subdola emozione non fa che essere dannosa per chi la nutre. Non riconducibile ad un fenomeno psichico meramente intraindividuale, il rancore è definito in psichiatria un' esperienza emotivamente disturbante e destabilizzante, provata, rivissuta e rielaborata di continuo nella mente, che presenta varie gradazioni di intensità, ma che provoca quasi sempre la dissonanza cognitiva, ovvero la mancata consapevolezza della grettezza associata al proprio atteggiamento o ai propri sentimenti negativi ed ostili. Spesso dietro il rancore si nasconde un profondo disagio che non si riesce a disciplinare, che può sfociare in una fobia in grado di minare anche i rapporti apparentemente più solidi, che in realtà solidi non sono mai stati, ed in definitiva il risentimento si basa sulla necessità di dire qualcosa che non si è mai stati in grado di esprimere, o almeno con l' intensità desiderata, per cui la persona è in un certo senso delusa e genera nella sua mente una serie di idee negative verso la persona oggetto del suo odio. Generalmente si tratta di personalità fragili e insicure, che tendono ad attribuire la propria inadeguatezza a dubbie ingiustizie subìte o percepite, a colpevolizzare gli altri sul mancato raggiungimento di traguardi od obiettivi, accumulando frustrazioni causa di profonda infelicità ed animosità. Con il passare del tempo questi pensieri diventano ossessivi e sempre più intensi, i quali possono causare molti problemi, dalla semplice ansia alle malattie psicosomatiche, fino a favorire vere e proprie malattie, via via più importanti, poiché a forza di portare sulle spalle un pesante fardello, oltre ai sentimenti negativi prevalenti, ci si nega la possibilità della benché minima serenità psicofisica. Inoltre dietro alla persona che prova rancore si nasconde quasi sempre il giudizio o la sensazione di essere migliore dell' altra, di quella che ha commesso l' errore, senza valutare di giudicare se stessi invece di vivere indossando i panni di giudice, e soprattutto ignorando che ognuno è diverso e che le persone cambiano, per cui è sbagliato restare troppo immersi nell' immagine che si ha di quel lui/lei da non rendersi conto che questa non corrisponde più alla realtà che ci si aspettava. Nella vita tutti prima o poi sperimentano molte cose che si considerano ingiuste, e comunque le si consideri è difficile trovare il lato positivo, ma in molti casi è meglio lasciar perdere piuttosto che farsi consumare dall' amarezza che condiziona il vivere quotidiano. Ed anche se esistesse la possibilità di vendetta, questa non sarà mai la soluzione al dolore accumulato, perché le conseguenze o i conflitti successivi alla restituzione del danno subìto difficilmente restituiscono serenità e soddisfazione, perché il dolore altrui non è in grado di placare il dolore di chi serba rancore in corpo, abituato a sopportare un peso innecessario al quale si è ormai abituati e con il quale si convive. Ma come si evita il rancore? La cosa più conveniente sarebbe risolvere la situazione quando questa si verifica, senza tentennamenti o timidezze, per esprimersi e farsi rispettare sul momento, evitando l' insorgere del risentimento e di tutto quello che questo sentimento negativo comporta. Dopodiché bisogna anche imparare a rispettare il comportamento e il pensiero delle altre persone, libere come tutti di esprimersi, e decidere di conseguenza che relazione mantenere con quell'individuo, poiché rispettare non significa condividere il suo modo di agire, evitando così di vivere una situazione simile un' altra volta. Provare rancore dunque non conviene, perché questo sentimento negativo e livoroso fa male alla salute, condiziona il carattere, rende animosi e astiosi, spegne il sorriso spontaneo, lo trasforma in un ghigno malefico che condiziona il comportamento, e le persone rancorose diventano agli occhi degli altri antipatiche, insopportabili e moleste, difficili da approcciare, o meglio da evitare, sempre avverse e tendenti a parlar male, a lamentarsi e recriminare, per cui si chiudono e vengono isolate, aggravando la loro situazione psicologica di profondo disagio. Il livore infatti, alla lunga diventa un tarlo che divora, che influenza negativamente se stessi e chi vive accanto, è distruttivo, sia dal punto di vista fisico che psicologico, e fa ammalare, quindi molto meglio un atto spontaneo di rabbia espressa sul momento, piuttosto che un sentimento talmente negativo da irrancidire e logorare la serenità della mente e dell' anima.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 19 dicembre 2019. L' amica Melania Rizzoli ha scritto un articolo (qui, martedì) per spiegare che il rancore accorcia la vita, che perlopiù non vale la pena, che spesso rappresenta la mancata soluzione di un malessere che conduce a squilibri emotivi, insomma: il rancore - riassumo - non serve a niente se non a inacidirsi, logorarsi, accumulare frustrazione, perdere serenità, guadagnare fobie, insomma è un inferno che è meglio evitare per non farsene consumare o diventare «animosi, astiosi, antipatici, distruttivi» più altre caratteristiche che in vita mia mi hanno attribuito spesso: anche perché io, in effetti, sono una persona che porta rancore. Proprio così: lo ammetto, io in genere non dimentico, e non voglio farlo, anzi, coltivo amorevolmente i miei rancori e giudico la vendetta un' arte irrinunciabile, nonché, entro certi limiti, un basamento della giustizia umana. Quindi non sono/sarei d' accordo con l' articolo che Melania Rizzoli ha scritto, per come mi era sembrato: ma spiegare il perché, anzitutto, è importante per non generalizzare - come ho fatto io per primo, leggendo - ed è importante anche per capire se usiamo lo stesso vocabolario quando parliamo di rancore, o livore, vendetta, rivalsa, ripicca, risentimento, animosità, astio e altri termini che attenzione, non sono sempre sinonimi: e non sempre si possono liquidare come agenti che fanno male alla salute. Naturalmente esiste un limite che divide ciascuno dal patologico, dalla nevrosi, dalla malattia: ma quello c' è per tutti i sentimenti umani, del resto è anche vero che molti grandi uomini erano dei grandi malati o dei grandi depressi. Invito a riflettere su una banalità, intanto: quasi tutti noi, quando andiamo al cinema, tendiamo a vedere film squisitamente intrisi di vendette e vendicatori, di rancori serbati per anni o per decenni, o, in caso di buonismo, di vendette della vita, che fatalmente tende far quadrare le cose: tutte storie spesso «fuori dalle regole», «con metodi poco ortodossi», con «uomini veri» rispetto a ominicchi, in ossequio a stilemi che non appartengono al nostro quotidiano ma che una parte di noi ammira. Poi, però, quando usciamo dal cinema, quei modelli che li ricacciamo nell' immaginario, e mai, per dire, li insegneremmo a dei bambini. Perché la violenza non serve. Vendicarsi è inutile. Farsi giustizia da soli è incivile. I duelli sono da regrediti. Gli uomini veri, figurati, sono una cazzata. E naturalmente, ecco: il rancore accorcia la vita. Sono solo dei film, ho capito: ma i film in teoria copiano la vita e comunque c' è lo stesso qualcosa che non quadra, o forse, secondo me, c' è una verità che sta nel mezzo, tanto per cambiare. Ed è questa: da una parte c' è la necessità di basare la società su regole civili, non si discute; ma, dall' altra, c' è una maggioranza che non serba rancore perché semplicemente non ne è capace. Gente che non si vendica perché non ne è in grado. Non si fa giustizia perché non è abbastanza forte, oppure ha paura. Soprattutto, gente che ha la memoria corta (che è il mezzo più comodo per tirare avanti) e attenzione, sto parlando di rivalse o vendette rigorosamente dentro le regole, non di pagliacciate di chi ha visto appunto troppi film. La gente, voglio dire, tende a dimenticare. La gente finge di aver perdonato. La gente non serba rancore: ma non tanto perché fa filosofia, ma perché serbare rancore senza abbruttirsi o ammalarsi, o comunque senza diventarne vittima, è un lavoro che necessita di, come dire, due palle così. Il rancore va gestito e bisogna poterselo permettere, altrimenti meglio lasciar perdere. Non sto parlando degli invidiosi sociali, degli haters, degli abbruttiti che serbano rancori (contro chiunque) pur di non incolpare se stessi dei propri insuccessi: quelli sono un' altra cosa, anche se è una cosa importante, perché gli invidiosi sociali stanno prendendo il potere. Io sto parlando di un' incapacità di portare rancore che coincide con la legittimazione di uno dei peggiori difetti italiani: il lasciar perdere perché «non serve», perché tutto s' aggiusta, perché il tempo lava le ferite, e che t' incazzi a fare, il passato è passato, ancora stai a pensarci, domani è un altro giorno. Un cazzo, dico io. Adagio per adagio, allora aggiungo che la vendetta va servita fredda: ma per conservarla serve una dispensa ampia, capiente, riempita anche della vita che intanto continua a marciare senza che la dignità personale e il passato siano d' intralcio, ma neppure abbiano date di scadenza. Senza la memoria, e il rancore che la tiene viva, non può neanche esserci un perdono (che è un' eccezione, non una regola) anche se il classico italiano, o forse l' uomo moderno, ha la prescrizione troppo facile: se t' incazzi per il passato, lui cerca di farti passare per scemo, cioè per rancoroso. Purtroppo abbiamo cattivi riferimenti, anche perché in politica, per esempio, il rancore non dovrebbe esistere, la politica non si fa col risentimento - quante volte me l' hanno detto - e io infatti non faccio politica, anche perché in politica il tradimento è tranquillamente ammesso, e io i traditori li impiccherei tutti. Nella vita reale dovrebbe essere diverso, ma ormai si tende a politicizzare anche i rapporti personali e a gestire i rapporti più con il cervello e meno con il cuore. E lo dico nonostante io abbia vissuto per anni a Roma, dove è bellissimo mischiarsi e dove è normalissimo abbracciare una persona che ha tentato di accoltellarti la sera prima. Insomma, io il rancore ce l' ho, e me lo tengo, mi tiene vivo, anche se non vivrò mai per esso: tuttavia lo reggo, ha il suo posto, mi consente di ricordare che cosa sono gli uomini in generale, che cosa sono alcuni uomini in particolare, e persino - riguardandomi allo specchio, ogni tanto - vagamente chi sono io.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2019. Caro direttore, io credo che questo continuo parlare di «odio» e queste «manifestazioni contro l' odio» possano sortire l' effetto di crearlo, e siano perciò pericolose. Credo pure che ad averlo inteso sia proprio Liliana Segre, che l' altra sera ha tentato di dirlo: «Siamo qui per parlare di amore e non di odio». E sarebbe bello: se non fosse che una manifestazione «contro» presuppone sempre qualcosa o qualcuno da fronteggiare, un convitato di pietra, ed è quello che si stanno inventando. Sotto processo non finisce solo il mancato unanimismo per certe commissioni che è lecito trovare superflue, oppure lo scrivere per giornali che simpatizzano per il centrodestra: ci finisce anche la verità, quando non utile. L' altra sera, a margine della manifestazione milanese «contro l' odio» (dove tutto è filato liscio, a quanto so) l' enciclopedia online wikipedia ha cancellato la notizia che i «200 attacchi social al giorno» contro Liliana Segre, a suo tempo denunciati da Repubblica, in realtà erano riferiti al corso dell' intero anno 2018, dunque «non ad un singolo giorno, e indirizzati non esclusivamente alla senatrice». Questo ha detto il rapporto ufficiale dell' Osservatorio sull' antisemitismo: ma, su wikipedia, qualcuno ha cancellato, e ha sostituito con la seguente dicitura: «La notizia è stata rilanciata da altre testate». Ecco: è proprio su internet, a proposito degli «anonimi leoni da tastiera», citati anche da Liliana Segre, che ho notato qualche nervosismo di troppo. Mi spiego. Durante una pausa della Prima della Scala, sabato sera, in un corridoio di accesso alla platea, sono uscito dal bagno e mi sono ritrovato Liliana Segre di spalle, davanti a me, che camminava molto piano (essendo anziana) con tre uomini di scorta che ostruivano il corridoio nel circondarla; dopo un po', nella situazione di stallo, sono riuscito a superarli uno alla volta, sfiorando la senatrice, dopodiché mi sono chiesto però a che cosa servisse la scorta, visto che eluderla sembrava così semplice. Questo ho scritto in rete. Un dubbio, si badi, tecnico, non una contestazione circa l'esistenza della scorta: vicenda su cui non ho informazioni sufficienti per esprimermi. Bene: non sto a dire gli insulti che ho ricevuto, ma anche, attenzione, i plausi. Brutta faccenda. Gli insulti, non sto a ripetermi, erano di gente rimbecillita che ormai vede odio dappertutto e che, oltre ad associarmi spregevolmente a Libero, non poteva concepire che Liliana Segre non fosse oggetto di adorazione messianica punto e basta; gli altri, i plaudenti, non erano leoni da tastiera o anonimi «haters», ma un misto tra i tradizionali «anticasta» (insospettiti perché Liliana Segre, sino a poco tempo fa, non l' avevano mai sentita nominare) e altri che reagivano più che altro all' odio degli anti-odio. Dunque, direttore, questo è il quadro che mi sono fatto: da una parte, una consueta minoranza di presunti «migliori» che ti mettono sulla lista dei sospettati solo perché non partecipi alle manifestazioni, o non santifichi a prescindere chicchessia, o, ancora, esprimi idee scorrette anche senza volerlo, come l' adorabile ottantenne Giorgio Carbone, che è stato lapidato per aver scritto che la Nilde Iotti della fiction è «grande in cucina e grande a letto, il massimo che in Emilia si chiede a una donna»; dall'altra, poi, eccoti un' altra minoranza che non sa bene chi sia o fosse Liliana Segre, salvo apprendere che dai 14 ai 15 anni fu segregata dai nazisti in un campo di concentramento, e che poi, senza una precisa professione, dopo decenni di anonimato, è passata al ruolo ufficiale di testimone e quindi a incassare premi, lauree, scranni da senatrice e canonizzazioni imposte da Repubblica, o altri fabbricatori di santi e di mostri. Queste due minoranze messe insieme, temo, compongono una maggioranza di «società civile» vanamente corteggiata da noi giornalisti, con evidenti e meravigliosi risultati.

«Non sei cremonese se...»: l’addio dell’amministratore: «In questi gruppi Facebook c’è troppo odio». Pubblicato sabato, 14 dicembre 2019 su Corriere.it da Enrico Galletti. Sono veri e propri borghi digitali, ce n’è uno in ogni Comune. Molti scambiano ricordi e consigli, ma spesso si litiga. Il caso Monteverdi: «Torno alla vita reale». Sono simili, nati per ricordare i tempi passati, condividere le cartoline della città e provare, insieme, a trasformare un gruppo Facebook in un laboratorio di idee per rendere il proprio posto un posto migliore. Che si chiami «Non sei di Napoli se...” o di Mantova, Brescia, Salerno e Pozzuoli, poco importa. Conta che chi fa parte di quel gruppo la città la conosca per davvero. Una vera tendenza, quella dei gruppi social di singole città che, nati quasi per scherzo, da poche decine di iscritti sono diventati veri e propri borghi digitali, dove non è detto che ci si conosca tutti. Ci sono alcuni leader e ogni community ha le sue certezze: una signora Maria che ogni mattina manda il buongiorno agli altri ventimila iscritti sfoderando ogni volta immagini diverse di albe e prati bagnati dalla rugiada; una signora Giuliana che le fa eco e commenta: «Sto per mettere su il caffè, qualcuno vuole favorire?». A catena tutti gli altri, coi loro dubbi e le loro richieste. «Ferraresi, ho voglia di carne alla brace. Posto in centro senza spendere molto?»; e ancora: «Chi si ricorda la Pina del bar della Ferrovia?». E così dai gruppi delle grandi città, con i relativi fondatori, ne sono nati altri: anche un comune di mille anime, dove ci si conosce tutti, reclama il suo nido digitale dove poter discutere di quella donna che aveva sposato il fruttivendolo negli anni Ottanta, fatto due figli e finita chissà dove.

La politica resta fuori, o almeno così vorrebbe il regolamento. Tutto fila liscio, fino a quando cominciano a nascere i primi litigi. Quando al signor Luigi, il fatto che la signora Maria per la seconda volta critichi l’amministrazione comunale per la ristrutturazione del parco giochi, proprio non va giù. E partono botte da orbi: dieci, venti, cento commenti nel giro di un’ora, dove tutti si insultano e controbattono al ritmo incessante di un commento al minuto: la replica e la replica della replica. Fino a quando un amministratore se ne accorge e prende Luigi, Maria e gli altri trasgressori del regolamento e li butta fuori dal gruppo. Molte pagine nel tempo hanno chiuso, altre non vengono più moderate, alcune sono diventate strumenti di mera propaganda politica o di pubblicità personale. Altre, invece, resistono.

Poi c’è il caso di Cremona. Lì il gruppo «Non sei Cremonese se…» è nato diversi anni fa da un’idea di Lu Bertolini e Stefano Guindani. Dopo poco tempo dalla creazione, nella community è entrato anche Davide Monteverdi, 49 anni, dj di professione. Quattro anni passati a moderare i commenti, a controllare e rileggere ogni singolo post pubblicato, scremando le offese, gli attacchi personali, i contenuti politici, ragionando anche per ore sulle possibili conseguenze delle parole pronunciate da altri. «Se scegli di prenderti questo impegno lo fai per amore della tua città, non può esserci un’altra motivazione visto che non guadagni un centesimo — spiega Monteverdi —. Lavorando tutto il giorno, passavo le notti sveglio a leggere i post, era divertente: la gente chiede di tutto e spesso su quel gruppo vengono segnalati problemi che nel giro di pochi giorni si risolvono, c’è una valenza pubblica e sociale importante».

La pagina Facebook. Poi, però, i primi problemi. «Anche le discussioni più tranquille diventavano un pretesto per litigare. Cancellavo i contenuti che violavano il regolamento. Quando ti accorgi che i commenti di certa gente danneggiano le persone o le fanno soffrire c’è poco da fare: devi bannare gli utenti irrispettosi, arginare il problema. E così ho fatto, ma mentre cercavo di rendere quel gruppo migliore, per me cominciavano le minacce. Un utente che ho bannato dalla community perché non accettava che altri non la pensassero come lui e diventava violento, ha cominciato a scrivermi in modo compulsivo. È arrivato a creare diciannove profili falsi per importunare me e gli altri membri. Un giorno me lo sono trovato fisicamente sul posto di lavoro ad accusarmi di avergli rovinato la vita». Per Monteverdi il gruppo di 17mila cittadini resta una risorsa: ha fatto del bene, ha aiutato molta gente (come quella volta che da un post nacque una vera e propria mobilitazione e alcuni clochard che vivevano sotto un cavalcavia al freddo passarono in una notte dal sacco a pelo sulla strada a una casa popolare), ma ha anche svelato parte del lato più oscuro dei social. «Se tu, amministratore del gruppo, allontani una persona dalla pagina per “purificare” l’ambiente questa non ti chiede scusa, ma ti domanda come ti sei permesso di fare una cosa simile. Non sopportavo più quella pressione». Qualche giorno fa Monteverdi, sul gruppo su cui ha investito gran parte del suo tempo per anni, ha pubblicato un messaggio. «Cari cremonesi, dopo una notte di riflessione la decisione è presa: oggi è il mio ultimo giorno come amministratore e membro del gruppo. Vi ringrazio per questi anni incredibili, ma la vita reale mi chiama e io desidero risponderle. Un abbraccio a tutti, sapete dove trovarmi». «Vedi? — racconta Monteverdi —. Questo è il messaggio che ho ricevuto pochi giorni fa da un ragazzino a cui ho chiesto di rispettare le regole del gruppo. “Sei il cancro”. Come avrei potuto andare avanti? Mi fermo qui, torno alla vita». Per Davide, che da domani continuerà a dedicarsi a tempo pieno alla sua attività nel campo della musica, c’è spazio per un’ultima riflessione. «Stiamo attraversando anni bui, di crisi economica, lavorativa e istituzionale senza precedenti. La gente si sfoga davanti al cellulare, oggi il proscenio per eccellenza in cui scaricare cattiveria e frustrazione è internet. Il problema è credere che in rete tutto sia lecito». Servono segnali forti? «Io, nel mio piccolo, ci ho provato. Volevo creare un’onda positiva, ho conosciuto l’odio».

Giù le mani dalla ministra Bellanova (ma per favore anche da Di Maio). Angela Azzaro il 7 Settembre 2019 su Il Dubbio. La neo ministra all’Agricoltura Teresa Bellanova è stata presa di mira per il suo abbigliamento, il suo aspetto e perché il suo titolo di studio si ferma alla terza media. La fotografia del giuramento del nuovo governo è stata rovinata, tanto per cambiare, dall’odio social. La neo ministra all’Agricoltura Teresa Bellanova è stata presa di mira per il suo abbigliamento, il suo aspetto e perché il suo titolo di studio si ferma alla terza media. L’attacco all’aspetto della ministra è un mix, inquietante, di antico ma sempreverde sessismo e di una nuova forma di violento disprezzo che è connaturata all’acquario del web. Gli insulti e il non meno grave dileggio sono venuti da perfetti sconosciuti, i famosi leoni di tastiera, ma anche da qualche personaggio più in vista, come il giornalista de La Verità Daniele Capezzone, che dovrebbe avere molto più a cuore di tutti gli altri il rispetto, visto il delicato ruolo che svolge. Per fortuna la solidarietà è stata altrettanto bipartisan, dal Pd a Mara Carfagna, passando dal web, sono stati molti i messaggi di vicinanza rivolti a Teresa Bellanova che ha a sua volta replicato: «L’eleganza è rispettare il proprio stato d’animo». Non è un episodio da prendere sotto gamba, è al contrario la viva rappresentazione di quell’imbarbarimento collettivo a cui abbiamo assistito in questi anni. È una débâcle del sistema di relazioni e del modo che abbiamo di comunicare che deve essere assolutamente sconfitto, altrimenti rischiamo il collasso definitivo del sistema democratico. La neo ministra è stata pesantemente insultata anche per il suo titolo di studio. Poco importa che da giovane abbia lavorato nei campi come bracciante, che poi sia diventata una rappresentante sindacale e infine una parlamentare competente e combattiva. Fior fior di politici del passato venivano direttamente dalla fabbrica o dai campi, senza passare dall’università, e nessuno se ne stupiva. Adesso, proprio coloro che usano i social senza conoscerli e che scrivono in un italiano incerto usano il tema della mancanza di un diploma o di una laurea per screditare l’avversario. Non c’è infatti dietro un ragionamento, una critica argomentata ma la voglia di insultare, offendere, schiacciare l’altro. Freud avrebbe forse parlato in questo caso di pulsione di morte. Una ferocia distruttiva che si veicola contro l’altro e contro lo stesso consesso civile. Ma questa pulsione non riguarda solo la destra. Anche a sinistra spesso il dileggio e le accuse prendono il posto della critica. Il caso Bellanova arriva infatti dopo le prese in giro e gli insulti rivolti contro Daniela Santanchè, colpevole di essersi presentata in Senato con una acconciatura troppo audace. E che dire dei Cinque stelle i più feroci e sessisti nei confronti di Maria Elena Boschi. Ma anche Luigi Di Maio è spesso vittima del disprezzo della sinistra che non gli perdona di aver lavorato al san Paolo come, detto con disprezzo, “bibitaro”. Invece di valorizzare l’ascensore sociale che gli ha permesso di passare da un lavoro umile alla guida di un ministero, disprezzano un meccanismo, peraltro oggi molto in crisi, che proprio la sinistra dovrebbe promuovere. Le critiche a Di Maio vanno fatte, nel merito, sulla sua azione politica di oggi, non sul suo percorso o su i suoi titoli di studio.

Si può derubricare tutto questo a questione di costume, farsi qualche risata e andare avanti. Ma non è così. In una società in cui i simboli sono al centro del dibattito politico e mediatico, è pericoloso sottovalutare i pericoli che scaturiscono dagli insulti e dall’odio social. Lo sforzo per fermarli deve essere fatto da tutti. È vero infatti che in questi anni una parte della politica ha avvelenato i pozzi, aizzando le persone contro nemici spesso inventati. Ma lo sforzo non può essere quello di «costituzionalizzare i barbari» come detto da alcuni esponenti del Pd. In questo modo ci si mette sul piedistallo e soprattutto si scaricano tutte le responsabilità sugli altri. Il clima avvelenato che viviamo oggi richiede una auto critica da parte di tutti. Per esempio, la sinistra dovrebbe fare ammenda per un antiberlusconismo fondato sulla lotta politica vissuta come guerra al nemico, dovrebbe chiedere scusa per almeno venti anni di giustizialismo e di moralismo. Chi non ha peccato scagli la prima pietra, verrebbe da dire. Lo sforzo di uscire da questa inciviltà del linguaggio social e politico dovrebbe essere fatto da tutti. Lo scontro è tra civiltà e barbarie, ma i barbari non sono gli altri, siamo anche noi.

Invidia, il motore del mondo tra peccato e malattia: qual è il pericolo più grave che corri. Melania Rizzoli l'8 Settembre 2019 su Libero Quotidiano. «L'invidia appartiene ai mediocri, agli inutili, ai falliti, a coloro che hanno bisogno di sminuire la vita degli altri per sentirsi appagati». Da "Frasi & Aforismi". Ma l'invidia è un peccato o una malattia? Sicuramente è un sentimento non sano, uno stato d' animo per cui, in relazione a un bene o una qualità posseduta da un altro, si prova dispiacere e astio, per non avere noi quel bene o quella qualità, e a volte il risentimento è tale da desiderare il male di colui che la possiede. L' invidia di per sé è una emozione negativa, è la "stretta" che si prova quando si viene a sapere che un altro ci ha superato, una vera e propria sofferenza che nasce da un confronto perdente, in un campo che è ritenuto importante per la persona invidiosa, e può diventare un sentimento duraturo, evolvere cioè in uno stato di malessere, di malumore e di malevolenza perpetua verso la persona invidiata. Tutti conoscono l' invidia, perché tutti l' hanno provata anche se nessuno osa confessarla, anzi, essa viene sempre negata di fronte all' evidenza, e spesso viene giustificata come ira o gelosia, perché tutti sanno che è una emozione meschina, la più infida e la più nascosta, in quanto ha in sé due elementi disonorevoli, ovvero l' ammissione di sentirsi inferiore e il tentativo di danneggiare l' altro senza gareggiare a viso aperto, ma in modo subdolo, vile e sotterraneo, con una ostilità negata, mascherata da commenti denigratori nel tentativo ossessivo di privare la persona invidiata proprio di ciò che la rende invidiabile. Tradizionalmente si teme lo sguardo malevolo dell' invidioso, perfido e sottile, che non tutti riconoscono, e non a caso la parola latina invidia ha la stessa radice di "videre" ossia vedere, preceduta da "in" che implica inverso, ovvero vedere al contrario la realtà, e non a caso Dante Alighieri, nella Divina Commedia, mette gli invidiosi in purgatorio, con le palpebre cucite con fil di ferro, per chiudere gli occhi che invidiarono e gioirono alla vista dei mali altrui.

COLLEGHI E AMICI. L'invidia non si prova per i grandi della terra, per le persone irraggiungibili, sarebbe uno sforzo ed un confronto inutile, ma insorge soprattutto verso chi è simile, per le persone che si considerano paragonabili come condizioni di partenza, e spesso il bersaglio di invidia diventano quelle più vicine, a cui si vuole bene, come compagni di classe, colleghi, ma anche amici o fratelli, perché dal punto di vista psicologico l' uguaglianza di opportunità rende doloroso l' essere o il diventare inferiori rispetto ai successi di una persona ritenuta uguale o minoritaria. Perché lei sì e io no? Più il confronto è bruciante, astratto o sproporzionato, più la persona invidiosa invidia, diventa ostile, e desidera ferire, sminuire, denigrare e addirittura far del male alla persona invidiata, pur di annichilire il rivale, colpirlo con maldicenze, pregiudizi, cattiverie, costruire prove false al fine di dileggiarlo e danneggiarlo agli occhi dell' altro. Se non stupisce che nella cultura cristiana l' invidia sia uno dei 7 vizi capitali, per la psicologia essa è considerata una debolezza emotiva del paziente, una frustrazione accompagnata da infelicità, da senso di inadeguatezza ed inferiorità, con un deficit grave di auto-valutazione. Non solo. L'invidia viene considerata alla stregua di una malattia dolorosa, e gli scienziati che hanno analizzato con Risonanza Magnetica funzionale cosa accade nel cervello dei pazienti invidiosi, hanno constatato l' aumento dell' attivazione della corteccia cingolata anteriore e dorsale dell' encefalo (legate all' elaborazione del dolore fisico o sociale) tanto maggiore quanto più intensa era l' invidia che il partecipante diceva di provare, come anche il suo senso di esclusione.

OSTILITÀ. Dunque l' invidia è dolorosa, ma è anche potenzialmente pericolosa per gli altri, dal momento che implica ostilità, è socialmente distruttiva, minaccia lo status quo e mette in dubbio la correttezza professionale, la legittimità delle scelte e la credibilità della persona invidiata. L' invidia però è velenosa per chi la vive, per chi la esprime cercando di sopraffare il senso di inadeguatezza, ed autoconvincendosi che il successo dell' altro non sia meritato, che si sia in possesso di qualità migliori, e che le stesse non si sono potute esprimere per situazioni svantaggiose causate dall' altro. Mentre dunque per la psicologia l' invidia è considerata un disturbo patologico dell' umore, un deficit temporaneo o permanente, che condiziona e distorce fortemente l' emotività ed il comportamento, per la psichiatria invece, l' invidia nel corso dell' evoluzione in molti casi si sarebbe rivelata un beneficio, poiché viene descritta come un meccanismo psicologico che avverte che qualcun altro ha guadagnato un vantaggio e dà la spinta per ottenere lo stesso. Secondo uno studio dell' University of Texas l' invidia è un' emozione sviluppata come "sostegno" nella competizione per le risorse, come può essere la conquista di un partner o del cibo, e gli individui invidiosi che giudicano i rivali investono più in sforzi per raggiungere l' obiettivo e non restare indietro, essendo già in partenza sfavoriti nella selezione naturale. Comunque nessuno mai ammette l' invidia, sia per non rendere evidente la propria posizione inferiore, sia per non essere riconosciuto come uno che "parla solo per invidia", ma è bene sottolineare che all' invidia è collegato anche un piacere, ovvero la soddisfazione che si prova davanti alle disgrazie altrui. La psichiatria ha chiamato questo disturbo "schadenfreude", ovvero il fenomeno che insorge quando una crisi stronca un brillante rivale, o la gioia nascosta che si percepisce quando un affascinante conoscente, fino ad allora ammirato e adorato da tutti, ha avuto un grosso problema e deve scendere uno o più gradini, cosa che provoca un più che sottile piacere. Anche questo fenomeno è stato analizzato a livello cerebrale, e di fronte alle sventure capitate ai personaggi invidiati, è stata registrata l' attivazione dell' area encefalica legata al "circuito della ricompensa", poiché nel momento che la sfortuna della persona vincente la "abbassa" al nostro livello, si registra un riequilibrio delle posizioni mentali, e lo svantaggio dell' altro si trasforma in superiorità e soddisfazione dell' invidioso, in modo che il dolore dell' invidia si tramuta in una sensazione di gioia, placando il senso di ingiustizia subìto psicologicamente.

LE DONNE. Gli studiosi hanno evidenziato che l' invidia è ugualmente sviluppata in entrambi i sessi, anche se sono le donne a manifestarla pubblicamente in modo maggiore, soprattutto nel campo dell' avvenenza, oppure nei confronti di rivali che possiedono qualità che si vorrebbero avere, come bellezza, gioventù, riconoscimento sociale, approvazione generale e successo, ma è una emozione negativa che insorge anche in età infantile, quando cominciano le competizioni e si educano i bambini alla condivisione sociale. In più l' invidia dei piccoli pazienti si può mescolare alla gelosia per l' affetto dei genitori, che si teme di perdere, e che si subisce per le loro preferenze o scelte effettuate ed imposte e non condivise. L'invidioso in genere lancia tre messaggi: sono inferiore, ti sono ostile e potrei anche farti del male. Per questo l' invidia è distruttiva, richiede uno spreco di energie fisiche e mentali, minaccia la salute psicologica dell' invidioso, che diventa instabile e aggressivo, reagisce aspramente agli eventi ostili, ed attribuisce il suo insuccesso alla sfortuna, invidiando ancora di più i risultati positivi del rivale. Oggi l' invidia è diventata il peccato capitale più diffuso dell' era dei social, soprattutto tra i giovani, ed è più intensa per la facilità con cui ci si addentra alle foto e commenti degli altri postati su Instagram o su Facebook, alle esperienze positive che non si possono realizzare e che scatenano le reazioni più disparate, sempre negative, come il desiderio di essere al posto di quella persona, se non addirittura desiderare che si ammali o sperare che muoia. L'invidia comunque è un sentimento che divora chi lo nutre, maschi e femmine, e chi la prova non riesce ad instaurare reazioni positive con gli altri, restando bloccato in sentimenti come il risentimento, l' astio e la vergogna, con un senso di insicurezza che si approfondisce e che porta al crollo della fiducia in se stessi. Per cui continuare a chiedere al proprio riflesso: "specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?" non serve a nulla, perché l' invidia è come una malattia maligna, è cattiva, è progressiva ed ha sempre due facce. Sta a noi decidere quale guardare. Melania Rizzoli

Carlo Bordoni per “la Lettura - Corriere della Sera” il 7 novembre 2019. Il riconoscimento delle emozioni non è una novità.  Nella sua versione più attuale risale almeno a un secolo fa, al pensiero di Edmund Husserl e alla rinnovata centralità dell' individuo. Non a caso la fenomenologia riporta in primo piano l'emotività come espressione dell' autentico e come strumento di conoscenza. Nella prevalenza del soggetto c' è tutta l' esigenza di contrastare la deriva «socializzante» dell' Ottocento e del primo Novecento (sindacalismo, socialismo, anarchismo, comunismo); di fronte alla minaccia di sovversione da parte delle masse popolari si apre la prospettiva di un «ritorno all' ordine» che trova utili alleati nel darwinismo sociale, nell' antropologia criminale di Cesare Lombroso e nell' elitismo di Vilfredo Pareto. Max Scheler (1874-1928) si situa in questo periodo critico, a cavallo della Prima guerra mondiale, quando pesanti tensioni gravano sull' Europa. La sua è una posizione di mediazione: lontano da ogni simpatia per il socialismo, cerca di trovare una giustificazione ai comportamenti del singolo individuo, grazie a una metodologia fenomenologica che utilizza la psicologia, la sociologia e l' antropologia, dove la tradizione cristiana è il porto sicuro a cui approdare in caso di tempesta. Il suo approccio è essenzialmente etico e riguarda le forme espressive individuali che caratterizzano il soggetto nella relazione con altri, come la simpatia, il pudore, il pentimento e il risentimento. A quest' ultima emozione dedica un saggio del 1912, ripreso e ampliato nel 1915 e nel 1919, riedito ora da Chiarelettere (a cura di Laura Boella), in cui si riflette il clima di turbamento esistenziale che, per la sua frequenza e ampiezza, ha finito per divenire un problema sociale. La riabilitazione delle emozioni non è solo un residuo romantico, ma una modalità altra di rivalutare l' umano in tempi di sfiducia e confusione; poggia su basi tradizionali e per giunta risponde a una visione fenomenologica della realtà (restituzione al soggetto della facoltà di giudizio), ma soprattutto raccoglie l'eredità di una grande tradizione spirituale che viene dalla «logica del cuore» di Blaise Pascal e dall' Ordo Amoris di Agostino d' Ippona per una corretta gerarchia del sistema valoriale. Nella condizione d'incertezza propria degli anni precedenti al primo conflitto mondiale, ristabilire un ordine dei sentimenti (in primo luogo della supremazia dell'amore divino) significa fornire rassicurazione, consolazione e fiduciosa speranza. Così Scheler si affida alla morale cristiana e ne fa il fulcro della sua argomentazione filosofica (soprattutto nel terzo capitolo, il più denso, «La morale cristiana e il risentimento»), passando curiosamente attraverso Friedrich Nietzsche, del quale analizza, talvolta in aperta contraddizione, la Genealogia della morale (1887), con la denuncia della «rivolta degli schiavi» e delle conseguenze etiche. Il risentimento - emozione forte che Scheler usa nella stessa grafia francese di ressentiment impiegata da Nietzsche - è necessario per comprendere il comportamento umano e, malgrado le apparenze, può avere esiti positivi. Nonostante sia un «autoavvelenamento dell' anima», come ogni veleno ( Pharmakon ), comprende il suo rimedio. È il prodotto di un' emozione negativa, di rabbia e frustrazione che non trova sfogo e provoca uno stato di sofferenza, una sensazione di inadeguatezza e di depressione. «L' ambito del risentimento - scrive Scheler - è quindi limitato innanzitutto a coloro che sono perennemente servi e dominati e invano lusingano alla rivolta contro il pungolo di un' autorità». Dal risentimento nasce il desiderio di vendetta, proprio dei deboli, e l' anima offesa coltiva l' odio, il rancore, l' invidia per l' altro. Si tratta sempre di reazioni a posteriori, mediate e meditate, poiché «agli schiavi - per dirla con Nietzsche - è preclusa una reazione vera, quella dell' azione, che possono soddisfare solo grazie a una vendetta immaginaria». Quando il risentimento lascia un senso di impotenza di fronte all' inutilità della reazione, può dare luogo alla rassegnazione, alla rinuncia, all' accettazione, forse accompagnate a una «deviazione dell' attenzione» o persino a una «falsificazione dell' immagine del mondo». Ma anche a una sublimazione del desiderio di vendetta, disposto a lasciare spazio a sentimenti opposti, «salvifici» per il proprio spirito: il valore positivo della povertà, del dolore, del sacrificio, della morte, che si traducono in dispositivi creativi. È quello che, per Nietzsche, è accaduto nel cristianesimo: il rovesciamento dell' ordine morale. Se nella Grecia classica si guardava verso l' alto (i meno nobili aspiravano alla perfezione; i più nobili odiavano l' imperfezione), adesso vige il contrario. Benché rivolgersi verso il debole sia una morale «da schiavi», in questo caso il risentimento si rivela un valore positivo, tanto che «l' idea cristiana dell' amore è il fiore più raffinato del risentimento». In questo capovolgimento dei principi etici, nell' educazione morale volta a privilegiare l' inferiore, sta la perdita del rispetto di sé e della propria integrità individuale. Contrariamente a Nietzsche, Scheler trova in questa sublimazione del risentimento una dimostrazione di forza e una nobiltà d' animo propria dei santi. Da un sentimento negativo può nascere l' amore, quando si accetta con responsabilità la condizione umana. Il risentimento è un' emozione attuale anche nella sua coniugazione odierna: dentro e fuori la rete, è divenuto una costante nei rapporti interpersonali, benché privo di ogni forma di sublimazione. Non tanto perché «gli schiavi hanno infettato i padroni» - come sosteneva Nietzsche - quanto perché la società contemporanea non ha più validi punti di riferimento, ma vive in una sorta di precarizzazione dell' etica che soddisfa il bisogno inesauribile di emozioni sempre nuove.

·         I simboli scaduti dell’altro millennio che i comunisti usano per alimentare odio e paura di un pericolo immaginario.

La svastica. Giuseppe Genna su L’Espresso 2.6.2019 e 8/11/2019. Dal bene al male senza ritorno. Così un segno positivo, antico come il genere umano, è stato sequestrato per sempre dai nazisti. Senza possibilità di redenzione. Storia e significati nel libro di un grande art director, colloquio con Steven Heller. Una sera di inverno 1922 un viaggiatore arriva a Uffing, sobborgo di Monaco di Baviera. La villa degli Hanfstaengl, nobili tedeschi, è illuminata a festa. È molto atteso l’ospite, a cui il padrone di casa fa da consigliere e comunicatore. Ogni tempo ha la sua Bestia, ma questo tempo più di altri. Ecco arrivare l’uomo in questione, se questo è un uomo. Lo aspettano come un messia. Sembrerebbe ridicolo: è tragico. Su consiglio di Hanfstaengl, indossa una divisa militare, nello stivale destro ha infilato un frustino in pelle di ippopotamo e ha ridotto i suoi tristi baffi spioventi a un quadrotto di peli, con cui intende segnare la storia del pianeta. Ci riuscirà. È Adolf Hitler. Decorato di guerra, a capo di un partito securitarista, sovranista, razzista, anticomunista, tutto votato ai tedeschi che vengono prima degli altri - è l’uomo nuovo, sarà l’uomo forte. Fa innamorare di sé le persone, con la sua parlata enfatica e monocorde, rotta da apici isterici. Si trova a cena dai coniugi Hanfstaengl per incontrare i finanziatori del suo progetto politico: industriali, ceto abbiente, élite. Porta con sé un tubolare dal contenuto misterioso. Lo accompagna il fido Rudolph Hess, che considera un genio e dal quale è considerato a sua volta un genio. I quindici commensali nella villa sembrano adorarlo. Gli pongono domande sulla realizzazione di un colpo di Stato che la finisca con la fiacca democrazia tedesca. Ed ecco il colpo di teatro. Hitler estrae dal tubolare quindici vessilli, uno per ciascuno dei convenuti. È la prima apparizione della bandiera nazista. La illustra a questi complici e investitori: il campo rosso intende sottrarre consenso ai bolscevichi, il cerchio bianco rappresenta l’élite. Al centro c’è la croce uncinata: ed è davvero al centro di tutto. Adolph Hitler pone fine a un simbolo che appartiene al genere umano da millenni. Se ne appropria, lo stupra, lo porta al compimento. Comincia da lì. Non finirà più. «Non finirà più di irradiare il male in cui è stata inscritta, la svastica. È un simbolo perduto per sempre», dice Steven Heller, una delle leggende planetarie nell’art direction. Per più di trent’anni ha lavorato al New York Times, ha curato decine di mostre di livello internazionale, ha fondato il corso in design alla School of visual arts di New York. Lo venerano ovunque gli art director, i designer, i grafici. Si trova a Milano, invitato da Mimaster, realtà di formazione internazionale per illustratori. Tra i molti titoli di cui è autore Heller c’è “The Swastika and Symbols of Hate”, di cui sta per uscire una nuova edizione riveduta, per i tipi di Allworth Press. Da quasi vent’anni questo testo seminale non smette di insistere sulle inquietudini di chi, ovunque nel mondo, osserva moltiplicarsi le apparizioni della svastica su muri, manifesti, website e pagine social. Genealogia e interpretazione del simbolo più cruciale nella storia dell’uomo, a parte la nuda croce da cui deriva direttamente, questo catalogo sulla svastica appare tanto completo quanto destabilizzante, perché i tempi sono appunto destabilizzanti. «Se penso che sono stati miei colleghi designer ad avere lavorato tanto bene sul simbolo nazista, avverto un acuto senso di disagio». Non fu un professionista del visual a elaborare il vessillo con cui Hitler si intitolò un utilizzo definitivo della croce uncinata: la bandiera fu realizzata dal dentista del futuro führer, Friedrich Kröhn. Poco importa, poiché il fatto è che la svastica, segno arcaico e positivo per millenni, almeno fino a quella notte bavarese in cui Hitler se ne appropria, mutandone per sempre il carattere, manifesta l’enorme potere di chi sui simboli opera. Una materia scivolosa, una responsabilità enorme, che la storia rischia di portare a rovina. «Avviene lo stesso con le parole. Victor Klemperer, nel suo sconvolgente “La lingua del Terzo Reich”, mostra come la voce della distruzione occupi il linguaggio quotidiano, lo eterodiriga, si depositi cancellando il passato intero di una terminologia. Dire “ebreo” è ben diverso che pronunciare “l’ebreo”, isolando ed enfatizzando, escludendo e votando il soggetto all’esperienza della violenza». La lingua dei simboli è tuttavia ancora più arcaica e universale, profonda e rischiosa da maneggiare. La svastica è ricca o, meglio, era ricca di una tradizione benigna, profondamente positiva, legata al sentimento dello spazio e del tempo - un patrimonio e un matrimonio totalmente disarticolato e mandato a putrefazione dall’evento nazista, che ne ha prosciugato i significati e ha determinato un ribaltamento radicale. «È quella che io chiamo devoluzione del simbolo. I movimenti antisemiti, nel cuore dell’impero asburgico, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del nuovo secolo traducono in simbologia politica un’elaborazione fittissima di supposti maestri dell’esoterismo e di ideologi che, nel nazismo, troveranno valorizzazione e compimento». Nel 1907 la svastica sventola a Vienna dai palchi in cui arringa Lanz von Liebenfels, occultista ed ex monaco cistercense, fondatore di una setta che elabora una teoria ariana della svastica. Si tratta di uno slittamento storico privo di ritorno, il momento in cui un simbolo viene occupato per sempre da una volontà di perversione, che trasmuta una forma, certamente mai innocente, come del resto qualunque forma comporta il proprio lato in ombra, l’alito raggelante del male. Il simbolo, quando è sorgivo e universale, si incarica di una simile follia: mostrare nascondendo, sintetizzare ciò che è benigno con l’oscurità, per significare la totalità, per rendere conto dell’interezza di ogni cosmo possibile. L’Occidente inizia a intestarsi la svastica a partire da un ritrovamento archeologico entrato nel mito, mentre dal mito proveniva direttamente. Nel 1874 Heinrich Schliemann individua reperti istoriati, mentre identifica la Troia omerica. Su quei reperti compare la svastica. Segno augurale, simbolo di fertilità, legato a divinità femminili di qualunque pantheon elaborato nei cinque continenti, la croce uncinata rappresenta il corso del sole e del tempo, lega il neolitico all’epoca minoica, la gnosi iraniana ai buddhismi cinese e giapponese, i Maya ai vichinghi e, secondo lo storico Charbonneau-Lassay, al Cristo. L’esegeta René Guénon ne parla al femminile e al maschile, individuandone la geometria sacra: come il punto al centro del cerchio e come la ruota, la svastica risale a ere preistoriche e appartiene a una tradizione primordiale, che riappare ovunque e in ogni era, per manifestare le origini e l’esito dell’universo. «È una storia praticamente irricomponibile, perché arriva a coincidere con la vicenda umana nella sua interezza. Ciò che possiamo raccontare con precisione è la devoluzione del simbolo: diviene il rappresentante del male assoluto, viene impegnato nello sterminio di milioni di persone. I simboli sono in generale rioccupabili, ma non la svastica: non c’è redenzione possibile», constata amaramente Heller. E si moltiplicano, reclamano nuovi spazi, le svastiche. Le radici occulte del nazismo e l’ostensione hitleriana vengono rilanciate dall’utilizzo che la cultura pop pratica sul simbolo. C’è un momento di intensa liberazione dei segni, dei marchi, degli antesignani dei brand. Una stagione in cui si persero i confini del simbolico e le rune della guerra si rovesciarono, il topolino disneyano divenne emblema della rivoluzione sessuale, il potere floreale degli hippy deflagrò, per essere repentinamente catturato dal mercato e ridotto a logotipo, a meme, a consumo di massa. Era la cosiddetta “summer of love”, l’eroica estate di San Francisco nel 1967. La cultura psichedelica e quella rock si preparavano a vedere le SS effigiare nel logo dei Kiss, i teschi himmleriani marchiare i Grateful Dead, l’apocalisse premere dalle note dissonanti dello “Helter Skelter” a cui inneggiavano i Beatles. «Quella stagione termina con una svastica o, meglio, con quello che si crede essere una svastica: il tatuaggio sulla fronte di Charles Manson, il satanista organizzatore del massacro di Cielo Drive a Los Angeles, in cui perse la vita la giovane moglie di Roman Polanski, Sharon Tate, incinta. Il sangue dell’attrice ventiseienne servirà a vergare sui muri della sua villa slogan infernali». È un segno dei tempi la devoluzione del simbolo, su cui Heller impernia la sua storia della svastica. Rimossa, essa ritorna. Quando il rimosso torna, lo fa con una potenza inusitata e una diffusione inarginabile. C’è una sezione impressionante in “The Swastika and Symbols of Hate”. Sono rappresentate una dietro l’altra alcune delle sigle dell’alt-right americana, le fazioni suprematiste che figliano autori di stragi, terroristi bianchi, fanatici del Bund tedesco, più criminali che nostalgici: un’infinita variazione su svastica e rune accompagna queste organizzazioni ai limiti della legge, filiazioni del verbo nazista, che non decresce e anzi aumenta con l’incremento di un disagio nel cuore e ai margini del capitale. Il capitalismo, che nutrì e fece prosperare Hitler e il suo mito atrabiliare, è il medesimo fomentatore degli eredi di quella cupa leggenda, preannuncio del prossimo sterminio, generalizzato e incombente nei caratteri littoriani e gotici che accompagnano le molteplici riedizioni della svastica e della sua evoluzione in croce celtica, tanto negli Usa quanto in Germania come in Italia. E tuttavia il discorso e la panoramica che Heller produce sulla svastica ha un punto cieco. Non si riesce a pieno a comprendere cosa sia la svastica da Hitler in poi, se non si denuncia come la croce uncinata sia il tentativo di opporsi alla croce cristiana. Non nel senso che ci sia puzzo di zolfo nell’operazione simbolica nazista (e c’è ben più che un va- pore tossico intorno al simbolo che Goebbels impose ovunque, in Germania e nella storia ventura). Non è vedendo Hitler come anticristo, che si può giungere a una comprensione profonda del fenomeno. Va invece rilevato un errore, che testimonia dell’infinita stupidaggine dei circoli nazisti: la loro croce è semplicemente successiva a quella primaria, che è appunto la cristiana. Ne è un’elaborazione postuma: la croce cristiana si vede aggiungere dei peduncoli. Il valore spirituale di un simbolo coincide con la sua capacità di coprire le distanze dello spazio e del tempo, insieme al potere di indurre all’azione. La risposta, a quella che Heller definisce come irredimibilità della svastica, risiede nell’inviolabilità della croce semplice. Sul piano storico e su quello simbolico Hitler perde la sua grande guerra al Cristo. E bisognerà osservare con sguardo acuminato i tentativi continui con cui le destre intendono appropriarsi della croce cristiana, che abbia attaccato un rosario o meno. È un tempo di simboli, quello attuale, e non c’è da sorprendersi se la cifra stilistica dei nostri giorni risieda nell’emissione rinnova- ta del simbolo, questo aggeggio che il passato recente, non soltanto quello italiano, ha considerato un armamentario vintage, da irridere o da decostruire ironicamente. Quando la storia assume i contorni del dramma, i simboli mostrano la loro facies aeterna. Tornano, non smettono di tornare. La politica nazionale è ormai una lotta tra chi utilizza i simboli (il negro, l’omosessuale, l’arma, il confine, il crocefisso, la gogna) e chi non sembra più capace di riprodurne la potenza. Lo spirito umano non abbandona i suoi codici. Li offusca, per ritrovarli intatti. In una foresta di simboli, dove sono ubiqui i logo dei produttori (di scarpe da tennis, di mele computeristiche, di bottigliette a vaga forma di donna), la civiltà di massa si è illusa di avere seppellito ciò che è primario, incoercibile, fatale. L’uomo simbolico è più vasto dell’uomo del capitale, così come la croce nuda è più radicale di quella uncinata. In questo scontro tra simboli, tra redenzione e impossibilità della medesima, si rinnova il tempo e l’epoca si espone al rischio del collasso o al pertugio che conduce al futuro.

“La svastica e gli altri simboli dell’odio” è il titolo del saggio di Steven Heller che uscirà a settembre negli Stati Uniti in una nuova edizione riveduta e ampliata per Allworth Press. Heller racconta la storia e i misteri del simbolo della svastica, ne analizza gli usi religiosi e commerciali prebellici e l’appropriazione e l’uso improprio della forma da parte dei nazisti fino alle sue applicazioni contemporanee come icona razzista e apolitica.

"Il saluto romano non è reato", assolti due politici nell'imperiese. Esponenti di Forza Nuova avevano alzato il braccio durante una cerimonia in memoria della Repubblica di Salò. La Repubblica il 07 novembre 2019. "Il fatto non costituisce reato": è questa la formula con il quale il giudice monocratico del Tribunale di Imperia Sonia Anerdi ha assolto dall'accusa di apologia del fascismo l'ex assessore del Comune di Diano Castello (Imperia) ed esponente di Forza Nuova Manuela Leotta e il sanremese Eugenio Ortiz. I due il 26 aprile del 2015 avevano fatto il saluto romano e gridato "presente" durante una celebrazione, presso il cimitero di Sanremo in memoria dei caduti della Repubblica sociale italiana. La sentenza con la quale sono stati assolti i due imputati è stata pronunciata sulla base di precedenti verdetti della Cassazione. Il pm aveva invece chiesto una condanna a 3 mesi di reclusione e 300 euro di multa. Sul tema si registrano per altro diversi orientamenti della Cassazione. A maggio con la sentenza 21409, la Corte ha confermato la condanna per un avvocato “nostalgico” del regime che, nel corso di una seduta del Consiglio comunale di Milano, in occasione della presentazione del “Piano Rom” aveva steso il braccio accompagnando il gesto con la frase “presenti e ne siamo fieri”, ma solo pochi mesi prima la Cassazione aveva sentenziato che non è reato il saluto romano se ha intento commemorativo e non violento: in questo senso, può essere considerato una libera "manifestazione del pensiero" e non un attentato concreto alla tenuta dell'ordine democratico. La Cassazione aveva così definitivamente assolto due manifestanti di Casapound, che durante una commemorazione organizzata a Milano nel 2014 da esponenti di Fratelli d'Italia, rispondendo alla "chiamata del presente" avevano alzato il braccio destro facendo il saluto fascista. Il giudice di Imperia si è conformato a questo orientamento.

Imperia, saluto romano non è reato: assolti in 2. Una forma di saluto che fece molto discutere nel corso di un episodio del 2015, durante le celebrazioni funebri in onore ai caduti Rsi a Sanremo: il giudice assolve Manuela Leotta ed Eugenio Ortiz. Marco Della Corte, Giovedì 07/11/2019, su Il Giornale. "Il fatto non costituisce reato": con tali parole Sonia Anerdi, giudice monocratico del tribunale di Imperia, ha assolto Manuela Leotta, assessore del comune di Diana Castello (Imperia) ed esponente di Forza Nuova ed Eugenio Ortiz, residente a Sanremo, dall'accusa di apologia di fascismo. Tutto accadde il 26 aprile 2015, quando i due avevano esibito il saluto romano e gridato "presente" durante una celebrazione in memoria dei caduti della Repubblica sociale italiana svoltasi presso il cimitero di Sanremo. Come si legge dall'agenzia Ansa, la sentenza, con cui sono stati assolti i due imputati in questione, può contare su diversi precedenti da parte della Cassazione. Originariamente, il pm aveva invece chiesto una condanna di 3 mesi di reclusione ed un'ammenda di 300 euro.

Saluto romano non è reato. Il saluto romano non costituisce reato se esibito durante cerimonie come commemorazioni. Basandosi su tale status quo, il giudice Sonia Anerdi ha assolto dall'accusa di apologia di fascismo l'esponente di Forza Nuova Manuela Leotta e il sanremese Eugenio Ortiz. I due avevano salutato con la mano tesa gridando "presente" i caduti della Repubblica sociale italiana nel corso di una commemorazione svoltasi il 26 aprile 2015. La scena era stata filmata da alcuni agenti della Digos presenti tra la folla di nostalgici. Il pm aveva chiesto per i due imputati una condanna a tre mesi di reclusione ed il pagamento di 300 euro di multa. Tuttavia, il giudice Anerdi, prendendo come spunto precedenti verdetti della cassazione, ha dichiarato che quanto attuato da Ortiz e Leotta non costituisce reato. Questo, contrariamente a quanto formulato in una recente sentenza, in cui la cassazione aveva invece confermato la condanna di un avvocato di Milano che aveva fatto il saluto romano nel corso di una seduta del consiglio comunale. Un episodio analogo era avvenuto anche nel corso dei funerali di Antonio Rastrelli, ex presidente della giunta regionale Campania. In quel caso il saluto fascista era stato utilizzato per salutare il feretro del politico. Il caso in questione non era stato scevro di strascichi giudiziari.

·         Dall'ideologia all'odiologia.

Se Renzi ha bisogno di spicci. Alessandro Sallusti, domenica 22/12/2019, su Il Giornale. Ma si può governare un Paese «salvo intese»? Ogni Consiglio dei ministri - anche quello di ieri - si conclude con annunci roboanti e una piccola, nascosta, postilla: «salvo intese». Che tradotto significa: non abbiamo deciso nulla, non siamo d'accordo su niente, ma qualche cosa dovremo pur dire agli italiani. A questa sceneggiata partecipa anche Matteo Renzi, l'uomo che voleva cambiare la storia del Paese e che si ritrova a fare il Gianburrasca del governo con il suo partitino che fatica a decollare, e che forse per questo minaccia fuoco e fiamme ma poi piega la testa al momento decisivo pur di tenere in piedi il baraccone di Conte ed evitare le urne. Ma non è questo che ci interessa, sono affari suoi. Rilevo però che l'uomo non so se perde il pelo, sicuramente non il vizio di arroganza che gli è valso l'appellativo - da noi mai usato - di bullo. Nei giorni scorsi ci è pervenuta una sua querela, non so per quale fatto perché lo scopriremo solo strada facendo. La cosa non ci spaventa, fa parte del nostro lavoro, ma ci delude profondamente. Non pretendiamo nessuna corsia preferenziale, né tanto meno licenze di diffamare. Avremmo però preferito ricevere prima una telefonata o una richiesta di chiarimento, di replica o rettifica perché così si fa tra galantuomini. Questo perché noi con lui galantuomini lo siamo sempre stati, soprattutto nei momenti per lui più difficili, quando da premier venne vigliaccamente messo in croce con l'inchiesta - poi rivelatasi una bufala - su suo padre. Aveva tutti contro, soprattutto quelli del suo partito che non lo amavano, e noi a difenderlo non perché ci era simpatico ma perché la cosa puzzava a un chilometro di schifezza. Io stesso mi esposi più volte in tv, tra lo stupore dei suoi compagni infedeli e dei miei lettori, in sua difesa. Non «salvo intese», ma convintamente. I fatti ci hanno dato ragione e sono contento per lui e per suo padre. Non chiedo per questo neppure un «grazie», dico solo che mi sarebbe piaciuto essere ricambiato con altrettanta attenzione, quantomeno formale. Niente, lui manda avanti l'avvocato e chiede soldi. Tutto questo è triste, non per i soldi (se proprio ha bisogno di spicci me li chieda e mi mandi l'Iban - signor ex premier - e le faccio io una donazione volontaria), ma perché è il metodo dei furbetti e degli estorsori, non degli aspiranti statisti.

Alessandro Sallusti, Pietro Senaldi: "Non andava processato, odio politico contro di lui". Libero Quotidiano il 22 Dicembre 2019. Il nostro collega Sallusti, direttore del Giornale, è stato assolto di recente dall' Ordine dei Giornalisti. Ne siamo sollevati, ma non è il caso di festeggiare. La sentenza di non colpevolezza è solo il rimedio a un' ingiustizia, perché Alessandro non andava processato e il giudizio è stato un' umiliazione e una perdita di tempo per la categoria nonché di denaro ed energie psicofisiche per l' imputato. I fatti. Un uomo di stazza imponente uccide una donna di cui era innamorato e che lo respingeva. Il Giornale redige un ritratto dell' omicida e lo titola "Il gigante buono e quell' amore non corrisposto". Edvige Liotta, una signora totalmente estranea ai fatti, non condivide la titolazione e fa un esposto all' Ordine degli scribi sostenendo che «il gigante buono» sia una definizione troppo benevola, malgrado questo fosse il soprannome che l' uomo aveva in paese, e che l' aver sottolineato che la vittima non ricambiava i sentimenti del suo assassino fosse una sorta di giustificazione all' omicidio. Anziché cestinare la denuncia, delirante e chiaramente dettata da odio politico verso Sallusti, l' Ordine ha aperto un procedimento contro il collega, che vanta 35 anni di carriera, almeno 25 dei quali trascorsi ai massimi livelli della professione. Mi chiedo come i tutori della deontologia possano prendere sul serio i peti che scalmanati incontinenti lanciano di continuo contro alcuni dei più autorevoli rappresentanti della categoria. Sovente capita pure a me di essere processato perché qualcuno che non mi legge, occhieggia un titolo di Libero su internet o in tv e, poiché detesta la testata che dirigo, mi denuncia. Quando ne chiedo conto, mi viene replicato: «Dobbiamo procedere, c' è stato un esposto». E dunque? Buttatelo nel cesso. Funzione primaria dell' Ordine dovrebbe essere la tutela della libertà di stampa e di opinione dei giornalisti, i quali andrebbero difesi da chi vorrebbe tappare loro la bocca. Invece oggi, come prova il caso Sallusti, chiunque può svegliarsi, leggere, fare un esposto a vanvera contro un direttore e ottenere udienza. L' assoluzione è il minimo, ma non ripaga dell' ingiustizia. La signora Edvige ha perso, però il conto dell' avvocato non arriverà a lei, che ha intentato una causa temeraria per biechi fini politici e potrà promuoverne impunemente altre, bensì al Giornale, sottraendogli risorse. È un attentato alla libera informazione. Quel che sta accadendo è terrificante. Il lettore è il giudice supremo del lavoro di un cronista, ma dovrebbe esserlo solo in edicola, non al Consiglio di disciplina, che processa i giornalisti anche se la giustizia ritiene che non abbiano fatto nulla di male. L' Ordine ha un ruolo di garanzia deontologica. Verità e onestà intellettuale, questi sono gli ambiti del suo giudizio. Le opinioni dovrebbero stare fuori, perché esprimerle è un diritto del giornalista e i limiti li può porre solo il codice penale. Ahimè, oggi non è più così. Il Consiglio di disciplina si è dato il compito di sindacare ciò che è giusto, o meglio politicamente corretto, e ciò che è sbagliato scrivere. Ma questo significa diventare un organismo di controllo e orientamento del pensiero. Mi è capitato una volta di essere condannato per aver riportato alla lettera un verbale dei carabinieri che descriveva uno stupro. Un' altra perché un mio giornalista aveva confuso il nome di un sondaggista con quello di un altro. Io ammonito, il redattore che aveva sbagliato assolto. Un' altra censura l' ho meritata perché a pagina 34 della cronaca di Milano un redattore aveva confuso il liceo classico Manzoni con il liceo linguistico Manzoni. Senza parlare di «Patata bollente», che solo se lo scrive Libero significa donnaccia, mentre per i tanti che l' hanno scritto dopo ha sempre voluto dire «rogna» o situazione imbarazzante. Siamo al Far West. Chiunque può sparare e lo sceriffo può decidere di impiccare l' innocente e liberare l' assassino. Espressioni consentite ad altri, a Libero sono negate. Ho colleghi terrorizzati. Se non siamo al liberticidio siamo comunque prossimi al Libericidio. C' è stata una discussione in redazione se il titolo «Meraviglia, bellissima e intelligente», potesse essere considerato sessista malgrado l' occhiello «Smentiti i pregiudizi maschilisti e femministi». Mi chiedo se ci sia stato lo stesso dibattito a Repubblica quando hanno deciso di definire la Meloni «Reginetta di Coattonia» o al Fatto quando hanno stabilito di battezzare Salvini «Cazzaro verde». Nota a margine. Quando parlo di queste cose con l' Ordine, che ringrazio per il fatto di ascoltarmi, mi viene risposto che il Consiglio di disciplina dipende dalla Procura. Lo so, ma lo trovo curioso. Se un giornalista fa un errore deontologico, che c' entrano i pm? Forse che i magistrati fanno processare i loro colleghi per questioni deontologiche da un organismo nominato da noi giornalisti? Pietro Senaldi

Maria Laura Rodotà per “la Repubblica” il 5 dicembre 2019. Antisocial di Andrew Marantz, da poco uscito negli Stati Uniti, può essere letto come un romanzo distopico: «In poco tempo successe l' impensabile: persone intelligenti e benintenzionate diventavano incapaci di distinguere semplici verità dalla disinformazione virale; una macchietta della cultura pop veniva eletta presidente; e i neonazi marciavano a volto scoperto per le città». O come un racconto satirico: «Era una happy hour del libero pensiero, un' occasione di incontro per maschilisti locali, neomonarchici, troll nichilisti di Twitter e altri guerrieri culturali autodidatti». Ma pure un saggio serio scritto alla Woody Allen, da «un bravo ragazzo ebreo dei sobborghi » che per giorni intervista il conduttore neonazi del podcast The Daily Shoah . Mentre gira per le aziende della Silicon Valley in cui si lavora agli algoritmi che hanno in ostaggio le nostre vite, Marantz si chiede se non sia il caso di «smettere di preoccuparsi e amare i nuovi sovrani». Spoiler, non ci riesce.

I guardiani. Intanto Antisocial , sottotitolo Online Extremists, Techno-Utopians, And The Hijacking Of The American Conversation , viene recensito come libro definitivo o comunque importante sul nesso tra la cultura di internet e la nuova destra estrema. Marantz, giornalista del New Yorker , ha passato tre anni a seguire i due gruppi che accusa di aver sequestrato la conversazione americana (non solo americana): gli estremisti online, neonazi da web, piazzisti di notizie false, troll professionisti o spontanei, che chiama i Gate Crashers, gli imbucati. E i nuovi Gatekeepers, i guardiani, i "tecno-utopisti", dai fondatori di Reddit agli imprenditori di siti di fake news e gattini. Che «non volevano distruggere la democrazia. Volevano fare soldi. Dovevano rendere le persone dipendenti dal loro prodotto. Con ogni mezzo». Anche tollerando la diffusione virale di contenuti razzisti, che «generano molto traffico online». I social media usano algoritmi per attivare emozioni come la rabbia e la paura. Che portano a restare connessi e attivi. Così, molti hanno guadagnato con le fake news, molti estremisti isolati sono diventati influenti sul web. Dove, spiega Marantz, si è creata una subcultura che ha creato un movimento che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca a furia di meme.

Gli imbucati. Meme prodotti da strateghi politici per soldi e da disadattati da casa, gratis. Marantz ne ha seguiti alcuni, uomini bianchi arrabbiati e strani diventati celebrità del web. Di quelli che per primi lanciano notizie deliranti e campagne denigratorie, poi riprese da media tradizionali trumpiani (o sovranisti), poi rilanciate da politici sulle reti normali, alla fine equiparate alle notizie vere. C' è Mike Cernovich, ora notissimo, fino a qualche anno fa disoccupato con un blog antifemminista, e mantenuto dalla moglie dirigente di Facebook. C' è Mike Enoch, quello della Daily Shoah, sposato con un' ebrea. E poi ci sono storie come quella di Samantha, ex di uno dei capetti neonazi della marcia di Charlottesville, nel 2018, in cui fu uccisa una manifestante antinazi. Samantha era diventata neonazi. Per paura di perdere l' amato, per autosuggestione, per timorosa emulazione. Era stata un' attivista per Obama, era finita a fare il saluto nazista perché tutti lo facevano, «trascinata dall' energia della sala».

La libertà. Marantz produce proposte controverse per contenere i trascinatori. In un commento sul New York Times ha suggerito «passi per mitigare i rischi». Facendo un esempio pesante: «Nel 1993, i conduttori radiofonici che in Ruanda invocavano un bagno di sangue contribuirono a creare il clima che portò al genocidio. L' amministrazione Clinton avrebbe potuto disturbare il segnale radio e cancellare le trasmissioni, ma gli avvocati del Pentagono decisero di no. Citando la libertà di parola. È vero, sarebbe stata ridotta. Ma forse il genocidio sarebbe stato evitato». Marantz è stato subito criticato come un nemico del Primo emendamento, come uno sprovveduto che invoca la censura; come un elitista ingenuo che suggerisce «programmi governativi di alfabetizzazione giornalistica» e chiede a Mark Zuckerberg di «rendere Facebook un po' meno redditizio e molto meno immorale». E forse, più che a indicare soluzioni, è bravo a raccontare come «con l' elezione di Trump, l' impensabile è diventato concepibile»; come i Guardiani cervelloni non abbiano capito la loro enorme responsabilità sociale per aver distrutto i media tradizionali e non aver saputo pilotare i media nuovi. Mentre gli estremisti hanno saputo usare l' ironia e la confusione per sdoganare orrori. Il libro è piaciuto anche all' arci- troll Cernovich. Lo ha recensito, trovando Marantz «pensatore raffinato e scrittore di talento» che purtroppo scrive sul New Yorker , «dalle cui finestre di vede la Goldman Sachs» ( Antisocial ha una sua vita online, e si temono nuove puntate). 

 Gli odiatori social si scatenano dove c'è più disuguaglianza: ecco la mappa della rabbia. Messaggi razzisti. Post omofobi. Insulti via twitter. «Nelle aree in cui è più ampia la forbice economica e in quelle dove è maggiore il timore di perdere il posto di lavoro si concentrano i fenomeni di odio virtuale». Gloria Riva il 5 dicembre 2019 su L'Espresso. Gli attacchi vigliacchi a Liliana Segre. La strafottenza digitale al medico Roberto Burioni. Gli insulti twittati a Elsa Fornero. Il cyberodio ha contagiato l’Italia e ogni angolo di mondo connesso. Di fronte allo sconcerto generale qualche nazione ha cercato di arginare gli insulti digitali con una legge, mentre in Italia, al dipartimento di Scienze Sociali del Gran Sasso Science Institute di L’Aquila, si è scoperta l’origine del fenomeno, il virus che ha provocato il contagio: la precarietà. Le economiste Alessandra Faggian e Daria Denti hanno mappato l’Italia dell’odio digitale e l’hanno sovrapposta a quella della criminalità, della discriminazione razziale, della povertà, della violenza fisica, del disagio sociale. Hanno fatto centinaia di tentativi riscontrando zero connessioni fra un fenomeno e l’altro, come se i tweet aggressivi fossero totalmente scollegati dal contesto, dalla realtà in cui vivono gli odiatori del web. La soluzione è poi arrivata applicando gli indicatori di incertezza economica e disuguaglianza, che corrispondevano perfettamente all’odio online: «Nelle aree in cui è più ampia la forbice economica e in quelle dove è maggiore il timore di perdere il posto di lavoro si concentrano i fenomeni di odio virtuale», spiega la ricercatrice Denti. Negro, zingaro, terrone, frocio, usuraio, rabbino, puttana sono le parole d’odio più utilizzate nei tweet. I bersagli? Le minoranze etniche nel 42 per cento di casi, le donne (41 per cento), i disabili, il mondo lgbtq. E sono in crescita, sia in volume, sia in diffusione tanto che negli ultimi tre anni i fenomeni di cyber hate sono praticamente raddoppiati. Si tratta dunque di una delle sfide più rilevanti poste dalle piattaforme online di social media se si considera che l’anno scorso Facebook ha rimosso 7,9 milioni di discorsi di odio in tutto il mondo, mentre YouTube cancella in media più di 15mila canali a trimestre. Twitter ha ricevuto oltre 250mila segnalazioni di contenuti d’astio tra gennaio e giugno 2018, nella sola Germania. Un dato che è possibile conoscere perché soltanto i tedeschi hanno una legge sugli hate speech on line, per obbligare i principali social network, come Facebook e Twitter, a rispettare le severissime leggi di Berlino in materia di diffamazione, incitamento all’odio e minacce, in vigore dalla fine della Seconda guerra mondiale. In Germania, la mancata immediata rimozione di quei cinguettii fa scattare multe salate per i titolari dei social media. La commissione europea ha invece raggiunto un accordo con le piattaforme, che hanno l’obbligo di vigilare sui contenuti, lasciando però alla loro sensibilità la possibilità di cancellare o meno un commento. Il dibattito negli Stati Uniti si è fermato di fronte all’inviolabile diritto alla libertà di parola, che in qualunque caso viene prima di tutto. Eppure Tarlach McGonagle, docente di Legge dell’Informazione all’Università di Amsterdam, sfruttando le analisi dei criminologi, ha scoperto che sebbene sia solo verbale, l’impatto di un tweet crudele è estremamente duraturo e ha effetti non peggiori rispetto a un gesto violento: «Attraverso l’hiyperlinking, i motori di ricerca e i contenuti condivisi dagli utenti, i messaggi di odio rimangono tracciabili e recuperabili, determinando un perdurare significativo del danno alla vittima e alla minoranza a cui essa appartiene», scrive il professor McGonagle.

Più scuro è il colore, più è alta la percentuale di tweet di odio sui tweet totali. In un’indagine di Eurobarometro, il 75 per cento degli intervistati ha affermato di aver assistito a discorsi di odio online su piattaforme sociali e i dati mostrano che gli odiatori virtuali non fanno parte di alcun gruppo di odio organizzato, ma sono persone comuni, normali. A favorire i comportamenti più aggressivi e radicali, spiega la criminologa Barbara Perry dell’International Network for Hate Studies, è la generale percezione di anonimato, l’illusione di non essere identificati per quanto detto online e di non doverne rispondere. «Mai prima d’ora si era pensato di connettere il cyberodio con l’economia e con i temi della disuguaglianza», spiega Alessandra Faggian, professore di Economia Applicata e vice rettore del Gran Sasso Institute. Che continua: «I risultati parlano di una relazione determinante forte, aprendo quindi la strada a una strategia di riduzione del fenomeno», che passa attraverso il tema dell’incertezza occupazionale e della diminuzione della disuguaglianza, più frequente nelle grandi città, dove il divario di ricchezza tra centro e periferia è sempre più accentuato, e nelle aree più colpite dalla crisi economica del 2009. L’analisi utilizza 75mila tweet georeferenziati generati in Italia nel 2017, in parallelo con gli indicatori di Benessere economico sociale (Bes) realizzati dall’Istat per misurare l’agiatezza di un territorio al di là del reddito procapite. «Utilizzando i dati della percezione del lavoro, abbiamo scoperto che i tweet d’odio si concentrano nei territori in cui è maggiore il timore di perdere il proprio lavoro nei prossimi sei mesi e di non trovarne più uno simile. Dove è più alto il grado di instabilità percepita, maggiore è l’aggressività digitale. L’insicurezza economica è quindi una delle cause principali che muove l’astio e non ha nulla a che vedere con la paura dello straniero, con la criminalità, la marginalizzazione sociale», spiega Denti. A questo si aggiunge il fenomeno dell’inuguaglianza economica, misurato calcolando l’indice di Gini sul reddito, che è un numero compreso tra zero e uno stimato di anno in anno su dati del dal ministero dell’Economia. Zero corrisponde alla perfetta redistribuzione, valori bassi del coefficiente indicano una distribuzione abbastanza omogenea, al contrario, più il grado si alza, più la distribuzione del reddito diventa diseguale. «Abbiamo sovrapposto la mappa dell’odio con quella della disuguaglianza: i risultati mostrano come l’inuguaglianza economica si caratterizzi come una determinante del volume di hate tweet», conferma Denti. Sorprendentemente è il Nord a essere più colpito dal mix di precarietà e disuguaglianza e quindi a produrre più cinguettii d’insulti: «Specialmente al Nord ci sono aree in cui, prima del 2009, c’era benessere, lavoro in abbondanza e nessuna preoccupazione rispetto al futuro occupazionale. La grande crisi ha provocato uno shock negli abitanti di quelle zone, per nulla preparati a gestire l’incertezza, la possibilità di perdere il proprio lavoro, l’urgenza di ricollocarsi. L’impatto è stato fortissimo e non si è sviluppato alcun modello alternativo, o di contenimento, per alleviare la tensione economica e sociale provocata dalla precarizzazione», dice Denti. Ecco perché la massiccia presenza di tweet proveniente dalla bresciana e dal vicentino. La prima, pur restando un motore economico trainante del Paese, ha subito forti sconvolgimenti, mentre l’area di Vicenza è stata doppiamente colpita, prima da una crisi del manifatturiero, poi dal dramma finanziario della Popolare di Vicenza. Lo stesso dicasi per Genova, dove nell’ultimo decennio non solo la crisi ha colpito duramente, ma la politica non ha saputo trovare una risposta alternativa all’abbandono industriale e alla fragilità bancaria. Più in generale è il Veneto, seguito da Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna a evidenziare la maggior percentuale di tweet d’astio. «Sono i territorio in cui le persone sono rimaste scottate da un cambiamento del paradigma economico che non hanno saputo gestire. Da qui l’arrabbiatura e la tendenza a manifestare il proprio malessere sfruttando i social network», continua la ricercatrice. Non c’è invece alcuna relazione con il livello d’istruzione: «Dall’operaio al manager, dal professore al commesso, la disuguaglianza sembra essere un fattore di “moderazione di capitale umano”. Significa che, se c’è una grande disuguaglianza nel contesto in cui vivo, anche le persone istruite appaiono più propense a generare tweet di odio. Questo significa che la disuguaglianza rappresenta un fattore di rischio che colpisce il territorio in modo rilevante. E questa ricerca mostra esattamente quanto le persone soffrano per le difficoltà dovute al contesto socio-economico in cui si trovano. Penso che se riuscissimo a migliorare quelle condizioni gli hate speach si ridurrebbero molto», commenta Faggian. Una dinamica analoga si riscontra anche in Inghilterra, che insieme a Italia e Grecia è la nazione più diseguale d’Europa secondo l’Ocse: «La ricerca inglese si basa sul bullismo nelle scuole superiori e dimostra come il fenomeno sia crescente nelle zone più diseguali. Sostituendo l’indice di disuguaglianza con quello di povertà non si ottiene lo stesso risultato. Significa che è l’ineguaglianza (e non la povertà) ad aumentare il bullismo». Nonostante i tweet siano spesso a fondo xenofobo, la componente razziale ha poco a che vedere con il fenomeno, mentre risulta essere centrale nel caso di violenza fisica, di atti vandalici veri e propri. «provocati da una percezione di minaccia all’identità socioculturale», spiega Denti. Che continua: «Dove c’è più fiducia nelle istituzioni e maggiore integrazione delle minoranze etniche si riscontrano meno fenomeni di odio reale. L’elevata presenza di stranieri in un territorio non provoca di riflesso eccessi d’astio, se questi fanno parte della comunità locale, mentre la questione è più problematica dove esistono centri di accoglienza per rifugiati che non si integrano con la realtà locale». In quest’ultimo caso la loro presenza viene percepita come qualcosa di lontano, diverso, soprattutto perché i cittadini non sono stati coinvolti in quella decisione.

Alessandro Sallusti a Di Martedì, Salvini come Macron: "Uno seminatore d'odio. E l'altro no?" Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. "Matteo Salvini è molto simile a Emmanuel Macron". A DiMartedì Alessandro Sallusti con questa semplice constatazione smonta molte delle tesi degli anti-salviniani di tutta Italia. In collegamento con lo studio di Giovanni Floris, il direttore del Giornale nota similitudini (insospettabili) nelle politiche del presidente francese, leader di En Marche e faro del "nuovo progressismo" europeo, e il capo della Lega, a partire dalla tolleranza zero sull'immigrazione clandestina (anche se i respingimenti a Ventimiglia e i porti chiusi difficilmente finiscono nei titoloni dei giornali). "Vogliamo dire che Macron è un pericoloso seminatore di odio? Perché lo diciamo di Salvini e non di Macron?", è la domanda di Sallusti destinata a cadere nel vuoto, nell'imbarazzo di opinionisti e politici della sinistra di casa nostra.

Gianrico Carofiglio a DiMartedì: "Prima gli italiani non significa nulla". Ecco perché Salvini trionfa. Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. "La frase prima gli italiani non significa nulla". In pochi secondi Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore ed ex parlamentare del Pd, riassuma a DiMartedì in pochi secondi la posizione di gran parte della sinistra italiana. Lo slogan reso famoso da Matteo Salvini non ha senso, a suo dire, per un semplice motivo: "Chi sono gli italiani? Se uno è diventato italiano l'altro ieri ha più diritti di un bambino che è nato in questo Paese, che parla italiano meglio di lui, che è stato educato secondo i nostri schemi culturali? È l'idea di dover istituire gerarchie fra gli umani che non mi piace. A me piace l'idea di una politica che pensa ad integrare, anziché respingere". 

Matteo Salvini, l'orrore della candidata di sinistra: la disabile che vota Lega giù nel dirupo. Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. Il ministro della Paura? La macchina dell'odio? La bestia? Cambiate ritornello, perché l'odio più puro e vergognoso arriva da sinistra. Nel dettaglio dalla signora Patrizia Giussani, già candidata per la sinistra a Desio, in Brianza. La signora, infatti, rilancia sui social un meme di Heidi che scaraventa già da un dirupo Clara, l'amica in sedia a rotelle. E nel meme Heidi chiede all'amica: "Che mi racconti?". Lei risponde: "Io sto con Salvini!". Dunque, il lancio nel vuoto. Una discreta porcheria, a sua volta rilanciata da Salvini con enorme scritta a corredo: "Vergogna della candidata di sinistra!". Dunque, il leader della Lega commenta: "Alla faccia dell'odio in rete...! Complimenti per il post a questa 'gentile' signora, già candidata per la sinistra a Desio, in Brianza. Un messaggio di grande rispetto anche verso le persone disabili... Che vergogna", conclude Matteo Salvini. Poco da aggiungere.

L'ecologismo della Rete. Puliamo Facebook dall'odio. I social convogliano la rabbia nel web, evitando (forse) guai maggiori. Ma il limite è stato superato. Gianluca Barbera, Scrittore e editore, Lunedì 07/10/2019, su Il Giornale. Poco tempo fa sono stato invitato alla trasmissione Coffee Break, su La7. Tra gli ospiti c'era anche la ex presidente della Camera, Laura Boldrini. Lei dice la sua, io dico la mia. Su molte cose non siamo d'accordo, come è naturale. Poi lei mi augura in bocca al lupo per il mio nuovo romanzo e ci salutiamo. Il giorno dopo do un'occhiata alla pagina Facebook della trasmissione e trovo oltre un centinaio di commenti, molti dei quali sono insulti nei suoi confronti. Anche qualcuno rivolto a me, per il solo fatto di aver preso parte alla trasmissione assieme a lei. D'accordo che ormai i social sono delle fogne, mi dico, ma quante ingiurie dovrà ancora sopportare quella donna! E la mia empatia nei suoi confronti s'impenna. Già in trasmissione la osservavo e mi dicevo: che spalle larghe deve avere per reggere tutte le volgarità e l'odio che ogni giorno le riversano addosso! Naturalmente prendo il caso della Boldrini per fare un discorso generale, per parlare del livello di degenerazione a cui siamo giunti nel mondo social, dove aggressività, violenza verbale e disprezzo la fanno da padroni. Non c'è il rischio che tutto questo prima o poi si travasi nella vita reale? Ho amici scrittori che subiscono impassibili (almeno in apparenza) la loro dose quotidiana di insulti. Non faccio i nomi per non esporli ulteriormente. Personalmente sono pessimista. Non credo che vi sia un rimedio a questo andazzo. Credo invece che sprofonderemo sempre più giù. Molti personaggi pubblici (quasi tutti, per la verità) sopportano ogni giorno offese di ogni tipo da parte dei cosiddetti haters, odiatori di professione, sempre più numerosi, come se fosse il prezzo del successo. C'è chi si spinge a dichiarare che quegli insulti se li meritano. Balle. Chi insulta o giustifica gli insulti è un uomo da poco, un individuo senza speranza, roso dall'invidia e della frustrazione. C'è da augurarsi che in molti casi ciò che accade sui social sia dovuto solo a un impazzimento momentaneo, e che nella vita reale costoro tornino a essere dei dottor Jekyll, non dei Mr Hyde. Altrimenti ci troveremmo davanti a decine di migliaia di squilibrati che circolano in libertà per le strade. Ricordate il film Rollerball, del 1975, nel quale una delle principali valvole di sfogo per la popolazione era rappresentata da un violentissimo sport nel quale due squadre composte da corridori in pattini a rotelle e motociclette si affrontavano in una lotta all'ultimo sangue come in un'arena? Forse i social svolgono questo ruolo, servono a evitare guai peggiori nel mondo reale, convogliando tutta la rabbia nella rete. Viene quasi da augurarsi che sia così, anche se sarebbe ben triste. È probabile che nessuno ci possa fare nulla, forse abbiamo le mani legate. Una cosa però c'è che possiamo fare: attivarci, tutti insieme, affinché le persone che passano il tempo a insultare sui social vengano emarginate. Se ne avete tra gli «amici» bannateli. Non si tratta di scatenare una caccia alle streghe, ma di trasformare i social in luoghi più civili. Le critiche, anche feroci, sono ammesse. Ci mancherebbe. Un insulto può scappare, ma non può diventare la regola. Naturalmente chi si sente ingiuriato o diffamato può sporgere querela, ma nel caso in cui si ricevano decine di insulti tutti i giorni questa strada non è percorribile. Allora diamo una mano tutti, come quando si va a ripulire le spiagge o i boschi: ripuliamo Facebook. Inutile nascondere che iniziative di questo genere presentino dei rischi. Primo, finiscono inevitabilmente inascoltate. Secondo, c'è sempre qualcosa di stonato, di fariseo, negli appelli (ecco perché non ho mai aderito a nessuno dei tanti proposti a favore di questo o contro quest'altro). E immagino che il mio non faccia eccezione. Forse si chiede troppo alle persone, per colmare il vuoto lasciato dalle istituzioni. Senza contare che abbiamo assistito a fin troppe cacce alle streghe negli ultimi anni, perché se ne aggiungano altre. Ogni volta che ci si scaglia contro qualcosa o qualcuno cercando di sollevare le masse si finisce per commettere un'ingiustizia più grossa di quella che si pretendeva di cancellare. E allora perché questo appello? Per la semplice ragione che, se nella barca in cui mi trovo comincia a entrare acqua, come posso restarmene con le mani in mano? In gioco c'è più di quel che sembri.

Attacchi social a Segre, Conte: "Ora norme contro l'odio sui social e nel dibattito pubblico". La senatrice: "Tristezza e pena". Ondata di reazioni indignate nel mondo politico dopo la denuncia di Repubblica. Zingaretti: "Sono schifato". Morra: "L'antisemitismo cresce". Ma manifestazioni di solidarietà arrivano online anche da singoli cittadini. La Repubblica il 26 ottobre 2019. Un'ondata di emozione e di sdegno. L'articolo di Repubblica che racconta gli insulti quotidiani subiti online da Liliana Segre provoca reazioni nel mondo politico. E sui social. Quegli stessi social su cui è possibile leggere invettive antisemite come "Hitler non ha fatto bene il suo mestiere". Una media di 200 attacchi al giorno - sulla rete - nei confronti della senatrice a vita nominata dal presidente Mattarella a gennaio del 2018. Il presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte annuncia: "Inviterò tutte le forze politiche che stanno in Parlamento a mettersi d'accordo per introdurre norme contro il linguaggio dell'odio. Via social e a tutti i livelli". E la senatrice a vita Liliana Segre interviene al Tg1. "Provo tristezza e pena". La presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, dice che "i messaggi carichi di odio all'indirizzo della senatrice Liliana Segre sono un insulto alla storia e alle istituzioni di un Paese che sul rifiuto dell'antisemitismo e sul ripudio della violenza ha eretto la sua architettura democratica e ritrovato la pace, la libertà e il progresso". Nicola Zingaretti parla di solidarietà di tutti i democratici e si dice "schifato. Non trovo termine più adatto per commentare i continui insulti che la senatrice Liliana Segre riceve ogni giorno in rete. Sono insulti antisemiti o di genere che non possono passare più inosservati". Nicola Morra, senatore M5S e presidente della commissione parlamentare antimafia, è uno dei primi a intervenire. E parla di un fenomeno in crescita: "Qui il livello di cretinismo/razzismo/antisemitismo cresce senza pausa. La miglior risposta è far capire che siamo tutti con Liliana Segre". E il sottosegretario all'Editoria, Andrea Martella, aggiunge: "Servono regole stringenti a tutela delle persone e della nostra democrazia". Mentre la ministra delle Pari opportunità, Elena Bonetti, dice che questi attacchi "contrastano con lo spirito della nostra Costituzione". Per Forza Italia interviene la capogruppo in Senato, Anna Maria Bernini. E parla di  "un degrado umano che va combattuto e condannato con tutte le armi della ragione". Matteo Renzi, leader di Italia Viva, interviene con un post su Facebook. L'ex segretario del Pd scrive: "Chi attacca Liliana Segre non sta attaccando una donna, una sopravvisuta all'Olocausto. Sta attaccando se stesso: perché noi siamo tutti Liliana Segre". E Davide Faraone, senatore di Italia Viva, ricorda che il Senato martedì voterà la mozione per istituire la commissione straordinaria per il contrasto a intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all'odio. Propone: "Sarebbe un bella risposta agli odiatori se a presiedere la commissione fosse proprio lei, Liliana Segre, con quel numero di matricola 75190, tatuato sull'avambraccio dai nazisti ad Auschwitz". Sul lavoro della commissione la senatrice a vita dice: "Mi sto battendo contro i linguaggi di odio molto diffusi sui social". Ma la Rete non è solo fonte di odio. Tanti gli attestati di solidarietà da parte di semplici cittadini. C'è chi scrive solo: "Noi ti amiamo".

Insulti e minacce online a Liliana Segre, aperta inchiesta. Lei: «Persone di cui avere pena». Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanna M. Fagnani e Giampiero Rossi. Sulle minacce alla senatrice a vita la Procura ha aperto un fascicolo. Lei, sopravvissuta ad Auschwitz, a 89 anni continua a incontrare giovani in tutta Italia per spiegare l’odio che ha vissuto «Sprecano il loro tempo prezioso». La Procura di Milano ha aperto un’indagine per molestie e minacce in relazione agli insulti arrivati sui social network alla senatrice Liliana Segre, la una senatrice a vita italiana sopravvissuta all’Olocausto e testimone della Shoah italiana. Il fascicolo è a modello 44, contro ignoti, ed è coordinato dal capo del pool antiterrorismo di Milano Alberto Nobili. È aperto dal 2018 ma se ne è avuta notizia soltanto lunedì. Liliana Segre, 89 anni, sopravvissuta ad Auschwitz e testimone dell’Olocausto, di recente ha denunciato di ricevere 200 messaggi incitanti all’odio razziale al giorno. Nei giorni scorsi il mondo della politica ha espresso la sua solidarietà alla senatrice a vita. La presidente del Senato Elisabetta Casellati ha parlato di «un insulto alla storia e alle istituzioni di un Paese che sul rifiuto dell’antisemitismo e sul ripudio della violenza ha eretto la sua architettura democratica e ritrovato la pace, la libertà e il progresso»; il premier Giuseppe Conte ha annunciato che «inviterà tutte le forze politiche in Parlamento a mettersi d’accordo per introdurre norme contro il linguaggio dell’odio. Via social e a tutti i livelli». Gli haters «sono persone per cui avere pena e vanno curate»: Liliana Segre lo ha detto al suo arrivo a un seminario all’Università Iulm di Milano. «Sono una persona civile, non conosco altro linguaggio che quello», ha aggiunto. «Si possono recuperare persone come quelle?», le è stato chiesto. «La speranza in una nonna c’è sempre, ma la realtà qualche volta si abbatte sopra la speranza con una bastonata tremenda. Io di bastonate ne ho prese tante e sono ancora qui», ha risposto. La peggiore bastonata? «Quando hanno ucciso mio padre». «Ogni minuto va goduto e sofferto - ha proseguito - bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte, ma perdere tempo a scrivere a un 90enne per augurarle la morte... Tanto c’è già la natura che ci pensa».

Liliana Segre e chi la insulta sul web: «Persone che mi fanno pena». Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 su Corriere.it da Giovanna M. Fagnani e Giampiero Rossi. Sulle minacce alla senatrice a vita la Procura ha aperto un fascicolo. Lei, sopravvissuta ad Auschwitz, a 89 anni continua a incontrare giovani in tutta Italia per spiegare l’odio che ha vissuto «Sprecano il loro tempo prezioso». «Sono persone di cui avere pena» e «che andrebbero curate». Non cambia tono, Liliana Segre, nemmeno nel parlare della nuova covata di invisibili vigliacchi che si diletta a rovesciarle addosso odio gratuito, malriposto, del tutto idiota. Anche se ogni santo giorno viene bersagliata da almeno duecento messaggi razzisti, provocatori, irridenti o ingiuriosi, il suo linguaggio continua a reggersi su parole misurate che compongono messaggi positivi. E mentre arriva la notizia di un fascicolo giudiziario contro ignoti, aperto dalla Procura di Milano già nel 2018 con l’ipotesi di reato di molestie e minacce, lei — a 89 anni — continua a incontrare giovani in tutta Italia per spiegare cosa sia stato l’odio, quello vero, che ha vissuto, subito e visto deformarsi in orrori di cui è stata testimone nel campo di sterminio di Auschwitz. Così anche in un lunedì pomeriggio di ottobre del 2019 eccola a un convegno sul «linguaggio dell’odio» organizzato all’università Iulm di Milano, dove ribadisce il proprio sentimento di pena per i nuovi odiatori nascosti dietro agli schermi della rete (all’incontro hanno partecipato Gian Battista Canova, rettore dello Iulm; Alessandro Galimberti, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia; Carlo Borghetti, vice presidente del Consiglio Regionale Lombardia; Roberto Jarach, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano e Daniela Dana Tedeschi, vicepresidente dell’Associazione Figli della Shoah). «Con loro mi accade la stessa cosa che provai con un gruppo di giovani della Hitlerjugend — racconta Segre —. Ogni giorno, insieme ad altre settecento donne scheletrite, uscivo dal campo di Auschwitz per andare a lavorare nella fabbrica di munizioni Union e loro, che avranno avuto 15 o 16 anni, ci sputavano addosso e ci insultavano. Io li odiavo, questi miei coetanei, provavo per loro un odio immenso. Ma quando sono diventata nonna ho ripensato a quei ragazzi e mi è successa una cosa straordinaria: ero tornata, ero viva, avevo potuto contare sull’amore. E ho pensato: sono stata più fortunata io a essere vittima, che loro a portarsi dentro quel credo». La senatrice a vita scampata al lager dove sono stati uccisi suo padre e i suoi nonni, riesce a confezionare anche una stilettata intrisa di sottile ironia per quei pavidi anonimi che arrivano ad augurarle la morte: «Ogni minuto va goduto e sofferto, bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte — dice —. Ma perdere tempo a scrivere a un novantenne per augurarle la morte... Tanto c’è già la natura che ci pensa». E a proposito dei messaggi squallidi che le vengono rivolti spiega che in realtà, «non ne ho letto neanche uno, sono talmente vecchio stile che sui social non ci sono proprio». Ma quali possono essere le misure per prosciugare queste pozzanghere di ignoranza dolosa? «Non credo che esista un metodo per sgominare gli odiatori seriali , sono persone malate che andrebbero curate e hanno tempo da perdere», dice la senatrice. E non ha senso nemmeno puntare il dito sui social media: «Non vengono usati per parlare del bene — riconosce Liliana Segre — ma io, da nonna, mi fido dei giovani, saranno loro a sbarazzarsi dell’odio». Attorno alla senatrice a vita si compatta la solidarietà del mondo politico, dal governatore della Lombardia Attilio Fontana al presidente del parlamento europeo David Sassoli, che proprio ieri era in visita alla comunità ebraica di Roma e ha lanciato un appello affinché l’Italia colmi il suo «ritardo» e si muova «con celerità» verso il rispetto di alcune indicazioni che il Parlamento europeo ha dato già da tempo agli Stati membri», come quella di «nominare un commissario nazionale per l’antisemitismo». Il premier Giuseppe Conte ha annunciato che «inviterà tutte le forze politiche in Parlamento a mettersi d’accordo per introdurre norme contro il linguaggio dell’odio», e la stessa Liliana Segre ammette di aspettarsi molto dalla Commissione anti-odio di cui si discuterà in Senato.

Minacce e messaggi d’odio: Liliana Segre ora ha la scorta. Lo striscione di Forza Nuova. Pubblicato giovedì, 07 novembre 2019 su Corriere.it da Andrea Galli e Gianni Santucci. I carabinieri garantiranno la scorta alla senatrice a vita, che attraverso i canali dei social network riceve in media ogni giorno 200 messaggi incitanti all’odio razziale. Da oggi, i carabinieri del Comando provinciale di Milano garantiranno la scorta alla senatrice a vita Liliana Segre, deportata nel gennaio del 1944 dal binario 21 della stazione Centrale al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, e sopravvissuta all’Olocausto. La misura di protezione, da tempo sotto esame, è stata disposta nel pomeriggio di mercoledì, durante il Comitato per la sicurezza e l’ordine pubblico presieduto dal prefetto Renato Saccone e con al tavolo i vertici cittadini delle forze dell’ordine. Tecnicamente, il livello di difesa è una tutela, che prevede la presenza dei carabinieri in ogni spostamento e uscita pubblica della senatrice, contro la quale martedì Forza Nuova ha esposto uno striscione, nei dintorni del teatro di via Fezzan, a Milano, dove Liliana Segre incontrava assieme a don Gino Rigoldi cinquecento studenti. Proprio l’aumento esponenziale delle minacce, unitamente all’elevato numero di eventi con protagonista la senatrice, che a 89 anni, instancabile, mai si sottrae agli inviti a dibattiti e convegni, ha accelerato la decisione della scorta. Una misura necessaria nei confronti di una donna che, per sua stessa ammissione, attraverso i canali dei social network riceve in media ogni giorno duecento messaggi incitanti all’odio razziale. L’origine della campagna di violenza non è di queste ore: risale (almeno) al 2018, quando era stato aperto un fascicolo in Procura sotto il coordinamento del pool antiterrorismo del magistrato Alberto Nobili, ma è stato l’attuale ministro dell’Interno Luciana Lamorgese a inserire il provvedimento di tutela nelle priorità. Nel corso di un recente seminario alla Iulm, la senatrice, parlando proprio degli haters, aveva detto che «sono persone per cui avere pena e che vanno curate». Del resto, aveva aggiunto, «ogni minuto della nostra vita va goduto e sofferto. Bisogna studiare, vedere le cose belle che abbiamo intorno, combattere quelle brutte e non perdere tempo a scrivere a una 90enne per augurarle la morte. Tanto c’è già la natura che ci pensa». In uno dei suoi ritorni lì dov’era il Binario 21, nel Memoriale della Shoah, Liliana Segre aveva ricordato la cattura, il trasferimento nel carcere di San Vittore, gli ultimi gesti di umanità dal prossimo — poche mele e una piccola sciarpa donate dai detenuti che altro non avevano — , infine la partenza verso la stazione e una lancinante presa di coscienza: quella dei genitori di non poter più proteggere i propri bambini, vista l’impossibilità di fuggire. «Io ero una figlia, e sarò per sempre convinta che non avrei potuto farlo da madre. Mai». Ogni istante trascorso con Liliana Segre, racconta chi le sta vicino, rimane un privilegio raro.

Da Corriere.it l'87 novembre 2019. Tentativo di aggressione fisica contro il leader politico della Lega, Matteo Salvini durante la sua visita a Napoli. Un esponente della sinistra italiana ha prima cercato il contatto fisico con l’ex ministro dell’Interno e poi lo ha apostrofato con parolacce e offese personali. L’immediato intervento della scorta del senatore ha evitato ulteriori problemi. Il video è stato pubblicato sui social.

Da it.notizie.yahoo.com l'8 novembre 2019. Tentata aggressione a Salvini durante la sua visita a Napoli. A minacciare il leader della Lega e cercare il violento contatto fisico è stato un esponente della sinistra italiana. Fondamentale l’intervento della sua scorta. Un susseguirsi di parolacce e offese personali contro l’ex ministro degli Interni, poi la tentata aggressione frenata dall’immediato intervento della scorta di Salvini, che ha così evitato lo scontro. Per quanto accaduto a Napoli è stato fermato un esponente della sinistra italiana. Il video è stato successivamente pubblicato sui social, dove presto è diventato virale. Martedì 5 novembre nei pressi di Palazzo Cellammare sono comparse scritte contro la Lega e il suo leader. “Odio la Lega”, “Salvini, Napoli ti schifa” sono tra gli insulti più gettonati. Non è passata inosservata neppure la scritta “Parlaci dei rubli”, che ha sostituito “Parlaci dei 49 milioni”. Matteo Salvini è tornato a Napoli per gettare le basi della campagna elettorale in vista delle elezioni regionali del 2020 in Campania. “Dobbiamo mandare a casa Vincenzo De Luca, che è tanto bravo a chiacchierare quanto incapace a risolvere i problemi dei rifiuti, del lavoro e della sanità”, ha infatti dichiarato in una delle dirette pubblicate sul suo Facebook. Tuttavia, per il momento non è dato a sapere il nome del candidato leghista che scenderà in campo per aggiudicarsi la poltrona di Palazzo Santa Lucia. Potrebbe rinnovarsi, anche in Campania, la coalizione di centrodestra, ma ancora non sussistono informazioni certe in merito.

Il Riformatorio. (pressreader.com) - Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano del 26 Ottobre 2019 – Sopraffatti dalla cronaca, abbiamo trascurato l’evento destinato a terremotare l’editoria e la politica: il ritorno in edicola, minacciato per il 29 ottobre, del Riformista. L’ingloriosa testata, a suo tempo lanciata dal lobbista Claudio Velardi, passata agli Angelucci, diretta da Polito El Drito e ovviamente fallita nel 2012, risorge con un nuovo editore, Alfredo Romeo, e un nuovo direttore. Anzi, due: Piero Sansonetti e Deborah Bergamini. Romeo non è omonimo dell’imprenditore salvato dalla prescrizione ai tempi di Tangentopoli e di nuovo indagato per traffico d’influenze con babbo Renzi nell’inchiesta Consip: è proprio lui. Sansonetti non è omonimo dell’ex inviato dell’Unità (suo il leggendario titolone sulla morte di lady Diana: “Scusaci, principessa”), ex direttore di Liberazione (chiuso), de Gli Altri (mai trovati), di Calabria Ora (fallito), de Il Garantista (fallito) e de Il Dubbio (che l’ha cacciato): è sempre lui. E la Bergamini non è omonima dell’ex portavoce di B., dunque direttore del Marketing strategico Rai e poi deputata di FI da tre legislature: è sempre lei. Il nuovo giornale sarà improntato a un’anglosassone separazione tra giornalismo e politica. Infatti, oltre a un direttore (su due) deputato e un editore imputato, vanta come editorialisti la Maiolo, Cicchitto, Bertinotti, Paolo Guzzanti e la Boschi. Che scriverà “a titolo gratuito” (e ci mancherebbe pure che la pagassero). I titoli dei numeri zero promettono bene: “Fisco, arriva il decreto Travaglio: manette” e “Ergastolo addio: l’Europa civilizza l’Italia”. La linea si annuncia frizzante e soprattutto sintonizzata coi tempi: “Noi – promette Samsonite – vogliamo l’abolizione del carcere”. Infatti il partito di riferimento è Forza Italia Viva (paghi due, prendi uno). Purtroppo i 60 mila detenuti non han potuto assistere alla presentazione, ma alcuni hanno inviato telegrammi di benvenuto e prenotato la prima copia da appendere in cella accanto al calendario del camionista. I lettori dunque non mancheranno. Non solo nei migliori penitenziari, ma anche nella società civile. Ieri, per dire, nei bar di Roma era tutta una protesta contro l’arresto dei due sospetti killer di Luca Sacchi: “Ha sentito, signora mia? Hanno arrestato due presunti innocenti, dove andremo a finire”. “Non me lo dica, guardi, sono indignata: ma quando si decidono ad abolire il carcere?”. “Non vorrei sbagliarmi, ma ho sentito che esce un giornale apposta”. “Ma volesse il cielo, era ora!”. Quando, 17 anni fa, nacque il primo Riformista, l’avevamo ribattezzato scherzosamente “Riformatorio”. Ma, in Italia, guai a fare battute: perché prima o poi si avverano.

Travaglio vuole ammanettare anche i giornali: e ribattezza il “Riformista” in “Riformatorio”. Niccolò Silvestri su Il Secolo d'Italia sabato 26 ottobre 2019. Quante volte avete sentito dire o letto che la nascita di un nuovo giornale è una festa per il pluralismo e la democrazia? Beh, scordatevelo:  non è più così. Il contrordine è partito dalla penna acuminata di Marco Travaglio, uno che ancora porta ancora impresse nelle sue ospitate televisive le stimmate dell’editto bulgaro di berlusconiana memoria. Lo stesso che insieme a Michele Santoro e ad «altri 100mila» si intestò la battaglia per il terzo polo televisivo, allora soffocato dall’abbraccio Rai-Mediaset. Un fallimento. In compenso, gli è riuscito di contribuire a creare quello politico: il M5S, nato come terzo incomodo tra Pdl e Pdmenoelle, è anche una sua creatura.

Travaglio attacca il giornale di Sansonetti. Normale perciò che dalle colonne del Fatto Quotidiano seguiti a coccolarselo anche ora che i Cinquestelle hanno sostituito i perentori “mai con…” delle origini con il più prosaico “Franza o Spagna” seguito al doppio inciucio, prima con Salvini e ora con Zingarenzi. E che soprattutto seguiti a difenderlo ora che le difficili pratiche di governo ne mettono a nudo, un giorno sì e l’altro pure, l’incoerenza e l’inconsistenza. E poiché Travaglio sa che l’attacco è la migliore difesa, eccolo muovere lancia in resta contro la rinascita del Riformista, il giornale che fu di Claudio Velardi e di Antonio Polito, e che ora torna in edicola sotto la direzione congiunta di Piero Sansonetti e di Deborah Bergamini. Il primo ha lavorato all’Unità e diretto Il Dubbio, la seconda è deputata di Forza Italia. Di sinistra lui, di destra lei.

La cultura dell’odio che sposta la salma di Franco. Dino Cofrancesco, Il Dubbio 24 ottobre 2019 e Nicolaporro.it il 25 ottobre 2019. Sembra che per i nostri dirimpettai spagnoli non ci sia pace. Ero andato in Spagna l’anno dopo la morte del Caudillo: mi ero rifiutato di farlo prima  non volendo mettere piede in un paese dominato da una dittatura militare. Debbo dire che le città visitate mi avevano sorpreso: mi aspettavo una Calabria iberica e, invece, ho trovato una società evoluta colta e ordinata. A Madrid avevo visto una libreria fantastica: cinque piani, suddivisi tra scienze e lettere, che mi avevano letteralmente euforizzato. Speriamo, avevo pensato, che a nessuno salti in mente di giudicare un regime politico mettendo a confronto ciò che ha lasciato con ciò che ha trovato, giacché un criterio del genere promuoverebbe senz’altro il franchismo. In realtà, Francisco Franco ha tenuto la Spagna sotto una campana di vetro, soffocando ogni dissenso politico, ma, al riparo dalle tempeste della storia, il mercato e la proprietà privata, che non sono sufficienti per fare una “società aperta” ma ne sono condizioni necessarie, hanno operato il miracolo: progresso civile e benessere economico. Soprattutto, però, mi ero compiaciuto per la saggezza dei politici spagnoli che, tornata finalmente la democrazia – anche i dittatori muoiono, non tutti nel loro letto – avevano adottato, nei confronti del passato, un atteggiamento ispirato a profonda saggezza: “pietà per i carnefici” di entrambe le parti e sguardo al futuro. In un equilibrato articolo rievocativo della tragedia spagnola, 1936- 2016: ottant’anni fa la guerra civile (Reset 30 luglio 2016) Fabrizio Federici, ha scritto: «se Franco resta, per la storia, l’autore d’una repressione spietata e prolungata al di là d’ogni ragione |…| almeno il Caudillo pose fine a una guerra civile che in Spagna, in realtà, andava avanti, con periodici massacri, da centodieci anni, dal tempo dell’intervento della Santa Alleanza contro i rivoluzionari liberali ( 1823), e delle sanguinose lotte civili al tempo della Prima Repubblica (1873-75). |…| la maggioranza degli spagnoli, per più generazioni, pur non potendo riconoscersi nel regime, tutto Chiesa-censura-prigione-repressione sessuale, del Caudillo, ha tenuto conto di tutto questo, e dell’aver potuto evitare la tragedia della Seconda guerra mondiale». Era proprio il caso di dire: “scurdammoce o passato!”: si onorino i morti, bianchi neri e rossi, ma si depongano le armi – anche quelle verbali – riconoscendo che a nessuna famiglia politica mancano i cadaveri nell’armadio. Basta leggere, del resto, per rendersene conto, storici come Hugh Thomas o Stanley Paine o quanto ha scritto il nostro Sergio Romano sulla macelleria ispanica. Da diversi anni, però, l’olvido è stato considerato come una colpa, le eredità del franchismo – simboli e istituzioni – sono state riguardate come una vergogna da cancellare e gli Spagnoli – la sinistra, gli indipendentisti, i repubblicani etc. – hanno ripercorso le orme di papa Stefano VI che, nei primi mesi dell’897, fece riesumare il corpo di Papa Formoso ( 891- 896) e istruire a suo carico un processo per sacrilegio per sottoporlo a un «macabro interrogatorio e quindi a esecuzione postuma dopo essere stato formalmente giudicato colpevole». È capitato metaforicamente anche a Francisco Franco. La Corte suprema spagnola ha approvato all’unanimità la traslazione dei resti di Francisco Franco dalla Valle de los Caídos – il monumento voluto dal Caudillo, dopo la vittoria nella Guerra Civile ( 1936- 1939) per commemorarne | tutte | le vittime – al cimitero El Pardo- Mingorrubio». Il premier Pedro Sanchez ha commentato «Viviamo una grande vittoria della democrazia spagnola. La determinazione a riparare le sofferenze delle vittime di Franco ha sempre guidato l’azione del governo». Già e le vittime della Repubblica? La violenza roja fu solo una reazione violenta ai massacri compiuti dai nazionalisti dopo l’Alzamiento? No, ricorda Payne, «gli omicidi compiuti dai rivoluzionari iniziano nell’aprile del 1931— i primi mesi della Repubblica — e continuarono da allora. Durante i primi sei mesi [ della guerra civile] gli omicidi politici erano talvolta organizzati da gruppi del governo repubblicano, altre volte no». A commetterli erano bande armate che volevano distruggere capitalismo, chiesa, militari e stato unitario. «L’assalto ai monasteri— ha scritto Sergio Romano-i massacri di monache e preti, la macabra fucilazione dei cadaveri dissotterrati nelle chiese e nei cimiteri dei conventi ebbero l’effetto di aggiungere alla guerra civile una forte connotazione religiosa». A mio avviso, c’è un nesso tra la Ley de Memoria Histórica de España del 2007 – che in sostanza affida allo Stato e ai tribunali il giudizio storico sul ‘fascismo’(?) spagnolo – la rimozione della salma del Caudillo dalla Sierra Guadarrama e gli scontri sulle piazze della Catalogna, sui quali ha scritto due illuminanti articoli sul periodico on line ‘Atlantico’ Enzo Reale (Catalogna: un processo ai politici, non un processo politico, 14 Feb 2019 e Condanne per gli indipendentisti. Ma è la gabbia nazionalista a imprigionare la Catalogna, 16 ottobre 2019). Sono tutte manifestazioni di una comunità politica in frantumi che, non riuscendo a costruire insieme una convivenza civile ( fatta anche di oblio, come insegnava Ernest Renan), nutre la propria identità etico-sociale solo di odio, di rancori, di passioni vendicative, all’insegna del «finché c’è guerra ( civile) c’è speranza». Forse a tutto questo ha dato un contributo non piccolo, la political culture dominante da mezzo secolo nelle Università europee. Alla ricerca di materiali e di indicazioni bibliografiche sulla guerra civile spagnola, mi sono imbattuto nella voce Guerra civile scritta per l’Enciclopedia dei ragazzi della Treccani da uno scienziato politico, già allievo di Norberto Bobbio, Luigi Bonanate. Nel breve paragrafo dedicato alla Spagna ecco quanto si legge: «Nel 1936 una violentissima guerra civile vide lo scontro tra i rappresentanti della repubblica parlamentare regolarmente eletti e i ribelli guidati dal generale Francisco Franco che, nel 1939, sarebbe riuscito a imporre alla Spagna un regime di tipo fascista, durato fino al 1975». Insomma una pacifica democrazia travolta da un’orda di mazzieri al servizio della reazione! E’ questa assoluta mancanza di obiettività storiografica che inaridisce la "pianta uomo" e predispone alberi e fiori rinsecchiti a prendere fuoco. Prima o poi. Dino Cofrancesco, Il Dubbio 24 ottobre 2019

OnLife, Roberto Saviano: "Il mio viaggio nel web oscuro". Roberto Saviano su la Repubblica il 6 ottobre 2019. I social network Autorizzano a spammare ogni sorta di contenuto, di insulto, di bugia, di manipolazione, violano sistematicamente la privacy raccogliendo ogni sorta di informazione su di te ma non solo ti autorizzano a farlo: ti garantiscono (e si garantiscono) impunità. La tecnologia non è né buona né cattiva ma neanche neutrale: questa è la prima legge della tecnologia di Melvin Kranzberg. In questa frase c'è già tutto: la potenza dei motori di ricerca e dei social network è sempre lì a suggerirci che non prendono posizione, che non sono responsabili di quello che si scrive e possono solo dirigere il traffico. La prima grande bugia è considerare i motori di ricerca, le piattaforme di chat o i social network, luoghi neutrali. Organizzare i profitti, verso che direzione orientare i propri algoritmi, sono scelte precise, economiche e politiche, l'algoritmo non è neutrale, non è buono né cattivo. Quando decide di premiare la quantità indipendentemente dalla qualità, questa è una scelta profondamente politica perché va a impattare con quanto dice Roger McNamee: "Quando gli utenti sono arrabbiati, consumano e condividono più contenuti. Se rimangono calmi e imparziali hanno relativamente poco valore per Facebook che fa di tutto per attivare il cervello rettile". McNamee, che fu uno dei primi investitori in Facebook - e ne è oggi pericolosamente spaventato per il mondo che ha creato - descrive la dinamica della rabbia come capitale primo dei social network: se non sei arrabbiato non stai tutto il tempo attaccato al telefono, se aggredisci, senti con la pancia, rispondi nell'immediato, allora sei utile e aiuti a rendere virale il contenuto. Quello che i social network fanno ho provato a compararlo al mercato delle auto. Perché più dell'ottanta per cento delle auto sul mercato italiano ha motori in grado di arrivare (e superare) i duecento chilometri orari? In nessuna strada sei autorizzato a tale velocità. Eppure puoi comprare un'auto che corre oltre i limiti, puoi farlo sapendo che rischierai, oltre che di ammazzare e ammazzarti, il ritiro della patente. I social network fanno qualcosa di simile ma senza limiti. Autorizzano a spammare ogni sorta di contenuto, di insulto, di bugia, di manipolazione, violano sistematicamente la privacy raccogliendo ogni sorta di informazione su di te ma non solo ti autorizzano a farlo: ti garantiscono (e si garantiscono) impunità. Al massimo in qualche raro caso banneranno qualche insulto, e ci sarà qualche episodico processo su qualche violazione gravissima avvenuta all'interno dei loro spazi. Ma per il resto ogni secondo lasceranno che si condividano palesi bugie, propaganda di ogni tipo, attacchi personali, porcherie di ogni genere. Non solo produci motori che vanno oltre i limiti consentiti, ma dai l'impunità a correre il più possibile. Ovviamente non è solo questo il web, non sono solo questo i social network anzi, la loro ragione d'essere si fonda sulla diffusione del sapere, la connessione degli esseri umani, la creazione di nuove grammatiche emozionali. Questo in linea di principio ancora sopravvive in residuali spazi perché la trasformazione è ormai completamente avvenuta, come scrive Franco Berardi, "Bifo": "Innumerevoli tempeste di merda sommandosi hanno trasformato l'infosfera globale in uno tsunami di merda che ha disattivato l'universalismo della ragione, ridotto la sensibilità e distrutto i fondamenti del comportamento etico. Il risentimento identitario ha sostituito la solidarietà sociale, e la cultura dell'appartenenza ha sostituito la ragione universale". Esprimere i propri pensieri con un tono corretto ed educato viene percepito come inautentico, non utilizzare un registro sarcastico ti degrada immediatamente all'ambiguità: cosa nascondi se provi a convincere e non demolire, a ragionare e non vincere? Questo ha creato un riflesso automatico per cui nello spazio dei social il sentire comune crede solo a chi palesa il suo interesse chiaramente, a chi si sente chiaramente che difende se stesso, la sua parte, i suoi soldi, il suo successo, la sua razza. Insomma, sé e basta. Sé e quelli come sé, o in nome di quelli come sé. Siamo disposti a credere non solo esclusivamente a ciò che è governato da un interesse personale, ma peggio, che l'odio sia autentico e disinteressato e che la ricerca di empatia, di giustizia e la possibilità di essere buoni siano ambigue e segretamente mosse da oscuri profitti. Una persona che è abitata dalle sue contraddizioni, dai suoi errori, che per vivere lavora o vuole migliorare se stesso ma che oltre che guadagnare per sé e la sua famiglia prova a migliorare la società in cui vive, che prova a credere che il diritto alla felicità sia diritto dell'umanità, non solo è derisa e non creduta ma per sostenere questi suoi principi è sistematicamente sottoposta a una prova di stress, indagine e diffidenza estrema. Qualsiasi suo errore umano e contraddizione servirà a delegittimare la sua voglia di mutare in meglio il mondo come se gli fosse fatta tana. Ti abbiamo beccato! Al contrario se appartieni alla categoria degli insultatori, di coloro che si palesano autenticamente come avversari di qualsiasi moto solidale, ti è permessa ogni sorta di errore, ogni compromissione è tollerata. Insomma il bene sarebbe concesso nell'infosfera soltanto a esseri metafisici che non ricercano il loro benessere e che non errano. In una parola il bene è impossibile: persegui solo il tuo profitto e difendi la tua zolla, sentiti simile ai tuoi prossimi, leggi solo ciò che ti conferma il tuo sentire. Fine. Di questo odio si nutrono i social network, questo pensiero è alimentato dai filtri dei motori di ricerca che fingono di non esserne parte ma sono organizzatori di ciò che viene versato nell'oceano in cui poi su richiesta vanno a rassettare e ordinare informazioni su richiesta. Come ricorda il formatore Andrew Lewis, "se non state pagando qualcosa non siete un cliente: siete il prodotto che stanno vendendo".

"Io odio i razzisti e Salvini": la frase choc di una supplente prima della lezione. L’episodio è avvenuto in una classe dell’Itsos di Cernusco sul Naviglio, nel Milanese. La frase della supplente non è piaciuta agli studenti che, tornati a casa, hanno raccontato tutto ai genitori. Gabriele Laganà, Domenica 06/10/2019, su Il Giornale. “Ragazzi, sappiate che io odio i razzisti e odio Salvini”. È stata questa la frase con la quale una supplente si sarebbe presentata in una classe di studenti del primo anno dell’Itsos di Via Masaccio a Cernusco sul Naviglio, nel Milanese. Nessuna domanda ai ragazzi sulla scuola e sull’avventura che stanno per intraprendere, nessuna battuta per rompere il ghiaccio. Prima di tutto la politica. La vicenda, riportata dal quotidiano La Gazzetta della Martesana, si sarebbe verificata la scorsa settimana. La professoressa era stata chiamata a coprire uno dei tanti “buchi” che spesso si verificano ad inizio anno, quando si organizzano orari delle lezioni. Il suo pensiero espresso così pubblicamente, però, non è andato giù a molti studenti che una volta tornati a casa hanno riferito l’accaduto ai genitori. Qualcuno, per evitare problemi, ha lasciato correre. Altri, invece, hanno protestato. Un papà ha affermato di continuare a credere che la scuola sia un luogo di insegnamento nel quale ci si può anche confrontare sui vari temi ma nessuno “dovrebbe insegnare a mia figlia ad odiare qualcuno”. La storia è divenuta pubblica quando è stato pubblicato un post su Facebook sulla vicenda. Un altro genitore ha raccontato che il venerdì di sciopero per l’ambiente, un professore ha chiesto ai pochi studenti in classe il perché non avessero partecipato al corteo. Un dirigente scolastico, però, afferma di non essere a conoscenza della vicenda anche perchè non era stata effettuata nessuna segnalazione scritta alla presidenza. Cauto l’assessore alla Scuola Nico Acampora che afferma come non ci siano prove su quanto accaduto nella classe. Se fosse vero, bisogna capire il contesto nel quale è stata utilizzata la frase. L’assessore ritiene che la scuola serve ad educare e formare i ragazzi e non ad insegnare l’odio verso qualcuno, a prescindere da chi sia. In questo caso, gli studenti dovrebbero segnalare l’accaduto alla presidenza. Il consigliere regionale della Lega, Riccardo Pase, parlo di un fatto di una gravità assoluta perché una persona che si dovrebbe occupare della formazione dei ragazzi non dovrebbe parlare di politica in questo modo, veicolando messaggi d’odio. L’educazione civica“servirebbe prima ai docenti”, ha concluso il consigliere leghista. Anche a molti studenti non è piaciuto il comportamento della supplente perché in classe bisogna rispettare le opinioni di tutti.

Caserta, frate francescano attacca la Lega durante l’omelia: è polemica. Il senatore Claudio Barbaro, capogruppo in Commissione Cultura a Palazzo Madama, invita il monaco ad un confronto pubblico. Ignazio Riccio, Lunedì 07/10/2019, su Il Giornale. Come ogni domenica mattina padre Michele Santoro, del convento francescano di Marcianise, nel Casertano, ha celebrato a Caserta la messa per i numerosi fedeli del territorio, ma il suo sermone, questa volta, non è passato inosservato. Le parole del frate hanno alimentato una forte polemica politica. Rammarica venire a conoscenza che, durante la messa celebrata alle 11 presso la chiesetta di Montevergine, padre Michele abbia trasformato l'omelia in un attacco gratuito verso le attività della Lega, apostrofando i suoi aderenti come "assassini". Ad affermarlo in un comunicato stampa è il senatore della Lega Claudio Barbaro, capogruppo in Commissione Cultura a Palazzo Madama. L’esponente politico pur rispettando la libera opinione del frate, non accetta l'uso dell'altare come tribuna politica, senza possibilità di dibattito. Barbaro è dispiaciuto anche del fatto che al termine della celebrazione religiosa il monaco abbia rifiutato il confronto con quanti, alla fine della messa, avevano cercato il dialogo. “Non può che dispiacere questo comportamento – scrive il senatore – soprattutto davanti a quei fedeli che, nella domenica della supplica alla Madonna di Pompei, per questi motivi, non hanno potuto godere con serenità del momento di fede”. Barbaro invita il frate ad un confronto che possa aprirsi e svolgersi come un sereno e pacifico dialogo tra le parti, in una sede opportuna e aperta a quanti vogliano offrire la propria opinione. “Magari – conclude – dopo aver partecipato, da fedele, a una sua celebrazione”.

Mickey Rourke a "Live non è la D’Urso": “Fuck Donald Trump”. Senza nessun preavviso Mickey Rourke, ospite di "Live non è la D'Urso" si rivolge al presidente degli Stati Uniti, mandandolo a quel paese. Roberta Damiata, Lunedì 16/09/2019, su Il Giornale. Sorpresa a non finire “Live Non è la D’Urso” e c’è da dire anche per la conduttrice Barbara D’Urso, che certo non si aspettava che Mickey Rourke, il suo ospite internazionale la lasciasse a bocca aperta. L’indimenticabile divo di “Nove settimane e mezzo” era stato invitato da un’emozionata D’Urso per raccontare la sua storia d’attore e anche per ripetere insieme a lui, che era all’oscuro di tutto, il famoso balletto con Kim Basinger. E così Mickey comincia a raccontare un’episodio con Roberta De Niro: “Quando ero a scuola a studiare per diventare un attore lo ammiravo, pensavo che se avessi lavorato sodo, sarei riuscito a diventare come lui. Quando feci il film con lui, andai dal produttore per dirgli che ero onorato di questa cosa. Lui cinque minuti dopo mi disse: "Penso che sia meglio se non parliamo. Siamo solo personaggi in un film”. Mickey Rourke racconta la sua delusione in quel momento. “Io non sapevo cosa stesso accadendo. Ha ferito i miei sentimenti, io lo ammiravo. Ora non più”. L’attore ha ricordato di essere arrivato da momenti difficili. “Sei mesi fa sono finito al verde. Gli unici soldi che avevo erano quelli dei combattimenti di pugilato”. Arriva poi il momento tanto atteso, e dietro un paravento esce una sensuale ballerino di cui si vede solo la sagoma. Comincia a spogliarsi proprio come Kim Basinger e alla fine la raggiunge anche Mickey Rourke che con lei finisce la famosa scena. La ballerina è Aida Yespica l’ex gieffina venezuelana che saluta scambiandosi qualche parola con Mickey. Ma il momento che ha fatto tremare le sedie, è stato quello dei saluti, quando Mickey chiede a Barbara il permesso di poter dire una cosa a favore di telecamera. “Certo” le dice Barbara. “Fuck Donald Trump” dice Mickey lasciando atterriti tutti, Barbara compresa che mai si sarebbe aspettata una cosa del genere. “Domani ne parleranno sicuramente i giornali di tutto il mondo” dice poi visibilmente imbarazzata.

Il Pd torna al governo. Fine del pericolo fascista (!) Francesco Giubilei, 27 agosto 2019 su NicolaPorro.it.  Il “pericolo fascista” ci ha lasciato, ne danno il triste annuncio i giornalisti progressisti, i politici del Pd e la sinistra tutta. Non è escluso un miracolo per cui nei prossimi anni possa resuscitare nel caso dovesse tornare al governo il centrodestra o la Lega e Fratelli d’Italia. Il dibattito sul “pericolo fascista” è il grande assente di questa crisi di governo, dopo che per mesi abbiamo assistito a prime pagine, inchieste, appelli, dichiarazioni allarmate sul ritorno del fascismo, d’improvviso, con il probabile ritorno del Pd al governo, tutto ciò sembra essere scomparso. Non più il rischio di una deriva autoritaria e della soppressione della democrazia, tutt’altro: la formazione del governo M5S-PD senza tornare alle elezioni è il trionfo della democrazia. La richiesta del centrodestra di andare al voto (tipica proposta fascista) viene screditata in nome della costituzione citata a proprio uso e consumo. Immaginiamo se fosse successo il contrario, se la sinistra avesse richiesto le elezioni e la Lega si fosse opposta per formare un nuovo governo, cosa sarebbe successo? Si sarebbe gridato al ritorno dei fascisti che non vogliono far votare il popolo. Lo ha fatto notare con ironia l’analista politico Lorenzo Castellani: “grazie a Dio il Pd è tornato al governo così gli italiani da oggi non sono più fascisti e la democrazia è salva. Una preoccupazione in meno”. Ha aggiunto il filosofo Corrado Ocone, sottolineando uno dei principali risvolti del dibattito sul ritorno del fascismo: “e ora, senza più fascismo alle porte, tanti intellettuali che ben conosciamo di cosa discetteranno?”. Passino i politici che fanno propaganda su questo argomento, passino i giornalisti che cercano di creare una discussione sul fascismo ma la faziosità di certi intellettuali che per motivi meramente ideologici utilizzano il “pericolo fascista” come uno strumento politico, svilisce il dibattito politico-culturale italiano incapace di andare oltre definizioni ormai da tempo superate. Non solo leggere l’attualità con categorie del passato è errato ma farlo in modo strumentale a seconda di chi è al governo gridando all’emergenza fascista una settimana e dimenticandosi tutto quella successiva, è sinonimo di cattiva fede e di scarso spessore culturale, definizioni che calzano a pennello per molti intellettuali italiani. Francesco Giubilei, 27 agosto 2019

Federico Garau per il Giornale il 24 agosto 2019. Fa discutere uno degli ultimi post su Twitter di Gabriele Rubini, in arte "Chef Rubio", che nel commentare gli incendi che stanno affliggendo la foresta dell'Amazzonia, non ha mancato di lanciare un attacco contro i nemici sovranisti. Il tweet dello chef televisivo inizia con un tono saccente: "Me fa ride chi dice “ELIMINA LA CARNE, SALVI LA FORESTA!”, commenta. "Se stanno bruciando #Amazonia è anche per monocolture di mais, canna da zucchero e soia ( #Monsanto #Bayer )!". Poi la stilettata: "Se volete salvare il pianeta spendete meno, consumate meno, ed eliminate fisicamente i sovranisti (seguono bandierine di Israele, Usa e Brasile) e co". Insomma, l'attacco contro certi governi è sempre garantito, ma non tutti i commenti che hanno seguito il cinguettio di chef Rubio sono positivi. Anzi. "Veramente i sovranisti che lei vorrebbe eliminare fisicamente sono i primi ad essere contrari al neoliberismo e alla globalizzazione, così amata dalle multinazionali", puntualizza un utente. "Questo tweet è istigazione all'odio", fa notare un'altra persona. E dopo alcuni che invocano l'arrivo di un'ambulanza per lo chef, ecco la secca considerazione di un altro utente: "Un caso disumano, difficile essere così coglioni da incitare alla 'eliminazione fisica' di chi la pensa in un determinato modo. A questi i nazisti gli fanno na' pippa! Papà cos'è il fascismo? È questo". A rispondere a Rubini anche l'avvocato Marco Mori, che da tempo si batte per la riaffermazione dell'Italia e l'uscita dall'Euro. "Certo, perché Bolsonaro adesso è sovranista... Bolsonaro è un liberista!" fa notare allo chef.

Meloni contro Chef Rubio: questo è scemo, siamo allo slogan “uccidere un sovranista non è reato”. Il Secolo d'Italia sabato 24 agosto 2019. Clima teso sui social in questi giorni di crisi di governo, ma non solo a causa della politica italiana. C’è anche l’incendio poderoso della foresta amazzonica a surriscaldare il dibattito. Soprattutto se a fare commenti è Chef Rubio, da sempre scorrettamente fazioso. “Mi fa ride chi dice ‘elimina la carne, salvi la foresta’. Se stanno bruciano Amazonia (con una zeta, badate) – scrive Chef Rubio su Twitter – è anche per monoculture di mais, canna da zucchero e soia. Se volete salvare il pianeta spendete meno, consumate meno ed eliminate fisicamente i sovranisti & co”. Questa la versione guerrafondaia dunque della decrescita felice secondo Chef Rubio. Gli replica Giorgia Meloni: “Questo “cuoco tronista” che fa spesso ospitate (a pagamento) su TV pubbliche e private invita a “eliminare fisicamente i sovranisti”. Con ogni probabilità è troppo incolto e troppo scemo per sapere che in anni passati in Italia a parole come quelle sono poi seguiti gli anni di piombo e le uccisioni di molti ragazzi. Chi predica l’odio e la violenza non dovrebbe trovare spazio e pubblicità sui media, in particolare su quelli pubblici. Oppure si vuole cominciare col sostenere che “uccidere un sovranista non è reato” e che anzi è un dovere per ogni buon cittadino?”.

Il Manifesto ha nostalgia degli anni ’70: questa destra “orrenda” è il nemico, non l’avversario…Il Secolo d'Italia sabato 24 agosto 2019. In politica “esistono delle priorità e adesso è prioritario fare un governo di svolta”. Lo scrive la direttrice del Manifesto, Norma Rangeri, nel fondo di oggi (il titolo di apertura del quotidiano comunista è “La strana coppia” che campeggia sulla foto di Zingaretti e Di Maio al tavolo), in cui sembra esortare la sinistra a ‘turarsi il naso’ e a schierarsi a favore del governo giallorosso pur di ‘salvare’ il paese dalla destra. “Oggi in Italia c’è un pericolo serio e sarebbe miope sottovalutarlo – scrive Rangeri -pensando al tornaconto personale o di partito, oppure immaginando di passare indenne attraverso il regime autoritario che ci aspetta. Fatalmente si finisce per abbracciare la linea del ‘tanto peggio, tanto meglio'”. La direttrice del giornale fondato da Lucio Magri e Rossana Rossanda mette in guardia dal pessimismo e dal “rischio serio” che sfoci “nell’autolesionismo”, a conferma, dice, “che il personaggio Tafazzi è sempre molto caro alla sinistra italiana” e spiega che, se il punto di partenza “è il giudizio sulla criticità di una fase che non ha precedenti” la “discussione andrebbe concentrata su questo non secondario aspetto”. “Una volta il Pci aveva davanti a sé un avversario politico. Oggi invece abbiamo di fronte un nemico”, scrive Rangeri, e aggiunge: “Fa paura consegnare l’Italia a questa orrenda destra. Che vuole eliminare gli avversari politici. Che usa i simboli religiosi per strappare voti. Che chiede ‘pieni poteri’ (e li otterrebbe se vincesse le elezioni) e chiama la piazza. Che odia i diversi. Che porterebbe a zero i diritti civili conquistati negli ultimi 50 anni. Che cancellerebbe leggi importanti come la 194. Che si disinteressa dell’ambiente perché bisogna aprire cantieri e inquinare. Che vuole alzare muri contro i migranti. Che ci porterebbe fuori dall’Europa, che, subalterna a Trump, vorrebbe allearsi con la Russia di Putin. Che eleggerebbe un presidente della Repubblica sovranista (come è stato già fatto alla Rai pubblica)”. “A chi scrive ‘io non ho paura’ (Lucia Annunziata, su Huffington Post), rispondo che invece ‘io ho paura'”, aggiunge Rangeri, “e non di perdere le elezioni”, visto che “siamo abituati alla sconfitta”, ma “per il Paese”, l’amara conclusione della direttrice del Manifesto. Dunque il quotidiano comunista rispolvera toni da anni ’70, da arco costituzionale, invitando a perseguire qualunque strategia o alleanza pur di isolare un “nemico” che non si vuole considerare come “avversario”. E poi accusano la destra di soffiare sul fuoco della cultura dell’odio…

Dall'ideologia all'odiologia. Negli anni '80 c'era dialogo tra destra e sinistra. Poi l'arrivo di Berlusconi ha bloccato tutto, fino alle aggressioni di oggi. Marcello Veneziani il 7 giugno 2019 su Panorama. «Ricordo come fosse ieri Massimo Cacciari e io andavamo per Roma quasi rasente ai muri, accompagnati da un Marcello Veneziani che non era ancora il notissimo e rispettato intellettuale di destra che è oggi, per poi recarci a casa di Gianfranco de Turris, altro intellettuale di destra. A cena conclusa e per un paio d’ore ci confrontammo civilmente loro due e noi due per esporre le nostre rispettive posizioni ideali. Negli anni Settanta un tale colloquio sarebbe stato umanamente impossibile». Così scrive Giampiero Mughini nel suo ultimo libro Memorie di un rinnegato (Bompiani) e cita altri incontri successivi tra intelligenze di destra e di sinistra degli anni Ottanta. La serata a cui si riferiva era l’inverno del 1981 e lasciò traccia sul numero unico della rivista Omnibus, da me diretta per le edizioni Volpe. Avevo 26 anni, loro erano vicini alla quarantina, ma ci sentivamo tutti reduci da una guerra ideologica. È vero, quel dialogo «negli anni Settanta sarebbe stato umanamente impossibile»; ma impossibile sarebbe stato poi nei nostri anni.

Dai primi anni Ottanta in poi ci furono tanti dialoghi e aperture. Riguardarono intellettuali di frontiera, come allora si disse, ma anche editori e giornali. Si confrontavano intellettuali di destra e di sinistra, anche provenienti dal neofascismo e dal comunismo, evoliani e operaisti. Oltre Cacciari e Mughini, ricordo dialoghi aperti con Giacomo Marramao, Pietro Barcellona, Beppe Vacca, Costanzo Preve, Biagio de Giovanni, Giorgio Galli ma anche con Enrico Filippini, Giorgio Bocca, Michele Serra, perfino Gad Lerner, alcuni direttori de l’Unità, e potrei continuare. Sul versante destro, c’erano Giano Accame, Franco Cardini, Marco Tarchi e il gruppo della nuova destra, i rautiani ma anche Beppe Niccolai, poi Pietrangelo Buttafuoco e altri giovani provenienti dal Secolo d’Italia. Per dirvi solo la mia esperienza, oggi sarebbe impensabile per uno di destra scrivere su la Repubblica, intervenire su l’Unità e su l’Espresso, pubblicare con Laterza, collaborare con l’Istituto Gramsci... Ma all’epoca accadde. Dopo un paginone di Repubblica su Pasolini reazionario antimoderno, fui criticato da sinistra sul Corriere della sera da Maria Antonietta Macciocchi... Ricordo un dialogo epistolare col neosegretario del Pds Walter Veltroni sul comunitarismo, e poi dialoghi su la Repubblica con Ralph Dahrendorf e sul Corriere con Norberto Bobbio, con un lungo carteggio a seguire, con Luciano Violante... Giorni fa Luca Ricolfi sul Messaggero mi ricordava ospite al Salone di Torino; ma succedeva perfino nei festival dell’Unità…

Parliamo di un’epoca in cui il comunismo e il neofascismo erano ancora presenti; i partigiani, i combattenti della Rsi e i reduci dai campi di concentramento erano ancora vivi. Ma c’era stata la scottatura degli anni di piombo, poi il Riflusso nel privato con le sue insulsaggini; ci accomunava la critica al consumismo e all’«edonismo reaganiano», ma c’era sullo sfondo la scoperta a sinistra di autori «reazionari» come Schmitt, Junger e Heidegger, il riaffiorare di Gentile, per non dire del futurismo e altre esperienze poetico-letterarie. C’era curiosità, attenzione, rispetto. Superammo gli anni di piombo e la guerra civile. Ma presto venne fuori col bipolarismo muscolare l’odio contro Silvio Berlusconi e da parte sua il rilancio dell’anticomunismo. E il clima degenerò.

Così entrammo nel Terzo Millennio non dalla porta principale ma dal retro. Si chiusero le frontiere ideali. Berlusconi fungeva da bersaglio ideologico di rimpiazzo rispetto all’anticapitalismo perduto: ecco Berlusconi il Ricco, il Padrone, il Teleimbonitore, oltre che il Delinquente, il Populista, il Tiranno, già protetto da Craxi e impresario dei postfascisti. La Repubblica, con Ezio Mauro, chiuse le vie di comunicazione, scavò il fossato con l’altra Italia e l’altra cultura, rilanciò l’antifascismo torinese e spostò il Nemico dal Capitale al Fascista e ai suoi alleati populisti. Il muro dei nostri anni fu il politically correct e la riduzione di ogni dissenso a fobia.

Quando finì la parabola di Berlusconi lo rimpiazzò il nazionalismo, il sovranismo, il populismo. Ecco il nuovo Nemico Assoluto, Matteo Salvini, il Nazista da scacciare. Si allestirono i cordoni sanitari, non solo sul piano politico ma sul piano culturale, intellettuale, umano. A leggerli oggi, molti dei citati autori dialoganti di ieri sono irriconoscibili per l’involuzione settaria e manichea; forse lo sarò anch’io ai loro occhi. Ma se le intemperanze sono bilaterali, l’interdetto e la scomunica sono stati usati da chi ritiene d’avere il monopolio del vero, del giusto e dello spirito dell’epoca. C’è stata una chiamata alle armi, un rigurgito di militanza, un disprezzo che trasuda nella prosa e nelle pose. S’ignorano libri e idee altrui, si impicca il nemico a una frase, un tweet, una citazione riportata, una preferenza politica.

Un tempo la cultura era battistrada dei cambiamenti politici; dall’inizio del terzo millennio è passata dal ruolo di avanguardia a quello di retroguardia, conferma i luoghi comuni, presidia il politically correct, non distingue, anziché incoraggiare chi, dalla parte opposta, non urla slogan e non aggredisce, ma pensa, legge, scrive. Il dialogo è cessato, solo ponti levatoi; le opinioni difformi vengono declassate a reati e infamie. Tutto questo procede di pari passo con la progressiva irrilevanza della cultura e marginalità delle idee. Che ci sia un nesso? Sarà possibile voltare pagina? La domanda si perde in un clima di guerra televisiva, social e a mezzo stampa. Finite le ideologie, resta l’odiologia.

I vecchi errori del popolo della sinistra. Nel commentare sui social la vittoria della Lega il solito copione: avversario = ignorante.

"Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene". (Gad Lerner)

"Siccome non voglio essere pessimista mi rallegro per quel 65,7% che non ha votato Lega".

"Che voglia di andare a pagare le tasse in un altro paese fatto da gente intelligente".

"Orgoglioso di Milano e dintorni. Cultura, inclusione, solidarietà e lungimiranza: se questi elementi non mancano, sovranismo e ignoranza si riducono a macchietta".

"La speranza è l’ultima a morire! In tutto questo nero qualche squarcio di luce si intravede!

E comunque... o a Milano ci siamo bevuti il cervello oppure se lo è bevuto il resto del Paese... delle due l’una!".

Sono alcuni (navigate pure, ne troverete a centinaia) dei commenti di sostenitori del Pd o della sinistra in generale postati sui social oggi per commentare il successo della Lega nelle Elezioni Europee. Commenti che hanno un unico denominatore comune: noi siamo quelli intelligenti, i leghisti sono tutti cretini, ignoranti, stupidi etc etc etc. La cosa non sorprende. Immaginiamo il mal di stomaco di queste persone da ore, dalle prime proiezioni della notte appena passata per un risultato che fa male. Quindi c'è sicuramente un pizzico di rabbia (classica e comprensibile) dello sconfitto. Ma, sotto sotto, resta un problema di fondo: la base della sinistra si sente e si sentirà sempre superiore (culturalmente parlando) agli altri. Fate attenzione, non ai leghisti, abbiamo detto agli altri, in generale. Perché quello che oggi viene detto di chi vota Lega è stato detto per anni riguardo a chi votava Forza Italia. Non conta quindi chi sei. Conta solo il fatto che sei un nemico. E, come tale, sei inferiore. Peccato che questa cosa si stia trasformando in un autentico boomerang politico e di sicuro elettorale con i risultati che le elezioni di ieri ma anche le ultime politiche e regionali. La sinistra sta rinascendo dopo la fine drammatica dell'epoca Renzi. Sarebbe il caso di ripartire allargando un po' la propria visione dell'Italia. Perché per far ripartire il paese serve certo un governo forte ma anche una opposizione, anzi una proposta politica diversa e credibile. "Spero che tu possa fare meglio di me. Ancora auguri" ha appena detto in diretta tv Chiamparino (Pd) al neo Governatore del Piemonte, il rappresentante del centrodestra, Cirio. Ecco. La sinistra deve ripartire da questo. Educazione, compostezza e voglia di rimboccarsi le maniche per creare una proposta politica seria. Perché finita un'elezione bisogna pensare subito alla prossima.

La giornalista radical chic attacca: "Sono terrorizzata dagli italiani". La giornalista di Repubblica, Natalia Aspesi, attacca gli italiani: "Più il paese corre verso l'autodistruzione, più loro adorano i propri carnefici". Giovanni Neve, Domenica 16/06/2019 su Il Giornale. "Se vincono i 5 stelle, mi sparo", aveva detto un paio di anni fa. Ovviamente non l'ha fatto. In compenso Natalia Aspesi, firma storica di Repubblica, passa il tempo a "fantasticare ogni genere di crudeltà contro Salvini e Di Maio". Non si fa troppi problemi ad ammetterlo e, in una lunga intervista all'Huffington Post, arriva addirittura a maturare pensieri estremi: "Anziché spararmi a causa loro, pian piano, ho maturato la fantasia di sparare a loro. Devo dire che la legge sulla legittima difesa mi è venuta incontro. Nessuno può più negarmi di imbracciare un kalashnikov. Sono vecchia. Sono sola. Sono gravemente turbata dalla condizione disperata degli italiani. Ho tutto il diritto di fare una strage". "Sono terrorizzata dagli italiani". Nell'intervista all'Huffington Post non fa sconti a nessuno. Se la prende con Matteo Salvini e Luigi Di Maio e attacca chi li vota. "Più il Paese corre verso l'autodistruzione, più loro adorano i propri carnefici - tuona la giornalista - è come se si fossero trasformati in tanti piccoli lemuri che si precipitano entusiasti in fondo al burrone". È sempre la solita solfa della sinistra radical chic che se la prende con la democrazia quando dalle urne non esce il partito da lei sostenuto. Lo stesso valeva quando era presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per cui dice di provare "una specie di avvilente nostalgia". "Berlusconi non è stato un fascista - argomenta - non ha riportato l'odio nel paese. Non ha alimentato il sospetto per i diversi. Né il disprezzo per le donne, che sta crescendo in maniera pericolosa". Secondo la Aspesi, alla radice del boom della destra ci sarebbe l'emancipazione femminile. "Tutti questi fascistelli con la testa pelata sono diventati tali perché hanno perso il controllo sulle donne - dice - non riescono a perdonargli la libertà che hanno. Credono che il fascismo sia il modo per recuperare il dominio su di loro". Da qui, a suo vedere, il voto a Salvini: "Gli uomini sono furibondi. E in Forza Nuova, oppure nella Lega, il loro odio per queste donne diventa un ideale politico". E il suo incubo peggiore è che il leader del Carroccio, un giorno, diventi presidente del Consiglio. "Nemmeno lui, in realtà, vuole governare. Ha una paura tremenda - spiega - a quel punto, dovrebbe smettere di andare in giro a mangiare polenta e mettersi a lavorare sul serio".

Gianni Cuperlo disprezza il popolino: "Lega primo partito di chi non termina la scuola secondaria". Libero Quotidiano il 27 Maggio 2019. "La Lega è il primo partito in Sardegna dove il 33 per cento non termina la scuola secondaria". Gianni Cuperlo, del Pd, ospite di Myrta Merlino a L'aria che tira, su La7, fa il solito ragionamento, quello tipico della sinistra radical chic secondo la quale gli ignoranti votano a destra e gli "intelligentoni", invece, il Partito democratico. Senza capire che continuando a difendere questo ragionamento sono destinati a prendere solo delle grandi legnate. Dice poi Cuperlo che i democratici devono "ritrovare il modo di parlare ai cittadini. Questo governo non ha fatto niente in termini di incentivi al diritto allo studio". E quindi "o riusciamo a collegare la nostra offerta politica a quelle persone o faremo solo ragionamenti molto vaghi". Forse basterebbe prendere atto che il risultato delle urne non dipende dal grado di istruzione. Questo sarebbe un buon punto di partenza. 

Per Cuperlo chi ha votato Lega non ha finito la scuola media...Gianni Cuperlo, membro della direzione Pd, ha dichiarato che la Lega è il primo partito in Sardegna lì dove il 33% dei ragazzi non finisce gli studi. Non meno tenero il giudizio di Gad Lerner secondo il quale “in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene". Gabriele Laganà, Lunedì 27/05/2019, su  Il Giornale. Una analisi alquanto "serena" quella fatta dalla sinistra in merito al grande successo, per certi versi inaspettato, della Lega alle elezioni europee. “Ci sono due Regioni, anzi una. Sì, mi colpisce l’Emilia, certo. Ma a me colpisce che oggi la Lega sia il primo partito in Sardegna dove il 33 per cento dei ragazzi tra i 14 ed i 18 anni che frequentano la secondaria non finirà gli studi. E la Lega, azionista di riferimento di questa maggioranza, non ha fatto niente per loro". È quanto ha dichiarato Gianni Cuperlo, membro della direzione del Pd, ospite di Myrta Merlino a "L'aria che tira" su La7. Cuperlo, inviato in trasmissione per analizzare il risultato del voto delle Europee che hanno sancito la vittoria della Lega, ha anche fatto una sorta di mea culpa affermando che i democratici devono "ritrovare il modo di parlare ai cittadini. Questo governo non ha fatto niente in termini di incentivi al diritto allo studio". E, quindi, ha concluso l'esponente del Pd "o riusciamo a collegare la nostra offerta politica a quelle persone o faremo solo ragionamenti molto vaghi". Se Cuperlo non ha usato parole tenere per spiegare il successo della Lega, ancor più duro è stato Gad Lerner. "L'Italia leghista è un rivolgimento profondo, sociale e culturale prima ancora che politico, come testimonia il voto nelle ex regioni rosse. Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene", scrive Lerner. Questo è solo l’ultimo di una serie di attacchi che il giornalista e conduttore televisivo ha riservato al partito guidato da Matteo Salvini, Solo qualche giorno fa, il conduttore de "L'Approdo", nuovo programma che andrà in onda dal 3 giugno in seconda serata su Rai3, ha dichiarato: "Tra alcuni anni proveremo vergogna per il comportamento del nostro governo, per la denigrazione di chi pratica il soccorso in mare, per l'offesa recata a dei sofferenti trattati come se fossero dei furbi e ci chiederemo come sia stato possibile accettarlo".

Giampiero Mughini per Dagospia il 15 settembre 2019. Caro Dago, le volte che vado in tv a guadagnarmi il pane e mi trovo di fronte l’uno o l’altro “sovranista” cui le gote si gonfiano mentre pronuncia il termine “italiani” ho come un soprassalto. Lui pronuncia il termine “italiani”, e se potesse con la “I” maiuscola, a dire quelli che stanno dalla sua parte, quelli che come lui strisciano sui tappeti su cui Matteo Salvini poggia i suoi piedi, quelli che aspirano a un ruolo nella Tv “sovranista”, quelli che vorrebbero prendere i Paesi europei nostri cugini a sberle sulla testa e spendere a man bassa soldi che non abbiamo, quelli che “vogliono chiudere i porti”. Chiudere i porti ai disgraziati della Terra,  altro che il Benito Mussolini che assicurava gli “italiani” del suo tempo che le imminenti forze da sbarco angloamericane sarebbero state bloccate “sul bagnasciuga”. Sì, ho ogni volta un soprassalto a sentire l’abuso indecente di questo termine che di per sé non vuol dire nulla, a cominciare dal fatto che in Parlamento ci sono molti più “italiani” diversissimi da quelli che ho detto sopra e che in democrazia la matematica non è un’opinione. E che è da questi italiani che è nato un governo che non sarà sexy nemmeno un po’, ma che è del tutto legittimo. Alla faccia dei “sovranisti”. Beninteso, mai e poi mai darei a “Salvini” del fascista. Farlo è da imbecilli. Non siamo nell’Italia del 1919-1922 e bensì nell’Europa del terzo millennio. E poi il fascismo italiano è stata una cosa seria, tanto è vero che lo copiarono in molti, a cominciare da Adolf Hitler, laddove nella topografia politica dei nostri giorni è molto difficile sceverare ciò che è serio da ciò che è grottesco. E beninteso questo vale per tutti i partiti e per tutte le congreghe, non solo per Salvini, il quale “ci fa” più ancora di quanto non “sia”. Mai, mai, mai costruirò un ragionamento o un’opzione politica a partire dal fatto che sia “contro” Salvini  o che vada “contro” Salvini. E’ roba da mentecatti. Ma torniamo al contenuto semantico dell’espressione “italiani”. Che vuol dire? Nulla di nulla. Non esistono gli “italiani”, esiste Tizio, Caio, Sempronio. Esiste Tizio che fa quel determinato lavoro e che paga quel tot di tasse e che cede il passo a una signora che gli si para di fronte. Esistono le persone e le centomila sfumature di ciascuna persona. A usare l’espressione “italiani” all’ingrosso sbatti il muso contro realtà avvilenti. Gli italiani? Ebbene il 50 per cento di loro o forse di più non compra neppure un libro l’anno. Il 60 per cento o forse di più non è in grado di intendere appieno l’editoriale di un quotidiano. Il 30 per cento almeno sino all’altro ieri evadeva tasse le più elementari e le più innocue, tipo la tassa sul consumo delle trasmissioni televisive. Premesso che io condivido non oltre il 50 per cento del pensiero di Gad Lerner, erano degli “italiani” quelli che ho visto in un video del Fatto utilizzato da Dagospia, ossia quegli energumeni che sbraitavano o lo insultavano? No, direi piuttosto (a bassa voce) che erano una feccia. C’è una bella differenza. O no?

Il manganello di Gad Lerner. Nicola Porro, 11 ottobre 2019. Nel nuovo numero di Venerdì, in edicola oggi, Gad Lerner torna ad attaccare i volti ”sovranisti” di Mediaset. A seguire alcuni passi e, nel video sopra, la mia risposta. “Avrete notato che il rilancio dei talk show di destra in cui già da tempo si era specializzata con successo Retequattro, con firme come Paolo Del Debbio, Mario Giordano, Nicola Porro (e Maurizio Belpietro) circondati da opinionisti vari e tribuni del popolo che vanno dalla trumpiana Maria Giovanna Maglie fino al neo-ortodosso Alessandro Meluzzi, assume oggi il gradevole sapore familiare di un revival.” (…) “Ma ecco che di nuovo il palinsesto si ribalta e torna più salviniano che mai. Mi piace pensare che ciò non accada per mera direttiva aziendale, ma che sia stato invece un umore diffuso a destra, una pulsione naturale, a risospingere sulla cresta del prime time quei paladini del salvinismo che, se potessero, il mattatore Matteo lo piazzerebbero ospite d’ onore in tutte le loro puntate.”

DAGONOTA l'11 ottobre 2019. Gad Lerner ha un talento speciale: interpretare tutti i ruoli in commedia. È grazie a questa capacità straordinaria che da 50 anni non manca mai sugli schermi e sui giornali italiani. Una volta da pasionario di ''Lotta Continua'', l'altra da ospite dello yacht da 80 metri di Carlo De Benedetti. Una volta da sedicente martire di epurazioni tv, l'altra da epurator che manco Storace ai tempi d'oro. Una volta moralizza le Veline di ''Striscia'' in quanto ''stereotipo della volgarità'', l'altra è protagonista di bollenti romanzi erotici di grandi scrittrici italo-spagnole che dialogano con il suo membro. Una volta col Rolex e doppio petto, l'altra in brache di lino in mezzo ai poveri (ma sempre col Rolex). Insomma ci siamo capiti. Un nuovo genere del suo multiforme ingegno sono i corsivi sul ''Venerdì''. Nel numero in edicola oggi torna ad attaccare i volti ''sovranisti'' di Mediaset, da Mario Giordano a Paolo Del Debbio, da Nicola Porro a Maria Giovanna Maglie, con un editoriale-fotocopia di quella ''lista di proscrizione'' con cui lo scorso maggio si augurava la scomparsa dai canali (privati) del Biscione di chi non la pensa come lui. La cosa divertente, allora, era che proprio in quei giorni iniziava il suo ennesimo programma sulla Rai. Lui, grande nemico del governo giallo-verde (in carica) eppure liberissimo di debuttare con una puntata intera contro la Lega, sulla tv di Stato che la Lega controllava. Salvini lo criticò, lui colse l'occasione per fare la vittima, e il battage mediatico (unito a un ottimo traino) gli regalarono buoni ascolti alla prima puntata, di cui si vantò prematuramente. Infatti con le puntate successive, lo share andò a picco e lui smise di gongolare. Non ebbe neanche più occasione di fare la vittima, visto che il suo programma non faceva più notizia. Ieri sera, mentre le copie del ''Venerdì'' con il suo editoriale contro i conduttori Mediaset venivano caricate sui camion, lui si adagiava sullo sgabello di ''Piazzapulita'', dove per oltre mezz'ora sarebbe stato protagonista assoluto, e dove avrebbe esposto la sua visione giustamente e liberamente ideologica della guerra in Siria. E, sarà un caso, in diretta concorrenza con Del Debbio, che su Rete4 era in onda con il suo ''Dritto e Rovescio''. Il bello, anzi il brutto, è che stavolta la lista di proscrizione arriva da uno che non è più all'opposizione, ma si trova di nuovo al governo, avendo avuto per molti anni la tessera del Pd (altro cortocircuito politico-mediatico), avendo curato la comunicazione di Laura Boldrini, avendo presentato numerosi eventi con Prodi e altri leader della sinistra. Gaddino ogni giorno apre l'armadio e si trova davanti una fila di gilet. Da critico tv, ospite tv, presentatore tv, editorialista cartaceo, intellettuale organico, twittarolo caustico, martire del pensiero. Ogni tanto si confonde e ne indossa due o più alla volta, come stavolta. Visto che il primo editoriale non è bastato a convincere gli italiani a scendere in piazza contro i proscritti, oggi ci riprova a licenziare i dipendenti di un gruppo privato che nulla hanno a che vedere col servizio pubblico (quello è territorio suo). Peccato che nel frattempo i tremendi sovranisti continuano a crescere negli ascolti (battendo pure i programmi in cui appare lui…) e vengono allungati di 4 puntate (è il caso di Mario Giordano). Ma Lerner non si scoraggia: in fondo è lo stesso che quest'estate è andato a Pontida in mezzo ai leghisti per aizzarli, per poi lagnarsi del fatto che Salvini non lo avesse difeso dagli insulti di quattro scalmanati. Ed è pure lo stesso Gad che, nei panni del brillantone da Twitter, si rammaricava che Salvini e Razzi non fossero morti in Corea del Nord.  “Bomba all’idrogeno in Corea del Nord, peccato che Salvini e Razzi non si trovassero nella loro patria elettiva”, cinguettava senza curarsi del politicamente corretto. Aspettiamo nuovi, eccitanti ruoli dell'inesauribile Gad. Ps: manco il tempo di scriverlo, ed ecco la gaddata du jour: l'indignazione suprema per le manette in prima pagina del ''Fatto Quotidiano''. Lui che nel 2011 dal PalaSharp di Milano, al convegno di ''Libertà e Giustizia'', chiedeva le dimissioni di Berlusconi perché indagato (poi fu assolto) per essere andato a letto con Ruby. A proposito di garantismi…

Gad Lerner per ''il Venerdì - la Repubblica'' l'11 ottobre 2019. Se Carlo Freccero su Raidue ha ballato il sovranismo per una stagione sola, come una qualsiasi macarena estiva che passa di moda con le prime piogge, altrettanto non si può dire dell' informazione televisiva targata Mediaset. Mentre la seconda rete della tv pubblica subiva il ricambio di maggioranza politica trasformandosi in un guazzabuglio, nel quale vengono obbligati a coabitare il putinismo destrorso di Gennaro Sangiuliano e il pop sinistreggiante di Fabio Fazio, ecco, per una volta è Mediaset a rivelarsi il laboratorio culturale più sintomatico e interessante. Avrete notato che il rilancio dei talk show di destra in cui già da tempo si era specializzata con successo Retequattro, con firme come Paolo Del Debbio, Mario Giordano, Nicola Porro (e Maurizio Belpietro) circondati da opinionisti vari e tribuni del popolo che vanno dalla trumpiana Maria Giovanna Maglie fino al neo-ortodosso Alessandro Meluzzi, assume oggi il gradevole sapore familiare di un revival. Furono loro, per primi, seguiti altrove dalla condiscendenza dei Floris e dei Telese, a far coincidere la propria audience con il gergo di facile presa e suggestivo di Salvini. Ne divulgarono l' agenda, spianandogli la corsia del sorpasso rivelatosi decisivo: Lega primo partito del centrodestra, e pazienza se ciò avveniva a scapito del partito dell' editore. Si ricorderà che dopo quell' inatteso sovvertimento, quando ormai la frittata era fatta, a Mediaset vennero assunti provvedimenti drastici. Sospensione immediata delle trasmissioni dei personaggi individuati come populisti, e dunque seminatori di mentalità salviniana. Invano fu tentato un riequilibrio con velleitari innesti di firme più moderate, anche provenienti da Rai3. Ma ecco che di nuovo il palinsesto si ribalta e torna più salviniano che mai. Mi piace pensare che ciò non accada per mera direttiva aziendale, ma che sia stato invece un umore diffuso a destra, una pulsione naturale, a risospingere sulla cresta del prime time quei paladini del salvinismo che, se potessero, il mattatore Matteo lo piazzerebbero ospite d' onore in tutte le loro puntate. Intendo dire che la polarizzazione dei telespettatori, ormai quasi sempre coscritti e arruolati per appartenenza di canale e di talk, come ci spiega Stefano Balassone, a Mediaset non poteva che assegnare la rappresentanza di una corrente reazionaria sotterranea e profonda della società italiana che, una volta riaffiorata, andava pure incanalata. So che quelli lì si arrabbiano quando descriviamo il mix sovranista e anticasta, con venature razziste e fasciste, dell' Italia che impersonano. Ma non è mica colpa nostra se la storia ci lascia in eredità, pure sui teleschermi, una destra così.

Da liberoquotidiano.it l'11 ottobre 2019. Gad Lerner attacca, Mario Giordano risponde. Il conduttore di Fuori dal coro scrive su Twitter: "Lerner ossessionato torna ad attaccarmi perché manderei in onda il sovranismo. Poveretto. Ormai ripete sempre le stesse cose. E comunque sempre meglio mandare in onda il sovranismo che i pedofili". Il riferimento risale a un controverso episodio di molto tempo fa. La risposta di Giordano è arrivata dopo gli attacchi alla sua televisione arrivati nel corso di PiazzaPulita, il programma di Corrado Formigli in onda su La7 il giovedì sera. Fece scalpore, nel 2000, la decisione di Lerner, allora direttore del Tg1, di mandare in onda le foto dei siti pedofili a corredo della notizia sull'operazione antipedofilia in Russia e in Italia hanno scatenato una tempesta di polemiche su Tg1 e Tg3, con Gad Lerner, direttore del telegiornale della Rete Uno della Rai costretto a scusarsi in diretta per quelle foto mandate in onda. Foto che hanno fatto saltare sulla sedia l'allora direttore generale della Rai Pierluigi Celli.

Gad Lerner è il provocatore che va a caccia di odio per scatenare guerre. Francesco Storace lunedì 16 settembre2019 su Il Secolo d'Italia. Chissà se stamane qualche giornale scriverà che Gad Lerner è un provocatore. Rischiando magari di trovarsi sbattuto in miniera dall’ordine dei giornalisti o dal sindacato unico. Eppure, quel tomo lo è. Perché hai diritto – e ci mancherebbe – a tutte le opinioni che vuoi, ma andarle a sbattere sotto il naso di chi mostri ogni giorno di odiare, è insolente. Te le sei cercate, altro che vittima del nulla che ti è stato fatto. Fazzoletti ne abbiamo? Ci sarebbe bisogno di un giornalismo che informa e non di cronisti che sfidano. Invece, ti svillaneggiano ogni giorno che passa e poi pretendono mazzi di fiori se vanno a fare passerella nella tana del lupo che dipingono come un delinquente abituale.

A Pontida a cercare pedate. Gad Lerner è andato a Pontida sperando di beccare una pedata e non c’è riuscito. Giusto qualche parolaccia e di questi tempi non è nemmeno così grave. Ma ce lo vedreste voi al derby Claudio Lotito in curva sud? Direste che ha esercitato il suo diritto a vedere Roma-Lazio o che è uscito di testa? E invece di dire falla finita con le tue provocazioni, insorge la sinistra a difesa del povero giornalista insultato dalla gente che aspettava di ascoltare il suo leader, Salvini. Che a un comizio era andata per spellarsi le mani e non per metterle addosso al nemico quotidiano che avevano davanti in carne e ossa. Certo che è sbagliato prendersela col cronista di Repubblica; e magari non si dovrebbero dire le parolacce – non è carino – nemmeno a Lerner. Ma non è neppure giusto usare i soliti due pesi e due misure. Non ci siamo dimenticati l’accoglienza riservata ai giornalisti nei meeting dei Cinquestelle. Nel Paese in cui si contesta un crocifisso ad una giornalista Rai si spaccia per razzismo la rabbia delle persone nei confronti di chi attacca ogni giorno la forza politica che seguono. E’ semplicemente voglia di non trovarsi in mezzo ai piedi chi ti disprezza. Perché Lerner vomita odio contro quelli che definisce buzzurri semplicemente perché non stanno a sinistra. E si sa, non essere rossi è un peccato grave.

Non ha senso ciò che ha fatto Lerner. Ieri si è giocato l’ennesimo quarto d’ora di celebrità – sempre a Pontida si era esibito nel 2016 con lo stesso risultato – e se ne è tornato a casa tutto contento. Magari stamane rimedia un bell’editoriale su Repubblica, la proposta di scrivere un libro “Così ho sventato la morte” e un altro bel programma Rai dal titolo “Al cinismo non si comanda”. Non è questo il mestiere del giornalista e fanno malissimo i solidali per mestiere a uscire dal guscio per l’ennesima volta. Gad Lerner ha sbagliato perché non ha alcun senso quello che ha fatto. Chi ha detto che il giornalista deve trasformarsi in una specie di Rambo pronto a sfidare il mondo che contesta ogni giorno persino con una indisponente presenza fisica? Ma se ne stia a casa, si goda i quattrini che accumula e non faccia messinscene utili solo a incattivire gli animi. In giro c’è già tanta esasperazione, non abbiamo bisogno di un Pierino piuttosto attempato per aumentare ancora di più la tensione. Si, Lerner è un provocatore.

(ANSA il 16 settembre 2019) "Questi non sono giornalisti ma spesso calunniatori": lo ha detto il segretario della Lega Matteo Salvini a Aria pulita su 7gold parlando degli insulti a Pontida a Gad Lerner e l'aggressione al videomaker di Repubblica Antonio Nasso. "Non si tratta mai male nessuno. A casa mia l'ospite è sacro ma se uno sputa veleno su una persona per vent'anni..", ha aggiunto ricordando che "Gad Lerner una volta si augurò la mia morte". "Questi qua non sono giornalisti. Spesso e volentieri sono calunniatori" ha osservato Salvini subito aggiungendo che comunque "non si tocca mai nessuno neanche con un dito". "Chiunque a casa mia - ha concluso - è rispettato e riverito. Che Repubblica ogni giorno mi insulti, che Gad Lerner passi la vita a insultarmi, e Saviano, e Tizio e Caio... secondo me il giornalista dovrebbe essere superiore a certe cose".

Da ''Radio Capital'' il 16 settembre 2019. È stato, suo malgrado, uno dei protagonisti della giornata di Pontida. Perché al raduno leghista Gad Lerner è stato bersagliato dai militanti con insulti e offese, anche antisemite. Oltre all'ex direttore del Tg1, anche il giornalista di Repubblica Antonio Nasso è stato aggredito: un militante ha colpito con un pugno la sua telecamera, rendendola inutilizzabile. A Circo Massimo, su Radio Capital, Gad Lerner racconta quanto successo alla manifestazione della Lega: "Prima di questi cori tanti militanti della Lega mi chiedevano i selfie, mi salutavano cordialmente, frequento i loro raduni da una trentina d'anni. Poi si forma il coro, e nel coro emergono gli umori, le pulsioni, che individualmente magari nessuno ha il coraggio di esprimerti. Non è successo niente di grave, sono andato lì a fare il mio lavoro, ma rilevo qualche differenza rispetto al passato. Perché quando anche un parlamentare della Lega diceva nei comizi 'vedo Lerner e capisco Hitler'", ricorda il giornalista riferendosi all'ex deputato Cesare Rizzi, "arrivava la mattina dopo la telefonata di Umberto Bossi che diceva "quello è un pirla, scusalo, noi non la pensiamo certo così". Mi è successo più di recente con Giorgetti, che mi ha detto "non pensare che questa pulsione razzista e antisemita sia l'espressione della Lega". Ho l'impressione che invece Salvini ci gongoli e ci marci un po'. Di certo non telefona. Non mi ha chiamato, e diciamo che non mi manca". Secondo Lerner, il leader della Lega si sta preparando "per una traversata del deserto, anche se dichiara di voler tornare al governo fra pochi mesi. Si immagina di nuovo una fase lunga di movimentismo nel quale raccogliere anche l'estrema destra. E già a Roma, davanti a Montecitorio, Casapound e Forza Nuova erano tornati al fianco della Lega e di Fratelli d'Italia". E il nuovo governo? "È nato non certo per merito di chi è andato a farne parte, ma per via della pirlata compiuta autolesionisticamente da Matteo Salvini, e questo è il marchio della debolezza del nuovo governo. È anche però", ragiona Lerner, "il marchio di una potenziale debolezza di Salvini stesso". "Ieri applauditissimi i governatori di Lombardia e Veneta hanno rispolverato accenti di leghismo padano della prima ora", aggiunge, "e quindi anch'io penso che la questione dell'autonomia scivolerà di nuovo verso il secessionismo e l'indipendentismo, nonostante i richiami patriottici di Salvini stesso, che ha promesso in pochi mesi la spallata, la fine dell'equilibrio politico giallorosso. Se non riuscirà a ottenere questa spallata, se non conquisterà l'Umbria e l'Emilia Romagna come ieri dava per certo, allora quell'indulgenza affettuosa, quel legame sentimentale, per cui ieri in piazza dicevano sottovoce "è stato ingenuo ma resta il nostro capitano", potrebbe scemare e tra pochi mesi potrebbero fargliela pagare". Quello che è mancato a Pontida, nota Lerner, "sono le scuse di Salvini alla sua piazza, alla sua gente, per l'ubriacatura del Papeete, e per i danni che gli ha arrecato. Ricordo un paragone storico un po' azzardato: dopo la guerra dei sei giorni, il leader egiziano Nasser, che aveva subito una sconfitta bruciante dopo che aveva annunciato di distruggere Israele, chiese scusa e rassegnò le dimissioni. A quel punto milioni di egiziani si riversarono per le strade del Cairo chiedendo a Nasser di restare al suo posto e lui ritirò le sue dimissioni. Ora, si parva licet, questo meccanismo non è scattato nel caso della pirlata di Salvini, ma era sottinteso. Però si daranno appuntamento tra qualche mese per stabilire se davvero valeva la pena di far saltare il governo".

Vittorio Sgarbi in difesa di Salvini sugli insulti a Lerner: "Gli hanno reso pan per Focaccia". Libero Quotidiano il 16 Settembre 2019. Hanno fatto scalpore gli insulti subiti da Gad Lerner per mano dei supporter leghisti al raduno di Pontida. Il leader della Lega Matteo Salvini era stato criticato pesantemente per non aver preso le distanze, come testimoniato dal tweet dello stesso giornalista di Repubblica ("Chi tace acconsente"). In difesa del leader del Carroccio è arrivato il critico d'arte e sindaco di Sutri Vittorio Sgarbi che, intercettato da Adnkronos, ha voluto dire la sua su quanto accaduto a Pontida: "Dal punto di vista del politicamente corretto, se Salvini fosse stato ipocrita avrebbe potuto risolvere subito la situazione dicendo che un giornalista in quanto tale non va aggredito. La responsabilità di questi gesti razzisti non è del leader del partito ma di un clima che vede alcuni militanti fuori controllo; questo episodio è più svantaggioso per la Lega in quanto adesso sarà il pretesto per accusare i leghisti di antisemitismo". Il senatore non ha negato la possibilità che Gad Lerner si sia presentato a Pontida apposta per provocare: "Mi sembra invece che sia corretta la definizione data di Lerner come un provocatore, perché le sue affermazioni sia sui social che in televisione sono sempre state molto dure e violente. Gli hanno reso pan per focaccia". Sgarbi, che in questi ultimi tempi si sta avvicinando molto a Salvini dopo la sua fuoriuscita da Forza Italia, dà un consiglio all'ex ministro degli Interni: "Prenderei le distanze dalle affermazioni antisemite, anche perché non è nemmeno giusto indicare certi luoghi come non frequentabili da parte della stampa […] Ma la responsabilità non è dei vertici e non bisogna attribuire per questo alla Lega una natura di intolleranza che non la caratterizza".

Diego Fusaro smaschera Gad Lerner e la sua frase vergogna: "Peccato che Salvini e Renzi..." Libero Quotidiano il 16 Settembre 2019. Diego Fusaro contro Gad Lerner. Il filosofo scopre un vecchio tweet di Lerner e lo inchioda. Fusaro solidarizza con il conduttore dopo gli insulti ricevuti da un leghista, ma non perdona. "Penosi e inqualificabili gli attacchi personali a Gad Lerner a Pontida", scrive su Twitter il fondatore del movimento politico Vox Italiae, "penosi e inqualificabili quanto queste esternazioni dello stesso Gad Lerner. È Pontida che prende spunto da Lerner o è Lerner che prende spunto da Pontida?".  Ecco cosa aveva scritto il giornalista e conduttore radical chic su Twitter nel 2016: "Esplode bomba all'idrogeno in Corea del Nord e provoca terremoto. Peccato che Salvini e Razzi non si trovassero nella loro patria elettiva". Capito il democratico illuminato?

Giovanni Toti accusa la sinistra: "Palla di lardo, Yoghi... a me nessuno ha mai chiesto scusa". Libero Quotidiano il 16 Settembre 2019. "Palla di lardo, vitello grasso, esploderai, fai schifo, orso Yoghi, cinghiale, fascista, arriverà il giorno in cui qualcuno si vergognerà di chiamarsi Totì". Così il governatore della Liguria commenta la notizia degli insulti a Gad Lerner. "Con la stessa indignazione con cui oggi, qui, oltre che in tv, condanno fermamente gli attacchi a Gad Lerner a Pontida mi piacerebbe che la sinistra, prima o poi, riflettesse e si indignasse anche quando lo stesso trattamento viene riservato a donne e uomini di centrodestra". E ancora su Facebook Giovanni Toti: "Non ho visto nessuno indignarsi quando un'esponente del Movimento Cinque Stelle mi ha chiamato cinghiale grasso o si è appellata a me definendomi orso Yoghi, non ho visto le barricate quando in piazza a Genova il 25 aprile io e il sindaco siamo stati fischiati e insultati (ci ha difeso solo l'Anpi), non ho visto la stampa indignata quando un loro collega mi ha dedicato in maniera totalmente gratuita una damnatio memoriae, così come non vedo preoccupata la politica di sinistra sulla deriva culturale del nostro Paese quando i loro militanti mi definiscono grasso, ippopotamo - prosegue il leader di Cambiamo -. Non ho mai fatto la vittima né ho mai voluto strumentalizzarlo politicamente e non intendo certo iniziare adesso, ma pensate cosa sarebbe successo al contrario? Mi pare che l'indignazione in Italia vada sempre e solo dalla stessa parte. Sarebbe bello e intellettualmente onesto che tutti si facessero un esame di coscienza e che tutti abbassassero i toni e alzassero il livello del dibattito una volta per tutte. La stupidità non ha colore politico, è inutile strumentalizzarla!". 

Ma Lerner ha mai chiesto scusa? Domenico Ferrara su Il Giornale il 17 settembre 2019. Ma Gad Lerner  che chiede perentoriamente le scuse di Matteo Salvini per gli (orribili) insulti ricevuti a Pontida ha mai chiesto scusa per le offese rivolte al leader della Lega? Perché nel gioco delle parti e nella bassezza della dialettica volgare non si deve dimenticare che le invettive non sono mai state unidirezionali. Anzi. Il giornalista chiese scusa quando nel 2016 scrisse: “Esplode bomba all’idrogeno in Corea del Nord e provoca terremoto. Peccato che Salvini e Razzi non si trovassero nella loro patria elettiva”. Augurare sostanzialmente la morte di un politico non è cosa per cui fare ammenda? Il 27 agosto scorso, gongolando per il nuovo governo, Lerner diede del pirla a Salvini. Poca roba, per carità. Nel pieno del caso Sea Watch, il conduttore televisivo prese, ça va sans dire, le difese della capitana Carola Rackete e attaccò più volte il Capitano: “Il suo vocabolario pieno zeppo di parolacce affoga nel ridicolo”; “Sbruffoncella? Non abbiamo piuttosto a che fare con un ministro sbruffone da osteria?”. Anche queste non sono cose per cui fare ammenda? E ancora: ” Vien da chiedersi: ma cosa penserà di Salvini la madre di Salvini? Quando, di fronte a quello che, comunque la si pensi, rimane un dramma umano, il suo Matteo scrive: ‘Non sbarca nessuno, mi sono rotto le palle. Lo sappia quella sbruffoncella‘”. Tirare in ballo la madre di qualcuno, senza motivo per altro, non è cosa per cui fare ammenda? E che dire dell’allarme fascismo lanciato in tv e sui social? “Questa destra di oggi strizza l’occhio all’iconografia del fascismo perché questa sua retorica di prima gli italiani è antica”, diceva nel giugno 2018. Nel dicembre dello stesso anno ci andò pesante: “Salvini, uno che dileggia i migranti della Diciotti è una merda umana”. Offendere pubblicamente un ministro della Repubblica non è cosa per cui fare ammenda? “L’Italia leghista è un rivolgimento profondo, sociale e culturale prima ancora che politico, come testimonia il voto nelle ex regioni rosse. Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene”, sentenziò all’indomani del boom del Carroccio alle Europee. Odiare, denigrare e declassare la democrazia e il popolo, peggio ancora se di destra, non è cosa per cui fare ammenda? Adesso, Lerner fa la vittima, pretende le scuse, rammentando i precedenti casi in cui prima Bossi e poi Giorgetti si cosparsero il capo di cenere quando venne insultato da militanti o compagni del Carroccio. Ma è lo stesso circuito che va in scena da anni, è lo stesso circolo mediatico in cui entrambi i soggetti traggono una sorta di beneficio dagli insulti dell’altro. Con l’unica differenza che Lerner, senza Salvini, avrebbe poca ragione di far parlare di sé. Non per nulla, a chi ha dedicato la prima puntata del nuovo programma in Rai L’Approdo? Alla Lega di Salvini.

Il solito razzismo di Lerner: insulti a chi ha votato Salvini. Il giornalista commenta il boom elettorale della Lega attaccando le "classi subalterne" che hanno votato Salvini. Domenico Ferrara, Lunedì 27/05/2019, su Il Giornale. Perché ha vinto Salvini? Date Gad Lerner ai politologi e troveranno la risposta. Che poi è estendibile e applicabile alle volte in cui gli elettori hanno premiato il centrodestra. E la risposta risiede nella saccenza, nella supponenza e nel disprezzo nei confronti del popolo. E quindi della democrazia. Come spiegare altrimenti l'analisi "illuminata" del conduttore televisivo all'indomani del boom del Carroccio. "L'Italia leghista è un rivolgimento profondo, sociale e culturale prima ancora che politico, come testimonia il voto nelle ex regioni rosse. Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene", scrive Lerner. Una disamina dal salotto radical chic che più a sinistra non si può e che malcela il sempiterno odio nei confronti degli elettori. Di destra però. Ignoranti, analfabeti, inferiori e ora anche subalterni. A cosa? All'intellighentia, immaginiamo. Un classismo progressista d'altri tempi. Tranquilli, però, il maestrino Lerner è già pronto a salire in cattedra. E il 3 giugno, nel suo nuovo programma "L'Approdo" in seconda serata su Rai3, indovinate un po' di cosa parlerà? Ma della Lega naturalmente. Perché, come ha dichiarato il giornalista qualche giorno fa: "Tra alcuni anni proveremo vergogna per il comportamento del nostro governo, per la denigrazione di chi pratica il soccorso in mare, per l'offesa recata a dei sofferenti trattati come se fossero dei furbi e ci chiederemo come sia stato possibile accettarlo". La lezione è già pronta, insomma. E la previsione del futuro pure. Quello che manca è l'analisi del presente. E della democrazia.

Da Radiocusanocampus.it il 30 maggio 2019. Il Prof. Stefano Zecchi, filosofo e docente universitario, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sull’ignoranza rapportata al voto. “In genere c’è una visione vecchia della politica che dice quali sono le cose da perseguire anche culturalmente, questa è la visione di un partito egemone che non c’è più. Oggi la politica porta un altro problema, quello di ascoltare i problemi della gente e proporre soluzioni. Questo è il voto popolare della Lega, dire che è un voto ignorante significa non capire qual è il disagio. C’è una spaventosa arroganza e supponenza di gente che è ignorante e accusa gli altri di essere ignoranti. Gad Lerner, che mi assumo la responsabilità di definire modesto giornalista di cultura modesta, dovrebbe leggere Gramsci e capire come la politica si può avvicinare al popolo. L’analisi del voto non la si vuol fare perché porterebbe a comprendere i problemi della gente e oggi non è casuale che la sinistra vinca dove ci sono fasce economicamente alte. Per cultura e visione democratica della politica, io vorrei che ci fosse una social democrazia forte e moderna ma questa non c’è. A sinistra dovrebbero cercare di comprendere come mai il voto a sinistra venga dal centro di Roma, dal centro di Milano, da elite economiche e che pensano di essere anche elite culturali. La democrazia è questa, piaccia o non piaccia, non è un’oligarchia di figure che si auto investono di cultura, intelligenza, irreprensibilità scientifica. Il Pd, che nasce dal PCI ed è uno sviluppo del comunismo della sua modernità, non può dimenticare che la sua base elettorale era formata da operai e impiegati a basso reddito. Oggi chi rappresenta questa gente che vive in periferia? E’ una mutazione genetica del partito democratico e di tutto quello che ha rappresentato. D’Alema ha detto una cosa perfetta: andate a parlare con Landini, andate a vedere quali sono le posizioni sindacali e magari recupererete il rapporto con il popolo. Il Pd per risorgere dalla sua mediocrità dovrebbe rivolgersi a lui”.

Gad Lerner insulta i leghisti, Filippo Facci: ecco a quale sinistra appartiene. Libero Quotidiano il 29 Maggio 2019. Succede anche alle brave persone come il piddino Giovanni Cuperlo, detto Gianni: sottovalutare il patibolo mediatico e finire impiccati a una frase. Cuperlo, che oggi è membro della direzione del Partito democratico, la frase però l' ha detta, non è inventata, non è storpiata, non è più di tanto «estrapolata dal contesto», ed è questa: «A me colpisce che oggi la Lega sia il primo partito in Sardegna dove il 33 per cento dei ragazzi tra i 14 ed i 18 anni, che frequentano la secondaria, non finirà gli studi». Siccome non è scemo, Cuperlo, doveva sapere che sarebbe suonata così: «Chi ha votato Lega non ha finito la scuola media». Quindi è ignorante. Quindi gli ignoranti votano Lega. Ed è beffardo che nel corso della stessa trasmissione in cui si esprimeva così infelicemente (L' Aria che tira su La7, programma per chi non ha finito le elementari) Cuperlo è riuscito a dire che i democratici devono «ritrovare il modo di parlare ai cittadini». Poi Cuperlo ha fatto un mea culpa, perché appunto non è scemo ed è una brava persona: ma la sua spiegazione, inviata ai giornali, occupava 3000 battute. Come per le barzellette, se devi spiegarle hai già fallito. Troppo tardi: i pregiudizi di chi accusa la sinistra di sentirsi superiore (da vari punti di vista, oggi sintetizzati nella cretinissima espressione «antropologicamente») ne escono rafforzati anche se Cuperlo spiega, ora, che «ritengo una forma acuta di stupidità collegare il titolo di studio all' espressione del voto», «ho sempre trovato insopportabile l'atteggiamento di superiorità morale di certa sinistra convinta di poter giudicare il mondo». Troppo tardi anche per la più onesta delle ammissioni: «Chi parla ha il dovere di farsi capire se il mio pensiero è stato completamente travisato la sola responsabilità è mia». Già.

SUFFRAGIO PER CENSO. Lungi da noi il giudicare Cuperlo, politico peraltro laureato in «Discipline delle Arti, Musica e Spettacolo» che c' azzecca poco con la politica: il punto è che l' uomo ha libertà di opinione, il politico no. Magari sono centinaia, e non solo a sinistra, i politici che rimpiangono il suffragio per censo: ma se non riesci a tenertelo dentro, se lo schifo per il volgo ti trasuda dalla pelle, allora è meglio che politica non la fai. Diciamo, ecco, che a sinistra fanno più fatica a resistere. In parte perché gli ignoranti sono loro: «Mi è capitato di sentirmi dire da alcuni politici di sinistra», raccontava il sondaggista Nando Pagnoncelli qualche giorno fa, «che i laureati sarebbero il 30 per cento degli elettori». Invece siamo maglia nera in Europa con il 4 per cento. Ma a sinistra sarebbe più efficace citare un tipico «cult» da librerie Feltrinelli: «Le leggi fondamentali della stupidità umana» di Carlo Maria Cipolla. La seconda legge infatti spiega che «La frazione di gente stupida è una costante non influenzata da tempo, spazio, razza, classe o qualsiasi altra variabile storica o socio-culturale». Insomma, l' ignoranza non c' entra, anche perché l' elettore storico della sinistra è (era) chi non ha potuto studiare, non l'universitario.

SILVIO E I «COGLIONI». Poi, vabbeh, ci sono i Gad Lerner. Il suo tweet del 27 maggio è un manifesto: «L' Italia leghista è un rivolgimento profondo Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene». E c' è poco da tradurre o da fraintendere. Nel gergo comune, le classi subalterne sono quelle povere. Sul vocabolario, subalterno è chi «si trova in una posizione inferiore ad altri all' interno di un' organizzazione gerarchica». Nella prosa di Lerner, significa che già in passato il popolino appoggiò il fascismo.

Lettura finale: la Lega è fascista ed è votata dagli zotici. D' accordo, Lerner non era candidato: ma è archetipico, tanto per usare una parola per gente studiata. E poi Berlusconi, nel 2007, riferito a chi potesse votare a sinistra, disse solennemente: «Ho troppa stima per gli italiani per pensare che possano esserci in giro così tanti coglioni». Che votano a sinistra, cioè. Insomma, siamo circondati da ignoranti, zotici, subalterni e coglioni. E in questo articolo non abbiamo ancora menzionato i grillini. Filippo Facci

La Iena Filippo Roma aggredito a Italia 5 Stelle: “Volevano linciarci”. Le Iene News del 13 ottobre 2019. Filippo Roma era a Napoli alla convention del Movimento 5 Stelle per intervistare Virginia Raggi sulla nostra inchiesta dei rifiuti. “La folla ha iniziato a urlarci di tutto, cercavano di metterci le mani addosso: ci ha salvato l’intervento della polizia”, racconta la Iena. “Volevano linciarci, ci hanno salvato i poliziotti”: Filippo Roma è stato aggredito a Napoli durante Italia 5 stelle. La Iena era alla convention del M5s per cercare di parlare con il sindaco di Roma Virginia Raggi, dopo la nostra inchiesta sui rifiuti della Capitale che potete vedere sopra: “Con il cameraman abbiamo cercato di avvicinarla in una zona comune, ed è scoppiato il pandemonio”. “La folla ha iniziato a urlarci di tutto: bastardi, figli di puttana, venduti”, racconta la Iena. “Hanno cercato di metterci le mani addosso: il cameramen è stato spintonato, io ho schivato un pugno. Siamo stati salvati dai poliziotti perché la folla voleva linciarci: ci hanno portato in una zona di sicurezza, solo così abbiamo evitato problemi più grossi”. Proprio con Filippo Roma e Marco Occhipinti abbiamo svelato un possibile scandalo sulla gestione dei rifiuti a Roma, nel servizio che potete vedere sopra: secondo quanto denunciato da alcuni operatori la raccolta dei rifiuti degli esercizi commerciali avviene nelle ore notturne, quando le attività sono chiuse: questo rende impossibile raccogliere la differenziata. Nonostante questo alcuni dipendenti strisciano con il palmare dell'azienda un codice a barre presente all'esterno dell'utenza e in questo modo risulta che la spazzatura è stata raccolta regolarmente, quando invece rimane in strada. Ora anche la procura di Roma sta indagando su questi presunti “furbetti” della raccolta dei rifiuti. Martedì alle 21.15 su Italia 1 non perdetevi una nuova puntata della nostra inchiesta.

Iene, Filippo Roma aggredito alla festa del M5s a Napoli: vergognoso agguato grillino. Fabio Rubini su Libero Quotidiano il 14 Ottobre 2019. A Luigi Di Maio è bastata una manciata di minuti per spazzare via il ricordo del "VaffaDay" e quello di un movimento, il suo, che faceva degli ideali i pilastri dell' azione politica. Assaggiato il potere e adagiate le terga sulle comode poltrone che contano, i grillini hanno cambiato idea. «Governeremo per i prossimi 10 anni», spiegava ieri da Napoli Giggino nostro, che per evitare fraintendimenti aggiungeva: «Noi siamo l' ago della bilancia per qualsiasi governo si voglia formare nel Paese». Insomma destra o sinistra, Lega o Pd, poco importa. L' importante è stare al potere il più a lungo possibile, con buona pace del Parlamento che non verrà più aperto come una scatoletta di tonno. Evidentemente i grillini, una volta assaggiato il prodotto, si sono convinti a riporre l' apriscatole nella credenza. Meglio sedersi a tavola e godere delle portate offerte. Del resto, sempre ieri e sempre Di Maio chiariva che: «A chi mi chiede "ma allora non possiamo più insultare il Pd?", io dico basta insulti e basta parlar male degli altri. Dobbiamo concentrarci a parlare di quello che stiamo facendo noi». Concetto ribadito anche da Beppe Grillo, la cui giornata è stata scandita da una serie di incontri e da un pranzo riservato con i big del Movimento, che ai cronisti presenti a Napoli ha detto: «L' alleanza col Pd non si discute. La gente capirà». Ovviamente anche la narrazione delle gesta grilline deve essere fatta secondo i desiderata pentastellati. Si apprende così che se a Roma la monnezza non viene raccolta e se i cda delle partecipate (scelti dalla sindaca Raggi, incoronata sul palco da Beppe Grillo che la definisce «la nostra guerriera») si dimettono al ritmo con cui si sgrana un rosario, la colpa non è dei Cinquestelle o di Virginia Raggi. No.

La colpa è dei giornalisti «che non raccontano la realtà». Tra questi c' è anche l' inviato delle Iene, Filippo Roma, aggredito fisicamente da un centinaio di attivisti e salvato dall' intervento delle forze dell' ordine. La kermesse partenopea è servita anche a chiarire le prossime mosse di M5S. A partire dalle prossime regionali: «Nessuna alleanza col Pd, ma patti civici col Pd», s' arrampica Di Maio, che in Campania chiude a un accordo con De Luca. Poi Giggino avverte anche Renzi sullla legge elettorale che «non è un tema che ci farà restare al governo. Si può votare anche così». Chiusura con la riorganizzazione del partito, che passerà sempre da Rousseau, con un complicatissimo incastro di progetti da presentare e competenze da dimostrare. Il tutto verrà poi valutato da una nuova figura: dopo i Navigator (disoccupati assunti per trovare lavoro ad altri disoccupati), ora arrivano i Facilitatori, che avranno il compito di organizzare riunioni mensili per aggiornare e formare gli iscritti. Unico sollievo: almeno questi non dovremo pagarli noi...Fabio Rubini

Vittorio Sgarbi attacca il M5s dopo l'aggressione ai giornalisti: "Indignati per Gad Lerner, oggi tutti zitti". Libero Quotidiano il 13 Ottobre 2019. Insulti e botte, giornalisti aggrediti dai militanti grillini alla kermesse a Napoli per i dieci anni del M5s. La situazione è sfuggita di mano all'arrivo di Virginia Raggi, quando Filippo Roma de Le Iene ha provato a strapparle una battuta. Un episodio che ha scatenato Vittorio Sgarbi, il quale ha commentato quanto accaduto con parole pesantissime: "Fascisti, pericolosi, minacciosi". Il critico d'arte aggiunge: "È una aggressione fisica che non ha precedenti. Come sempre accade, l’episodio d'intolleranza verso Gad Lerner è stato stigmatizzato da chiunque. Per giorni si è parlato del figlio di Matteo Salvini sulla moto d'acqua della polizia. Oggi , però, incredibilmente, si minimizza la violenza fascista dei 5 stelle, così come, del resto, nei giorni scorsi gli stupri consumati a casa del fondatore dei 5 Stelle, Beppe Grillo. Ciò che è inaccettabile viene tollerato", aggiunge, ricordando il polverone sollevato dalla contestazione di Gad Lerner a Pontida. Infine, Sgarbi conclude: "L'establishment di sinistra e l'omertà proteggono Beppe Grillo e i grillini".

Cuperlo attacca i sardi che hanno votato Lega. Le risposte dei lettori. Esplode la polemica sul web per la frase di Cuperlo sui "sardi che votano Lega e non finiscono le scuole medie". Panorama il 29 maggio 2019. E' bufera per Gianni Cuperlo, il politico del Partito Democratico che nel commentare i risultati delle Elezioni Europee ha dichiarato che "La Lega è il primo partito in Sardegna dove il 33% dei giovani non finisce le scuole...". Una chiara accusa di ignoranza per gli elettori di Salvini che non è passata inosservata. Sui social infatti è uno degli argomenti più discussi. Questi alcuni delle centinaia di commenti arrivati alla pagina facebook di Panorama.it

"abbiamo capito perché la lega è il primo partito...ahah...ps: nel 2014 il primo partito era il pd: all'epoca tutti colti e intelligenti? ma vatti a nascondere!!"

"In Sardegna finché votavano a voi erano intelligenti, ora non l’ho fanno più per i radical chic sono ignoranti".

"Il bue chiama cornuto all'asino...Nel PD c'erano ministri con la scuola dell'obbligo...ma di cosa parla questo nulla?..."

"Parlò cosi quello che aveva come ministro l'analfabeta Fedeli".

"Dare degli ignoranti ai sardi solo perché l'illustre e togato PD ha PERSO, è da veri ignoranti ma anche buffoni e trogloditi".

"Invece prima in 70 anni di governo pd/dc , Erano tutti Laureati.... Ma va Cagare , se non altro oggi avranno meno ladri legalizzati sull'Isola".

"Classico atteggiamento del cazzo della sinistra: chi non vota loro è per forza un ignorante, un soggetto a bassa scolarizzazione, un fascista, una bestia di satana. Forse è per questo che la gente alla fine si è stufata?"

"I voti finiscono tutti nel mucchio: il tuo voto vale quanto quello del pastore sardo che disprezzi, pezzo di escremento liofilizzato!"

"Quindi l'insegnamento di queste elezioni è che chi non vota il PD è un ignorante, zotico, con la 5a elementare...Salvini deve ringraziare gente come voi che gli fa campagna elettorale 365 giorni l'anno, fenomeni veri (oltre che veri intellettuali)".

"Spiegare a questo arrogante ammasso di deiezioni in forma antropologica che quelli che non avevano finito le elementari hanno industrializzato il paese e fatto grande l'Italia e sono i dottorini laureati come esso che l'hanno rovinata".

"E pensare che io da Leghista pensavo che Cuperlo fosse intelligente! Ma forse il mio Diploma di Maestra dell’Arte non è sufficiente..."

"Proprio un bel ragionamento da demente ma tipico dell’ “illuminato” di sinistra in totale spregio alla gente sarda ... peggio di Tafazzi i piddi ormai".

"Poi ci si chiede come mai i populisti prendono piede.. con affermazioni del genere!"

"Altro fenomeno con la puzza sotto al naso e la teoria delle classi subalterne".

"Prima eravamo tutti razzisti, poi tutti fascisti, ora tutti ignoranti".

"Il partito democratico non ha ancora capito che per essere davvero democratici bisogna anche saper perdere e rispettare pareri differenti dai propri. Non basta dire di essere il partito democratico".

"propongano una nuova legge elettorale per cui voterà solo chi è laureato. Va bene??"

I poveri No Tav perseguitati come i confinati da Mussolini. Luigi Mascheroni, Mercoledì 29/05/2019 su Il Giornale. C'è un punto che non convince della stucchevole narrazione antifascista della Sinistra dura e impura, ossia i razzisti antropologici à la Cristian Raimo, i Gad Lerner che gli altri sono razzisti e tu parli di classi subalterne, la Murgia per la quale l'unico metro per misurare la correttezza politica è il proprio, le Lipperini che al Salone del Libro chiedono di espellere CasaPound e poi lei continua a difendere, senza mea culpa, un assassino reo confesso come Cesare Battisti, e tu ti chiedi se l'apologia di fascismo di un editore più folcloristico che pericoloso sia davvero peggio della faziosità ideologica di una intellettuale da RaiTtre che fa schermo a un compagno pluriomicida...E comunque il punto che non convince è: come si può oggi, quando ci sono più partiti che idee e più giornali che lettori, continuare a sbandierare paragoni irrispettosi con il Ventennio? Ma andate dire a chi ha perso un nonno in Russia nel '43 o visto i negozi ariani che oggi c'è il fascismo... O siete intellettualmente disonesti o siete ignoranti. Forse, la seconda. Chi sostiene paragoni del genere non legge se non quello che scrive, non studia nulla. Come Wu Ming1, che ha da poco pubblicato il romanzo La macchina del vento (Einaudi) dedicato al confino degli antifascisti italiani. E paragona la pena inflitta da Mussolini agli antifascisti, in posti sperduti senza medicine, mezzi di sopravvivenza e soldi a... A cosa? Al ritiro della patente e agli arresti domiciliari che in qualche caso hanno interessato gli attivisti No Tav (per resistenza aggravata, lesioni, lancio di molotov...). Personaggi come Sandro Pertini, Ernesto Rossi e Umberto Terracini paragonati agli attivisti della Val di Susa: «La storia che avevo in mente mi sembrava molto più attuale di quando l'avevo concepita - scrive Wu Ming 1 -. Intorno a me vedevo un sempre maggior numero di attiviste e attivisti subire misure preventive quali obbligo di dimora, arresti domiciliari, sorveglianza speciale. Chi è sottoposto alla sorveglianza speciale si vede ritirare passaporto e patente di guida, revocare qualunque licenza e riceve un libretto con tutte le prescrizioni che dovrà osservare (...) Come potevo non pensare ai confinati?». Già, come poteva? Da segnalare poi - parlando di democrazia e libere elezioni - che dove c'erano i presidi No Tav a Chiomonte ha stravinto la Lega.

Pre-fascisti e classi subalterne. L'intellighenzia che rosica. La sinistra chic confusa conia etichette sprezzanti per spiegare la sconfitta. La colpa? Degli elettori incolti. Giuseppe Marino, Mercoledì 29/05/2019, su Il Giornale. Si arrovellano pensosi, si scambiano sorrisini d'amara intesa nel salotto tv unicolor di Zoro, compulsano le viscere di un saggio di Pasolini sorseggiando un cabernet biologico di D'Alema, ripassano le battute di un film di Nanni Moretti. Ma niente. Le risposte non arrivano, l'ispirazione manca. Perché la sinistra non vince più? Perché l'eterno fantasma del fascismo più non frena i bassi istinti della plebe? Eppure il metodo l'ha inventato l'antico homo democristianus («Dio ti guarda, Stalin no»). La disperazione dell'intellighenza è palpabile, il disorientamento tracima dagli attici vista centro storico. Qualche coraggiosa avanguardia tira fuori la propria verve creativa. Il colpo da maestro è di Paolo Flores d'Arcais: nessuno crede più alla minaccia fascista dopo il decimo zerovirgola elettorale di Casapound? Allarghiamo la platea. Su Micromega, il professore lancia una nuova categoria della politologia progressista. «Ha vinto il pre-fascismo», tuona d'Arcais. «Il pre-fascismo - insiste - non è il fascismo, ovviamente, e potrebbe non diventarlo. Ma ne contiene già tutti gli ingredienti costitutivi». Siamo a Philip Dick, alla «pre crimine» di Minority report. Forse non sei ancora fascista ma puoi essere accusato, e fermato, prima che lo diventi. E se per caso sta succedendo a tua insaputa, puoi sempre usare il «fascistometro», l'«esame del sangue» in forma di gioco di società, inventato da Michela Murgia, che per giorni ha appassionato il popolo Dem. Che colpo di genio il pre-fascismo. Pare già di vedere le signore dei girotondi urlarlo nelle piazze: «Pre-fascisti carogne, tornate nelle pre-fogne». L'ultimo uppercut, il colpo di crocifisso alla tempia, è stato troppo. Va bene l'Emilia rossa, ma pure la ridotta di Capalbio in mano ai barbari? Le avanguardie vacillano, mancano le parole. Dire qualcosa di sinistra diventa sempre più difficile. Qualcuno sbotta. E chi se non l'ormai inacidito Gad Lerner? Su Twitter consegna una perla analitica imperitura: «L'Italia leghista è un rivolgimento profondo, sociale e culturale prima ancora che politico, come testimonia il voto nelle regioni rosse», pondera e poi spara il capolavoro: «Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene». Il brodo di cultura è sempre lo stesso, l'allarme pre-fascista è implicito, ma a Lerner scappa anche un'etichetta così boriosa e sprezzante da sembrare una gag di lercio. Le «classi subalterne» sono la versione killer del «proletariato», per anni santificato a patto che stesse a distanza di rispetto dall'Ultima spiaggia. E, infine, apertamente ghettizzato, tacciato di un'inferiorità che non è solo economica. L'esternazione di Lerner non dovrebbe sorprendere. Mette semplicemente a nudo un pensiero che da anni guida (verso il baratro elettorale) la sinistra: le masse incolte vanno guidate dall'avanguardia illuminata. Alle prime batoste un residuo di pudore conduceva ad analisi del tipo: «Non ci siamo fatti capire», «Non abbiamo saputo parlare il linguaggio delle masse». Ora che i kappaò sono diventati la regola, si esce allo scoperto: le masse non ci seguono perché sono rozze, prive di cultura. In pratica, non capiscono una mazza. Soprattutto non capiscono noi, che sappiamo e li avevamo avvertiti. Ci casca anche il cauto Gianni Cuperlo che, su La7, sottolinea la coincidenza tra il 33% di abbandono scolastico e la vittoria della Lega in Sardegna. Ma ha almeno il buon gusto di rettificare. Nessuno è sfiorato dal sospetto che le masse capiscano benissimo, anche senza leggere Adorno. Basta guardarsi il portafogli, dopo anni di sinistra. Sanno che il doping populista di Salvini e M5s vale quello di falce e martello e Avanti popolo. Ma ci provano. Se va male, avanti un altro. Ma se la sinistra continua a ragionare come Lerner, il suo turno prossimo è ancora lontano.

Umberto Galimberti insulta Matteo Salvini: "Se fosse alle elementari sarebbe un bullo. Ignorante chi lo vota". Libero Quotidiano il 7 Giugno 2019. "Se facesse la quinta elementare sarebbe classificato come bullo". Umberto Galimberti, filosofo e firma de La Repubblica, ospite di Tiziana Panella a Tagadà, su La7, insulta Matteo Salvini argomentando che la poca cultura e una comunicazione giovanile basata sull'emotività lo hanno portato al potere. Galimberti sostiene inoltre che il vicepremier leghista "si sente investito da 60 milioni di italiani anche se, a conti fatti, è stato votato da appena il 17 per cento di loro". Soprattutto insulta la gente che è "ignorante" e quindi "resta affascinata dagli slogan".

Da “la Repubblica” il 7 giugno 2019. Carissimo Augias, si fa un gran parlare di democrazia come la miglior forma di governo possibile. Però, è grazie alla democrazia che ci ritroviamo un Salvini al comando, per non parlare dei vari Hitler, Mussolini e Trump. Con popoli ignoranti la democrazia è formalismo. Si può parlare di vera democrazia solo con popoli acculturati, coscienti e veramente liberi di scegliere. E si possono avere persone libere solo con la libertà dai bisogni materiali, la possibilità d'istruirsi, la possibilità di curarsi. Davide Carbone - Monterotondo (Roma)

Risposta di Corrado Augias. La lettera del signor Carbone è una di molte sullo stesso tema. Del resto, non c'è dubbio che il modello democratico com'era nato alla fine del Settecento sia ormai in crisi. Il sistema delle comunicazioni è stato rivoluzionato; circolano in fretta notizie di cui spesso non è possibile stabilire l'attendibilità. Notizie false hanno determinato l'esito di votazioni in grandi Paesi di antica cultura democratica come Inghilterra e Usa. Contemporaneamente è venuto meno, non solo in Italia, il sistema dei partiti che tessevano una specie di rete pedagogica per orientare il voto.  Si può obiettare che anche l'azione dei partiti altro non era che propaganda. Vero. Quella propaganda però metteva al centro un programma. Rispetto però alle panzane in circolazione oggi era quasi alta politica. Per ragioni in parte giustificate dalla crisi, in parte come semplice portato dei tempi, s'è diffusa un'atmosfera di rancore, odio, risentimento e disprezzo nei confronti delle competenze. Ho stampate in mente le parole di una componente del governo che al professor Pier Carlo Padoan che pacatamente ragionava sulla base di dati e cifre, obiettava: «Va bene, lei ha studiato; e allora?». Una frase che viola i canoni base della comunicazione, di quasi impossibile replica. Bobby Duffy nel saggio Einaudi I rischi della percezione, scrive che quando una persona, statistiche alla mano, è messa di fronte a una sua percezione sbagliata, rimane quasi sempre ferma nella convinzione (sbagliata) piuttosto che ammettere l'errore. I sociologi hanno studiato il fenomeno, si chiama "Effetto Dunning-Kruger", può riassumersi così: «Le competenze necessarie a giudicare un dato argomento equivalgono a quelle necessarie per conoscerlo. Meno si sa, meno si è consapevoli di non sapere. Risultato: è l'incompetenza che induce a credere di essere competenti». L'assurda obiezione di quella sottosegretaria al prof Padoan viene da qui. Mi ha scritto il signor Giancarlo Maculotti da Cerveno (Bs): «Non è possibile che il voto di un ignorante che non si interessa di nulla, che non sa nemmeno chi sia il presidente della Repubblica, che non conosce un solo articolo della Costituzione, che vive di calcio e non legge mai un giornale, che confonde il governo con il Parlamento, abbia lo stesso valore del voto di un cittadino mediamente consapevole. Il voto di uno disinformato non è neutrale: incide negativamente sulle elezioni. Crea problemi immensi allo Stato. Può mandarlo in rovina». È tutto vero, tuttavia esistono principi intangibili, rischi che la democrazia deve saper correre per non tradire se stessa. Una «democrazia illiberale», al contrario di quanto afferma Viktor Orbán, non è più una democrazia.

Lettera 17 il 7 giugno 2019. Caro Dago, Corrado Augias scrive: “Notizie false hanno determinato l'esito di votazioni in grandi Paesi di antica cultura democratica come Inghilterra e Usa.” Ma quando mai. Qualcuno citi quali notizie false avrebbero favorito la vittoria di Trump o della Brexit.  Ma la questione si risolve facilmente: se i disinformati, gli ignoranti, quelli che non conoscono un solo articolo della Costituzione non devono votare, va bene, ma che siano anche esentati dal pagare le tasse. “No taxation without representation.” 

I quasi pensanti. Augusto Bassi 28 maggio 2019 su Il Giornale. Prevedibili come l’infiammazione della seconda fase libidica infantile a seguito di una monta inaspettata, sono arrivati i pistolotti degli antileghisti sulla barbarie dilagante. Gad Lerner approda alla teoria del conflitto dal litorale degli sfruttatori e parla di «classi subalterne» con la stessa ripugnanza che un antisemita potrebbe indirizzare a un ebreo con la faccia da beduino. Marco Damilano – sempre in prognosi riservata dopo il 34% della Lega – scrive che con Salvini ha trionfato «un’ideologia feroce». Noi che siamo stati spesso azzannati alla giugulare dalle sue cialtronate in vernacolo assassino, fatichiamo a impressionarci. Poi continua accennando alla Le Pen, cui potrebbe intellettualmente e fisiognomicamente fare da filippino, inquadrandola come una «sfasciacarrozze di professione». Effettivamente, grazie a personalità come quella di Marine, il carrozzone dei fenomeni da baraccone di professione rischia di avere le pernacchie contate. Anche la mai faziosa o tendenziosa Repubblica titola con un inquietante e vagamente discriminatorio «Ombre nere». Ma la frenesia negazionista o revisionista è scatenata soprattutto in quei farisaici commentatori della rete e della porta accanto che in genere chiamiamo “semicolti”, ma che da oggi in avanti preferirei ribattezzare “quasi pensanti”. I quasi pensanti si riconoscono per lo smanioso utilizzo di vocaboli eterodiretti e certificati come “analfabeta funzionale”, “fascista”, “xenofobo”, “odiatore”, oppure di sintagmi frikkettoni-catto-kantiani sul genere del “restiamo umani”, “non torniamo al Medioevo!”, “viaggiare apre la mente”, “al calcio preferisco erba buona e un buon libro”, “salviamo il pianeta”, “make the world greta again”, “più ponti, meno muri”. “largo ai giovani”. Sul fronte precettivo, il loro incedere è ricco di anatemi laici pregni di tolleranza per il diverso, fra i quali siamo ormai avvezzi a riconoscere i pacati “dovreste vergognarvi!”, “vergogna!”, “ma non vi vergnognate?!”, o i più coloriti e frizzanti “tornate nelle caverne!”, “dovete crepare, trogloditi!”. Mentre chierichetti più fighetti arrivano a “vulnus democratico” e “Francesco scomunica Salvini per idolatria!”. I quasi pensanti rappresentano più o meno il 25% degli italiani e naturalmente sono inviperiti, ingadlerniti per il degrado dei tempi, spaventati dalla marea nera incombente, dalla troppa democrazia che permette a gente poco imparata come i grillini di destra, i leghisti o gli squadristi vari di esercitare i loro stessi diritti. C’è chi tratteggia convincenti teorie sulla relazione inversamente proporzionale fra letture importanti, avventure accademiche, abitudini urbane e inclinazioni sovraniste. Infatti in centro a Milano e a Roma si vota Pd, mentre a Pavia o Lampedusa si preferisce Salvini. In quel di Capalbio ha vinto la Lega solo perché i villeggianti non hanno a disposizione il voto supplementare per la residenza al mare, che dovrebbe essere un diritto di civiltà almeno quanto la gender equality. Ora, confesso di non aver mai votato Carroccio in tutta la vita. E convengo con le anime belle, sensibili, raffinate, che l’immaginario leghista sia un poco “rudimentale”. Tuttavia, ciò che mi lascia ogni volta maggiormente dilettato è questa sedicente superiorità morale/culturale/intellettuale nei confronti di chi sarà forse rudimentale, ma almeno ha capito. Con la testa, con l’istinto, con la pancia, ma ha capito. Voi che avete studiato – magari marketing esperienziale, ma avete studiato – voi che avete viaggiato – magari fino a Formentera, ma avete viaggiato – voi che avete accolto – magari un Carlino paralitico a distanza, ma avete accolto – in 17 anni di Euro avete capito una beata minchia. Perché siete appunto quasi… pensanti. 

È SEMPRE ÉLITE CONTRO POPOLO.  Gianni Barbacetto per “il Fatto Quotidiano” il 26 aprile 2019. È piaciuto molto, Michele Serra, che ha suonato la carica, ha lanciato la giornata dell' orgoglio dei sapienti. "È l' ora di rivendicare i libri letti come calli sulle mani, smettendola di farsi carico del complesso d' inferiorità degli ignoranti come se l' ignoranza fosse un problema di chi ha letto, non un problema di chi non ha letto". Come una madamina pro Tav, è sceso dall' amaca per mostrare in piazza le sue penne. Di pavone e d' oca, capaci di scrivere cose intelligenti e di chiamare, al punto giusto, l' applauso. Come non essere d' accordo? L' ignoranza non può essere rivendicata come un merito, di contro a sapienza e competenza indicate come male. Eppure c' è qualcosa che stona, nelle parole scivolate dall' amaca, qualcosa che trasforma il (giusto) orgoglio della lettura in orgoglio di classe, in disprezzo per i poveri ignoranti che non hanno né libri, né due alberi in giardino a cui appendere un' amaca da cui leggerli. Non è ancora la carica suonata ai ben istruiti fan di Bolsonaro contro gli analfabeti orfani del lulismo, no: quella è destra. Ma fastidio, sì, per quelli che sono rimasti bloccati ai piani bassi e urlano e strepitano e picchiano sulle porte irrimediabilmente chiuse dell' ascensore (sociale) e rompono la bottoniera e gridano parole irripetibili chiamando l' ascensore che qualcuno ha bloccato non chiudendo le portine ai piani alti e soleggiati. Chissà se, tra i libri letti da rivendicare orgogliosamente, Serra ha anche quelli di Michel Foucault, che analizza i rapporti tra sapere e potere e spiega come il sapere sia (anche) mezzo per sorvegliare e punire, generatore di procedure di selezione e di interdizione, nella macrofisica (quella di chi si occupava Marx) ma soprattutto nella microfisica dei rapporti che alla classe sovrappongono il desiderio. Chissà se Serra ha nella sua biblioteca i libri di don Milani, se ricorda il suo "Pierino del dottore", il figlio del laureato che arriva alle elementari sapendo già leggere, mentre i figli del popolo non hanno un libro in casa. "Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone", scriveva il prete di Barbiana. Archeologia. Oggi siamo noi, figli degli operai e del Sessantotto, a essere diventati dottori, ad aver imparato 10 mila parole. Ma ora non sappiamo più capire che cosa sta succedendo giù, ai piani bassi, ci disturba il baccano che fanno quelli sotto, abbiamo orrore di loro, così ignoranti, così diversi dagli operai raccontati da Carlo Emilio Gadda che frequentavano l' Umanitaria e i corsi serali, leggevano ancora i giornali e diffondevano, la domenica, l' Unità. Non ci sono più, non ci sono più i Martin Eden di una volta. Quelli di adesso, purtroppo, non leggono e non studiano, conoscono meno di 100 parole, ma - imperdonabile - non vogliono stare zitti. Vogliono essere presi sul serio. Urlano cose scomposte. Intanto noi teniamo le portine dell' ascensore aperte, quassù sui nostri terrazzi dove fioriscono le camelie, perché non salgano a dircele in faccia. Già siamo così infastiditi dalle stupidaggini dei webeti e dalla violenza e dall' odio della lotta di classe ai tempi dei social. Ci piaceva quella di Marx-Lenin-Mao Tse-tung. A qualcuno piaceva perfino quella di Battisti (non Lucio). Ma la lotta di classe di oggi non ci piace. Che studino, questi cafoni. Non hanno il pane della sapienza? Che mangino allora i nostri libri-brioches. Quelli in cui, per non rinunciare ai nostri privilegi di classe, abbiamo sostituito i diritti civili (che sono gratis) ai diritti sociali. Si sdrai di nuovo sull' amaca, Serra, e ascolti almeno Gad Lerner, che qualche libro l' ha letto e anche scritto: "La mia biografia è compromessa. Sono un borghese benestante, un radical chic, l' amico di Carlo De Benedetti. Per questo la nuova classe dirigente del centrosinistra non partirà certo da quelli come me".

Michele Serra per “la Repubblica” (19 aprile 2019) Michela Murgia, donna tosta e donna di popolo (popolo sardo: meglio non litigarci) ha steso con un uppercut il Salvini, e il colpo, bene assestato, merita il replay. Lui oppure gli impiegatini di partito che gli curano i social avevano scritto della Murgia che è “radical-chic”, il monocorde epiteto che la povera destra italiana (povera di linguaggio) affibbia a chiunque non le garbi. Lei ha risposto con il suo curriculum, che è quello di una persona che per mantenersi agli studi ha fatto di tutto, la cameriera, la fattorina, la precaria nei call-center, sottolineando come non altrettanto laborioso sia il curriculum del Salvini, che per anni ha ritirato lo stipendio a Strasburgo andandoci a lavorare molto di rado. Murgia, rispetto a Salvini, ha letto e scritto qualche libro in più. Basta questo, nella visione intruppata e inconfessatamente invidiosa del populismo in marcia, per essere un intellettuale con la puzza sotto il naso. Ma leggere è fatica e lavoro, scrivere è fatica e lavoro, imparare è fatica e lavoro, la cultura è fatica e lavoro, migliorarsi è fatica e lavoro, emendarsi da quella bestia che siamo è fatica e lavoro. È ora di rivendicare i libri letti come i calli sulle mani, smettendola di farsi carico del complesso di inferiorità degli ignoranti come se l’ignoranza fosse un problema di chi ha letto, non un problema di chi non ha letto. Hanno avuto il tempo e la maniera per diventare più bravi, più colti e perfino più snob. Se non lo hanno fatto, vadano a ripetizione, hanno quattrini e potere quanti ne bastano per dirozzarsi.

Quando Truffaut era di destra e stroncava i film ideologici. Vicino agli Ussari, il futuro regista firmò recensioni di fuoco. Ora in un volume. Claudio Siniscalchi, Domenica 18/08/2019 su Il Giornale. Nel novembre del 1955 un giovane e furioso critico cinematografico di successo, François Truffaut, decide di incontrare un vecchio collega (così si autodefinisce), Lucien Rebatet. Truffaut ha 23 anni e sale le scale di corsa. Rebatet ne ha 52, ed è infiacchito, nel corpo come nel morale. I due pranzano lungo la Senna, a bordo di un bateau-mouche. Rebatet, più conosciuto per lo pseudonimo di François Vinneuil, dal 1930 ha scritto di cinema per L'action française (sino al 1939) e, a partire dal 1935, per il settimanale Je suis partout. Nel 1941 ha pubblicato un odioso pamphlet, nel quale denuncia la «grande invasione» degli ebrei nel cinema e nel teatro francesi. L'anno successivo è diventato una celebrità con un voluminoso atto di accusa della Francia del Fronte popolare e di Vichy, Les décombres. Convinto sostenitore dell'alleanza franco-germanica, oltreché aggressivo antisemita, Rebatet per questi motivi viene condannato a morte nel 1946 (pena mutata nel 1947 con il carcere a vita). Dal 1952 vive in libertà. Ma è un reietto. Le patrie lettere lo hanno rifiutato, nonostante Les deux étendards, uscito in due volumi da Gallimard nel 1951. François Mitterrand, parlando di questo sterminato romanzo d'amore e metafisica, ha affermato che il mondo si divide in due: chi lo ha letto e chi non lo ha letto. Truffaut, il «giovane amatore», ha deciso di incontrare il «vecchio critico», sfidando le convenzioni. L'idea di provocare, di scandalizzare, è un tratto essenziale della personalità di Truffaut. Ma c'è qualcosa di più profondo a suggellare l'incontro. Rebatet, piaccia o meno, appartiene ad una delle maggiori tradizioni anticonformiste della cultura francese, che parte con Charles Maurras e arriva agli Hussards. E, a tutti gli effetti, Truffaut è il capofila della critica cinematografica Hussards. Si è da poco imposto nel palcoscenico francese con uno scritto esplosivo, dal titolo Une certaine tendance du cinéma français, uscito nel primo fascicolo del 1954 sulla rivista mensile Cahiers du cinéma. È «un attacco alla baionetta», nel quale Truffaut riscrive la storia del cinema francese. Se il prodotto nazionale è diventato così scadente e ripetitivo, la colpa è di registi per nulla coraggiosi e sceneggiatori impegnati a «inventare senza tradire», che privilegiano la parola sull'elemento visivo. Il regista alla fine si riduce ad una presenza insignificante: un prestatore d'opera, pagato per realizzare soltanto belle inquadrature. Truffaut ha l'idea geniale di riadattare, alla metà degli anni Cinquanta, la querelle già proposta dagli scrittori romantici del XIX secolo, tra «antichi» e «moderni». Per il «Rimbaud della critica» la polemica rappresenta quasi una «esigenza morale». Ma ha bisogno di una tribuna adatta per diventare lo «stroncatore del cinema francese», l'uomo più odiato di Parigi, una sorta di terrorista in perenne movimento. La tribuna adatta per far esplodere il talento di Truffaut è Arts, la vetrina settimanale degli Hussards, fondata nel 1952. Nel 1954 il nuovo direttore è Jacques Laurent, a caccia di giovani talenti anticonformisti da gettare nella mischia. Se Breton è il papa del surrealismo e Sartre dell'esistenzialismo, Laurent lo è degli Hussards. Apre le porte della rivista agli scrittori emarginati dopo la Liberazione: Jacques Chardonne, Paul Morand, Marcel Jouhandeau, Marcel Aymé, Henry de Montherlant. E allo stesso tempo promuove i nuovi scrittori ostili all'impegno politico a sinistra: Roger Nimier, Michel Déon, Antoine Blondin. Il termine Hussard (ussaro, militare) è mutuato dal romanzo di Roger Nimier Le hussard bleu (1950). Sul piano letterario gli Hussards si oppongono alla «dittatura sartriana». La letteratura, come la intende il filosofo diventato intellettuale mediatico, viene mescolata all'impegno politico (marxista) e metafisico (esistenzialista). Ad aprire il fuoco contro gli Hussards è Les temps modernes. La testata di Sartre analizza in un ampio saggio del 1952 il risveglio intellettuale fascista. Il seguito degli Hussards, turbolenti reazionari, è un segno preoccupante: «Come tutti i fascisti scrive Bernard Frank detestano discussione, lungaggini, idee». Truffaut collabora con il settimanale dal febbraio 1954 al dicembre 1958, scrivendo 460 articoli, raccolti da Gallimard in Chroniques d'Arts-Spectacle 1954-1958 (528 pagine, 24 euro). Per chi vuole comprendere la cultura francese, non solo cinematografica, degli anni Cinquanta del XX secolo, ritenuta erroneamente dominata da Sartre e dai suoi imitatori, un vuoto viene riempito. Di Truffaut sono stati celebrati soprattutto gli scritti apparsi sui Cahiers du cinéma. Su quelli di Arts si è preferito sorvolare, altrimenti l'icona dell'artista di sinistra che nel 1968 fa chiudere il Festival di Cannes e nel 1960 firma il Manifeste des 121 in favore dei soldati disertori in Algeria ne esce sporcata. La collaborazione con Arts iscrive di diritto il giovane critico nel panorama della destra letteraria. Gli avversari etichettano Truffaut come fascista, disimpegnato, provocatore di destra. Il suo stile nervoso e aggressivo esalta il cinema francese degli amati Jean Renoir, Sacha Guitry, Max Ophuls, Robert Bresson. Detesta senza mezzi termini Jean Delannoy e Claude Autant-Lara. Difende Roberto Rossellini. Refrattario ad ogni messaggio ideologico, alle produzioni sovietiche preferisce i film americani, anche di serie B. Sostiene i giovani registi Alain Resnais, Agnès Varda e soprattutto Roger Vadim. Quando nel dicembre 1956 esce Et Dieu créa la femme è fra i pochi a difenderlo. Brigitte Bardot gli appare magnifica, in un film tipico «della nostra generazione perché è amorale (in quanto rifiuta la morale corrente e non ne propone nessuna altra) e puritano (in quanto è cosciente di questa amoralità e se ne inquieta)». Unico neo di questa splendida pubblicazione è la nota introduttiva di Barnard Bastide, un lungo esercizio di equilibrismo per non affrontare il vero nodo della raccolta. François Truffaut dalle colonne di Arts edificò, mattone dopo mattone, una critica di destra estrema o meno poco importa della cinematografia corrente, di grande qualità stilistica, lontana dalle mode imperanti. Ma da un libro non si può avere tutto.

·         L’egemonia della sinistra chiamata Cultura.

L'egemonia di sinistra ha creato un deserto e l'ha chiamato cultura. L'intellettuale organico ha dissolto concetti, valori e modelli positivi lasciando la società in balia del conformismo e della volgarità. Marcello Veneziani, Domenica 08/02/2015, su Il Giornale. Ma è vera o falsa la leggenda dell'egemonia culturale di sinistra? Cos'era e cosa resta oggi di quel disegno di conquista e dominio culturale? In principio l'egemonia culturale fu un progetto e una teoria che tracciò Gramsci sulla base di due lezioni: di Lenin e di Mussolini, via Gentile e Bottai. La tesi di fondo è nota: la conquista del consenso politico e sociale passa attraverso la conquista culturale della società. Poi fu Togliatti che, alla caduta del fascismo, provò su strada il disegno gramsciano e conquistò gruppi di intellettuali, spesso ex fascisti, case editrici e luoghi cruciali della cultura. Ma il suo progetto non bucò nella società che aveva ancora contrappesi forti, dalle parrocchie all'influenza americana, dai grandi mezzi di comunicazione come la Rai in mano al potere democristiano ai media in cui prevaleva l'evasione. La vera svolta avviene col '68: l'egemonia culturale non si identifica più col Pci, che pure resta il maggiore impresario, ma si sparge nell'arcipelago radicale di sinistra. Quell'egemonia si fa pervasiva, conquista linguaggi e profili, raggiunge la scuola e l'università, il cinema e il teatro, pervade le arti, i media e le redazioni. In che consiste oggi l'egemonia culturale? In una mentalità dominante che eredita dal comunismo la pretesa di Verità Ineluttabile (quello è il Progresso, non potete sottrarvi al suo esito). Quella mentalità s'è fatta codice ideologico e galateo sociale, noto come politically correct, intolleranza permissiva e bigottismo progressista. Chi ne è fuori deve sentirsi in torto, deve giustificarsi, viene considerato fuori posto e fuori tempo, ridotto a residuo del passato o anomalia patologica. Ma lasciamo da parte le denunce e le condanne e poniamoci la domanda di fondo: ma questa egemonia culturale cosa ha prodotto in termini di opere e di intelligenze, che impronta ha lasciato sulla cultura, la società e i singoli? Ho difficoltà a ricordare opere davvero memorabili e significative di quel segno che hanno inciso nella cultura e nella società. E il giudizio diventa ancor più stridente se confrontiamo gli autori e le opere a torto o ragione identificate con l'egemonia culturale e gli autori e le opere che hanno caratterizzato il secolo. Tutte le eccellenze in ogni campo, dalla filosofia alle arti, dalla scienza alla letteratura, non rientrano nell'egemonia culturale e spesso vi si oppongono. Potrei fare un lungo e dettagliato elenco di autori e opere al di fuori dell'ideologia radical, un tempo marxista-progressista, se non contro. L'egemonia culturale ha funzionato come dominazione e ostracismo ma non ha prodotto e promosso grandi idee, grandi opere, grandi autori. Anzi sorge il fondato sospetto che ci sia un nesso tra il degrado culturale della nostra società e l'egemonia culturale radical. I circoli culturali, le lobbies e le sette intellettuali dominanti hanno lasciato la società in balia dell'egemonia sottoculturale e del volgare. E l'intellettuale organico e collettivo ha prodotto come reazione ed effetto l'intellettuale individualista e autistico che non incide nella realtà ma si rifugia nel suo narcisismo depresso. Ma perché è avvenuto questo, forse perché ha prevalso un clero intellettuale di mediocri funzionari, anche se accademici? Ci è estraneo il razzismo culturale, peraltro assai praticato a sinistra, non crediamo perciò che sia una questione «etnica» che riguarda la razza padrona della cultura. Il problema è di contenuti: l'egemonia culturale non ha veicolato idee, valori e modelli positivi ma è riuscita a dissolvere idee, valori e modelli positivi su cui si fonda la civiltà. Non ha funzionato sul piano costruttivo, sono naufragate le sue utopie, a partire dal comunismo; ma ha funzionato sul piano distruttivo. Se l'emancipazione è stata il suo valore fondante e la liberazione il suo criterio principe, il risultato è stato una formidabile, quotidiana demolizione di culture e modelli legati alla famiglia, alla natura, alla vita e alla nascita, al senso religioso e alla percezione mitica e simbolica della realtà, al legame comunitario, alle identità e alle radici, ai meriti e alle capacità personali. È riuscita a dissolvere un mondo, a deprimere ed emarginare culture antagoniste ma non è riuscita a generare mondi nuovi. Il risultato di questa desertificazione è che non ci sono opere, idee, autori che siano modelli di riferimento, punti di partenza e fonti di nascita e rinascita. L'egemonia culturale ha funzionato come dissoluzione, non come soluzione. Oggi il comunismo non c'è più, la sinistra appare sparita ma sussiste quella cappa asfissiante anche se è un guscio vuoto di idee, valori, opere e autori. Il risultato finale è che l'egemonia culturale è un potere forte con un pensiero debole (e non nel senso di Vattimo e Rovatti); mentre l'albero della nostra civiltà, con le sue radici, il suo tronco millenario e le sue ramificazioni nella vita reale, è un pensiero forte ma con poteri deboli in sua difesa. La prima è una chiesa con un episcopato in carica e un vasto clero ma senza più una dottrina e una religione; viceversa la seconda è un pensiero forte, con una tradizione millenaria, ma senza diocesi e senza parrocchie... Così viviamo una guerra asimmetrica tra un potere forte ma dissolutivo e una civiltà non ancora decaduta sul piano spirituale ma inerme e soccombente sul piano pratico e mediatico. La prevalenza odierna della barbarie di ritorno deriva in buona parte da questo squilibrio tra una cultura egemone ma nichilista e una civiltà perdente o forse già perduta. La rinascita ha due avversari: la cultura nichilista egemone e il nichilismo senza cultura della volgarità di massa.

L’egemonia culturale della Sinistra. Una ricostruzione dei fatti del passato basata sui dogmi, anziché su uno studio serio e senza riserve.  Luciano Atticciati su Storico.org.  Il nostro Paese è vissuto per decenni sotto la cosiddetta egemonia culturale della Sinistra, una specie di lunghissimo dopoguerra che ha portato gli uomini di cultura ad assumere posizioni e atteggiamenti anomali e forzati per dimostrare la validità di certe questioni decisamente insostenibili. Per costoro il fascismo era stato molto peggiore del comunismo, nonostante che tutto facesse pensare che il regime totalitario creato da Mussolini non fosse così coercitivo come quello dell’Unione Sovietica o della Cina Popolare, i crimini contro l’umanità commessi dai regimi comunisti erano ben poca cosa rispetto a quelli commessi dai nazisti, le atrocità commesse dagli Jugoslavi verso il nostro popolo erano decisamente un argomento tabù, così come l’idea che gli uomini della Resistenza avessero commesso degli eccessi. Ovviamente per costoro la classe borghese costituiva qualcosa di spregevole, e aveva gestito il nostro Paese nel peggiore dei modi, il futuro apparteneva ad altre ideologie che avrebbero stabilito un mondo nuovo, decisamente superiore al presente o al recente passato ritenuto di scarso valore. L’egemonia culturale della Sinistra aveva naturalmente il sostegno degli intellettuali, ma trovava un altrettanto forte sostegno nelle istituzioni, che nei loro proclami ricordavano costantemente le nefandezze della Destra. Sebbene il partito di maggioranza, la Democrazia Cristiana esercitasse il suo potere di governo, nel campo culturale brillava per la sua assenza, o peggio per il suo stato di sudditanza nei confronti dell’agguerrita opposizione comunista. A rileggere oggi certi discorsi c’è da rimanere inorriditi, ma a quei tempi tutto era permesso, e nessuno poteva opporsi ai profeti del mondo migliore. I dibattiti culturali sui mass-media avvenivano rigorosamente fra esponenti di Sinistra, le librerie ospitavano solo libri di Sinistra, le poche voci dissonanti venivano messe a tacere con giudizi pesanti. Due casi sono degni di nota, quello di Montanelli, isolato come un infetto di un terribile morbo, e Renzo De Felice, lo storico che aveva azzardato a parlare del fascismo come fenomeno dei ceti medi e teso alla mobilitazione delle masse. I suoi denigratori coniarono addirittura un termine estremamente infelice per indicare le sue posizioni, «revisionista». I revisionisti erano in precedenza definiti i comunisti non allineati, considerati eretici dai marxisti ortodossi. Gli attacchi contro uno dei maggiori storici italiani da parte di intellettuali e politici furono estremamente pesanti.

L’antifascismo dominante non permetteva che si potesse esprimere il minimo giudizio anche vagamente non accusatorio nei confronti di quel regime. Il mondo comunista aveva soppresso qualsiasi forma di libertà e aveva sottratto ai ceti operai di cui si considerava formalmente protettore, gran parte dei loro diritti. Non ci voleva molto a comprendere che il blocco dei Paesi comunisti produceva una eccezionale quantità di armamenti ma teneva la popolazione ad un livello di vita da Terzo Mondo. Nonostante ciò giovani entusiasti ed intellettuali proclamavano che la gente sotto quei regimi disponeva di un benessere, forse diverso dal nostro, ma comunque di una situazione felice. Fino al 1956, cioè fino a quando Kruscev non rivelò i crimini commessi da Stalin, gran parte della cultura marxista proclamava che i gulag non esistevano (vedi anche il caso Kravcenko), che erano una semplice invenzione della propaganda capitalista. Nel periodo successivo si parlò allora di «contraddizioni del mondo comunista», come dire che il terrore di massa era un semplice accidente storico, un limitato e inevitabile male che non pregiudicava la grandezza di quei regimi. Tutto il mondo doveva comunque essere grato all’Unione Sovietica per aver sconfitto, a prezzo di enormi sacrifici, il nazismo, ovviamente si taceva sul «Patto Molotov-Ribbentrop», sulla duplice aggressione alla Polonia, e sull’eccidio di Katyn. Negli anni Cinquanta sorse infine un ambiguo movimento pacifista, i Partigiani della Pace, che nonostante tutte le guerre e le minacce che provenivano dall’Unione Sovietica riteneva il pacifismo coniugabile con il comunismo. Anche personaggi di spicco del mondo europeo ne fecero parte. Non molto tempo dopo si scoprirono i legami dei vertici dell’organizzazione con il blocco sovietico.

Uno spazio particolare nella cultura degli anni Sessanta fu dato alla questione Vietnam, vittima non si sa su quali basi di un’aggressione americana. La principale battaglia combattuta in quell’infelice Paese, avvenne nel ’68 a Khe San fra unità regolari nord-vietnamite che erano penetrate nel territorio sud-vietnamita e avevano circondato una base americana, eppure la Sinistra continuava a ripetere che principali protagonisti di quel conflitto erano i Vietcong, cioè comunisti locali insofferenti al regime alleato dell’odiato Paese capitalista. Analogamente si taceva sul fatto che fosse stato Kennedy, uomo della Sinistra, ad iniziare l’impegno americano a difesa del governo sud-vietnamita. Quando dopo il 1975 si scoprì la durezza e la crudeltà del comportamento dei regimi comunisti di quell’area geografica, la questione venne messa presto a tacere. Nello stesso periodo molti vedevano nel comunismo cinese, una forma di autentico comunismo «popolare» contrapposto a quello «burocratico» sovietico. I milioni di morti che avevano accompagnato quella triste rivoluzione, ammesso che potesse avere senso parlare di rivoluzione parlando del regime cinese, costituivano un normale inconveniente tipico di qualsiasi fenomeno storico. Le due questioni si inquadravano all’interno della cosiddetta guerra fredda. Le origini della guerra fredda apparivano decisamente confuse, forse era stato il discorso sulla «cortina di ferro» di Churchill (1946) a scatenarla, o forse «l’accerchiamento capitalista», anche se il mondo comunista appariva un po’ troppo vasto per essere considerato accerchiato. L’umanità si trovava a vivere una guerra in cui era scivolata senza sapere nemmeno il motivo, e il muro di Berlino suo simbolo, era sorto a causa di «reciproche incomprensioni», non dall’attività deliberata di un regime totalitario. Coronamento di tali discorsi era naturalmente l’antiamericanismo, il Governo degli Stati Uniti controllava non si sa come, né in che modo le nostre scelte politiche. Se le Sinistre non riuscivano a conquistare il potere nel nostro Paese, ciò era dovuto non al fatto che i ceti medi preferissero altre forme di governo, e che una parte della stessa Sinistra, socialdemocratici e repubblicani avessero scelto il sistema di valori occidentale, ma a invisibili condizionamenti operati nelle forme più incomprensibili.

Forse non ci voleva molto a comprendere le assurdità e le palesi falsità di quella cultura, bastava leggere le opere di uno storico come Luigi Salvatorelli sul Novecento, o quelle di Gaetano Salvemini che aveva messo in luce come nell’affermarsi del fascismo avessero pesato le violenze scatenate nel ’19 dall’estrema Sinistra. Anche gli storici fecero la loro parte di confusioni, molti storici di area comunista limitavano lo studio della storia all’esposizione di enunciazioni programmatiche, senza mai arrivare ai comportamenti reali dei governi e delle forze politiche. Un testo ritenuto importante di Enzo Collotti sulla storia della Germania (1968) considerava irrilevante l’assorbimento forzato del partito socialista da parte di quello comunista nella DDR, i Tedeschi sostanzialmente avevano accolto liberamente quel tipo di regime. Lo storico comunista forse più autorevole, Gastone Manacorda, ammetteva esplicitamente le esigenze della politica nello studio storiografico. Sembrava che il mondo dovesse vivere a tempo indeterminato in quella forma di forzatura mentale, ma la storia («l’astuzia della ragione» avrebbe detto Hegel) alla fine operava. A metà degli anni Ottanta il comunismo implodeva non a causa di un attacco militare, o di un oscuro complotto, ma per l’azione di quei popoli che lo vivevano. Il mondo di bugie aveva una falla, e da qui al crollo il passo non era lontano. Alla fine anche gli uomini di cultura di Sinistra più avveduti (tra i quali Giampaolo Pansa) hanno dovuto ammetterlo, i teoremi non stavano in piedi, erano costruzioni fondate sul nulla. Oggi la storiografia marxista è quasi inesistente, solo irriducibili dogmatici ci vengono a proporre le loro tesi un po’ trite, uno di questi è Toni Negri, convinto che il nemico capitalista trami nell’oscurità, alla stessa maniera con cui i nazisti si convincevano dell’esistenza del complotto giudaico-massonico. Dietrologi e complottisti sparano ancora le loro ultime cartucce, e se i fatti storici smentiscono tesi gloriose, per costoro si può ricorrere sempre a fatti non dimostrati né dimostrabili. Se il mondo della cultura oggi ha messo da parte la cappa soffocante dell’egemonia culturale della Sinistra, tuttavia in quella parte della società più portata a credere acriticamente nei grandi illuminati che nelle proprie capacità di discernimento, ancora continua a resistere un modo di pensare decisamente impossibile da comprendere. Le persone che in un certo senso desiderano ingannarsi non sono assolutamente scomparse.

La cultura non è solo di sinistra. Ma la destra non vuole capirlo. I conservatori soffrono della sindrome di Stoccolma verso un intellighentia che da decenni coltiva la sua egemonia. Temono di apparire scorretti. Gianfranco de Turris, Lunedì 12/10/2009, su Il Giornale. Il ministro Bondi, in vari suoi interventi sulla stampa, ha sempre sottolineato di avere una concezione «liberale» della cultura, di non aspirare a nessuna «egemonia», come era stato per il Pci e la Sinistra in genere nei decenni passati, di non voler fare alcuna «epurazione». Però è anche costretto ad ammettere che oggi, pur essendo la «cultura di sinistra» in profonda crisi, essa è rimasta una «tecnica di gestione del potere» (Corriere della Sera, 16 settembre). In altri termini, le sue idee sono sempre più confuse e superate, ma la Sinistra ha i suoi uomini ancora insediati nei posti decisionali e negli snodi più importanti della «gestione del potere» culturale. Non è difficile capirlo dopo mezzo secolo di occupazione e di stratificazione anche semplicemente burocratica, ma sta di fatto che in ministeri e assessorati, editori e riviste, giornali e case cinematografiche, televisioni e università, gli uomini della sinistra, siano essi intellettuali o semplicemente personaggi d’apparato, stanno ancora lì inamovibili a decidere, giudicare, escludere, sanzionare, filtrare, bloccare, così indirizzando la cultura italiana in una certa direzione e sbarrando il passo a chi la pensa diversamente, condizionando alla fine una certa parte dell’opinione pubblica. Con tutto il rispetto per il ministro Bondi e la sua visione liberale, occorrerebbe fare come invece dice Marcello Veneziani: «Tentare una strategia di conquista civile e culturale delle posizioni chiave, o quantomeno una presenza bilanciata, che apra alle culture plurali del Paese» (Il Giornale, 21 settembre). E una simile operazione potrebbe partire, aggiungo, dalla periferia per raggiungere man mano il centro: da paesi, cittadine e città dove, sempre di più, gli assessorati alla cultura e simili passano nelle mani dei rappresentanti del centrodestra. Non sarebbe un’operazione difficile se non imperversasse quella che è stata chiamata «la sindrome culturale di Stoccolma». Come i sequestrati di Stoccolma alla fine cedettero psicologicamente e passarono dalla parte dei rapitori sino al punto di innamorarsene, così, a quanto pare, sta accadendo ai «gestori della cultura» di centrodestra che hanno raggiunto posizioni di responsabilità nei confronti della cultura dei loro «avversari».

È quanto mi è capitato di constatare di recente andando in giro per varie conferenze. Non potevo credere a quanto mi veniva raccontato: e cioè di assessori soprattutto ex An paralizzati e resi impotenti dalla paura di prendere decisioni, per le quali si correva il rischio di venir accusati di essere di destra o ancor peggio fascisti da parte delle opposizioni comunali ovviamente di sinistra. Non si può organizzare una conferenza con quel personaggio o per quel libro; non si può proiettare quel film; non si può organizzare quella mostra; non si può ricordare quell’anniversario; non si può finanziare quella biblioteca o restaurare quella collezione di giornali; non si può mettere quella targa o renderla leggibile; non si può organizzare un concerto di quel gruppo musicale... Non si può proprio, scusate: altrimenti cosa dirà l’opposizione? Cosa scriveranno le pagine locali della «grande stampa»? Che accuse ci lanceranno le sinistre? E se magari si mobilitassero i centri sociali? Sono sequestrati dai progressisti e succubi, e ormai quasi innamorati, dalla loro cultura. La lezione di coraggio e anticonformismo dello sfortunato Marzio Tremaglia, assessore alla cultura della Regione Lombardia scomparso nel 2000, l’hanno appresa purtroppo in pochissimi: non possiamo non citare Massimo Greco a Trieste e Carlo Sburlati ad Acqui Terme, che vanno avanti con iniziative non certo di parte ma di certo politicamente scorrette e di certo indirizzate a mettere in evidenza quella «presenza bilanciata che apra alle culture plurali del Paese» di cui parlava Veneziani. È così che si fa, non ci si nasconde dietro un dito, che nel nostro caso è quel famigerato trinomio «laico democratico antifascista» che all’epoca del demitiano «arco costituzionale» mise fuori gioco il Msi, ma che oggi è tanto di moda nella corrente aennina del Pdl. C’è da chiedersi, dunque, il perché di questa sindrome che condiziona molti assessori alla cultura del centrodestra, che fa loro accettare la cultura degli avversari ed abbracciare tutti i luoghi comuni e le parole d’ordine della Sinistra. Da cosa nasce questa incultura generalizzata, questo vero e proprio rinnegamento di una «visione del mondo», se non un taglio alle radici di appartenenza?

Considerando i fatti che ho conosciuto penso che la risposta sia sociologico-politica e si riferisca alla involuzione del Msi-An: gli assessori alla cultura locali sono ormai quasi tutti dei giovani fra i 30 e i 40 anni che quindi sono cresciuti fisicamente e si sono svezzati culturalmente dopo il passaggio delle acque a Fiuggi, or sono quindici anni. Il clima unanimistico (nei fatti, anche se non in teoria) creatosi intorno all’allora segretario del partito, le sue svolte o «strappi» imposti dall’alto, le sue oscillanti e nebulose posizioni culturali, hanno creato a poco a poco una specie di «pensiero unico» che ha condizionato quelli che nel 1995 avevo 20-30 anni. Sicché, una volta approdati sugli scranni di assessore alla cultura di centinaia di città e cittadine italiane (per non parlare delle regioni) non hanno fatto altro che muoversi secondo la forma mentis cui erano stati abituati, tanto più che per raggiungere quel posto devono essere in genere (le poche eccezioni confermano la regola) uomini di apparato. Il secondo punto è questo: se per caso l’assessore in questione fosse uno spirito indipendente e pensasse di operare in modo politicamente scorretto rispetto alle direttive del centro o dei vertici locali, c’è sempre il ricatto delle liste. Le liste per le elezioni amministrative le compila il coordinatore locale nominato da Roma, e se non ti adegui e vuoi fare culturalmente di testa tua ricevendo per di più le accuse di «fascista», e magari anche di «anticomunista», ledendo la nuova immagine del centrodestra in generale e degli ex An in particolare, sei messo fuori gioco. Soltanto chi è un esterno all’apparato e non fa il politico di professione perché ha già un proprio lavoro, può magari fregarsene di rientrare in lista. Ma ci vuole disinteresse e coraggio intellettuale.

Nel loro libro La destra nuova (Marsilio), due teorici finiani, Alessandro Campi e Angelo Mellone, nel delinearne il profilo fanno un elenco di tutto e del contrario di tutto, e a un certo punto scrivono - ed è questo che qui a noi interessa - che essa è «rispettosa delle proprie radici culturali, ma aperta alle sfide del futuro» (nelle tesi culturali di Fiuggi in sostanza era lo stesso, facendosi un ampio elenco di personalità di varia estrazione che però è stato poi dimenticato). Se fosse così non potremmo che sottoscrivere questa frase: ma così assolutamente non è, dati alla mano. La «destra nuova» non sembra avere più alcun aggancio col proprio passato culturale, che ha rinnegato quasi in blocco e di cui, ecco il punto cruciale, ha il terrore di affrontare o di occuparsene in qualche modo anche indiretto, perché teme di essere accusata di «fascismo». Se dunque i rappresentanti ufficiali della cultura del centrodestra si comportano né più né meno come quelli di centrosinistra che li hanno preceduti sugli stessi scranni, ditemi voi l’elettore che differenza potrà mai fare su questo piano tra il prima e il dopo... E perché mai gli assessori di centrodestra a questo punto dovrebbero far riferimento ad altro se non a quello cui faceva riferimento il precedente centrosinistra? Ed è infatti quanto sta accadendo, non essendoci più soluzione di continuità, culturalmente parlando, fra certa sinistra e certa destra, mentre della famosa «discontinuità» non se ne vede l’ombra ed a gestire il potere culturale dietro le quinte, al di là della facciata destrorsa, c’è ancora e chissà sino a quando sempre lo stesso apparato burocratico e ideologico messo in piedi dalla famosa «egemonia» progressista. Che, però, come dice la «destra nuova» non è mai esistita ed è solo l’alibi dietro cui si nascondono certi «intellettuali lamentosi»... Vabbè, diciamo per farla contenta che non c’è stata, ma ora la sindrome culturale di Stoccolma del centrodestra fa ottenere alla Sinistra gli stessi, identici risultati!

·         La cultura fondata sulla Politica e sulla Finanza. 

Di chi sono le case editrici italiane? Molte volte di altre case editrici: una guida di chi possiede chi e di quali sono "indipendenti", per lettori che non ci fanno caso. Il Post il 22 settembre 2015. In Italia esistono più di 4mila case editrici. L’Istat suddivide gli editori in piccoli, medi e grandi a seconda del numero di titoli che pubblicano. Per essere considerati grandi editori bisogna pubblicare almeno 50 titoli ogni anno. Se si esclude l’editoria scolastica che costituisce un mercato diverso, il settore italiano dei libri è in crisi da molti anni, ma ha registrato un sensibile peggioramento a partire dal 2011. Anche il primo trimestre del 2015 – secondo un rapporto Nielsen commissionato dall’Associazione Editori Italiani – ha avuto un calo del 2,6 per cento, un dato comunque migliore rispetto al meno 4 per cento del 2014 e al meno 7 per cento del 2013: e qualche attenuazione del calo è stata annunciata nei dati provvisori dei mesi più recenti. L’unico settore a registrare una crescita è l’editoria per ragazzi. I maggiori gruppi editoriali italiani controllano oltre il 60 per cento del mercato editoriale.

Il Gruppo Mondadori è il più importante nel mercato italiano. Secondo le stime di Nielsen controlla il 26,5 per cento dell’intero mercato editoriale italiano. Nel 2014 il gruppo ha pubblicato complessivamente 2.291 titoli nuovi, contando tutti i suoi marchi. Gli editori più importanti del gruppo sono Edizioni Mondadori, Giulio Einaudi editore con Edizioni EL per i libri per ragazzi, Sperling & Kupfer (e il suo sotto-marchio Frassinelli) ed Edizioni Piemme. Il fatturato di Mondadori nel 2014 è stato di 1,177 miliardi di euro complessivi, di cui il 27 per cento (317 milioni) provienente dai libri; il resto dai periodici e dai circa 600 negozi sparsi in Italia. Il gruppo è controllato principalmente da Fininvest – di cui Marina Berlusconi è presidente dal 2003 – con una quota del 50,39 per cento. Le altre quote rilevanti appartengono a due fondi d’investimento inglesi, Silchester International che controlla l’11,49 per cento e River and Mercantile Asset Management Llp con il 5,07 per cento. All’inizio del 2015 la Mondadori ha presentato un’offerta ufficiale per l’acquisizione di RCS libri – che comprende Rizzoli e altri editori – per una cifra compresa tra i 120 e i 150 milioni. Il consiglio d’amministrazione di RCS sta ancora valutando la proposta – che ha generato un acceso dibattito tanto che alcuni scrittori di Bompiani hanno pubblicato una lettera di protesta sul Corriere della Sera –, ma sembra che l’affare si possa concludere. Se l’offerta venisse accettata il nuovo gruppo controllerebbe quasi la metà del mercato editoriale italiano.

Il Gruppo editoriale RCS MediaGroup – che tra le altre cose è anche l’editore del Corriere della Sera, della Gazzetta dello Sport e di alcune riviste – vale il 12,1 per cento del mercato. Il gruppo controlla otto case editrici: la più grande è Rizzoli, le altre sono Bompiani, Marsilio, Adelphi, Fabbri, Archinto e Sonzogno. L’8 luglio scorso, dopo la notizia della possibile fusione del settore dei libri – non del gruppo RCS – con Mondadori, Rosellina Archinto, fondatrice dell’omonima casa editrice, ha annunciato di essersi ricomprata il marchio e l’uscita da RCS. In caso di fusione con Mondadori, altri editori di RCS potrebbero fare la stessa cosa: le formule societarie glielo consentono, se hanno le risorse economiche. L’azionista di maggioranza del gruppo è Giovanni Agnelli & C. s.a.p.a. che controlla 16,7 per cento: poi Mediobanca SpA ha poco meno del 10 per cento e Diego della Valle il 7 per cento. Urbano Cairo – proprietario de La7, dell’omonima casa editrice e del Torino F.C. – ha il 3,66 delle azioni.

Il Gruppo editoriale Mauri Spagnol – noto anche con l’acronimo GeMS – è il terzo per dimensioni, con il 10,2 delle quote del mercato italiano. La holding è stata fondata nel 2005 a Milano e ha il nome delle due famiglie fondatrici, Mauri e Spagnol. GeMS controlla 10 case editrici e 18 marchi editoriali, tra cui Garzanti (che a sua volta controlla Corbaccio), Adriano Salani editore, Longanesi, Bollati Boringhierieditore, Tea, Antonio Vallardi Editore, il 90% di Guanda, il 56% de La coccinella, il 50% di Chiarelettere – che tra le altre cose possiede una quota del giornale Il Fatto Quotidiano. Il gruppo è anche editore della rivista specializzata in libri ed editoria Il Libraio. Stefano Mauri è presidente e amministratore delegato, insieme a Luigi Spagnol, anch’egli amministratore delegato. GeMS è controllata per il 70,08 per cento da Messaggerie Italiane che è il più grande distributore di libri italiano – si stima che un libro su tre in Italia venga gestito da Messaggerie. Il resto delle quote appartiene per il 21,85 per cento alla famiglia Spagnol, per il 5 per cento a Elena Campominosi – direttore generale di Garzanti – e per il 3,07 per cento ad Andrea Micheli, fotografo e figlio del finanziere Francesco.

Giunti editore è una delle più antiche case editrici italiane, essendo stata fondata dalla stessa famiglia nel 1841. Il gruppo, che ha sede a Firenze, oggi ha il 6,1 per cento del mercato, ed è specializzato in editoria per ragazzi e scolastica. La casa editrice è ancora interamente controllata dalla famiglia Giunti, il gruppo possiede anche il 50 per cento delle Edizioni del Borgo e altre quote di case editrici minori e specializzate (Editoriale Scienza, Giorgio Nada editore, Fatatrac). Nel 2014 il fatturato è stato di circa 200 milioni. La catena di librerie del gruppo – Giunti al punto – è la più grande in Italia per numero, con 173 punti vendita, contro i circa 130 di Feltrinelli.

Il gruppo Feltrinelli, con il 4,6 per cento del mercato, è il quinto gruppo editoriale italiano. Le case editrici controllate da Giangiacomo Feltrinelli Editore s.r.l. sono Apogeo, Kowalski, Eskimosa, Edizioni Gribaudo, Vita e Urra. Nel 2005 la holding EFFE 2005 Gruppo Feltrinelli S.p.A. – controllata dalla famiglia Feltrinelli – ha unificato le proprietà della casa editrice e della sezione librerie, che prima erano divise. La catena di librerie è la seconda più grande in Italia, dopo Giunti. Dal 2013 la casa editrice è anche diventata azionista della Scuola Holden – la scuola di scrittura e storytelling fondata da Alessandro Baricco a Torino – assieme al gruppo Eataly di Oscar Farinetti e al manager Andrea Guerra.

La casa editrice De Agostini detiene il 2,3 per cento del mercato librario. Tra le altre cose, è specializzata nella divulgazione scientifica. I principali editori controllati da De Agostini sono UTET e Edizioni Whitestars. La casa editrice è coordinata e diretta da De Agostini S.p.A. che è controllata dalla finanziaria B&D Holding di Marco Drago & C. S.a.p.A. di proprietà della famiglia del manager e imprenditore Marco Drago e dalla famiglie Boroli, imprenditori di Novara dove la casa editrice ha sede.

Rimangono poi molte case editrici indipendenti che si dividono il 38,2 per cento delle restanti quote di mercato. Le più importanti e più note sono Sellerio, Editori Laterza, Minimum Fax, Cairo, Baldini e Castoldi, Fanucci, Hoepli, Castelvecchi, Ancora, Neri Pozza, Fazi editore, Newton Compton, Marcos y Marcos, Donzelli, Il Saggiatore, il Mulino, Raffaello Cortina Editore, Iperborea, Nottetempo, Quodlibet.

·         Quando l’editoria di sinistra non è foraggiata…muore!

Editoria, Crimi: aboliremo il finanziamento. Dal 2020 via 60 milioni di fondi. “E’ con grande orgoglio che vi annuncio che aboliremo il finanziamento pubblico ai giornali”. Ad affermarlo il sottosegretario all’Editoria Vito Crimi dal palco di ‘Italia 5 Stelle’, la kermesse di M5S che si è svolto lo scorso 20 e 21 ottobre a Roma. Affari Italiani. Lunedì, 22 ottobre 2018. “Noi non attacchiamo ma difendiamo la libertà di stampa. La politica dà soldi che sono serviti a finanziare gli editori, a tenere in piedi giornali che nessuno altrimenti avrebbe comprato. E malgrado tutto l’emorragia continua, il giornalista è ancora sottopagato, chiudono tre edicole al giorno”, ha detto. “Noi denunciamo queste cose con i fatti”, ha aggiunto Crimi, spiegando che i 60 milioni di euro di contributi al fondo per l’editoria: verranno dimezzati e poi “nel 2020 li taglieremo del tutto”. Il taglio complessivo per l’editoria ammonterà a “100 milioni in due anni”, ha rimarcato ancora Crimi dal palco, sgranando le fonti di finanziamento che saranno tagliate con le norme inserite nella prossima Legge di Bilancio. “Ci sono i rimborsi per le spese telefoniche che valgono 32 milioni di euro e che prendono tutti i giornali. Dall’anno prossimo li taglieremo”. Crimi è poi passato al capitolo dei “giornali diffusi all’estero”, che “vale 2 milioni di euro e che a dicembre Gentiloni aveva deciso di aumentare da 2 a 3 milioni e che scenderanno ad un milione dal 2019 e a zero dal 2020”. Non ci saranno tagli, invece, alla “stampa speciale per ipovedenti e ai contributi per le associazioni dei consumatori”, per i quali la slide dietro al palco indicava fondi annuali rispettivamente per un milione e 500 mila euro. A rincarare la dose anche Paola Taverna. “Internet può spazzare via questa carta stampata”, ha detto la vice presidente del Senato e, rivolgendosi ai sostenitori presenti, ha aggiunto: “voi tutti potete raccontare quanto realizzato dal governo, voi dovete raccontare la verità ogni giorno che ci insultano e mentono su quel che stiamo facendo”.

A proposito di stampa, sinistra e finanziamento pubblico. Marco Santopadre direttore di Libera.Tv su Contropiano. In questi giorni in tantissime redazioni di giornali politici e cooperativi si vivono ore drammatiche. Il quotidiano Terra è stato il primo a cadere, poi è venuto il turno di Liberazione ed ora è il Manifesto a dover piegarsi alla liquidazione coatta. Anche l’Unità è in pericolo mentre a Nuova Ecologia non si pagano gli stipendi. Decine di altre testate sono sull’orlo del baratro. E’ questa la conseguenza del taglio drastico dei finanziamenti all’editoria deciso dal Governo Berlusconi e confermato da Monti. Con la scusa di riordinare il settore, tagliando le “testate finte” che servono solo per ottenere il finanziamento pubblico, si sta producendo una moria di “testate vere” che fanno informazione spesso scomoda. Ovviamente la prima risposta necessaria è la piena solidarietà con queste testate, con i professionisti che le realizzano, con la loro battaglia per difendere, non solo il loro lavoro, ma un pezzo del pluralismo e quindi della democrazia. Ieri la direttrice del Manifesto, in un drammatico video-editoriale, si è appellata ancora una volta ai propri lettori perché comprino il giornale in edicola ed ha dichiarato che questa lotta per la sopravvivenza è lotta politica. Sono perfettamente d’accordo con lei MA vorrei aggiungere alcune considerazioni di fondo. Perché siamo arrivati a questo punto? La crisi dell’editoria di sinistra non è solo finanziaria ma, come in qualche modo ammette Norma Rangeri, prima di tutto politica. Esistono giornali come Il Fatto che sono nati proprio quando altri entravano definitivamente in crisi. Le testate, in un sistema funzionante, dovrebbero nascere e morire non perchè ricevono o meno finanziamenti ma se sono capaci di rispondere ad un bisogno dei lettori, degli ascoltatori, dei telespettatori, di coloro che si informano sul web. Invece nessuno affronta questa crisi politica delle testate della sinistra quasi che sia un eresia dire che come i partiti anche il giornalismo di sinistra ha perso nel tempo la sua “connessione sentimentale” con il proprio popolo. Se servono appelli drammatici per far partire sottoscrizioni, vendite ed abbonamenti il problema invece esiste ed è grave. Parliamone. Parliamo anche poi del fatto che esistono anche centinaia di esperienze editoriali, di redazioni formali ed informali, di luoghi e di professionalità dove si produce informazione di qualità senza alcun finanziamento pubblico. Questo è un punto delicato. Da anni infatti, giustamente, le testate che rientravano nel quadro del finanziamento pubblico ci chiedono di unirci a loro nel pretendere che lo Stato contribuisca al pluralismo finanziandole. E’ una battaglia giusta MA solo se vediamo che forse il finanziamento non è una soluzione ma parte del problema. Nell’immediato è evidente che è necessario rifinanziare queste testate per impedire che spariscano di colpo esperienze importantissime, storiche, di valore culturale oltre che politico. Però è possibile che i giornali e le testate della sinistra possano vivere solo con i soldi dello Stato? Vivere di finanziamento pubblico significa essere impiccati ai governi e, nel tempo, assumere comportamenti non sempre compatibili con la propria missione. Questo vale sia per i giornali che per i partiti. Dice la direttrice del Manifesto che ora come non mai i suoi lettori devono comprare il giornale. Ha ragione. Sono i lettori la forza di una testata e questa deve rapportarsi e misurarsi con il loro numero. Tutte le testate hanno bisogno del sostegno dei loro lettori. Ma quelle che non hanno un finanziamento pubblico, nè possono sperare di averlo, hanno bisogno dei loro lettori più delle altre. I lettori ed il loro numero non sono una variabile indipendente, un dettaglio. Se una testata parla a tremila persone questo è il suo peso. Lo dico perchè non sempre è chiaro se i giornali sono stati fatti per i lettori, per i giornalisti che li fanno, o per chi procurava o potrà eventualmente in futuro assicurare il finanziamento. Lo dico perchè al netto della storia, della influenza, della presenza nelle rassegne stampa e nelle mazzette non sempre la diffusione delle testate e dei loro contenuti è quella che la storia ci consegna soprattutto nell’epoca di internet. Le imprese editoriali, anche quelle di sinistra, devono avere anche una loro sostenibilità economica. Il direttore di Liberazione Dino Greco, in una intervista che gli ho fatto per Libera.tv, diceva che le vendite e le sottoscrizioni, pur generose, non riusciranno mai a sostenere il giornale. Beh questo è un problema, un problema serio che non trova risposta dal finanziamento pubblico. Se un giornale non può vivere di vita propria è sempre esposto al rischio di doversi piegare per sopravvivere. A Greco rispondo che in Italia esiste un mercato immenso per la stampa di sinistra. Ci sono oltre tre milioni di persone che si considerano di sinistra a cui vendere i nostri prodotti. Dobbiamo interrogarci su come farlo e soprattutto su quali prodotti queste persone possano essere interessate a comprare. Questo è molto, molto chiaro a chi deve far quadrare un bilancio senza contare che sulle proprie risorse. Noi (testate e giornalisti) dobbiamo cambiare e cambiare molto. Al contempo dobbiamo mandare al “nostro popolo” un messaggio chiaro. Se la sinistra vuole la sua stampa deve sapere che se la deve pagare. Un tempo questo era a tutti chiarissimo. Nessuno avrebbe pensato che De Gasperi finanziasse la stampa comunista. Ed allora si facevano le feste dell’Unità, gli abbonamenti, le distribuzioni e la raccolta pubblicitaria casa per casa, negoziante per negoziante. Reperire soldi per la stampa era il cuore della militanza politica. Non sarà che anche a causa del finanziamento pubblico questa pratica, che chiariva la natura intresicamente partigiana della professione giornalistica, è andata perduta sostituita dalla passiva attesa dei soldi dello Stato o dalla ricerca del sostengo di “imprenditori democratici” che poi sempre imprenditori sono? Se non si impara da questa crisi non si imparerà mai. Per ricominciare serve un patto per l’informazione libera e critica dove tutti, piccoli e presunti grandi, possano stare sullo stesso piano. Bisogna che tutti partano dal presupposto che la morte dell’altro non è uno spazio che si apre ma una opportunità che si chiude. Bisogna che finiscano le gelosie di testata ed anche un modo burocratico e corporativo di sentirsi giornalisti anche durante le crisi aziendali. Per ricostruire l’informazione di sinistra serve innanzitutto un bagno di realismo e di umiltà che consenta di costruire progetti sostenibili anche economicamente, adeguati ad una comunicazione moderna dove, ad esempio, la carta, pur rimanendo importante, non è più il centro. Prima di tutto però serve una scelta politica chiara che dimostri nei fatti la natura “critica” di questa informazione, la sua impermeabilità agli interessi economici dominanti, la sua avversità ad ogni burocrazia politica o sindacale anche quando questa controlla “i cordoni della borsa”. Fare informazione è battaglia quotidiana. Si può fare. Lo spazio c’è ed il futuro anche. Basta vederlo e basta volerlo.

Editoria, strage a sinistra: chiude anche Left. L’amministratore unico scioglie la cooperativa, la rivista interrompe le pubblicazioni, ma i giornalisti annunciano: lanceremo una raccolta fondi per comprare la testata. Globalist.it 8 gennaio 2015. L’annuncio è arrivato dall’amministratore unico della cooperativa: scioglimento della cooperativa editoriale e interruzione delle pubblicazioni. Il direttore responsabile, Giovanni Maria Bellu, ha rassegnato le dimissioni. Così anche Left, la rivista erede della più famosa Avvenimenti, per alcuni anni allegata a l’Unità, chiude i battenti. 

Il crollo dell’editoria di sinistra. E’ la seconda chiusura d’inizio anno dopo quella di Pagina 99. La scomparsa dalle edicole di Left, che segue quelle de l’Unità e di Europa, completa il disastro dell’editoria di sinistra. Un disastro, è bene ricordarlo, che si colloca nel contesto della crisi più drammatica dell’editoria italiana. Una crisi provocata dalla concorrenza crescente della rete, ma anche dall’inerzia e dall’incapacità dei nostri editori di fronteggiare quella concorrenza con l’innovazione e la qualità. Una crisi, inoltre, aggravata dal taglio dei finanziamenti pubblici che ha messo alle corde quasi tutte le testate politiche e cooperative.

L’editoriale della redazione. Questo l’editoriale nell’ultimo numero di Left. “Left non vuole morire. La redazione di Left non ha intenzione di mollare. Matteo Fago, già editore dell’Unità prima della sua chiusura, ha ribadito che non ha nessuna intenzione di investire sulla cooperativa. Interpellato sulla sopravvivenza della testata Left, Fago ha dichiarato di non sapere cosa farà in merito. La cooperativa di giornalisti vuole continuare a pubblicare il giornale e per questo respinge le dimissioni del direttore Giovanni Maria Bellu e del condirettore Ilaria Bonaccorsi. Lanceremo inoltre una raccolta fondi (stiamo provvedendo all’apertura del conto) per comprare la testata (all’asta fino al 16 gennaio) e guadagnare il tempo necessario per trovare altri investitori interessati a condividere un progetto di un piccolo giornale indipendente (otto giornalisti, due poligrafici e un amministrativo, che già attualmente percepiscono tutti lo stesso stipendio, notevolmente autoridotto). Abbiamo bisogno di voi per salvare la storia di Left”.

La rinuncia dell’editore, già ex de l’Unità. Matteo Fago, già azionista di maggioranza dell’Unità, per alcuni mesi aveva tenuto in vita Left, ma ha voluto recedere dalla volontà, più volte espressa, di sostenere ulteriormente questa esperienza editoriale. Fago aveva anche chiesto e ottenuto la nomina di un condirettore di fiducia, Ilaria Bonaccorsi, moglie di Ivan Gardini, figlio di Raul, lo storico patron della Montedison, e candidata civatiana (non eletta) alle ultime elezioni europee. 

Lo sconcerto della redazione. “In questa fase – scrive il comitato di redazione di Left – pur riconoscendo a Fago di aver garantito tra settembre e dicembre la continuità delle pubblicazioni, non possiamo che esprimere sconcerto per la conclusione di questa vicenda e preoccupazione per il nostro lavoro”. La rivista negli ultimi tempi, si era molto avvicinata alla corrente di Pippo Civati, deputato Pd, e aveva nello piscanalista Massimo Fagioli, curatore di una rubrica fissa settimanale, un punto di riferimento. Matteo Fago, infatti, oltre a editare Left e prima l’Unità, è noto come fondatore della società editrice L’Asino d’oro, che pubblica i libri dello psichiatra. 

·         Il Cinema ed il finanziamento del politicamente corretto e schierato.

“OGGI PER VINCERE UN OSCAR CI VOGLIONO TANTI SOLDI”. Francesco Tortora per Corriere.it il 9 settembre 2019.

L'accusa. Mentre a Venezia ha trionfato il Joker interpretato da Joaquin Phoenix, dall'altra parte del mondo è partito il Festival di Toronto, rassegna cinematografica che negli ultimi anni ha ospitato diverse pellicole da Oscar come «La forma dell'acqua» di Guillermo del Toro e «Green Book» di Peter Farrelly. Tra i protagonisti della 44esima edizione c'è anche Susan Sarandon, stella di Hollywood che il 5 settembre ha presentato il suo ultimo film «Blackbird», diretto da Roger Michell. Ai media internazionali che le chiedevano se la pellicola potesse ambire agli Oscar, l'attrice ha fatto capire che è praticamente impossibile e ha attaccato l'Academy : «Oggi - ha dichiarato Sarandon - per vincere l'Oscar ci vogliono tanti soldi, il merito non conta». 

Attività di lobbyng. L'attrice ha ricordato che Hollywood è profondamente cambiato negli ultimi decenni e che non si premia più la qualità dei film, ma vince sempre a chi riesce meglio l'attività di lobbying: «Onestamente il cinema è diventato così affaristico - ha dichiarato -. Ai tempi in cui ricevevo cinque nomination, vincendo un Oscar, non c'era bisogno di sborsare tutto questo denaro». 

Campagne di 6 mesi. Sarandon ha ricordato che oggi sono organizzate campagne di lobbying che durano sei mesi per le nomination e che prevedono  proiezioni vip, brunch e altri eventi per accaparrarsi i voti degli "opinionisti": «No, oggi non riuscirei mai a vincere un Oscar» ha dichiarato l'attrice. 

Pochi mezzi. La 72enne ha poi ribadito che attori e registi contano sempre di meno a Hollywood:«Oggi non avrei i mezzi per competere con alcuni film difesi dagli Harvey Weinstein di questo mondo» ha dichiarato.

La pellicola. Nel suo ultimo film «Blackbird» Susan Sarandon interpreta una madre malata terminale che desidera porre fine alla sua vita. La pellicola, remake del lungometraggio «Silent Heart» (2014) di Bille August, ha altre celebri protagoniste come Kate Winslet e Mia Wasikowska. Il film è stato proiettato in anteprima alla rassegna di Toronto che è il più grande festival cinematografico del Nord America. Il vincitore della rassegna sarà proclamato il 15 settembre.

Il tema dell'eutanasia. Nella conferenza stampa l'attrice ha anche affrontato il tema dell'eutanasia e ha auspicato che negli Usa prima o poi arrivi una legge: «Tutti hanno il diritto di farlo senza che i familiari siano accusati di omicidio. Dovresti essere in grado di essere circondato da persone che lo accettano. È una scelta individuale». 

Un privilegio per ricchi. Secondo l'attrice oggi anche l'eutanasia è un privilegio che si possono permette solo le persone facoltose: «Se sei ricco, proprio come l'aborto, avrai sempre accesso a cose controverse. Se sei ricco, il tuo medico fare in modo di aumentare la morfina per permetterti di non soffrire. Non c'è nulla di nuovo».

Oscar. Nella sua lunga carriera Susan Sarandon ha recitato in film celebri come «Thelma e Louise», «L’olio di Lorenzo», «Il cliente» e «Il prezzo della libertà». L'attrice ha ottenuto 5 nomination all'Oscar e nel 1995 ha ottenuto la preziosa statuetta per l'interpretazione di «Dead Man Walking – Condannato a morte». Susan Sarandon è attiva sui social e conta 1,2 milioni di follower su Instagram. 

Manuale per sopravvivere al cinema di sinistra. Rino Camilleri il 13-08-2016 su Lanuovabq.it. Se siete appassionati di cinema e volete scompisciarvi dalle risate procuratevi il pamphlet di Maurizio Acerbi, critico cinematografico, dal titolo: Come sopravvivere al cinema di sinistra. Un utile strumento per capire quello che disse l regista Dino Risi: «Il comunismo non ha mai avuto tanta forza come da quando non c’è più ». Se siete appassionati di cinema e volete scompisciarvi dalle risate procuratevi il pamphlet di Maurizio Acerbi, critico cinematografico (Come sopravvivere al cinema di sinistra, pp. 50, €. 2,50, Edizioni de Il Giornale, in edicola). Si comincia con una definizione di cinema impegnato di sinistra: «che propone problemi di particolare rilievo politico o sociale come, ad esempio, Berlusconi e il bunga-bunga, Berlusconi e il trapianto di capelli, Berlusconi e l’età di Ruby». Segue un decalogo del perfetto regista impegnato: a) non avrai alcun dio all’infuori dello sbadiglio; b) ricordati di santificare il 25 Aprile e il Primo Maggio; c) ricordati di girare con Repubblica in tasca (ma non sei costretto a leggerla); d) metti Bandiera Rossa come suoneria del tuo cellulare (per i messaggini in arrivo va bene anche L’Internazionale); e) non dimenticare di promuovere il tuo film da Fabio Fazio; f) ricordati di riferirti sempre ad ogni tuo collega di sinistra con il termine Maestro; g) mostrati in pubblico con aria sempre annoiata, meglio se schifata da tutto; h) non dimenticare di indossare occhialini da intellettuale e sciarpa in cachemire, anche se fossi, ad agosto, sulla spiaggia di Capalbio; i) nelle interviste ricorda, con entusiasmo, le tue partecipazioni giovanili alla Festa dell’Unità; l) quando parli in pubblico, rammenta a tutti che hai sempre votato Pd (anche prima del 2007); m)  dichiara di avere almeno un amico gay (anche a sua insaputa); n) ricordati che i tuoi non sono semplici film, ma opere d’arte di alto interesse culturale e quindi meritevoli di diritto del finanziamento dello Stato; o) durante le interviste di lancio del tuo nuovo film afferma di esserti vagamente ispirato ad una pellicola d’autore, ad esempio, lituana o, al più, vietnamita; p) se pubblichi una tua biografia con Mondadori, non dimenticare di precisare che, come artista, hai, comunque, il cuore a sinistra. Eccetera eccetera. Il Duce, fondando Cinecittà e il Festival di Venezia (il primo al mondo) disse che «la cinematografia è l’arma più forte». Aveva ragione, tant’è vero che i comunisti furono lestissimi a metterci le mani sopra. E non ce le hanno più tolte. Christian De Sica in una intervista alla Stampa del 12 novembre 2008 disse: «Io sono di sinistra, da sempre». Il che vuol dire che non solo l’”impegno”, ma anche i cinepanettoni, le commedie scollacciate, i cartoni animati, tutto, non si butta via niente. I critici, i giornalisti? Ai festival l’apparire sullo schermo del marchio distributivo Medusa (berlusconiano) veniva accolto da salve di fischi. Gérard Depardieu definì in un’intervista i registi italiani «comunisti con le case», intendendo le ville con piscina nei luoghi chic. Dino Risi, intervistato nel 2006 dal Manifesto, dichiarò: «Il comunismo in Italia non ha mai avuto tanta forza come da quando non c’è più. Da quando è scomparso il comunismo, sono tutti comunisti». Negli anni Settanta perfino nei film c.d. poliziotteschi risuonavano battute del tipo: «Eh, sì, commissario, proprio così, noi della polizia dobbiamo tenerlo presente che la proprietà è un furto, noi che finora siamo sempre stati al servizio dei ricchi... Ma mi dica lei quando mai abbiamo manganellato dei ricchi! Oppure i ricchi hanno sempre ragione e il torto sta sempre dove stanno gli operai, gli studenti, i meridionali?». Insomma, ogni interstizio utile all’indottrinamento delle masse, al plagio perfino dei preti, era invaso. E lo è ancora, perché la propaganda è l’anima del commercio, e anche il solo modo per imporre ideologie strampalate. Quando a Sanremo tutti i cantanti si presentarono col nastro arcobaleno al polso, Ernesto Galli Della Loggia commentò che ai tempi del nazismo si sarebbero esibiti con la croce uncinata al braccio. Lenin, ricordiamolo, modificò la frase di san Paolo così: «Chi non obbedisce non mangia». Ormai, solo una risata (forse) può seppellirli, perciò godiamoci il librino di Acerbi. 

Fondi pubblici al cinema, l'inchiesta di Sky sui film finanziati dal ministero. Deborah Dirani il 18 giugno 2013 su Ilsole24ore.com. I teatri chiudono, i cinema si svuotano, le produzioni italiane non reggono la concorrenza nemmeno con i film a basso costo prodotti non dico a Hollywood, ma anche a Bollywood. La cultura in Italia langue tra tagli e sforbiciate: eppure nel solo 2012 il ministero per i Beni artistici e culturali ha finanziato 79 film per un valore complessivo di 23 milioni di euro: mica briciole in tempi di carestia come questi. Ad andare a frugare tra decreti legislativi, leggi e regolamenti è stato Sky Cine News e la giornalista di Sky Cinema, Barbara Tarricone, con un' inchiesta (in onda questa sera alle 22.50 su Sky Cinema 1) dal titolo inequivocabile: Ciak! Paga lo Stato. Tra le tante pellicole che negli anni hanno beneficiato degli aiuti istituzionali ci sono alcuni che non sono nemmeno mai usciti nelle sale e, se hanno fatto un passaggio in videocassetta o dvd, di certo non sono passati alla storia come blockbuster da milioni di euro di incassi. Pellicole mai uscite, ma non solo: soft core e horror visti a malapena da appassionati del genere splatter. La prima legge che regolava i finanziamenti pubblici alle produzioni cinematografiche è datata 1965; nel 2004 ne è stata emanata una successiva che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto stringere la maglie attraverso cui far passare le produzioni alle quali destinare denaro. Tra cialtronerie e mezzi flop, comunque, era impossibile che qualche regista di valore non ricevesse un doveroso aiuto: così a Marco Bellocchio sono arrivati 900mila euro per il suo "Bella addormentata", a Paolo Sorrentino 1 milione e centomila per "La grande bellezza", di recente sbarcato a Cannes e, più di recente, Paolo Virzì ha ottenuto 700mila euro dal MiBac per "Il Capitale umano", film al quale sta lavorando in questi giorni. Secondo la linea guida sotto cui è nata la legge del 2004 per cui lo Stato avrebbe dovuto aiutare la diffusione di opere difficili e di qualità, il bollino di "film di alto interesse culturale" (riconoscimento che non prevede automaticamente l'erogazione del finanziamento) lo hanno ottenuto anche produzioni che di difficile comprensione non sembrano proprio (a meno che non siano viste da un cinese che non spiccica una parola di italiano). Per lo Stato italiano, dunque, sono considerati film difficili e di qualità produzioni come: "Benevenuti al Sud" e il suo sequel, "Benvenuti al Nord", "Immaturi" e "Ti stimo fratello" e il road movie dei fratelli Vanzina "Mai Stati Uniti". Per la cronaca, racconta Tarricone nell'inchiesta di Sky Cine News , il bollino di film di interesse culturale rilasciato dal ministero ha un valore che va oltre il "bene, bravo, bis": garantisce infatti un maggiore premio statale sugli incassi, sgravi fiscali per il distributore, e premi agli esercenti che ne ospitano la proiezione. In altri termini altri soldi pubblici.

L’assistenzialismo di sinistra ha affossato il cinema italiano. Gabriella Mecucci il 4 settembre 2007 su L’Occidentale. La crisi del cinema italiano si è consumata in questi ultimi dieci anni sotto l’egida dello Stato assistenziale e sciupone. Mentre i riflettori stanno accesi sul Festival di Venezia e si parla a raffica (e a sproposito) del rilancio della cinematografia made in Italy, pochi, ancora troppo pochi conoscono le cifre drammatiche della celluloide di casa nostra. Il rapporto sullo stato dell’arte si apre all’insegna di due parole: sprechi pubblici e insuccessi a piene mani. Lo Stato a speso dal 1994 ad oggi 730 milioni di euro per confezionare 500 film, di cui poco più di 300 usciti in sala: è diventato così il più grande produttore d’Europa, ma anche il peggiore. Tutto questo danaro è stato infatti messo in circolo con l’intento dichiarato di salvare il nostro cinema, ma il risultato è l’esatto contrario dei desiderata. Invece di rimontare posizioni e di ritornare in vetta, siamo finiti in fondo alla classifica. In Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Spagna, per non parlare degli Stati Uniti, le pellicole italiane hanno raggiunto un peso del tutto marginale: fra lo 0,3 e l’1% dell’incasso globale dai botteghini. Mentre dentro i confini nazionali il consumo è sceso al di sotto della media europea. Una debacle, figlia di una sprecopoli che ha padri e beneficiati. Partiamo dai secondi. Ci sono film che ricevono milioni di euro di finanziamenti statali e ne incassano poche decina di migliaia. E’ vero che il “rientro” in biglietti costituisce circa un terzo del totale. Ormai infatti i passaggi televisivi, i dvd e quant’altro rappresentano due terzi degli introiti%3B ma se dal botteghino arrivano quelle miserie, la baracca non si raddrizza più. Le pellicole che tirano sono poche, pochissime, 2 o 3 all’anno, poi ce ne sono meno di una decina che vanno così così e il resto è “profondo rosso”. Qualche esempio? Se ne possono trovare a volontà. Cervellini fritti impanati(1995) conquista 16mila euro,  ma dallo stato ne ha avuti 1.189.916; Cronache del Terzo Millennio, nientemeno che di Citto Maselli, raggiunge l’incasso astronomico di 5mila euro contro 1.321.613 investito naturalmente da Pantalone; Il popolo degli uccelli di Rocco Cesareo va alla deriva con 2mila euro di botteghino e un finanziamento di 600mila euro; per non dire di L’amante perduto di Giorgio Treves che si assesta a 112mila euro da biglietti contro i quasi tre milioni ricevuti in grazioso dono. E’ persino impietoso continuare in questo elenco sterminato che comprende grandi firme e illustri sconosciuti. Per uno che va bene o benino ce ne sono sette o otto disastrosi. Le commissioni che distribuiscono i fondi ne combinano di tutti i colori: spesso disseminano finanziamenti senza costrutto e talora riescono persino a non dare un euro a pellicole che si dimostreranno all’altezza del mercato. La più incredibile accadde regnante Giovanna Melandri: scartarono L’ultimo bacio di Muccino e “pomparono” tre milioni di euro per Vipera di Sergio Citti (12mila in biglietti). Le scelte del pubblico furono diametralmente opposte. E che dire della storia grama dei produttori italiani? Sono scomparsi. Di forte c’è rimasto solo Aurelio De Laurentis con i prodotti alla Vanzina, tanto sbeffeggiati dalla critica per quanto gratificati al botteghino. Piantiamola qui con i numeri. E’ chiaro infatti che si tratta di sprechi insopportabili che invece di aiutare il cinema, lo affossano sempre di più. Più infatti è cresciuto nel tempo il meccanismo assistenziale e meno film di qualità sono stati sfornati. La creatività decresce mentre sale la subalternità politica: se i soldi non arrivano dal mercato ma dallo stato, occorre che il progetto di film piaccia a chi governa e non agli spettatori. Intendiamoci, anche negli altri paesi esiste la pratica della sovvenzione pubblica e il nostro cinema ha ricevuto danaro dallo Stato a partire dal lontano 1965 (legge del socialista Corona). Qual è allora la differenza? Prima del provvedimento del ’94 (governo Ciampi), ritoccato poi dal ministro Veltroni (1996), i finanziamenti non erano a fondo perduto, ma andavano restituiti. Quindi, tutto sommato, si trattava di una partita di giro. Con gli ultimi due interventi invece questo obbligo è stato ampiamente cancellato: una cifra che oscilla fra il 70 e il 90 per cento della sovvenzione non rientra più nelle casse dello Stato. Insomma, una costosa cuccagna costruita dalla sinistra. Interrotta solo da alcuni provvedimenti del ministro Urbani varati nel 2004. Allora ci si accorse che non c’era più una lira e che bisognava mettere un freno alla sprecopoli di celluloide. Il mondo dello spettacolo se la legò al dito: fiaccolate e manifestazioni davanti al Parlamento in difesa della cultura. Minacciata ovviamente da Berlusconi e compagni. Quella descritta sin qui è solo una parte del danaro pubblico speso per il cinema. Ci sono poi tutti i finanziamenti per feste e festival: ormai sono centinaia. Le responsabilità della crisi sono inoltre da ricercare anche fra la critica militante e di sinistra, nonché fra alcuni personaggi politici super gettonati in questa fine estate. Un nome su tutti: Walter Veltroni.

Dal Lazio oltre 120 milioni ai film di sinistra. Dal 2013 a oggi finanziate le pellicole di Madia, Fedeli e Veltroni. Antonio Sbraga il 18 Ottobre 2018 su Il Tempo. Oggi parte la tredicesima edizione della «Festa del Cinema di Roma», ma in tutto il Lazio la settima arte è sempre al settimo cielo. E non solo per la storica presenza di Cinecittà, fondata 81 anni fa. Perché da 6 anni è attiva anche una nuova «CineRegione». Non ha studi di posa ma, grazie al suo ciak, si gira al mondo del cinema una media di 17 milioni e 714 mila euro all’anno da parte della Pisana. Il cui conto al box office è di ben 124 milioni negli ultimi 7 anni. «Circa 102 milioni di euro sono stati investiti dalla Regione Lazio a sostegno del settore del cinema e dell’audiovisivo dal 2013 al 2017. I finanziamenti hanno premiato interventi a favore della produzione, delle manifestazioni e delle strutture cinematografiche», sottolinea la Regione, che ha già stanziato altri 22 milioni per il biennio 2018-2019. Il Lazio si vanta così di essere «la prima regione in Italia per investimenti nel settore audiovisivo e seconda in Europa. Il 77% dei finanziamenti al cinema italiano sono produzioni del Lazio». Compreso il pruriginoso titolo «Cicciolina. L’Arte dello scandalo» della Alpenway Media Production GmbH, un documentario «vietato ai minori di 14 anni», al quale la Regione ha elargito un finanziamento, appunto, minore: 2.615 euro. Però ci sono stanziamenti per tutti: dai cinepanettoni («Natale a Londra», 114 mila euro) ai prestigiosi film premi Oscar («La Grande Bellezza» di Paolo Sorrentino, 315.895 euro). Ma è proprio una fiction firmata dall’immaginifico regista napoletano a toccare la cifra-record: un milione di euro. Anche se concesso solo in seguito alla «rivalutazione compiuta il 10 luglio 2018, in esecuzione della sentenza del Tar Lazio n. 3221/2018», la Regione ha comunque dovuto erogare il milione di euro di «contributo ammesso» a vantaggio della società ricorrente, la Wildside Srl, produttrice della serie televisiva italo-franco-spagnola, «The Young Pope», andata in onda sulla tv a pagamento Sky. Ma il colossal, interpretato da Jude Law e Diane Keaton, non è la sola fiction sovvenzionata dalla Regione e trasmessa da un canale televisivo privato. Ci sono anche «I Cesaroni 5», ad esempio, trasmessi da Canale 5, che hanno incassato dalla Pisana 445 mila euro. Anche se la parte del leone la fanno le serie targate Rai-fiction. A partire dalla più nota e venduta all’estero, «Il Commissario Montalbano», interpretata da Luca Zingaretti, fratello maggiore del presidente della Regione, Nicola (399.559 euro nel 2013 e 31.355 nel 2017). C’è anche «Il giovane Montalbano», quello interpretato da Michele Riondino, nell’elenco dei beneficiari, ma insieme a quasi tutti i film a puntate dell’emittente pubblica: «Don Matteo», «Rocco Schiavone», «Che Dio ci aiuti», «È arrivata la felicità», «Luisa Spagnoli», «L’ispettore Coliandro» e «Un medico in famiglia». Ma, nel ricco cartellone di «CineRegione», brillano anche...

I film di Veltroni sono una tassa. Cascate di fondi pubblici per i film tratti dai libri di Veltroni. Ma al botteghino fanno tutti flop. Alessandro Gnocchi, Domenica 27/01/2013 su Il Giornale. Veltroni sta diventando una vera e propria tassa umana. Non è colpa sua, in realtà. I responsabili della trasformazione di Walter da politico a imposta indiretta sono i registi innamorati dei suoi libri. La ormai ricca bibliografia dell’ex segretario democratico ispira infatti adattamenti cine­matografici lautamente sovvenzionati dallo Stato. Peccato siano investimenti in perdita, poiché gli spettatori evitano (si direbbe scientificamente) le sale in cui sono proiettate le pel­licole in questione. L’ultimo genito, La scoperta dell’alba , al botteghino ha in­cassato, al 14 gennaio, 47mila euro. Partito nel weekend d’apertura, quello decisivo, in diciasettesima posizione, at­tualmente ha fatto perdere ogni traccia di sé. Risultato imbarazzante a fronte dei fondi pubblici ottenuti, 550mila eu­ro elargiti dal Mibac per manifesto «interesse culturale» a cui si aggiunge un contributo non meglio specificato della Regione Lazio. Tratto dall’omonimo romanzo veltroniano, a suo tempo incensato da critici più abili con la lingua che con la penna, il film mescola corna e Brigate rosse, voci dal passato e un presente magico. Per inciso, quando uscì il libro, i più scatenati adulatori avvicinarono la prosa di Veltroni a quella di García Márquez e Borges per via del suo «realismo magico ». La regista Susanna Nicchiarelli, morettiana di ferro, già collaboratrice di Nanni nel Caimano , ha voluto come protagonisti Margherita Buy e Sergio Rubini, due pilastri della sinistra cinematografica, ma non è bastato. Non era andata meglio a Piano, solo di Riccardo Milani. Uscito nel 2007, si aggiudicò un finanziamento monstre di 1 milione e 945mila euro. I contributi furono deliberati nel 2005, anno in cui Walter Veltroni, allora sindaco di Roma, si batteva al fine di far nascere la sua creatura prediletta, la Festa internazionale del cinema. Il tappeto rosso verrà srotolato per la prima volta nel 2006. Sappiamo quale «rilevanza» abbia poi raggiunto la costosa manifestazione ora chiamata Festival internazionale del Film e diretta da Marco Müller. Comunque Piano, solo , fedele trasposizione del libro di Veltroni Il disco del mondo (2003), era la storia del talentuoso e tormentato pianista jazz Luca Flores. Evidentemente al ministero dei Beni culturali Piano, solo deve essere sembrata un’occasione d’oro, e quindi da coprire d’oro, per far rinascere l’industria cinematografica. Invece ha incassato 202mila euro nel primo weekend, terminando la corsa a quota 667mila. Non vi basta? C’è anche Veltroni l’africano del diario di viaggio Forse Dio è malato (2000). Nel 2005, annus mirabilis per le pellicole d’ispirazione veltroniana, parte il progetto per trasformarlo in film. Il Mibac mette subito a disposizione 300mila euro, tanto per gradire. Era più o meno il periodo in cui Walter vaneggiava di trasferirsi nel Continente nero a «svolgere un ruolo sociale». («Gira i tacchi e vai in Africa, Celestino», lo infilzò Francesco De Gregori in una canzone). Nel 2008 uscì l’omonimo docu-film di Franco Brogi Taviani, incentrato sull’Africa vista attraverso gli occhi dei bambini soldato, delle donne sieropositive, dei moderni schiavi. Ecco una recensione tra le tante, quella del frequentato sito MyMovies.it . Il film era «piuttosto deludente», «timido», «retorico ». L’Africa risultava «cartolinesca » e lasciava trasparire «una furbizia di fondo» che toglieva «genuinità al tutto». Fu distribuito in sei copie. Incassi non pervenuti. Ora Veltroni dice di essere fuori dalla politica e, se non diventerà presidente della Rai, come vuole il gossip, avrà un sacco di tempo libero per scrivere nuovi libri. Il che significa nuovi film e nuovi fondi pubblici gettati al vento. A proposito, il recente L’isola e le rose ha una storia quanto mai cinematografica. Vuoi che qualcuno non si sia già aggiudicato i diritti al fine di girare una pellicola sul Sessantotto libertario?

Francesco Borgonovo e Martino Cervo per "Libero" 29 dicembre 2011. Pensate come siamo fortunati: seppur in tempi di crisi e di dolorosa sobrietà, riusciamo a trovare il denaro necessario per finanziare le opere d'arte. E che opere: veri capolavori, invidiati in tutto il mondo. Per esempio il film tratto dal romanzo di Walter Veltroni, fondamentale prodotto dell'ingegno umano. Giovedì 22 dicembre si è riunita la Commissione per la cinematografia del ministero dei Beni culturali, la quale ha riconosciuto a nove film il prestigioso status di «interesse culturale». Una formula che, tradotta, significa soldi. Pubblici, se non fosse chiaro. Scorrendo il comunicato stampa ministeriale si scopre che tra le pellicole ritenute imprescindibili, tanto importanti da meritare l'obolo statale, c'è anche La scoperta dell'alba, perla regia di Susanna Nicchiarelli, a cui sono stati attribuiti la bellezza di 550mila euro. Del resto non si poteva fare altrimenti, stiamo parlando di un gioiello del nostro patrimonio culturale. Il film della Nicchiarelli, infatti, è tratto dall'omonimo libro di Veltroni, la sua prima opera narrativa di lungo respiro (in precedenza aveva vergato Senza Patricio, collezione di storielle stampata in carattere per ipovedenti onde occupare il maggior numero di pagine possibile). Un opus magnum accolto all'uscita, nel 2006, dal plauso incondizionato dell'intellighenzia di sinistra (non a caso a quei tempi Walter era segretario del Partito democratico). Concita De Gregorio, su Repubblica, si strappò i capelli per la gioia, spiegando che il torno veltroniano era un trionfo letterario, «un giallo, un noir, un thriller psicologico, un romanzo sugli anni di piombo, un racconto metafisico e forse onirico, una confessione autobiografica» tutto insieme. Il giallista Giancarlo De Cataldo, estasiato, sostenne che lo stile di Veltroni era paragonabile a Borges e che La scoperta dell'alba aveva una «fulminante conclusione». Sandro Veronesi avvicinò Walter al britannico Ian McEwan; Andrea Camilleri lo definì un narratore di «straordinaria qualità»; Dacia Maraini trovò affinità con Pirandello, Conrad e il regista Tarkovskij. Insomma, tutti erano d'accordo sul fatto che si trattasse di un vero colpo di genio, un classico delle patrie lettere. Come si poteva, quindi, non trasformarlo in film? Significativa, poi, la scelta della Nicchiarelli dietro la macchina da presa Costei è un'allieva di Nanni Moretti, dunque di provata fede progressista Ed è anche abituata al sostegno statale. Il suo lungometraggio Cosmonauta, presentato un paio di anni fa alla Mostra del cinema di Venezia, ottenne 725mila euro di finanziamento. Meritati, ovviamente: la pellicola raccontava la vita di una comunista impegnata nel Pci. Vuoi non sganciarle nemmeno una lira? Aggiungiamo poi che la casa produttrice di La scoperta dell'alba è - in collaborazione con Rai Cinema - la Fandango di Domenico Procacci, nota perla sua militanza (ha sfornato, negli ultimi tempi, un documentario sul G8 di Genova intitolato Black Bloc, ferocemente schierato contro la polizia). Grazie a Repubblica, sempre attenta all'esigenze del prode Walter, apprendiamo poi che il capolavoro gentilmente foraggiato dagli italiani si avvale di un cast strabiliante. Cioè gli attori che si trovano in qualunque film de sinistra che si rispetti: Margherita Buy, Sergio Rubini, il fumettista di gran moda Gipi...Anche la trama pare all'altezza delle aspettative, ricca di problematiche sociali. Così recita il sito di Rai Cinema: «Barbara, quarantenne precaria all'Università, e sua sorella minore Caterina, manager di uno scalcagnato gruppo musicale, si portano dietro nelle loro vite sgangherate il peso della sparizione del padre professore universitario, avvenuta nel 1981 presumibilmente per mano delle Br...». Ah, la presenza della precaria quarantenne e dell'artista alternativa ci tranquillizza, ora sappiamo che il denaro è ben speso, poiché destinato a sacrosante battaglie di civiltà. Il film sarà ulteriormente impreziosito da una colonna sonora d'eccezione, realizzata dalla band torinese Subsonica, la quale ha sfornato un singolo direttamente ispirato al libro veltronesco. In sostanza, a fianco dell'ex segretario del Pd è scesa in campo l'élite culturale progressista, pertanto il denaro dei contribuenti non si poteva non versare. Le famiglie che patiscono la stangata montiana saranno ben felici di sacrificarsi ulteriormente conoscendo il modo in cui viene speso il loro denaro. Per Veltroni, dopo tutto, il cinema è un'antica passione, coltivata fin dall'infanzia. E vari registi, negli anni passati, hanno pensato bene di assecondarla realizzando pellicole tratte delle sue pregiatissime opere letterarie. Nella relazione sull'utilizzazione del Fondo unico per lo spettacolo del 2005 leggiamo che Piano, solo di Riccardo Milani - tratto da Il disco del mondo. Vita breve di Luca Flores, musicista (libro veltroniano pubblicato da Rizzoli nel 2003) - ha ottenuto 1.945.000 euro di finanziamenti statali. Una marea di soldi. Peccato che nel primo weekend di programmazione nelle sale abbia incassato appena 202mila euro e dopo tre anni, nel 2008, aveva raggiunto la ragguardevole quota di 667mila euro. Nel medesimo documento del ministero si trova traccia di un altro finanziamento: 300mila euro a beneficio del documentario Forse Dio è malato, diretto da Franco Taviani e basato sull'omonimo saggio del bravo Walter. Facendo due conti, se ne deduce che i film tratti dai libri del politico democratico sono costati alle casse pubbliche 2 milioni e 795mila euro. Ecco perché Veltroni è sceso più volte in piazza per manifestare contro i tagli al Fondo unico per lo spettacolo: il suo era interesse culturale.

Ecco i film «veneziani» finanziati dallo Stato. A Martone, più di un milione. Soldi anche ad Abel Ferrara per Pasolini e ad altri 10. Pedro Armocida, Sabato 26/07/2014, su Il Giornale. I film italiani sono sempre meno alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica che aprirà i battenti al Lido di Venezia tra un mese. Quest'anno appena 23, l'anno scorso 34 e nel 2012 addirittura 52. Non è un discorso di qualità ma di dieta generale della manifestazione attuata dalla direzione di Alberto Barbera. A rimanere sempre alta però è la quota di film finanziati dallo Stato, ben 12 (compresi i tre delle sezioni parallele e autonome della Mostra, la Settimana Internazionale della Critica e le Giornate degli Autori). Un successo dal punto di vista del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e Turismo che si occupa dell'iter di selezione, un limite per chi crede che lo Stato non debba sovvenzionare il cinema. Comunque sia la ministeriale Direzione Generale per il Cinema fa l'ein plein nel concorso della prossima 71a edizione, che contribuisce a realizzare con 7,4 milioni di euro su un budget totale di 12, con quattro titoli finanziati su quattro battenti bandiera italiana: si va da Pasolini di Abel Ferrara, con Willem Dafoe nei panni del grande intellettuale, sostenuto con 350mila euro a Hungry Hearts di Saverio Costanzo girato a New York ma con 250mila euro italici a Anime nere di Francesco Munzi sulla criminalità calabra con 400 mila euro. Al primo posto, per l'impegno economico maggiore, si piazza però Il giovane favoloso di Mario Martone che ha ottenuto un milione e 250mila euro senza contare l'apporto altrettanto decisivo della Regione Marche che, giustamente, non si è fatta sfuggire l'occasione di contribuire al primo film sul suo poeta più grande, Giacomo Leopardi. Fuori concorso troviamo Perez di Edoardo De Angelis con Luca Zingaretti qui anche produttore che ha ottenuto 200mila Euro dalla commissione per le opere prime e seconde mentre Gabriele Salvatores per Italy in a Day - Un giorno da italiani ne ha ricevuti 350mila. La curiosità è che si tratta di un'opera di montaggio dal momento che è l'esperimento clonato da quello di Ridley Scott con l'utilizzo dei filmati inviati da singoli cittadini. Nell'altra sezione a concorso, Orizzonti, è approdato La vita oscena di Renato De Maria, con la moglie Isabella Ferrari come interprete, destinatario di 200mila euro proprio come Senza nessuna pietà , opera prima di Michele Alhaique, che ha un altro interprete e ora anche produttore d'eccezione come Pierfrancesco Favino. Conclude la lista Gian Luigi Rondi: vita, cinema, passione di Giorgio Treves che verrà presentato nella sezione Venezia Classici con appena 25mila euro. Più corposi i finanziamenti per I nostri ragazzi di Ivano De Matteo (450mila Euro) e per Patria di Felice Farina (200mila) che verranno presentati in concorso alle Giornate degli Autori, evento collaterale del festival organizzato da Anac e 100 Autori. Alla fine della fiera c'è Arance e martello di Diego Bianchi, lo "Zoro" televisivo di Rai Tre, scelto fuori concorso alla Settimana Internazionale della Critica che dal Ministero ha chiesto e ottenuto solo la classificazione di Interesse culturale che dà l'accesso a sgravi fiscali. C'è però anche chi ha deciso di fare completamente da solo. Si tratta dei tre registi Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry che per il loro film Io sto con la sposa , presentato fuori concorso in Orizzonti, sono ricorsi al crowfunding, riuscendo ad ottenere dal popolo della Rete (2500 donatori da tutto il mondo) quasi 100mila Euro, 25mila in più di quanto occorreva per concludere il documentario e che ora verranno investiti nella promozione. Complimenti!

Per Moretti e registi di sinistra pacchia finita: ridate i soldi. Annullato i finanziamenti pubblici per il gotha del cinema progressista: conto recita 250mila a testa. Riassegnare fondi 2006. Giampiero De Chiara su Libero Quotidiano il 7 Luglio 2011. Cosa accomuna Moretti, Bellocchio e Amelio? E poi Olmi, Tornatore e Sorrentino? Facile. Tutti sono registi. Sono tra i migliori in Italia. Oltre al successo dei loro film, hanno anche altro in comune. La militanza politica: sono esponenti della sinistra cosiddetta radical-chic e anti-berlusconiana, ma da ieri hanno qualcosa in più che li accomuna. Qualcosa, però, che non gli farà piacere. Devono restituire dei soldi presi con un premio cinque anni fa. Gli esponenti del miglior cinema nostrano sono fra le vittime, infatti, della sentenza dei giudici del Tribunale amministrativo del Lazio. Il Tar ha annullato i Premi di qualità, assegnati per il 2006, a dieci film dalla commissione del Ministero per i beni culturali. Dovranno restituire i 250 mila euro incassati per opere come “Il caimano”, “La sconosciuta”,  “Il regista di matrimoni”, “Centochiodi”, “L’amico di famiglia” e “La stella che non c’è”. Una sentenza, ancora appellabile, che vede coinvolti con loro anche molti loro collaboratori. Quei soldi ottenuti con il premio di cinque anni fa erano destinati per il 71% ai produttori e il restante 29% a registi, soggettisti, sceneggiatori, autori di musiche, fotografia, scenografia e montaggio. E se pensate che quasi tutti questi artisti oltre a dirigere il proprio film, lo producono, ne scrivono anche il soggetto e la sceneggiatura e qualcuno (vedi Moretti nel Caimano) lo interpreta anche capite che, se il provvedimento amministrativo dovesse essere confermato, dovranno restituire una bella cifra. Ma che cosa è successo? Perchè questa sentenza di un tribunale come il Tar interviene su un premio di qualità del Ministero dei Beni culturali? Alla base c’è il ricorso presentato da una casa di produzione: Luna Rossa. Quest’ultima si era vista negare il riconoscimento all’ultimo film di Mario Monicelli, Le rose del deserto. Nel ricorso si contestava la validità della dichiarazione dei giurati «di aver visto o di conoscere, comunque, tutte le opere concorrenti» che erano in totale 80. Ma è stato un decreto ministeriale a prevedere che, «la dispensa dall’obbligo di assistere alla proiezione dei film in concorso dei componenti che dichiarino di averli già visionati». Praticamente, secondo la casa di produzione a cui il Tar ha dato ragione, gli 80 film dovevano essere visti dai giurati tutti insieme in una unica sala e non ciascuno in proprio e in cassetta o dvd, come avvenuto e dichiarato finora. Quindi si ricomincia da capo. I giurati dovranno fare quello che non hanno fatto cinque anni fa. Assistere tutti quanti, non solo e di nuovo ai 10 film vincitori, ma anche agli altri 70 che concorrevano nel 2006 ai premi di qualità.  Un pastrocchio bello e buono che vede coinvolte alcune delle case di produzione, tra le più importanti in Italia. Tra i colpiti ci sono nomi altisonanti come Rai Cinema, coproduttrice, con quote di diversa entità, di quattro film (Il regista di matrimoni, Centochiodi, Nuovomondo di Emanuele Crialese La stella che non c’è) Fandango, con due (L’amico di famiglia e La terra di Sergio Rubini), Medusa per La sconosciuta, Cattleya con il film di Amelio, ma anche piccoli produttori indipendenti come la società di Moretti (Sacher Film). C’è chi non ci crede e si ribella e c’è chi la prende con filosofia e umorismo citando anche un recente film italiano di successo. «Sembra Immaturi (dove i protagonisti devono ripetere l’esame, di maturità, ndr)», commenta divertito, ma non troppo, Riccardo Tozzi, fondatore di Cattleya e presidente dell’Anica. Tra l’altro il produttore spiega che già sapeva che sarebbe successo qualcosa: «Infatti i premi di qualità sono finiti proprio in quell’anno. Dopo la presentazione del ricorso il ministero non li ha più assegnati. Io l’avevo capito subito che sarebbe andata così». E alla fine si concede anche una battuta. Per lui l’obbligo di ripetere la valutazione degli 80 film in gara, con i membri della commissione che dovranno vederli tutti insieme in una sala, sarà «un esperimento antropologico interessante». Giampiero De Chiara 

·         La Cultura della Legalità.

Lo strano senso della sinistra per la legalità. Andrea Indini il 4 agosto 2019 su Il Giornale. C’è una rom che augura al ministro dell’Interno di prendersi un proiettile in testa, che ammette di “aver rubato per tutta la vita”, che sconta gli arresti domiciliari in un campo nomadi abusivo alle porte di Milano e che vive in una villa in stile Gomorra “costruita – su ammissione del marito stesso – con soldi rubati”. E la sinistra che fa? Se la prende con Matteo Salvini (il destinatario della pallottola) perché definisce una “zingaraccia”. E ancora. Ci sono due tossiciamericani che arrivano da San Francisco con un coltellaccio da marine con una lama da 16 centimetri, che nelle notti romane cercano lo sballo chimico della cocaina, che non si fanno problemi a rubare uno zaino dopo essere stati abbindolati da uno spacciatore e che, beccati dai carabinieri, ne ammazzano uno con undici coltellate. E la sinistra che fa? Si preoccupa perché uno di loro è stato bendato durante l’interrogatorio e poi li va a trovare in carcere per assicurarsi che stiano bene. E ancora. C’è un’attivista (tedesca) che si mette al timone della nave di una ong(tedesca), che va a recuperare qualche decina di migranti irregolari fin davanti alle coste libiche, che li porta in Italia infrangendo una legge che dice chiaramente che non può farlo e che entra in porto speronando le motovedette della Guardia di Finanza. E la sinistra che fa? Organizza una colletta online per pagarle le spese legali. In un Paese serio, anziché perdere tempo in polemiche sull’Inno di Mameli suonato al Papeete Beach tra cubiste danzanti e vacanzieri scatenati, si farebbe quadrato per non permettere più a certa gente di vantarsi di “aver rubato tanto per costruirsi la casa” in cui vive, a certi scappati di casa di venire a sballarsi in Italia ritenendolo un Paese dove tutto è concesso e a certe ong di poter andare e venire infrangendo le nostre leggi grazie all’indulgenza di qualche giudice buonista. In un Paese serio, poi, ci si aspetterebbe che chi è coinvolto in certi scandali eviti di mettere le mani sulla commissione di inchiesta che dovrebbe far luce su crimini tanto nefandi come quelli commessi a Bibbiano. Anche perché questo spingerebbe i più a dubitare sull’esito finale di questi indagini visto che negli ultimi tempi la sinistra, da sempre manettara e giustizialista, sembra essersi riscoperta sempre più indulgente con i criminali. Un po’ come accadeva tempo fa, con i compagni che sbagliavano.

Da Greganti a Tangentopoli, il candore perduto a sinistra. Si ricordano le tracce di finanziamenti a D’Alema a Bari, di versamenti legati all’Enel con la condanna di Zorzoli e dei soldi per un ipermercato.  Mattia Feltri il 4/1/2006 su La Stampa. Il leasing di Massimo D’Alema alla Popolare di Lodi del furbetto Gianpiero Fiorani e le cameratesche conversazioni fra Piero Fassino e l’ex presidente di Unipol, Gianni Consorte, hanno riacceso un antico dibattito sulla diversità morale della sinistra, e in particolare degli eredi del Pci. Una diversità che Michele Serra ama codificare scientificamente in «superiorità antropologica», e che la base, delusa, cerca di rinvigorire scrivendo ai giornali e su Internet «non abbiamo bisogno di nostri Berlusconi». Ma il turbamento con cui i vertici diessini stanno vivendo questi giorni, e i toni di rivincita usati da un centrodestra per una volta spettatore, sembrano annunciare il crollo definitivo del mito sulla rettitudine progressista. Nemmeno l’incrollabile resistenza di Primo Greganti, che durante Mani pulite venne ripetutamente indagato, e anche incarcerato, e mai cambiò la versione secondo cui il denaro l’aveva preso per sé, e non per il partito, fu dannosa quanto gli eventi attuali; anzi, la tostaggine del «compagno G» fu ragione di tacito orgoglio, specie davanti alla piagnucolosa arrendevolezza dei carcerati preventivi di altri partiti. E, più meno allo stesso modo, la vicenda del miliardo di lire consegnato da Raul Gardini non fece traballare molte coscienze. Che il Pirata di Ravenna abbia portato la valigetta con la «stecca» al Partito comunista è dato per certo in diverse sentenze. Antonio Di Pietro pronunciò una delle sue frasi più celebri: «Ho seguito la tangente fin sul portone di Botteghe Oscure». Quel portone, però, Gardini lo varcò da solo. A chi abbia consegnato i quattrini, è un mistero irrisolvibile. Di Pietro spiegò: «La responsabilità penale è personale». E così, alla salvezza della fedina, corrispose la salvezza dell’anima. Eppure le ragioni per dubitare dell’innato candore diessino sono state riportate nei numerosi libri dedicati alle inchieste di Tangentopoli, e da autori piuttosto dissimili fra loro: Marco Travaglio, Filippo Facci, Andrea Pamparana, Giancarlo Lehner. Proprio Travaglio sostiene che una delle sue opere più enciclopediche («Mani pulite, la vera storia», Editori Riuniti) venne scartata dalla Feltrinelli perché conteneva il resoconto di un finanziamento illecito accettato da D’Alema nel 1985. Glielo girò Francesco Cavallari, conosciuto come il «re delle cliniche» baresi. Venti milioni di lire, confessò il re; qualcosa meno, precisò D’Alema, senza negare, in tempi in cui la prescrizione era maturata. Non furono tanto i denari a imbarazzare il partito, quanto la provenienza: Cavallari è stato condannato per associazione mafiosa, truffa e corruzione. Il «Mani pulite» di Travaglio (scritto con Gianni Barbacetto e Peter Gomez) contiene anche un capitolo dedicato a Piero Fassino. Il quale si interessò - senza mai neppure avvicinarsi a una violazione di legge - all’edificazione di un centro commerciale in provincia di Torino per il quale amministratori locali, anche del Pci-Pds, intascarono somme consistenti. Fra i protagonisti c’erano il solito Greganti e Aldo Brancher, oggi noto alle cronache come uno dei migliori amici in Parlamento di Fiorani. Quelle di un anno fa, invece, raccontano della parziale grazia concessa dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, a Giovanni Battista Zorzoli. Nel 1986, Zorzoli diventò consigliere d’amministrazione dell’Enel in quota al Pci, di cui è stato, fino al 1990, responsabile delle questioni energetiche. Venne poi condannato a quattro anni e sei mesi per le tangenti pagate all’azienda elettrica fra il 1986 e il 1992. Pure in questa circostanza non si ebbe modo di verificare se almeno una parte dei soldi fosse finita a Botteghe Oscure. Di storie se ne potrebbero raccontare a decine, sebbene la più clamorosa resti quella di Milano e della sua Metropolitana, attorno alla quale i comunisti spartirono con democristiani e socialisti palate di miliardi. Un ex funzionario Pci, Lodovico Festa (oggi editorialista del «Giornale»), anni dopo raccontò: «Anche subito prima di Mani pulite, nel partito si discuteva molto se la fetta di Roma dovesse essere maggiore di quella di Milano». Così come oggi si discute molto di una verginità forse ampiamente perduta.

Tangentopoli, così i pm salvarono il Pci. Fabrizio Cicchitto l'1 Marzo 2017 su Il Dubbio. Tutti i partiti prendevano finanziamenti “aggiuntivi”, ma, a differenza del Psi, Botteghe Oscure fu salvata. Si distrusse una intera classe politica. Prima vinse Berlusconi, poi fu fatto fuori anche lui. E oggi trionfa il populismo. L’Italia, nel ’ 92-’ 94, fu teatro di un’autentica rivoluzione- eversione che eliminò dalla scena per via mediatico-giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”, salvando però il Pci. Lo strumento di questa rivoluzione- eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica.  Qualora il pool di Mani Pulite avesse agito con la stessa determinazione e violenza negli anni 40 e 50 di quella messa in evidenza nel ’ 92-’ 94, allora De Gasperi, Nenni, Togliatti sarebbero stati incriminati e Valletta e Enrico Mattei sarebbero stati arrestati. Il finanziamento irregolare dei partiti e la collusione fra questi, i grandi gruppi pubblici e privati e relative associazioni ( in primis Fiat, Iri, Eni, Montecatini, Edison, Assolombarda, Cooperative rosse, ecc.) data da allora. In più c’era un fortissimo finanziamento internazionale: la Dc era finanziata anche dalla Cia, e il Pci in modo così massiccio dal Kgb che le risorse ad esso destinate erano più di tutte quelle messe in bilancio per gli altri partiti e movimenti. In una prima fase, la Fiat finanziava tutti i partiti “anticomunisti” poi coinvolse in qualche modo anche il Pci quando realizzò i suoi impianti in Urss. Per Enrico Mattei i partiti erano come dei taxi, per cui finanziava tutti, dall’Msi, alla Dc, al Pci, e perfino la scissione del Psiup dal Psi, e fondò anche una corrente di riferimento nella Dc con Albertino Marcora, partigiano cattolico e grande leader politico: quella corrente fu la sinistra di Base che ha avuto un ruolo assai importante nella Dc e nella storia della Repubblica. Fino agli anni 80 questi sistemi di finanziamento irregolare procedettero “separati” vista la divisione del mondo in due blocchi, poi ebbero dei punti in comune: nell’Enel ( attraverso il consigliere d’amministrazione Giovanni Battista Zorzoli prima titolare di Elettro General), nell’Eni ( la rendita petrolifera di matrice sovietica) e specialmente in Italstat ( dove veniva realizzata la ripartizione degli appalti pubblici con la rotazione “pilotata” fra le grandi imprese edili, pubbliche e private, con una quota fra il 20% e il 30% assegnata alle cooperative rosse). Per molti aspetti quello del Pci era il finanziamento irregolare a più ampio spettro, perché andava dal massiccio finanziamento sovietico al commercio estero con i Paesi dell’est, alle cooperative rosse, al rapporto con gli imprenditori privati realizzato a livello locale. Emblematici di tutto ciò sono le citazioni da tre testi: un brano tratto dal libro di Gianni Cervetti L’oro di Mosca ( pp. 126- 134), un altro tratto dal libro di Guido Crainz Il paese reale ( Donzelli, p. 33), il terzo estratto è da una sentenza della magistratura di Milano sulla vicenda della metropolitana. Così ha scritto Gianni Cervetti: «Nacque, credo allora, l’espressione “amministrazione straordinaria”, anzi “politica dell’amministrazione straordinaria”, che stava appunto a indicare un’attività concreta ( nomina sunt substantia rerum) anche se piuttosto confusa e differenziata. A ben vedere, poteva essere suddivisa in due parti. Una consisteva nel reperire qualche mezzo finanziario per il centro e le organizzazioni periferiche facendo leva su relazioni con ambienti facoltosi nella maniera sostanzialmente occulta cui prima ho accennato. In genere non si compivano atti specifici contro le leggi o che violavano norme amministrative precise, ma si accettavano o ricercavano finanziamenti provenienti da imprenditori non più soltanto vagamente facoltosi, ma disposti a devolvere al partito una parte dei loro profitti in cambio di un sostegno a una loro determinata attività economica. Tuttavia, in sistemi democratici, o pluripartitici, o a dialettiche reali – siano essi sistemi moderni o antichi, riguardanti tutto il popolo o una sola classe – pare incontestabile che in ogni partito coesistano i due tipi di finanziamento ed esista, dunque, quello aggiuntivo. Naturalmente – lo ripetiamo – di quest’ultimo, come del resto del primo, mutano i caratteri, le forme ed i contenuti a seconda dei partiti e dei periodi: anzi mutano i rapporti quantitativi dell’uno con l’altro, ma appunto quello aggiuntivo esiste in maniera costante. Comunque sia non c’è epoca, paese, partito che non abbia usufruito di fondi per i finanziamenti aggiuntivi. Sostenere il contrario significa voler guardare a fenomeni storici e politici in maniera superficiale e ingenua, o viceversa, insincera e ipocrita. Il problema, ripetiamo, lo abbiamo preso alla larga, e si potrebbe allora obiettare che aggiuntivo non corrisponda esattamente, e ancora, a illecito. Intanto, però, abbiamo dimostrato che il finanziamento aggiuntivo è storicamente dato e oggettivamente ineluttabile». Il fatto che anche il Pci, sviluppando la «politica dell’amministrazione straordinaria», accettava o ricercava finanziamenti provenienti da imprenditori «non più soltanto vagamente facoltosi ma disposti a devolvere al partito una parte dei loro profitti in cambio di un sostegno a una loro determinata attività economica» mette in evidenza che anche «nel caso del Pci il reato di finanziamento irregolare poteva sfociare in quello di abuso in atti d’ufficio o in corruzione o in concussione». Così ha scritto lo storico Guido Crainz: «È uno squarcio illuminante il confronto che si svolge nella direzione del Pci nel 1974, quando è all’esame del parlamento la legge sul finanziamento pubblico ai partiti. La discussione prende l’avvio dalla “esistenza di un fenomeno enorme di corruzione dei partiti di governo” ma affronta al tempo stesso con grande preoccupazione il pur periferico affiorare di “imbarazzi o compromissioni venute al nostro partito da certe pratiche”. L’approvazione della legge è esplicitamente giustificata con la necessità di garantirsi “una duplice autonomia…: autonomia internazionale ma anche da condizionamenti di carattere interno…. Non possiamo nasconderci fra noi il peso di condizionamenti subiti anche ai fini della nostra linea di sviluppo economico e, per giunta, per qualcosa di estremamente meschino” ( intervento di Giorgio Napolitano alla riunione della direzione del 3 giugno 1974)». «Nel dibattito non mancano ammissioni di rilievo. “Molte entrate straordinarie”, dice ad esempio il segretario regionale della Lombardia Quercioli, “derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione poi finisce per toccare anche il nostro partito” ( intervento di Elio Quercioli nella riunione della direzione del 1° febbraio 1973). È possibile cogliere in diversi interventi quasi un allarmato senso di impotenza di fronte al generale dilagare del fenomeno: di qui la decisione di utilizzare la legge per porre fine a ogni coinvolgimento del partito. Si deve sapere, dice armando Cossutta, “che in alcune regioni ci sono entrate che non sono lecite legittimamente, moralmente, politicamente. Questo sarà il modo per liberare il partito da certe mediazioni. Non chiudere gli occhi di fronte alla realtà ma far intendere agli altri che certe operazioni noi non le accetteremo più in alcun modo. Punto di riferimento deve essere l’interesse della collettività e faremo scandalo politico e una battaglia contro queste cose assai più di prima” ( intervento di Armando Cossutta alla direzione del 3 giugno 1974). È illuminante, questa sofferta discussione del 1974. Rivela rovelli veri e al tempo stesso processi cui il partito non è più interamente estraneo». La sentenza del tribunale di Milano del 1996 sulle tangenti della Metropolitana è molto precisa: «Va subito fissato un primo punto fermo: a livello di federazione milanese, l’intero partito, e non soltanto alcune sue componenti interne, venne direttamente coinvolto nel sistema degli appalti Mm, quanto meno da circa il 1987». Per il tribunale «risulta dunque pacifico che il Pci- Pds dal 1987 sino al febbraio 1992 ricevette quale percentuale del 18,75 per cento sul totale delle tangenti Mm una somma non inferiore ai 3 miliardi» raccolti da Carnevale e da Soave, non solo per la corrente migliorista ma anche per il partito. Carnevale coinvolse anche il segretario della federazione milanese, Cappellini, berlingueriano di stretta osservanza: «Fu Cappellini, segretario cittadino dell’epoca, ad affidarmi per conto del partito l’incarico che in precedenza aveva svolto Soave». La regola interna era quella che «dei tre terzi delle tangenti raccolte ( 2 miliardi e 100 milioni in quel periodo solo per il sistema Mm), due terzi dovevano andare agli “occhettiani”, cioè a Cappellini, un terzo ai miglioristi di Cervetti». Alla luce di tutto ciò è del tutto evidente che Berlinguer quando aprì la questione morale e parlò del Pci come di un “partito diverso” o non sapeva nulla del finanziamento del Pci oppure, per dirla in modo eufemistico, si espresse in modo mistificato e propagandistico. Orbene questo sistema dal quale ricevevano reciproco vantaggio sia i partiti, sia le imprese, e che coinvolgeva tutto e tutti, risultò antieconomico da quando l’Italia aderì al trattato di Maastricht e quindi tutti i gruppi imprenditoriali furono costretti a fare i conti con il mercato e con la concorrenza. Esistevano tutti i termini per una grande operazione consociativa, magari accompagnata da un’amnistia che superasse il sistema di Tangentopoli. L’amnistia ci fu nel 1989, ma servì solo a “salvare” il Pci dalle conseguenze giudiziarie del finanziamento sovietico, il più irregolare di tutti, perché proveniva addirittura da un paese contrapposto alle alleanze internazionali dell’Italia. Per altro verso, Achille Occhetto, quando ancora non era chiaro l’orientamento unilaterale della procura di Milano, nel maggio del ’ 92, si recò nuovamente alla Bolognina per “chiedere scusa” agli italiani. Occhetto invece non doveva preoccuparsi eccessivamente. Il circo mediatico- giudiziario composto da due pool, quello dei pm di Milano e dal pool dei direttori, dei redattori capo e dei cronisti giudiziari di quattro giornali ( Il Corriere della Sera, La Stampa, La Repubblica, l’Unità)mirava contro il Caf, cioè concentrò i suoi colpi in primis contro il Psi di Craxi, poi contro il centro- destra della Dc, quindi, di rimbalzo, contro il Psdi, il Pri, il Pli. Colpì anche i quadri intermedi del Pci- Pds, molte cooperative rosse, ma salvò il gruppo dirigente del Pci-Pds e quello della sinistra Dc. La prova di ciò sta nel modo con cui fu trattato il caso Gardini: è accertato che Gardini portò circa 1 miliardo, d’intesa con Cusani, alla sede del Pci avendo un appuntamento con Occhetto e D’Alema. Suicidatosi Gardini, Cusani è stato condannato per corruzione: il corrotto era dentro la sede di via delle Botteghe Oscure, ma non è mai stato identificato. Ha osservato a questo proposito Di Pietro: «Ecco, questo è l’unico caso in cui io arrivo alla porta di Botteghe oscure. Anzi, arrivo fino all’ascensore che porta ai piani alti… abbiamo provato di certo che Gardini effettivamente un miliardo lo ha dato; abbiamo provato di certo che l’ha portato alla sede di Botteghe oscure; abbiamo provato di certo che in quel periodo aveva motivo di pagare tangenti a tutti i partiti, perché c’era in ballo un decreto sulla defiscalizzazione della compravendita Enimont a cui teneva moltissimo». Di Pietro aggiunse: «Non è che potevo incriminare il signor nome: partito, cognome: comunista». Giustamente l’erede di quel partito, il Pds, lo elesse nel Mugello. Al processo Enimont il presidente del tribunale neanche accettò di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni. Analoga linea fu seguita nei confronti del gruppo dirigente della sinistra Dc: Marcello Pagani, ex coordinatore della sinistra democristiana, e di un circolo che ad essa faceva riferimento, fu condannato, avendo ricevuto soldi Enimont in quanto agiva, recita testualmente, la sentenza «per conto dell’onorevole Bodrato e degli altri parlamentari della sinistra Dc» ma essi potevano non sapere. Quella fu la grande discriminante attraverso la quale il circo mediatico- giudiziario spezzò il sistema politico, ne distrusse una parte e ne salvò un’altra: Craxi, il centrodestra della Dc ( Forlani, Gava, Pomicino e altri), Altissimo, Giorgio la Malfa, Pietro Longo, non potevano non sapere, il gruppo dirigente del Pci- Pds e quello della sinistra Dc potevano non sapere. È evidente che dietro tutto ciò c’era un progetto politico, quello di far sì che, venendo meno la divisione in due blocchi, il gruppo dirigente del Pds, magari con l’aiuto della sinistra Dc, finalmente conquistasse il potere. Il pool di Milano non poteva prevedere che, avendo distrutto tutta l’area di centro e di centro- sinistra del sistema politico, quel vuoto sarebbe stato riempito da quel Silvio Berlusconi che, pur essendo un imprenditore amico di Craxi, era stato risparmiato dal pool di Mani Pulite perché durante gli anni ’ 92-’ 94 aveva messo a disposizione della procura le sue televisioni. Non appena ( fino al 1993) il pool di Milano si rese conto che Berlusconi stava “scendendo in politica”, ecco che subito cominciò contro di lui il bombardamento giudiziario che si concluse con la sentenza del 2013. Ma anche il modo con cui fu trattato il rapporto del pool con i grandi gruppi finanziari editoriali Fiat e Cir, fu del tutto atipico e al di fuori di una normale prassi giudiziaria. Per tutta una fase ci fu uno scontro durissimo tra la Fiat e la magistratura, accentuato dal fatto che a Torino il procuratore Maddalena agiva di testa sua. Poi si arrivò alla “pax” realizzata attraverso due “confessioni” circostanziate, attraverso le quali la Fiat e la Cir appunto “confessarono” di aver pagato tangenti perché concussi da quei “malvagi” dei politici. Così il 29 settembre del 1992 Cesare Romiti andò a recitare un mea culpa dal cardinale Martino: «Come cittadini e come imprenditori non ci si può non vergognare, di fronte alla società, per quanto è successo. E io sono il primo a farlo. Io sono stato personalmente scosso da questi avvenimenti. No, non ho paura di dirlo. E di fronte al cardinal Martini, la più alta carica religiosa e morale di Milano, non potevo non parlarne». Qui interveniva l’autoassoluzione. Infatti, secondo Romiti, la responsabilità era della classe politica che «ha preteso da cittadini e imprese i pagamenti di “compensi” per atti molto spesso dovuti». Possiamo quindi dire che l’Italia, unico paese dell’Occidente, nel ’ 92-’ 94 fu teatro di un’autentica rivoluzione- eversione che eliminò dalla scena per via mediatico- giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”. Lo strumento di questa rivoluzione- eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica, con una conseguente perdita di consensi. Il fatto che, a 10 anni di distanza, una parte di quei dirigenti fu assolta non servì certo a recuperare i consensi politico elettorali perduti. La conseguenza di tutto ciò sono state due: una perdita crescente di prestigio di tutti i partiti, anche di quelli che furono “salvati” dal pool, una parcellizzazione della corruzione tramutatasi da sistemica a reticolare ( una miriade di reti composte da singoli imprenditori, singoli burocrati, singoli uomini politici), l’esistenza di un unico sistema di potere sopravvissuto, quello del Pci- Pds, che a sua volta ha prodotto altre vicende, dal tentativo di scalata dell’Unipol alla Bnl, alla crisi del Mps. Di qui la conseguente affermazione di movimenti populisti e di un partito protestatario la cui guida è concentrata nelle mani di due persone, il crescente discredito del parlamento sottoposto a un bombardamento giudiziario realizzato anche da chi ( vedi Renzi) pensa in questo modo di poter intercettare a suo vantaggio la deriva dell’antipolitica. Ma è una operazione del tutto velleitaria, perché le persone preferiscono la versione originale del populismo e non le imitazioni. Perdipiù i grillini, cavalcando la guerra alla “casta” – inventata da due giornalisti del Corriere della Sera e sostenuta da un grande battage pubblicitario – cavalcano di fatto la manovra diversiva posta in essere da banchieri e manager, proprietari dei grandi giornali, per deviare l’attenzione dalle loro spropositate retribuzioni e liquidazioni: i circa 100 mila euro annui dei parlamentari servono a far dimenticare i 2- 3 milioni di euro che il più straccione dei banchieri guadagna comunque, anche se porta alla rovina i correntisti della sua banca. Di tutto ciò traiamo la conseguenza che il peggio deve ancora arrivare.

·         La Cultura della Legalità e dell'Antimafia.

Libera, da gestione beni confiscati a finanziamenti alle coop, ecco tutti i fronti della guerra interna all’Antimafia. L'attacco del pm anticamorra Catello Maresca all'associazione fondata da Don Ciotti è solo l'ultimo capitolo di una lunga querelle. Al centro della polemica c'è la torta da 30 miliardi dei beni sequestrati alle associazioni criminali: l'accusa di Maresca, che ricalca quella del prefetto Giuseppe Caruso, è che vengono amministrati dalla galassia legata a Libera "in regime di monopolio". Nando Dalla Chiesa: "Non è vero". Giuseppe Pipitone il 19 gennaio 2016 su Il Fatto Quotidiano. L’ultimo attacco è arrivato da Catello Maresca, stimato pm anticamorra, che ha accusato Libera di aver acquisito “interessi di natura economica”. “Gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”, è stato il j’accuse del magistrato, che ha ricevuto a sua volta la promessa di una querela da parte di don Luigi Ciotti. Due mesi prima l’associazione guidata dal sacerdote torinese era invece finita sotto il fuoco incrociato delle polemiche dopo l’addio di Franco La Torre, il figlio di Pio, il senatore del Pci assassinato da Cosa nostra, ideatore della legge che introduce la confisca dei beni ai boss mafiosi. “Mi hanno cacciato con un sms, don Luigi è un personaggio paternalistico, a tratti autoritario”, aveva detto La Torre, lamentando una carenza di democrazia dentro Libera, dove “qualcosa non va nella catena di montaggio”. Sono solo gli ultimi due fronti aperti intorno all’associazione fondata nel 1995 dal leader del Gruppo Abele, ma sono anche gli ultimi due episodi di una violenta guerra intestina esplosa nel mondo dell’Antimafia.

Il casus belli? 30 miliardi di beni confiscati a Cosa nostra – Prima ci sono state le querelle tra la stessa Libera e il Movimento 5 Stelle per la questione della spiaggia di Ostia, le dimissioni da direttore dell’associazione di Enrico Fontana a causa di un incontro con due politici finiti nell’inchiesta su Mafia Capitale, le indagini che hanno colpito alcuni tra i principali presunti frontman delle legalità tra magistrati e imprenditori e una torta da trenta miliardi di euro che sembra essere diventata il vero casus belli della faida a colpi di accuse e veleni che ha travolto la galassia dell’antimafia. A tanto ammonta il valore che hanno oggi i beni sequestrati dallo Stato alle associazioni criminali: un vero e proprio tesoro, che immesso nel mondo delle coop e delle associazioni antimafia sembra averlo corroso dall’interno. Appena un anno fa, il ministro Angelino Alfano aveva nominato Antonello Montante tra membri del comitato direttivo dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che gestisce 10.500 immobili, più di 4.000 beni mobili e circa 1.500 aziende. Poi dopo essere finito indagato per concorso esterno a Cosa nostra, il numero uno di Confindustria Sicilia si è autosospeso dalla carica.

Gli uomini d’oro – Ed è proprio all’interno dell’Agenzia dei beni confiscati che si consuma il primo strappo sul fronte della lotta a Cosa nostra: è il 5 febbraio del 2014 e il prefetto Giuseppe Caruso, all’epoca al vertice dell’Agenzia, viene ascoltato dalla commissione Antimafia. E in quella sede ribadisce le sue accuse agli uomini d’oro, e cioè gli amministratori giudiziari, sempre gli stessi, nominati dal tribunale per gestire i beni sequestrati in cambio di parcelle a sei zeri. “Queste sono affermazioni gravi. Se non sono sue, signor prefetto, lei deve fare una smentita ufficiale molto seria e vedersela con il giornale e con i giornalisti”, lo redarguì la presidente di San Macuto Rosi Bindi, accusandolo di delegittimare le istituzioni con le sue affermazioni. La rivincita per Caruso arriverà solo un anno e mezzo dopo, quando l’inchiesta della procura di Caltanissetta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, svela l’effettiva esistenza di un cerchio magico fatto di favori e prebende all’ombra dei beni confiscati ai boss.

Una holding da 5 milioni – In quei giorni era stato lo stesso Luigi Ciotti a lanciare l’allarme: “L’antimafia – aveva detto – è ormai una carta d’ identità, non un fatto di coscienza. Se la eliminassimo, forse sbugiarderemmo quelli che ci hanno costruito sopra una falsa reputazione”. Adesso, invece, è proprio Libera ad essere finita al centro delle polemiche, con la Bindi che anche in questo caso ha difeso a spada tratta il sacerdote torinese, definendo “ingiuriose” le parole di Maresca. Una è l’accusa principale che viene rivolta a Libera: essersi trasformata da associazione nata per guidare la riscossa della gente perbene contro Cosa nostra a holding che gestisce bilanci milionari, progetti, incarichi, finanziamenti. E in effetti, basta dare uno sguardo ai numeri per rendersi conto che oggi Libera è molto cresciuta: a vent’anni dalla sua fondazione, è ormai una galassia che raccoglie oltre 1.500 associazioni, gestisce 1.400 ettari di terreni confiscati ai boss e ha un fatturato che supera i 5 milioni di euro all’anno. “È stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si è auto-attribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. Personalmente sono contrario alla sua gestione: la ritengo pericolosa”, è uno dei tanti passaggi della discussa intervista del pm Maresca. “Non so a che titolo Maresca abbia detto queste cose: holding dell’antimafia? Non esiste. Da anni si dice che l’antimafia si spacca ma invece il movimento antimafia scoppia di salute. Anche il dato che Libera occupi militarmente uno spazio in monopolio non corrisponde al vero”, dice Nando Dalla Chiesa, presidente onorario di Libera. “Si fa un gran parlare di finanziamenti che in certi casi sono davvero ridicoli, si parla di grandi numeri ma quanti dipendenti fissi ha davvero Libera?- continua il sociologo –  La verità è che mentre il movimento antimafia continua  a crescere nelle scuole è scoppiata questa "moda" di sparare sul mondo dell’antimafia, su Libera negli ultimi tempi, un copione già ampiamente visto negli anni ’80, purtroppo”.

L’Antimafia indaga sull’antimafia – “Libera per la gestione dei beni confiscati non riceve contributi pubblici. Libera gestisce solo sei strutture tra cui un piccolissimo appartamento a Roma”, ha invece spiegato lo stesso Don Ciotti alla commissione Antimafia. Il nodo fondamentale, manco a dirlo, è rappresentato dai beni confiscati a Cosa nostra, quel tesoro da trenta miliardi che Libera, in effetti, non gestisce direttamente (se non in qualche caso): è un fatto, però, che una grossa fetta della ricchezza sottratta ai boss mafiosi è assegnata a cooperative e associazioni che fanno tutte parte della galassia di don Ciotti. E sono le stesse associazioni e coop che quindi vincono i bandi, presentano progetti e ricevono finanziamenti per gestire quei beni. L’ultimo esempio? Il Pon Sicurezza da 1,4 milioni di euro per migliorare la gestione dei beni vinto dal Consorzio Sviluppo e legalità, che raggruppa alcune cooperative antimafia della provincia di Palermo. È a questo che riferiva Maresca nel suo j’accuse? E non sarebbe stato a questo punto il caso di sentire anche il pm a Palazzo San Macuto? Da dicembre, infatti, i parlamentari dell’Antimafia sono impegnati in un’indagine quasi paradossale: approfondire limiti e contraddizioni del vasto insieme che negli ultimi anni si è auto posizionato in prima fila nella lotta per la legalità. Come dire che se il 2015 passerà alla storia come l’annus horribilis dell’antimafia il 2016 potrebbe essere invece l’anno zero di quello stesso mondo che negli ultimi dodici mesi è finito divorato da indagini, veleni e polemiche al vetriolo.

Antimafia s.p.a. Così la legalità è diventata un business. L’Inkiesta il 13 maggio 2016. Centinaia di migliaia di euro per organizzare manifestazioni anti criminalità. Soldi per le associazioni. Soldi per chi si costituisce parte civile. Perfino soldi per campi di calcetto “antimafia”. La lotta per la legalità è (anche) una enorme lotta ad accaparrarsi danari pubblici. I più gettonati sono i nomi di Falcone e Borsellino. Per costituire un’associazione antimafia intitolata ai magistrati uccisi da Cosa Nostra non serve impegnarsi molto. Si sceglie un nome, solitamente quello di una vittima della criminalità organizzata. Si aggiungono magari le parole mafia, mafie o legalità. Si compilano uno statuto e un atto costitutivo, e ci si iscrive nei registri locali. Secondo il libro Contro l’antimafia di Giacomo Di Girolamo, in Italia le associazioni antimafia iscritte nei registri dei comuni e delle regioni sono circa 2mila. A queste poi si aggiungono le fondazioni, i comitati e gli enti di promozione sociale. Il fenomeno, negli anni, è esploso. Sul modello di “Libera” (l’unica associazione antimafia iscritta nel registro nazionale del ministero del Lavoro per le attività di promozione sociale), che coordina a sua volta 1.500 associazioni, da Nord a Sud sono spuntati nomi e sigle di ogni tipo. Una galassia di onlus che accedono al cinque per mille, comitatini e coordinamenti, attraverso i quali circolano milioni e milioni di euro. Distribuiti in mille rivoli, tra finanziamenti nazionali e locali, bandi e progetti nelle scuole. E la rendicontazione delle spese, spesso, è tutt’altro che trasparente. Così come i bilanci delle associazioni: introvabili nella maggior parte dei casi. In nome dei progetti antimafia si aprono porte e portoni, si elargiscono soldi per convegni e manifestazioni. Accanto alle associazioni serie che l’antimafia la fanno seriamente, sono nati gruppi e comitati che si fanno guerra per accaparrarsi un finanziamento pubblico o andare a parlare tra i banchi delle scuole. Così la legalità diventa un brand. «Spesso si fa entrare nelle scuole gente improbabile, che nasce dal nulla inventandosi un profilo da persona che combatte la mafia, magari dopo aver fatto da maggiordomo a qualche magistrato, facendosi vedere con lui per un paio di mesi. Iniziando a girare per le scuole si intrufola, si inventa un mestiere e comincia a chiedere dei soldi», ha raccontato la scorsa estate il neoprocuratore di Catanzaro Nicola Gratteri durante una manifestazione a Villa San Giovanni. «Ai politici, regionali, provinciali e comunali dico di non dare soldi alle associazioni antimafia: mettetevi in rete, create un fondo comune, fate dei protocolli con i provveditori agli studi e predisponete delle graduatorie degli insegnanti precari... Mi si dice che per far questo c’è bisogno di soldi. Ma i soldi ci sono, so di progetti costati 250.000 euro. Non è etico, non è morale, non è giusto. In nome di gente che è morta, che è stata uccisa, non è giusto che si spendano 250.000 euro per una manifestazione antimafia».

Campi da calcetto per combattere le mafie. Solo dal Programma operativo nazionale sicurezza (Pon) del ministero dell’Interno, finanziato dall’Europa, tra il 2007 e il 2013 sono arrivati tra Calabria, Campania, Puglia e Sicilia più di 538 milioni di euro da destinare alla “diffusione della legalità”. Di cui oltre 122 milioni finiti nella costruzione di case dei diritti e centri di aggregazione, ma soprattutto di campi da calcio a cinque e “campi polivalenti”. A suon di dotazioni da mezzo milione di euro, si finanziano prati e porte anche nei paesini più piccoli del meridione. A quanto pare non c’è miglior arma del calcio per combattere le mafie. Sul fronte del miglioramento dei beni confiscati, dal Viminale sono arrivati invece quasi 70 milioni di euro, e poco più di 14 milioni sono andati nel contrasto al racket. E per 2014-2020 il Pon legalità disporrà di altri 377 milioni di euro. Poi ci sono i fondi Por, quelli regionali. Solo in Calabria, tra il 2012 e il 2015, quasi 8 milioni di euro sono stati distribuiti alla voce “legalità”. Altra fonte da cui attingere è il fondo per le vittime di mafia del Viminale. Nel 2015 sono arrivate 1.106 istanze di accesso – il 13% in più rispetto all’anno precedente. Nella relazione annuale, dal ministero fanno notare l’incremento delle richieste arrivate da associazioni ed enti: 497 in tutto, il 45 per cento del totale. Un’inversione di tendenza, si legge, che «ha generato una riflessione al fine di realizzare finalità di trasparenza e affidabilità dei potenziali beneficiari». Solo dalla Sicilia in un anno sono partite 822 richieste, con un incremento di quasi il 40% rispetto all’anno passato. Non tutte le istanze vengono accettate, è chiaro. Ma solo nel 2015 sono state adottate 645 delibere per un importo complessivo di oltre 56 milioni di euro. La somma più alta degli ultimi anni. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti. Ci sono associazioni che lo fanno per mestiere, magari collezionando sedi in tutta Italia per incassare qualche gruzzolo nei processi che si celebrano da Nord a Sud. Solo nel processo “Mafia Capitale” di Roma, 41 richieste sono state bocciate e 23 accolte. La stessa Federazione antiracket italiana di Tano Grasso, rappresentata in aula dall’avvocato Francesco Pizzuto, al processo “Infinito” di Milano dalla costituzione parte civile ha portato a casa 50mila euro, finiti nelle casse dell’associazione per finanziare le attività che svolge. La Fai, come altre associazioni, gira l’Italia dei tribunali per verificare se gli imputati dei processi abbiano arrecato “un danno effettivo e rilevante subito in qualità di associazione da anni presente ed attivamente operante sul territorio contro le mafie”. Tra le tante c’è anche Libera, che dalla nota integrativa del bilancio 2015 sull’anno 2014 riporta il maxi risarcimento ottenuto a Reggio Calabria al termine del processo “Meta”: 500mila euro confermati dalla sentenza passata in giudicato il 12 febbraio 2015. Denari che l'ufficio legale, si legge sempre nella nota integrativa «vengono reimpiegati per l’assistenza legale ai familiari delle vittime di mafia e ai testimoni di giustizia». Il problema, però, è che in molti casi il mafioso imputato di turno non ha conti in banca né grandi proprietà a lui intestate (basta pensare che in alcuni casi ricorrono al gratuito patrocinio), e quindi a pagare i risarcimenti è lo Stato, attraverso il fondo per le vittime di mafia. Ma anche i processi per mafia sono diventati una macchina per incassare soldi. Come? Costituendosi parte civile, e quindi puntando ai lauti risarcimenti.

La gestione “allegra” dei soldi. Di soldi, insomma, nell’antimafia ne circolano molti. E non sempre finiscono alla lotta contro i boss. Prima del caso di Pino Maniaci, direttore dell’emittente antimafia Telejato indagato per estorsione, un altro duro colpo per l’antimafia civile era arrivato dalla vicenda di Rosy Canale. Diventata un nome e un volto noto della lotta alla ‘ndrangheta per le sue campagne (poi diventate anche spettacoli teatrali) in favore delle donne di San Luca, è stata condannata a quattro anni di carcere per aver fatto un uso «personale» dei fondi destinati al movimento. Anziché utilizzare i soldi ricevuti per creare opportunità sociali e lavorative per le donne nel piccolo paese reggino da sempre nella morsa della ‘ndrangheta, con quei quattrini la Canale avrebbe comprato due macchine, una per sé e una per la figlia, e prenotato vacanze. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto». Nell’ordinanza di custodia cautelare, il giudice scrive: «Fa certo riflettere che persone che si presentano come paladini della giustizia finiscano con l’utilizzare scientemente l’antimafia per malversazioni di denaro pubblico e vere e proprie attività fraudolente. Non controllare simili ambiti del sociale è forse peggio che rimanere scarsamente attivi nel contrasto alla criminalità mafiosa». Ma non è l’unico caso. A Reggio Calabria, i magistrati stanno indagando anche sulle spese di Claudio La Camera, fondatore e per molto tempo anche presidente dell’associazione Antigone-Museo della ‘ndrangheta, e in quanto tale destinatario tra il 2007 e il 2012 di circa 800mila di euro di finanziamenti pubblici. Secondo gli inquirenti questi soldi sarebbero finiti a finanziare progetti e spese private. Comprese mollette per il bucato, oggetti di modellismo e un pollo di gomma per cani. Con La Camera sono finiti sul banco degli indagati anche i dirigenti regionali, compreso l’ex governatore Giuseppe Scopelliti, e gli assessori della sua giunta, che hanno firmato le delibere con cui sono stati elargiti i soldi pubblici. Lo scorso febbraio, poi, il Corriere della Calabria ha spulciato tra i conti del Coordinamento nazionale Riferimenti, nota associazione calabrese guidata da Adriana Musella, figlia di Gennaro, l’ingegnere salernitano saltato in aria a Reggio Calabria nel maggio del 1982 insieme alla sua auto. Tra soldi pubblici e donazioni private, solo nel 2011 nelle casse dell’organizzazione promotrice del simbolo della gerbera gialla sarebbero entrati oltre 270mila euro. Dalle carte, secondo quanto riporta il giornale calabrese, emergerebbero acquisti di magliette in numero spropositato, fiori costati migliaia di euro, compensi a figli e parenti, rimborsi per viaggi, alberghi e ristoranti, spese in cellulari, ma soprattutto poche attività sul territorio, se non qualche convegno istituzionale sulla ‘ndrangheta e una “settimana bianca dell’antimafia” a Folgaria, in Trentino. La presidente ha smentito tutto e minacciato querele, ma alla richiesta de Linkiesta di consultare i bilanci, l’associazione non ha risposto. Anche la Corte dei conti più di una volta ha messo il naso nei conti dell’antimafia, denunciandone la scarsa trasparenza. Solo a Napoli, da gennaio 2014 i giudici contabili stanno passando al vaglio l’assegnazione, definita «arbitraria», di oltre 13 milioni fondi pubblici a favore di un gruppo di associazioni antiracket che sarebbero state privilegiate a discapito di altre. Quando la madre le dice al telefono «Figlia mia, stai attenta a come spendi quei soldi, non sono tuoi ma dell’associazione», Rosy Canale risponde «Me ne fotto».

Beni confiscati, gioie e dolori. L’altro tesoretto dell’antimafia sono i beni sequestrati ai boss. Un pacchetto di 10.500 immobili in tutta Italia e circa un migliaio di aziende, che fa gola a molti. E il cui recupero e ridestinazione, una volta confiscati, è un processo costellato di opacità. Dai fondi Pon è arrivata anche la somma che sta finanziando il nuovo cervellone informatico dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: un sistema da 13 milioni di euro che inizia a mostrare le crepe nel processo di gestione dei beni. Anzitutto, non si conosce il valore economico di case e aziende appartenute ai malavitosi. Un dato su cui, fanno sapere dal ministero della Giustizia, si è in cerca «di una soluzione». La pubblica amministrazione, da parte sua, sconta molte opacità nella gestione, o quantomeno nella comunicazione dell’uso reale di questi beni da parte dei comuni. Il ministero della Giustizia se ne lamenta nella relazione che ha presentato al Parlamento lo scorso febbraio. Basta dare un occhio ai numeri: su 552 beni destinati a finalità istituzionali, ben 293 sono stati classificati dagli enti locali come “altro”, nonostante una nutrita possibilità di scelta da ambiti che spaziano dalle emergenze abitative agli uffici comunali, passando per scuole, infrastrutture, uffici giudiziari e perfino canili. Un deficit di trasparenza che rende complicato comprendere il vero ruolo che questi beni ricoprano una volta finiti sotto il controllo degli enti ocali. D’altronde, proprio il 12 maggio, i Carabinieri di Licata hanno sequestrato un terreno confiscato alla mafia e assegnato da anni allo stesso Comune: sul terreno erano stati abbandonati rifiuti speciali. Senza dimenticare che i beni confiscati spesso e volentieri restano pure nelle mani boss. Secondo un’indagine a campione della Direzione investigativa antimafia (Dia), più di 1.300 immobili confiscati in via definitiva risultano occupati. In trecento di queste case abita ancora il mafioso o la sua famiglia. Per non parlare dell’inchiesta che coinvolge Silvana Saguto, ex presidente della sezione delle misure di prevenzione del tribunale di Palermo, quella che si occupa di nominare gli amministratori giudiziari delle aziende confiscate. Dalle mani del magistrato, per anni simbolo della buona gestione, negli anni sarebbero passati beni tra i 40 e 60 miliardi di euro. Secondo la procura di Caltanissetta, la Saguto però avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini. Compreso il marito. Una vicenda che tra l’altro ha fatto emergere un’altra falla nel sistema: il fantasma dell’albo degli amministratori giudiziari dei beni confiscati alla mafia, istituito nel 2009 e di fatto mai entrato a regime. Secondo la procura di Caltanissetta, il magistrato Silvana Saguto avrebbe attuato una «gestione a uso privato dei patrimoni sotto sequestro», affidandoli al solito giro di amministratori vicini, compreso il marito. Fino a qualche tempo fa, però, non si andava oltre la punzecchiatura. Associazioni più o meno grandi e piccole, in lizza per accaparrarsi finanziamenti e beni confiscati, si colpivano a vicenda. Poi le schermaglie politico-economiche e le accuse di veri e propri cartelli per la gestione dei beni e la destinazione di fondi sono arrivate anche nel campo dell’antimafia. E a inizio anno sono scesi in campo i pesi massimi della lotta al crimine organizzato, in toga e non. Nel novembre 2015 Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, all’assemblea di Libera aveva fatto notare l’assenza di posizioni dell’associazione su “Mafia Capitale” e soprattutto sulle indagini che avevano coinvolto il presidente regionale di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, ex paladino dell’antimafia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa, e il magistrato Silvana Saguto. Poi a gennaio La Torre viene «cacciato con un sms». «Se don Luigi Ciotti (fondatore di Libera, ndr) non la pensa come me, allora», specificava La Torre, «dobbiamo confrontarci, anche litigando se necessario, ma il confronto diretto è fondamentale per la democrazia». Un confronto che non è mai arrivato. A inizio anno ha rincarato la dose il pm di Napoli Catello Maresca. In un’intervista rilasciata a Panorama parlò di «monopolio» di Libera sulla gestione dei beni confiscati. Don Luigi Ciotti non la prese bene: «Noi questo signore lo denunciamo: le sue dichiarazioni a Panorama sono sconcertanti», disse. «È in atto una semplificazione che vuole demolire il percorso di Libera con la menzogna». D’altronde che l’associazione di don Ciotti, nata nell’ormai lontano 1995 abbia fatto il pieno dei beni confiscati non è un mistero. Il conto aggregato di tutte le associazioni “figlie” di Libera, in tutto sei, tocca i 10 milioni di euro, e una gran parte dei beni e dei terreni confiscati sono finiti a cooperative affiliate. La difesa di Libera è arrivata in una delle prime audizioni del ciclo che la commissione parlamentare antimafia ha dedicato, sembra quasi un paradosso, al tema dell’antimafia: «Libera non gestisce le cooperative, ma le promuove». Cooperative e sponsor che non sempre sono stati irreprensibili. Un caso su tutti, che mostra un gigantismo difficile da gestire, è stata la vicinanza della Cpl Concordia, che nel luglio 2015 ha visto il presidente finire in manette in seguito a un’inchiesta proprio della Dda partenopea. La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia.

L’antimafia della mafia. E la mafia non se ne sta a guardare, mentre i quattrini dell’antimafia circolano indisturbati per costruire campetti da calcio, ristrutturare ville e organizzare convegni. Ci sono associazioni che, spenti i riflettori, fanno affari con le cosche. E politici che la sera sfilano in nome dell’antimafia e il mattino dopo stringono accordi elettorali con le ‘ndrine. Come l’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, paladino della lotta alle cosche che sarebbe stato eletto proprio con i voti della ‘ndrangheta. Lo racconta anche il pentito Luigi Bonaventura: «La ‘ndrangheta studia a tavolino, in modo scientifico, la possibilità di creare o avvicinare le associazioni antimafia esistenti per continuare i propri interessi. È una strategia». Lo stesso senatore Pd Stefano Esposito, membro della Commissione antimafia, nella sua relazione sulla presenza della criminalità a Ostia ha parlato di «sedicenti associazioni antimafia» i cui «membri sono quantomeno sospetti nel loro modo di svolgere l’attività». Con «modalità operative simili, nei modi e nei comportamenti, alle famiglie malavitose».

·         La cultura della Solidarietà.

Così le associazioni cattoliche e la sinistra si spartiscono il business dell’immigrazione. Francesca Totolo su Il Primato nazionale il 2 Maggio 2018. Da anni assistiamo ad una curiosa convergenza di interessi riguardante la questione migratoria tra le più importanti associazioni religiose cattoliche italiane e le associazioni laiche spesso radicali e distanti dalla dottrina cristiana. Come dei moderni Don Camillo e Peppone non più in lotta, ma pacificati per combattere una battaglia comune. Questa inchiesta chiarirà le motivazioni che hanno spinto i santi e i profani a stringere alleanze così strette. Non dimenticando che si avvicinano le dichiarazioni dei redditi e la relativa destinazione dell’8×1000. Caritas Italiana ha realizzato una sezione apposita per la questione migratoria: Caritas InMigration. Nasce con l’obiettivo di realizzare un canale unitario di comunicazione sul tema delle migrazioni ed essere un punto di riferimento per quanto concerne la conoscenza di tale fenomeno. E quindi per indottrinare i fedeli “promuovendo l’uso di una terminologia esatta”. Caritas In Migration si avvale di un network formato da diverse associazioni per meglio affrontare l’immigrazione in Italia: le sorosiane Amnesty International, Oxfam, ARCI, ASGI, CIR Rifugiati di Roberto Zaccaria e Medici per i Diritti Umani (MEDU), le cattoliche ACLI, Fondazione Migrantes della CEI, il gesuita Centro Astalli e Comunità di Sant’Egidio (analizzati in seguito), e poi Emergency, Medici Senza Frontiere, Save The Children. I progetti di Caritas per sostenere i migranti sono otto.

Il progetto “Protetto. Rifugiato a casa mia – Corridoi umanitari” parte dal corridoio umanitario promosso dalla Conferenza Episcopale Italiana (Caritas e Fondazione Migrantes), dalla Comunità di Sant’Egidio e dal governo italiano, che garantisce un canale legale verso l’Italia a centinaia di presunti profughi etiopi. Questi verranno poi ospitati grazie al progetto “Rifugiato a casa mia” sostenuto dai fondi SPRAR del governo, mentre i costi del trasferimento nel nostro Paese sono finanziati dai fondi raccolti grazie all’8×1000 della Chiesa Cattolica.

Il progetto “PIER – Protection, Integration and Education for Refugees”, finanziato dalla Coca Cola Foundation, coinvolge Caritas Austria, Caritas Italiana e l’associazione greca Arsis. L’obiettivo del progetto è quello di consolidare le attività di accoglienza ed integrazione dei richiedenti asilo già svolte da questi organismi nei rispettivi Paesi.

L’obiettivo del “Progetto Presidio di Caritas Italiana” è quello di costruire presidi permanenti dove operatori specializzati e volontari possono assistere gli immigrati impiegati nel settore agricolo e di tutelarli nelle questioni giuridiche, sanitarie e professionali. Progetto Presidio è presente in 18 Caritas diocesane distribuite in tutta Italia ed in particolare nelle regioni del Sud.

“Prointegra” è un progetto ideato per garantire, nell’ambito del sistema SPRAR, la protezione e accoglienza ai cittadini afghani che avevano precedentemente collaborato nel loro Paese con il Governo italiano, “si va dai percorsi di alfabetizzazione, alla frequentazione di palestre per sostenere le attività di socializzazione”.

Il Festival diffuso delle culture mediterranee, Sabir, promosso anche da Arci e ACLI in collaborazione con le sorosiane A Buon Diritto, Asgi e Carta di Roma, e con il patrocinio dell’ANCI, ha l’obiettivo di “costruire una rappresentazione pubblica alternativa della società civile del Mediterraneo dando visibilità a un progetto di costruzione di democrazia dal basso”. Si è svolto a Lampedusa, Pozzallo e Siracusa.

“Migramed Meeting” è l’annuale conferenza di Caritas Italiana con le Caritas europee e del bacino del Mediterraneo attive in processi di supporto, accoglienza e tutela in favore degli immigrati, dove “si stabiliscono linee d’azione congiunta per l’elaborazione di proposte in favore di politiche rispettose dei diritti umani da portare all’attenzione dei decisori politici nazionali ed europee”. Una vera lobby cattolica creata per fare pressione sui governi nazionali e sull’Unione Europea contro gli accordi stipulati con le autorità libiche e la politica ungherese di Viktor Orbán tesa ad arrestare il flusso migratorio insostenibile.

Il Coordinamento Nazionale Immigrazione (CNI) assicura alla rete delle Caritas, distribuite su tutto il territorio italiano, un confronto continuo sui temi collegati alle migrazioni al fine di monitorare costantemente quanto accade a livello nazionale, internazionale e territoriale: “L’obiettivo del CNI è quello di costruire un percorso di reciproco scambio e rafforzamento, con la condivisione di informazioni e strumenti formativi importanti per il quotidiano impegno delle Caritas diocesane e della Caritas Italiana su un tema così attuale e complesso”.

Agli incontri del CNI, di solito ogni tre mesi, partecipano i direttivi di Caritas, di altre associazioni religiose e di diverse ONG, ed esponenti del governo italiano.

Caritas InMigration è intervenuta anche nelle procedure di trasporto e sbarco nei porti italiani con il progetto “Warm Up” che ha previsto la distribuzione di vestiti e calzature ai migranti tramite la Marina Italiana, le Caritas Diocesane del territorio e la ONG maltese MOAS: “l’obiettivo di Warm Up è di dare un primo segnale di solidarietà e di accoglienza al momento del recupero in mare dei migranti che cercano di raggiungere l’Europa”. Kit nuovo e logato “Caritas InMigration” dal costo unitario di 20 euro, con buona pace dei poveri italiani che ricevono abbigliamento dismesso dalla stessa associazione religiosa.

Oltre agli 8 progetti appena esposti, Caritas, grazie alla rete delle Caritas Diocesane, riserva altri servizi agli immigrati: accoglienza notturna, centri di accoglienza straordinaria (piccoli appartamenti, strutture di medie dimensioni o anche grandi centri con oltre 100 presenze), centri SPRAR ovvero sostenuti grazie ai fondi del governo italiano, corsi d’italiano, il servizio Emporio (l’immigrato può accedere al servizio tra gli scaffali e scegliere lui stesso i generi alimentari tra i prodotti presenti), mense rispettose delle tradizioni alimentari degli immigrati, progetti interculturali, servizi sanitari, e sportello legale. Nel 2016, Caritas ha raccolto quasi 52 milioni di euro anche grazie ai fondi dell’8×1000 della Chiesa Cattolica. Non è dato sapere i costi non aggregati per la gestione dei servizi offerti agli immigrati. Sappiamo solo che più di 37 milioni di euro sono stati spesi per attività in Italia.

Riportiamo alcuni passi del comunicato stampa “La grande bugia delle navi-taxi” di Don Francesco Soddu, direttore di Caritas Italiana, redatto in occasione della conferenza stampa tenutasi il 5 maggio dello scorso anno presso Palazzo Madama, dai tratti chiaramente politici e assolutori Urbi et Orbi delle ONG coinvolte nelle prime indagini del Procuratore Carmelo Zuccaro: “Stiamo assistendo ad un processo mediatico contro chi ha creduto che salvare delle vite fosse un gesto necessario di umanità. Ma così non sembra. Le accuse, spesso non circostanziate, che piovono su queste organizzazioni, a mio parere, appaiono un pretesto per distogliere l’attenzione dalle evidenti fatiche nel trovare soluzioni politiche a più ampio spettro nella gestione di questo fenomeno. Affermare semplicemente che le navi che svolgono il salvataggio in mare costituiscono un pull factor, significa non solo condannare molte persone a morte certa, ma allo stesso tempo costituisce un’ammissione di responsabilità nell’incapacità di individuare soluzioni durature a partire dalla stabilizzazione dei contesti di origine e di transito.(…) Anche sul fronte dell’accoglienza abbiamo vissuto una situazione simile all’indomani della vicenda di mafia capitale quando non si è fatto alcuno scrupolo nel condannare indistintamente tutto il mondo delle organizzazioni impegnate in questo settore, gettando un’ombra che si allunga fino ad oggi e condiziona non poco le dinamiche territoriali.(…) Anche in questo caso la domanda sorge spontanea: in un sistema nel quale il ruolo delle organizzazioni del privato sociale è essenziale per garantire la tenuta dell’accoglienza, nel quadro degli accordi con lo Stato, quale vantaggio traggono alcuni rappresentanti delle istituzioni dal costante discredito nei confronti delle ONG?”

Nata nel 1987, la Fondazione Migrantes è l’organismo costituito dalla Conferenza Episcopale Italiana (Cei) per assicurare l’assistenza religiosa ai migranti, italiani e stranieri, per promuovere nelle comunità cristiane atteggiamenti ed opere di fraterna accoglienza nei loro riguardi, per stimolare nella stessa comunità civile la comprensione e la valorizzazione della loro identità in un clima di pacifica convivenza rispettosa dei diritti della persona umana. Le attività operative di Fondazione Migrantes sono l’organizzazione e la promozione della Giornata Nazionale delle Migrazioni, convegni periodici di coordinamento, e la pubblicazione della rivista Migrantes ed di altri compendi come i Quaderni di “Servizio Migranti”.

La fondazione della Cei è anche molto attiva sulla questione riguardante l’integrazione di rom, sinti e caminanti. Per questo motivo, collabora attivamente con l’Associazione 21 Luglio, tra le più finanziate dalla Open Society Foundations di George Soros. Sempre affiancata da Caritas Italiana, Fondazione Migrantes è stata tra i promotori di diversi eventi e campagne organizzate a favore degli immigrati e dell’immigrazione no border. Tra questi ricordiamo: la marcia dello scorso anno a Milano “20 maggio senza muri”, la campagna “Ero straniero – L’umanità che fa bene”, la sottoscrizione dell’appello “No ai decreti Minniti-Orlando su Immigrazione e Sicurezza” e la petizione “L’Italia sono anch’io” per chiedere l’introduzione immediata della legge sullo ius soli. Come Don Francesca Soddu di Caritas Italiana, anche Monsignor Perego, direttore generale di Fondazione Migrantes, si è scagliato contro le inchieste che hanno visto coinvolte le ONG: “Credo che queste accuse abbiano dietro una visione ipocrita e vergognosa di chi non vuole salvare in mare persone in fuga.(…) Voltare la faccia dall’altra parte o puntare il dito contro le organizzazioni internazionali, che stanno dando una grossa mano nel salvataggio in mare nel Mediterraneo, credo che sia un’operazione da condannare”. E non solo, Perego sulla situazione demografica italiana dichiara: “in un Paese che sta morendo, nel 2016 150.000 morti in più rispetto alle nascite, e che può trovare un suo futuro in percorsi di “meticciato”, come più volte ha detto il card. Scola”.

Nel 2000, nasce la Fondazione Centro Astalli, sede italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati (JRS), con l’obiettivo principale di contribuire a promuovere una cultura dell’accoglienza e della solidarietà, a partire dalla tutela dei diritti umani. Il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, legato appunto alla Compagnia di Gesù, è attivo in più di 40 nazioni e la sua attività missionaria è stata costellata da numerosi scandali legati alla pedofilia e alla violenza sui minori. Nel 2007, l’ordine dei Gesuiti pagò 50 milioni di dollari per risarcire 110 eschimesi abusati in una loro struttura tra il 1961 e il 1987, mentre in Oregon, nel 2011, dovette risarcire con 166 milioni di dollari centinaia di nativi americani che avevano subito abusi sessuali da parte di alcuni preti tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta. In Germania nel 2010, grazie alle indagini della dottoressa Ursula Raue, incaricata dalla Chiesa dell’allora pontefice Ratzinger, si scoprì che centinaia di bambini e ragazzi furono violentati o brutalmente percossi per decenni nelle istituzioni scolastiche dei gesuiti, e per decenni l’ordine preferì sistematicamente coprire e insabbiare le denunce. La missione del Centro Astalli è “accompagnare, servire e difendere i diritti dei rifugiati” e questa si sostanzia in numerose attività rivolte all’accoglienza degli immigrati nel nostro Paese (per i gesuiti tutti gli immigrati sbarcati in Italia diventano immediatamente rifugiati). I servizi di Astalli direttamente rivolti agli immigrati sono: strutture di accoglienza come il Centro San Saba, la Casa di Giorgia (con servizio di baby sitting incluso), Il Faro (con corsi di preparazione all’esame per la patente di guida) e il Centro Pedro Arrupe (con annesso campo sportivo), tutti beneficiari del circuito dei fondi pubblici per l’accoglienza del sistema SPRAR; ambulatori e mense; il Centro SaMiFo che offre agli immigrati assistenza medica sia di base sia specialistica presso diversi ambulatori di psichiatria, psicologia, ginecologia, ortopedia e medicina legale, con un approccio “particolarmente sensibile all’identità culturale dei pazienti e alla questione di genere”; corsi di italiano e di inglese, formazione scolastica per conseguire diplomi e laboratori musicali; centro d’ascolto e orientamento socio-legale con annessa “preparazione all’intervista con la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale” e visite settimanali degli operatori legali negli uffici della Questura e nel centro di identificazione ed espulsione di Roma per offrire agli immigrati la possibilità di presentare domanda d’asilo in Italia; corsi professionali e tirocini; sostegno economico iniziale (canone di affitto, utenze domestiche). Oltre alle attività direttamente legate all’accoglienza degli immigrati, il Centro Astalli entra anche nelle scuole italiane “puntando sui giovani per gettare le basi di una società interculturale e inclusiva, in cui le diversità etniche, linguistiche e religiose siano considerate una ricchezza e non un ostacolo per il nostro futuro”. I progetti organizzati nelle scuole, Finestre – Storie di Rifugiati (patrocinato da UNHCR) e Incontri, hanno già coinvolto migliaia di studenti che hanno avuto la possibilità di ascoltare diverse testimonianze dirette di immigrati di religioni differenti. Un vero percorso di indottrinamento ideologico dei bambini e dei ragazzi delle scuole. Centro Astalli ha avviato altresì dei progetti ad hoc per sostenere l’accoglienza degli immigrati “cogliendo l’opportunità dei progetti finanziati per accompagnare i rifugiati nel loro difficile percorso verso l’integrazione in Italia, in una stagione di crisi economica e in un clima di indifferenza, se non di ostilità, nei loro confronti”. Tra questi: TOGETHER – Costruiamo insieme il futuro, finanziato da Fondazione Cariplo e in partenariato con Save The Children, rivolto ai minori non accompagnati; RICO – Rafforzare #Integrazione, Costruire #Ospitalità, finanziato dal ministero dell’Interno e in partenariato con la CRS (Cooperativa Roma Solidarietà) di Caritas Roma e il Dipartimento Politiche Sociali, Sussidiarietà e Salute di Roma Capitale; COH – Communities of Hospitality e PEB – Protection at External Border (progetto avviato lungo i confini dell’Unione Europea “per accompagnare i migranti nei loro bisogni essenziali, ma anche per documentare le violazioni dei diritti umani che si verificano sempre più spesso, nella convinzione che la tutela della vita umana debba essere sempre anteposta alla protezione delle frontiere”), finanziati da occulti donatori privati e in partenariato con gli altri Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati europei; FARI – Formare Assistere Riabilitare Inserire, finanziato dal ministero dell’Interno e in partenariato con Azienda Sanitaria Locale Roma 1, Programma Integra di Caritas Roma e CeSPI (Centro Studi di Politica internazionale presieduto da Piero Fassino). Molti dei progetti conclusi sono stati finanziati dalla Commissione Europea. Il 9 aprile scorso, il Centro Astalli ha presentato il report annuale alla presenza di Monica Maggioni, presidente della Rai, Marco Damilano, direttore de L’Espresso, Felipe Camargo, rappresentante dell’Ufficio Regionale per il Sud Europa dell’UNHCR, Padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli. I saluti iniziali sono stati tenuti da Padre Fabio Baggio, sottosegretario di Bergoglio per la Sezione Rifugiati e Migranti del Dicastero per lo sviluppo umano integrale. Ovviamente non poteva mancare una chiara propaganda pro-immigrazione contro le autorità libiche che stanno di fatto diminuendo, con le operazioni della propria Guardia Costiera, il flusso migratorio verso l’Italia: “Ad aprire la conferenza la testimonianza di Moussa, rifugiato maliano, che ha vissuto l’esperienza del carcere in Libia”. Uno degli eventi caratterizzanti del Centro Astalli del 2018 è il corso di formazione “Aiutarli a casa loro?” in collaborazione con la Pontificia Università Gregoriana. L’incipit del comunicato stampa spiega dettagliatamente l’ideologia alla base del corso: “Protezione è sentirsi a casa. I rifugiati non possono sentirsi a casa nei Paesi europei, dove la legislazione spinge ad autorizzare soggiorni sempre più temporanei e precari e, allo stesso tempo, nazionalismi e movimenti identitari marginalizzano e discriminano anche chi è presente da tempo. Si argomenta – e anche la riforma del Sistema Comune d’Asilo Europeo va in questo senso – che le persone possono ottenere protezione sufficiente anche nei Paesi di transito, dove in varie modalità sono trattenuti o respinti i migranti che tentano il viaggio verso l’Europa.  Ma qual è la realtà di questi Paesi? Come viene trasformata dall’intervento e dalle politiche dell’Unione europea e dei singoli Stati membri? Infine un numero crescente di persone non avrebbe titolo alla protezione internazionale e viene quindi rimpatriata, in forma volontaria o forzata. Che situazioni si trovano ad affrontare le persone dopo il rimpatrio? E quali sono le cause di queste situazioni, che non di rado si intrecciano con gli interessi economici e politici degli stessi Stati europei che valutano sicuri quei territori?” Coerentemente con la propaganda pro-immigrazione, subito dopo le prime inchieste delle procure italiane sull’ambiguo operato delle Ong davanti alle coste libiche, il Centro Astalli pubblica un comunicato stampa dal titolo “Vittime in mare davanti a un’Europa in cui soccorrere sembra essere un reato”. Ovviamente, neanche i gesuiti vogliono la fine del flusso migratorio verso l’Italia: come potrebbero altrimenti beneficiare dei fondi Sprar del governo italiano? Il Centro Astalli, come Caritas Italiana e Fondazione Migrantes, partecipa attivamente alle campagne e agli eventi organizzati dalle associazioni finanziate dalla Open Society Foundations di George Soros: “Ero straniero. L’umanità che fa bene”, “Non aver paura. Apriti agli altri, apri ai diritti”, “L’Italia sono anch’io”, “Fermare la strage. Subito!”, “Not my Europe”, solo per citarne qualcuno. Allo stesso tempo, il Centro Astalli è partner diretto di diverse associazioni sorosiane come Associazione Carta di Roma, Associazione 21 Luglio e A Buon Diritto. I principali finanziatori del Centro Astalli sono Roma Capitale, la Conferenza Episcopale Italiana (Cei), la Fondazione Migrantes, l’Elemosineria del Santo Padre, la Fondazione BNL, il Segretariato Sociale Rai, la Federazione delle Chiese Evangeliche e ovviamente i fondi Sprar. Nel 2017, i fondi raccolti sono stati pari a 3,2 milioni di euroanche grazie ai contributi del 5×1000. I donatori privati sono stati solo il 22% del totale: un’associazione quindi operativa grazie alle donazioni del Vaticano e del governo italiano. Come relatrice della conferenza di presentazione del report annuale 2017, il Centro Astalli ha invitato l’anticlericale, abortista e favorevole all’eutanasia Emma Bonino, forse seguendo le linee-guida di Bergoglio che, nel 2016, ricevette l’esponente radicale in udienza privata in Vaticano. Non potevano quindi mancare progetti sviluppati grazie ai finanziamenti della Open Society Foundations di George Soros: uno di questi è “eUnify!”, video contro la xenofobia girato presso la sede di Palermo del Centro Astalli. Nel 1993, il Sinodo delle chiese valdesi e metodiste ha deciso di avvalersi della norma di legge che consente a una confessione religiosa riconosciuta dallo stato italiano ai sensi di un’intesa (articolo 8 della Costituzione) di accedere alla riscossione di una quota del gettito dell’otto per Mille dell’Irpef. Così nasce 8×1000 Chiesa Valdese. I fondi ottenuti dalla Chiesa Valdese sono “unicamente per progetti di natura assistenziale, sociale e culturale”, e negli ultimi anni la maggioranza di questi sono serviti per finanziare programmi riguardanti l’accoglienza in Italia. Nel 2016, i fondi ricevuti grazie all’8×1000 sono stati quasi 38 milioni di euro. Il progetto, che vede esplicitamente impegnata la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) e l’impiego diretto dei fondi dell’8×1000 è Mediterranean Hope (MH). Il progetto MH nasce nei primi mesi del 2014 “dalla consapevolezza della drammaticità delle migrazioni via mare dai paesi del Nord Africa, Africa subsahariana e Medioriente verso le coste siciliane e, in particolare, verso l’avamposto più meridionale costituito dall’isola di Lampedusa”. Si struttura in due attività correlate: da una parte la tradizionale accoglienza e dall’altra la propaganda e le pressioni politiche di denuncia a proposito delle violazioni dei diritti umani dei migranti e della mancanza di norme in materia di diritto d’asilo. Il progetto si sostanzia in tre strutture di accoglienza (Lampedusa, Scicli e Casal Damiano a Campoleone) e nell’organizzazione e gestione dei corridoi umanitari da Libano, Marocco ed Etiopia, in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio. L’8×1000 della Chiesa Valdese finanzia una miriade di progetti di associazioni chiaramente pro-immigrazione irregolare e indotta[15]. Tra queste troviamo le sorosiane Associazione 21 Luglio, A Buon Diritto, ASGI, MEDU, Arci, Lunaria, Antigone, Naga, Associazione Carta di Roma, CIR Rifugiati e Cospe Onlus. Francesca Totolo

·         Percezioni errate: il primato è degli italiani.

Percezioni errate: il primato  è degli italiani. Pubblicato lunedì, 13 maggio 2019 da Massimo Rebotti su Corriere.it. Come ha ondeggiato l’opinione pubblica durante le manifestazioni contro i rom nelle periferie romane? E come oscilla sul reddito di cittadinanza, sulle navi delle organizzazioni non governative, sulla castrazione chimica o sulla legalizzazione delle droghe leggere? Per un politico a caccia di consensi c’è una buona ragione ogni giorno, verrebbe da dire ogni ora, per conoscere l’umore degli elettori. Esce il 14 maggio il saggio di Nando Pagnoncelli, «La penisola che non c’è» (Mondadori, pagine 128, euro 17) A mettere in guardia dalla deriva della «sondocrazia» — il governo attraverso i sondaggi, come lo chiamava Stefano Rodotà — è, ironia della sorte, un autorevole esperto di sondaggi come Nando Pagnoncelli. Può sembrare un paradosso, ma non lo è. Il discorso che sviluppa il presidente di Ipsos Italia nel libro La penisola che non c’è (Mondadori) affronta i nodi più sensibili che attraversano le opinioni pubbliche delle (affaticate) democrazie occidentali: la percezione distorta della realtà, le fake news, l’indisponibilità a riconoscere le competenze degli altri, la fine della mediazione, la conflittualità esasperata. In un contesto del genere, lo strumento dei sondaggi — che è prezioso, anche dal punto di vista democratico — va usato, raccomanda l’autore, con attenzione e metodo, sottraendolo ai rischi della strumentalizzazione politica. Nando Pagnoncelli, presidente della società di analisi e ricerche di mercato Ipsos Italia Pagnoncelli dedica la prima parte del libro a una definizione dell’opinione pubblica — ormai «persuasore occulto» di ogni agire politico — e delle tecniche, sempre più raffinate, che ne «misurano» gli sbalzi. La storia dei sondaggi si intreccia a quella dei cambiamenti della società e della politica — fece epoca il pronostico (azzeccato) della vittoria di John Kennedy su Richard Nixon, dopo un dibattito televisivo che ribaltò le posizioni — e sancisce l’utilità contemporanea di uno strumento che fotografi le oscillazioni, oggi molto rapide, delle opinioni. Ed è in questo campo che i «distinguo» di Pagnoncelli si fanno più netti: «Il sondaggio — scrive — dovrebbe rimanere uno strumento di conoscenza» e non diventare «un oracolo che orienta». Secondo l’autore quella in atto è una china pericolosa, un «sistema» dove la ricerca del consenso diventa il fine unico della politica. E se, per caso, i dati di un sondaggio dovessero contraddire la propaganda di un leader, nota Pagnoncelli, il politico ha già pronta la risposta: «Abbiamo altri sondaggi che dicono l’opposto». Ma il centro del libro, più che sull’uso corretto dello strumento che da decenni interroga i cittadini, è su come, negli ultimi anni, si sia trasformato il «mare» in cui pesca il sondaggista: un’opinione pubblica che ha della realtà una percezione assai distante dalla realtà stessa. Tempo fa aveva fatto discutere il divario tra quanti immigrati pensiamo che ci siano in Italia, il 30 per cento, e quanti ce ne sono davvero, il 7% per cento. La questione però, argomenta l’autore, è ben più vasta: su tanti argomenti gli italiani hanno in mente un Paese che non c’è, si tratta di un problema cruciale che può minare il buon funzionamento di una democrazia. Ci addentriamo così nel «regno delle percezioni» dove l’Italia purtroppo eccelle, come certificato da un’ampia indagine di Ipsos in quattordici Paesi: siamo primi nella «distorsione percettiva» o «più banalmente nell’indice di ignoranza». Come italiani, in pratica, pensiamo che si commettano molti più reati di quanto in realtà avviene, ci riteniamo più poveri, più disoccupati, più malati, con un’economia più fragile e marginale, di quanto in realtà non sia. Tutto ciò causa un pensiero distorto sul Paese che determina una serie di conseguenze, la principale delle quali è un discorso pubblico che asseconda questa visione negativa, che dilata i problemi invece di ridimensionarli. Oltre alle percezioni sballate sulla realtà, l’indagine mette in evidenza le nostre contraddizioni. Come il pubblico di un Festival di Sanremo — racconta l’autore tra lo sconcertato e il divertito — che, contemporaneamente, protesta per la sconfitta di un cantante e si spella le mani per la vittoria di quello che l’ha sconfitto. Così noi, contemporaneamente, vogliamo meno tasse, ma servizi pubblici più efficienti; siamo preoccupati per l’invecchiamento della popolazione, ma ci sentiamo invasi dai giovani immigrati; vogliamo l’euro, ma non ci fidiamo dell’Europa. Pagnoncelli spiega tanto ondeggiare con tre ragioni sostanziali: la bassa scolarizzazione del Paese, una spiccata «emozionalità» e una «dieta mediatica» — i canali attraverso cui ci informiamo — troppo poco varia, dove la televisione, tuttora, è una sovrana quasi assoluta. Una condizione di fragilità che diventa il terreno ideale per il «virus» delle fake news. Ciò nonostante, la conclusione è ottimista. La speranza per l’autore risiede nei giovani che proprio adesso si affacciano alla vita pubblica, nella loro consapevolezza dei problemi. E se lo dice un osservatore che da oltre trent’anni interroga con rigore la società italiana, c’è probabilmente da credergli. Nando Pagnoncelli, presidente della società di analisi e ricerche di mercato Ipsos Italia, presenta il suo libro La penisola che non c’è a Milano il 20 maggio, alle ore 18.30, con l’ex direttore di «Repubblica» Mario Calabresi, presso la libreria Rizzoli in galleria Vittorio Emanuele II.

"Sapere aude", il libro che vi insegna a ragionare con la vostra testa. "Sapere Aude – Introduzione alla conoscenza scientifica" è il libro, edito da Chiado Books, di critica alla divulgazione scientifica di Guido Buzzi Ferraris, che raccoglie le lezioni di una vita al Politecnico. Fabio Franchini, Lunedì 13/05/2019, su Il Giornale.  Guido Buzzi Ferraris dal 1960 al 2014 ha insegnato calcolo numerico al Politecnico di Milano. Insomma, una vita intera al Poli, dedicata agli studenti e ai numeri. Ora, nel 2019, ha raccolto li appunti e le lezioni di una vita in "Sapere Aude – Introduzione alla conoscenza scientifica", cinquecento e rotte pagine sulla divulgazione scientifica, con uno sguardo e un taglio particolare, per imparare ad imparare. Già, perché come si legge sia nella quarta di copertina, sia nell’introduzione, "questo non è un normale libro di divulgazione scientifica".

E allora, professore, che cosa è?

"È un libro di critica alla divulgazione scientifica - che è ben diverso – e che ha l’obiettivo di aprire la mente di chi lo legge, così da renderlo più preparato e per l’appunto critico nel leggere testi o guardare trasmissioni televisive di divulgazione scientifica. Il titolo 'Sapere aude', esortazione latina di cui è padre Orazio, e poi fatto motto dell’Illuminismo da Kant, significa infatti 'Abbiate il coraggio di pensare con la vostra testa'".

Bene, lei scrive che alcuni autori si prendono delle licenze per rendere un argomento più appetibile e spettacolare agli occhi di una persona non preparata scientificamente, commettendo degli errori anche gravi…

"Ne fanno tanti e anche di inammissibili. Per esempio, c'è chi prende le formule matematiche delle leggi dimenticandosi dei campi specifici di applicazione di quelle stesse leggi. Poi, credere di poter usare solo la logica matematica, mentre nelle scienze è necessaria una logica molto più elastica, senza regole fisse, come quella 'laterale'".

Ci fa qualche esempio concreto?

"Presto detto: dire che se non ci fosse l'attrito un pendolo oscillerebbe per sempre. Ecco, è ridicolo pensare che possa oscillare per sempre, perché, semplicemente, fra qualche miliardo di anni il sole non c’è più, la terra non c’è più e quindi ovviamente anche il pendolo non c'è più. In questo caso commettono l’errore perché considerano la legge del pendolo come fosse legge matematica atemporale. A volte i fisici cancellano il concetto di tempo, ma è assurdo: noi nasciamo e moriamo, per cui il tempo esiste eccome!"

Oltre al pendolo?

"Nel capitolo sulla statistica, spiego una cosa molto interessane, ovvero come gli statistici pensino di poter fare quello che credono, prendendo però topiche clamorose. Per esempio come quello di fare dei test statistici così come essi li intendono, erigendoli a verità assoluta, ma così non è. Insomma, in un discorso non scientifico uno può permettersi di fare delle semplificazioni e approssimazioni, ma quando uno parla con uno scienziato o con un fisico, deve stare attento a quello che dice".

Nel manuale fanno capolino formule, limiti, derivate, funzioni, infinitesimali, matrice e compagnia cantante. Domanda da profano e da uno che con i numeri e la matematica ci ha sempre bisticciato al liceo: è libro per tutti o bisogna avere una certa preparazione?

"Ma no, è per tutti. Guardi, rileggendo i libri di storia della fisica e della matematica uno può capire il significato moderno di quei concetti, che sono molto semplici e diversi da quello che uno crede di (non) conoscere. Il libro è rivolto a persone che hanno istruzione scientifica, ma anche a coloro con cultura umanistica: lo hanno letto molti miei amici e lo hanno capito. Ci vuole solo un poco di pazienza, perché comunque non si tratta di argomenti banali. Però, tranquilli, non è un libro di fisica quantistica, che comunque – come diceva grande fisico Richard Feynman – non l'ha capita nessuno!"

Nelle pagine ha inserito degli "strani personaggi"…

"Già, c’è Flinks, che è il mio cane e che ogni tanto dice…delle cose da cane: l'ho utilizzato per fare delle affermazioni un po'provocatorie, stravaganti e divertenti. Poi c'è Wooko e Wooka, che siamo io e mia moglie, mentre il professore Von Kraffen è un personaggio inventato che sostiene la filosofia degli empiristi logici, che io invece critico".

Questo libro è un po' l'insieme delle lezioni che lei ha tenuto per una vita al Politecnico: immagino che abbia un'importanza affettiva più che particolare…

"Sì, certo: è un libro che ho praticamente scritto in cinquant'anni di insegnamento. E mi sono divertito molto a farlo perché ho scritto di argomenti anche estranei alla materia che insegnavo, come tutte quelle considerazioni sulla filosofia della scienza o sulla relatività ristretta, che spesso riportavo anche ai miei studenti di calcolo numerico, lasciandoli contenti e sorpresi, aprendo loro un mondo nuovo".

·         La Conformità al pensiero unico.

Processo al pensiero, i “democratici” non vogliono Alexandr Dugin. Il Giornale Off il 10/06/2019. Ve l’avevamo annunciato sul numero 5 del mensile CulturaIdentità in edicola: sabato 15 giugno alle 16.30 al castello di Udine si terrà il convegno “Identitas: uguali ma diversi”, patrocinato dal Comune di Udine e diretto da Emanuele Franz (edizioni Audax), in collaborazione con Historia Gruppo Studi Storici e Sociali e Limes Club Pordenone/ Udine/Venezia. Il tema del convegno sarà incentrato sul senso di appartenenza oggi, in un mondo incline a rendere sostituibili gli individui e vedrà fra gli ospiti anche Aleksandr Dugin (ci saranno Diego Fusaro, Massimo Fini, Edoardo Sylos Labini). Oltretutto, dopo uno scambio epistolare intercorso tra Emanuele Franz e Noam Chomsky, il convegno potrà onorarsi di un video intervento da parte del notissimo linguista del MIT di Boston. Insomma, Da Dugin a Chomsky, da est a ovest senza recinti etico/politici/culturali, per uno scambio di idee franco e aperto. E invece. Secondo i consiglieri (PD) il convegno definito “sovranista” sarebbe la legittimazione di tesi, quelle di Alexandre Dugin, illiberali volte alla disintegrazione della società democratica, mentre il Comune di Udine sarebbe “reo” di aver negato nei mesi passati il suo appoggio ad eventi organizzati dall’Anpi: “Fontanini [Pietro Fontanini, sindaco di Udine, n.d.r.] spende soldi pubblici per sostenere un convegno sovranista […]. Si tratta di un incontro organizzato per promuovere le tesi di Dugin, l’ideologo di Putin noto per la sua filosofia della disintegrazione, non solo dell’Unione Europea, ma la stessa società democratica in cui viviamo. Dugin è dichiaratamente un “antiliberale” (Cinzia Del Torre, consigliere comunale PD e Alessandro Venanzi, capogruppo, fonte Il messaggero Veneto, venerdì 7 giugno 2019, n.d.r.). Il comune di Udine avrà avuto le sue ragioni per non concedere in passato la sala per il convegno dell’ANPI e su questo non mettiamo bocca. Ma invitare scrittori e pensatori critici sullo stato dell’Unione Europea è o dovrebbe essere considerato un atteggiamento di apertura e non di chiusura, di costruzione e non di distruzione. In Italia c’è la libertà di pensiero e fin tanto che tale libertà non va a detrimento di altre libertà, deve o dovrebbe esser consentito a tutti di esprimere le proprie idee, quand’anche fossero scomode e impopolari. “Ho invitato otto relatori, afferma Emanuele Franz da noi interpellato. Pensa che all’inizio ne volevo almeno il doppio, perché il mio obiettivo era ed è l’espressione di pensieri agli antipodi: io per primo voglio il confronto fra punti di vista differenti. Ed è quello che ho fatto: l’incontro di Alexandr Dugin e Chomsky è l’incontro di due mondi lontani e ancora contrapposti, USA e Russia“. E ora che succede? “Nulla: nonostante le polemiche, il convegno si farà. Udine tiene duro. Antidemocratici sono i nostri accusatori: non si può processare il pensiero! Cosa vogliamo fare?, processare anche Nietzsche e Marx?“.

INTELLO’ IN COPIA CONFORME. Pietrangelo Buttafuoco per il “Fatto quotidiano” il 13 maggio 2019. A un certo punto, in Cyrano mon amour - il film di Alexis Michalik dove si racconta com' è nato il capolavoro di Edmond Rostand - c' è una battuta che parla al nostro tempo: "Gli artisti devono essere dei fuorilegge, ricordatevi che all'epoca di Moliere gli attori venivano seppelliti in terra sconsacrata". E il punto è proprio questo: l'arte - e dunque l'immaginazione, la fantasia e la creazione - soccombe sotto la cappa del moralismo. Tutti i protagonisti dello starsystem fanno a gara per farsi sotterrare all'ombra di lapidi rispettabili mentre un Woody Allen - un genio della cinematografia - è già un ceffo rattuso su cui sputacchiare, con le sentenze definitive, scaracchi di oblio. E chissà cosa ne sarebbe stato, di questi tempi, di un Federico Fellini - orgiastico tra le dilaganti tette della tabaccaia - oppure di un Carmelo Bene pronto a sbottonarsi sul palcoscenico per marcare, nel tracciato animalesco, il territorio dell' eros tra scena e o-sceno. Nessuno tra gli artisti - e così gli scrittori, ma anche gli intellettuali - si azzarda a sconfinare oltre il recinto perbenista. Il ceto dei colti in Italia è un monolite di compassata ragionevolezza; a guardarli in faccia, infatti, a leggerne i libri e a vederne i film, tutti gli autori della scena a noi contemporanea non somigliano agli artisti fuorilegge evocati nel Cyrano, tutt'altro. Le figurine nell'album degli alfabeta sembrano ambire a una caserma dove ognuno gareggia a essere uguale. E sono tutti dei carabinieri a cavallo i registi, i grandi musicisti, gli intrattenitori e perfino le porno star, premurosamente devote al dildo equo-solidale. Dall'alto dei loro premi, dei loro giornali e dalle loro prebende - nelle casematte residue dell'egemonia culturale che fu - è certo che se si facesse l'esperimento di chiamarli a scegliere tra Pinocchio in catene e le guardie, i suddetti graduati dell'élite culturale se ne starebbero dalla parte dei mustacchi in uniforme e giammai con la trasgressione. Un mio amico iraniano spiega la difformità tra il loro mondo chiuso e il nostro - così libero, così emancipato - in questo modo: la differenza è che a Teheran c'è la censura mentre da voi ci sono i tabù; la censura si può aggirare ma i tabù, purtroppo per voi, no, non si possono evitare, sono inviolabili". Non c'è posto peggiore, per chi ama i libri, delle librerie le cui vetrine traboccano delle porcherie più conformi al dettato ciripiripì monocratico; non esiste più l' istinto sovvertitore e l' anima dionisiaca della nostra schiatta è conculcata dallo gnao-gnao dell' etica, quell'etichetta di correttezza cui i parrucconi della cultura sono riusciti a relegare la parola, l'invenzione, lo stupore e l'attesa. Ebbene sì, quell' istante in cui la mano mette "mano" alla rivolta: Rissa in Galleria di Umberto Boccioni, La Rissa di Fortunato Depero, le tele di Francis Bacon poi, oppure - indietro nel tempo - l'opera pittorica del Caravaggio o, saltando di palo in frasca, di nota in note, quel repertorio degli Area oggi impossibile già immaginare se tra i rapper prevale il formaggino buono al più per i Giamburrasca dell' adolescenza e non certo per un Albert Camus (o per un Ernest Junger il cui monito è sempre quello: "Meglio delinquente che borghese"). La famosa libertà è vigilata, ed è consacrata. Al dildo equo-solidale. A un certo punto è finita così.

·         Internet è Libertà. Chi non vuole il Web.

Internet compie 50 anni; storia di un cambiamento continuo. Il 29 ottobre 1969 la prima trasmissione di un pacchetto di dati tra due computer, inizio di una evoluzione che ha modificato le nostre vite. Ma il 5G e l'IoT sono ancora un miraggio per molti. Alessio Caprodossi il 29 ottobre 2019 su Panorama. I suoi primi cinquanta anni hanno cambiato il mondo, i prossimi cinquanta continueranno a migliorarlo. Sembra banale ma non ci sono altre possibilità di sintesi così estreme per quantificare l’impatto che ha avuto Internet sulle nostre vite, accorciando le distanze spazio-temporali e rivoluzionando il modo di comunicare, informarsi e fare acquisti, tanto per citare solo alcune delle potenzialità che all’epoca neppure i pionieri della rete avevano immaginato potessero rivelarsi tali. L’avvio delle operazioni, datate 29 ottobre 1969, con il collegamento tra un computer dell’Università di Los Angeles e un altro presso il Research Institute di Stanford, passò quasi in sordina, non solo perché non ci furono giornalisti e fotografi a raccontare e immortalare l’attimo storico, ma anche e soprattutto perché quello era l’anno dello sbarco sulla Luna, con il sigillo degli Stati Uniti nella corsa allo Spazio contro l’Urss che campeggiava sui giornali e dominava le chiacchiere quotidiane.

I primi vagiti. Per quanto in origine il progetto Arpanet fosse legato al Dipartimento della Difesa Usa e concepito in ambito militare, Internet dovette attendere un ventennio prima di diventare cosa nota oltre la ristretta cerchia di ingegneri, informatici e visionari che hanno costruito le fondamenta. In questi anni, però, si sono susseguiti alcuni dei tratti distintivi della Rete, come l’introduzione della chiocciola @, l’invio della prima email, i collegamenti oltre confine, con Norvegia e Regno Unito che si aggiunsero agli Stati Uniti, e la nascita dei domini .com e .org per identificare i vari nodi della Rete e pensionare le stringhe di numeri difficili da memorizzare (il primo dominio italiano è opera del Centro nazionale di ricerca, cnr.it).  

La grande onda. Il nuovo protocollo HTTP e i collegamenti ipertestuali che permettono di legare due o più documenti tra loro tramite link sono la base su cui nel 1989 il britannico Tim Berners-Lee (nella foto qui sopra) crea il World Wide Web, cui segue il primo browser (Mosaic) che consente di navigare tra le varie pagine web. Nascono i primi fenomeni, come Napster per la condivisione dei file musicali ed eBay che apre il campo alle vendite online, mentre Nokia prima e la Apple con l’iPhone poi portano il web dentro a cellulari e smartphone. Nel 1998 arriva Google a mettere ordine tra gli ormai infiniti indirizzi web, fioriscono i blog personali, la velocità di connessione corre veloce e, a stretto giro, nascono social network (Facebook, nel 2004), piattaforme per la condivisione di video (YouTube, nel 2005) e quelle per microblogging (Twitter, nel 2006).

La sfida del futuro. La rapida successione di novità si accompagna a nuovi modi per la fruizione dei contenuti e alla centralità di oggetti che diventano irrinunciabili (come lo smartphone), anche perché il web apre scenari inediti pure in ambito lavorativo. Essere connessi diventa un’esigenza, per molti un obbligo, ma l’evoluzione non si ferma, incluse le sue derive: in principio erano i virus, ora sono le fake news con sullo sfondo la consueta querelle legata all’uso dei dati e alla protezione della privacy. E mentre si avvicina il momento delle reti di quinta generazione – che, grazie alla maggiore velocità di connessione e alla bassa latenza, consentiranno di connettere milioni di oggetti aprendo la strada all’Internet of Things, favorendo la maturazione dei processi utili per cambiare il volto delle città e completare l’agognata Smart Home - la sfida più grande è un’altra, perché il progresso generato dalla Rete è stato finora goduto da poco più di metà della popolazione mondiale. L’obiettivo del prossimo decennio è perciò consentire l’accesso al web a chi ancora non ha avuto possibilità di conoscerlo.

Google, ecco cosa hanno cercato gli italiani nel 2019. Da Nadia Toffa ai navigator, passando da gnomi natalizi, pastiera napoletana e Machu Picchu, l'analisi dei termini più cliccati mostra un popolo curioso e attento al dibattito politico. Alessio Caprodossi il 16 dicembre 2019 su Panorama. Italiani popolo di santi, poeti, navigatori e… artisti fai da te. Come rivela Google, che, nel puntuale appuntamento di fine anno fornisce sui termini emergenti più gettonati rispetto ai dodici mesi precedenti, descrive un paese di curiosi a caccia di informazioni sull’autoproduzione di oggetti bislacchi quanto sorprendenti per la diffusione registrata tra i connazionali. Che denotano qualche défaillance di natura pratica (vedasi l’impennata dei dubbi sul “come fare la valigia), ma anche una certa attenzione all’attualità politica tra navigator, flat tax e cuneo fiscale.

Gnomi e pollai. Restando alla categoria “Fai da te”, nella panoramica offerta dal motore di ricerca più utilizzato al mondo spiccano le richieste di informazioni per capire come realizzare gli gnomi di Natale e i costumi di Carnevale, tratti distintivi di due appuntamenti tradizionali che durante l’ultimo anno hanno solleticato l’interesse degli italiani molto più che in passato. Nell’elenco che vede la maschera per il viso a chiudere il podio e i segnaposti pasquali in quarta posizione, spiazza un po’ scoprire che lungo lo Stivale una delle esigenze più sentite è comprendere come poter realizzare il proprio pollaio. Dallo scrub al segnalibro, passando per segnalibri, candele e centrotavola, incuriosisce la nona piazza del condizionatore, con i tanti tutorial su YouTube che spiegano passo dopo passo come portare a termine la missione in meno di dieci minuti.

I navigator e Machu Picchu. Se la fiducia verso l’attuale classe politica è traballante, gli italiani si dimostrano interessati ad abbracciare il dibattito, specie quando offre degli appigli convenienti: l’esempio che spiega bene il contesto è l’entrata prepotente, direttamente in cima alla classifica, del “come fare la domanda per navigator”, cui si accompagna il tentativo di fare chiarezza sul significato della sigla DSGA, che sta per Direttore dei Servizi Generali e Amministrativi, alla luce del primo concorso professionale. Senza dimenticare che la top 10 dedicata ai significati comprende pure flat tax, cuneo fiscale e no deal.

Cubo di Rubik e aerei di carta. Tra le altre richieste più cercate online risalta la risoluzione del cubo di Rubik e l’esecuzione del nodo alla cravatta, ma anche come fare il passaporto, i boccoli e gli aerei di carta, mentre storici e celebri riferimenti geografici - Machu Picchu e Hollywood - guidano la lista dei significati, in cui rientrano parole straniere, come fearless e jambo bwana, e termini saliti alla ribalta ripetutamente nelle cronache dell’ultimo periodo, come trigama e bipolare.

I termini più ricercati dell’anno. Nadia Toffa, Notre Dame e l’immancabile Sanremo sono le tre parole che hanno riscontrato il maggior aumento di ricerche rispetto all’anno scorso, con la stessa ex conduttrice de Le Iene al primo posto tra i personaggi più cliccati davanti a Luke Perry, Mia Martini, Mahmood e Mauro Icardi, mentre la pastiera napoletana resta la ricetta più ricercata su Big G, con alle spalle tiramisù e lenticchie. L’analisi delle ricerche è utile anche per capire dove vanno (o vorrebbero andare) gli italiani in vacanza: sul podio ci sono Zanzibar, Croazia e Sardegna.   

DAGOREPORT il 28 novembre 2019. Mirko Scarcella, trentadue anni, è il re italiano di Instagram. Con la sua azienda si occupa di social media marketing, cioè come far crescere la notorietà di marchi e personaggi. Ha clienti in tutto il mondo. Adesso sta per lanciare il suo nuovo libro, “La Bibbia-successo, fama e soldi”, che si è scritto, stampato e venduto da solo, tagliando fuori le case editrici, perché, da brava internauta, non ama molto le intermediazioni. “Beh, se avessi amato le intermediazioni sarei ancora a piegare le camicie da Zara”, risponde da Miami Scarcella, che solo pochi anni fa faceva il commesso della catena di abbigliamento spagnola. Invece nella copertina del suo libro niente camicia. E’ in mutande. E’ la foto che gli ha scattato uno dei più celebri fotografi del mondo, David Lachapelle. Scarcella in boxer, un po’ nerd, ricoperto di “emoji”.

Cosa ti ha spinto a scrivere questo libro?

«Ne avevo già fatto un altro, ‘’Instasecrets’’, un anno e mezzo fa, che ha avuto molto successo. ‘’La Bibbia’’ è l’unica guida/manuale per Instagram completa con i segreti del mestiere e nasce dalla constatazione che nei prossimi anni Instagram si mangerà letteralmente il web. Ormai se cerchi una casa, se cerchi una tipa che ti piace, se vuoi vedere una macchina da comprare, o una nuova persona da assumere non vai più su Google. Vai su Instagram. Però pochi stanno capendo il cambiamento rapidissimo e colossale che sta avvenendo, e “La ‘Bibbia’’ è il frutto di tutto questo, il libro è tutto il mio sapere. Su come raggiungere il successo e usare Instagram ce ne sono tanti, ma a fine lettura sei punto a capo, la ‘’Bibbia’’ se usata bene ti renderà libero, indipendente e soddisfatto economicamente.

Un titolo un po’ esagerato, non trovi, “La Bibbia”, ovvero il libro dei libri?

«In realtà mi è venuto istintivo perché io sono così. Cercavo un nome per qualcosa che non è un tutorial, non è solo un manuale. È qualcosa di più forte di un libro, ti insegna delle cose ma anche un modo di essere, un modo di vita. "La Bibbia" insegna a capire che diventare una celebrity su Instagram è una cosa che richiede tempo, energia, sacrifici. Molti pensano che sia facile, e infatti si perdono per strada. Invece io nel libro spiego, raccontando la mia esperienza, come bisogna muoversi, gli errori da non fare, e anche il ‘’mindset’’ che bisogna avere. Bisogna rimanere umili, stare attenti. Pensa che fino all’anno scorso un modo per rubare gli account alle persone erano delle mail, chiaramente false, di provenienza da Instagram, che ti dicevano di voler verificare il tuo profilo, per darti la famosa spunta blu che certifica che sei uno arrivato. CI sono cascati in tantissimi. Perché basta poco a crederti una star e cadere in trappola.

Mirko, per caso, ti consideri un para-Guru?

«Faccio semplicemente l’imprenditore e aiuto le persone e le aziende ad avere successo su Instagram. Per un azienda avere successo su Instagram vuol dire vendere più prodotti sui loro e-commerce che nei negozi fisici, aumentare il fatturato. Ci contattano sia startup che grandi marchi per questo. Ormai se hai un idea, la puoi sviluppare e lanciare e grazie ad Instagram e diventare potenzialmente milionario, questo è quello che facciamo. Molte persone invece vogliono la popolarità, vale per tutti. Un ristorante se ha un ristoratore noto, funziona di più, un negoziante se è lui stesso “famoso” ha un bacino di utenza più grande, vale anche per un dottore. Il front man è la figura che ormai vende di più, crearla è dispendioso a livello economico ma ne vale la pena, è un ottimo investimento su se stessi. Vi ricordate quello che diceva Andy Warhol? Che ognuno avrà un quarto d’ora di celebrità? Io insegno a moltiplicare questi quindici minuti in anni, o per sempre. Comunque si può fare business su Instagram anche senza mostrarsi, creando una pagina di viaggi, cultura, orologi, cucina e fare diventare questo la tua fonte di reddito principale. In Instagram i desideri spesso si avverano.

Nel libro scrivi che ci sono molti politici che hanno profili fake.

«Certo. Direi tutti. Ma non solo i politici. Otto persone su dieci hanno falsi account per spiare le vite degli altri senza farsi vedere. Non solo haters, ma persone comuni: il tuo vicino di casa, la tua ex, il tuo collega. Non pensate che avendo bloccato quella persona o quelle persone che proprio non sopportate, queste non saranno più in grado di vedervi. E non solo le persone comuni; molti, anzi tutti i politici italiani hanno account fake per spiare i concorrenti e i compagni di partito».

Nel tuo libro spieghi che c’è un metodo per non essere spiati…

«Sì, basta mettere il profilo privato e andare nelle impostazioni di Instagram e permettere di vedere le stories solo alle persone che ti seguono. Oppure lasciare il profilo pubblico e permettere di vederle solo a quelle che segui. Ma il raggio di azione e la copertura dei post si abbassano».

Secondo te chi in Italia ha la miglior comunicazione Instagram? Chi butti dalla torre tra Beppe Sala e la Raggi?

«Non entro nell’ottica politica, ma entrambi fanno un’attività nulla su Instagram, è praticamente irrilevante, non spostano consensi grazie ai loro post, meglio che non ce l’avessero perché è più probabile che inciampino nel loro utilizzo che azzecchino il post giusto. Si vede che usano Instagram solo perché qualcuno, il loro staff, gli ha detto che devono usarlo. In generale i politici fanno così».

E tra Salvini e Calenda?

«Calenda ha dimostrato di non avere la minima idea di cosa rappresenti la comunicazione social. Qualche tempo fa ha postato su twitter una foto di lui sull’aereo di Stato, sbracato, con Renzi, ai tempi di quando erano al governo. Come caption aveva scritto: “salvando il Paese”. Ora, magari stavano davvero salvando il paese, ma non ci vuole un genio della comunicazione per capire che vedere dei politici sprofondati nei sedili in pelle di un aereo pagato dai contribuenti non ispirerà molta simpatia».

Intanto da Instagram sono spariti i like.

«Già, da qualche mese sotto ogni foto o video non è più visibile il numero dei “mi piace” che quel contenuto ha ottenuto: solo l’utente che lo ha pubblicato può avere accesso a tale informazione. Non c’è più quindi nessuna differenza tra un post della Ferragni – la più seguita in Italia, con 16,4 milioni di followers – e quello di uno sconosciuto che prende dieci like. L’obiettivo ufficiale è di aiutare le persone a non essere timide».

Ma è davvero così?

«No. Intanto il conteggio dei like è scomparso solo in alcuni paesi. E’ un esperimento che Instagram sta facendo su alcuni mercati secondari, come l’Italia e l’Irlanda, ma negli Stati Uniti, che è il loro primo mercato, non si sognano neanche lontanamente di farlo. L’Italia è un laboratorio e noi siamo un po’ come dei topini. E poi togliendo i like togli l’adrenalina; la competizione è quello che spinge tutto, se non hai un confronto, se non hai l’ambizione di piacere agli altri, allora lascia perdere. Non è che Instagram si deve trasformare nel proprio rullino del telefono».

E quindi che succederà?

«Il confronto continuerà a esserci con altre metriche: per esempio il numero di view di un video, e i commenti. Ultimamente Instagram ha anche eliminato la funzione che ti fa vedere chi segue cosa: possibilità che era spesso utilizzata per farsi i fatti degli altri, per fare gossip. I giornali la usavano per vedere, non so, se ?Rihanna si metteva a seguire ?Jay Z. Adesso hanno tolto anche questo, e forse anche per spingere le interazioni suggerite dagli algoritmi. Andare a vedere chi seguivi e a cosa mettevi like poteva essere un modo per scoprire nuove cose».

Insomma Instagram sta diventando “buona”.

«Semplicemente Instagram è un’azienda, e come tutte le aziende studia i comportamenti dei suoi clienti con dei test. Cambia in continuazione, ma vedrete che i like torneranno, ve lo dico io.  Instagram sotto sotto si basa sull’adrenalina di vedere un contenuto che funziona più di un altro, se togli questo togli molto del suo fascino.

Certo. Lo scrivo nel libro. Starci troppo tempo vi fa confondere quello che Instagram è, una vetrina, con una cosa reale. E spiego soprattutto che Instagram è uno strumento. Spiego tutti i trucchi per fare business sfruttandola. Tenendo sempre a mente che siete voi che dovete usare il social, non il social a usare voi».

Eugenio Spagnuolo per “Business Insider Italia” il 17 dicembre 2019. Mirko Scarcella, 32 anni, milanese, è diventato famoso quando il mondo ha scoperto che dietro le prodezze su Instagram dell’imprenditore ballerino Gianluca Vacchi e di altre star seguite da milioni di follower c’era il suo zampino. Da qui l’idea di scriverci un libro, La bibbia, successo, fama, soldi dove spiega i segreti per diventare una star dei social e dove appare in copertina ritratto dal grande David Lachapelle. “Sono il primo uomo italiano a cui fa il ritratto”, gongola. E a proposito di Instagram…

Scarcella, questo è il suo secondo libro sull’argomento social e successo. E libri vanno letti per intero, è vero. Ma ci dia un assaggio: come si fabbrica una star di Instagram?

«Aiutandola a mostrarsi per com’è, nella sua autenticità. Niente lussi, niente finzioni: non vanno più di moda. Poi ci vuole un video virale. Guardi i video che funzionano e li ricrei a tuo modo. Se ha avuto successo con altri vuol dire che può funzionare anche per te».

Solo spontaneità? Possibile? Non servirà anche una strategia, qualche dettaglio che non appare a noi comuni mortali?

«L’approccio giusto non è ‘apro un profilo e ci metto qualche foto’, ma ‘sto creando un’azienda’. Servono contenuti di qualità e molta cura. Bastano due secondi in più in un video a determinarne il successo o l’insuccesso. Bisogna esaminare tutti i dettagli».

C’è chi si rivolge a professionisti come Lei. Ma per far cosa?

«Società come la mia o altre simili si occupano di tutto: creazione di contenuti personalizzati, scelta degli orari in cui pubblicare, scelta degli hashtag, sponsorizzazioni vip: facciamo in modo che alcuni account famosi ti notino e ti seguano e questo vale molto. E soprattutto operiamo scrupolosamente nella prima mezz’ora di pubblicazione di un post: è quello il tempo in cui si può agire. Dopo si rischia di finire nel dimenticatoio. È la dura legge di Instagram».

Come si guadagna una volta diventati famosi?

«Pubblicità dei brand perlopiù. Ma non arriva subito. E anche se arriva, all’inizio bisogna dire molti no per non affiancare la propria immagine a prodotti di basso livello. Vale soprattutto per gli aspiranti influencer: i talent scout dei grandi marchi girano sui social alla ricerca di storie e personaggi. E prendono nota di tutto anche delle aziende a cui uno ha scelto di associarsi. Per questo non bisogna svendersi».

Quanto costa rivolgersi a un professionista come lei?

«Costiamo tra 15 e 20 mila dollari al mese. Una bella cifra, lo so. Ma alla mia società si rivolgono personaggi famosi e anche aziende».

Qualche nome puoi farlo? Un paio sono noti…

«Preferisco evitare. Chi si rivolge a professionisti come me non è detto voglia farlo sapere in giro. Per esempio, ci sono molti personaggi che hanno una grande popolarità e che su Instagram invece non sono riusciti a sfondare perché sul web vigono altre leggi. E ci tengono alla riservatezza».

Nel libro asserisce che anche un medico o un avvocato dovrebbero imparare a usare Instagram. Perché?

«Non c’è una professione al momento che non possa giovarsene. Oggi passiamo più tempo su Instagram che davanti alla tv. È il luogo dove comunicare. Ma bisogna imparare a farlo: se vedo il mio medico fare le ore piccole prima di un intervento, perdo la fiducia. Dunque attenti».

Cos’è Instagram in una battuta?

«Dal punto di vista macro, è un grande editore: ti permette di aprire il tuo “giornale”. Dal punto di vista micro è un’agenzia di collocamento. Tutti sperano di guadagnarci qualcosa».

E ci riescono?

«Alcuni sì: pensi al ritrattista che ha pubblicato un ritratto di Will Smith e questi l’ha ripubblicato sulla sua pagina, rendendolo famoso. Come avrebbe potuto riuscirci in altro modo? Ecco perché Instagram è anche ciò che resta del sogno americano».

Insomma Instagram è un editore, un’agenzia di collocamento, la nuova forma del sogno americano. Altro?

«Sì. Instagram is the new Google. Se oggi voglio vedere un posto dove andare in vacanza o l’auto che voglio comprarmi, vado prima su Instagram. È più aggiornato perché l’algoritmo funziona diversamente. Il che non significa che Google sia morto, intendiamoci».

Però ora c’è TikTok. Instagram se lo mangerà come ha fatto con Snapchat o i cinesi gli resisteranno?

«Instagram ha ucciso Snapchat creando le stories. Ma non è detto che con Reels, la funzione simil TikTok, che per ora si vede solo in Brasile, il giochetto le riesca di nuovo: TikTok è facile e immediato da usare, questo è il suo asso nella manica. Inoltre molte star sono già su TikTok che si esibiscono e sembrano divertirsi. È difficile che tornino tutti sui propri passi».

Ma i like sui Instagram torneranno o meno?

«Secondo me sì: mi sa di un test. Credo che torneranno. I like stimolano l’ego e la creatività. Siamo tutti malati di like: dall’uomo della strada alla superstar, tutti li contano e leggono i commenti».

Veniamo a lei. La sua storia è nota. Ragazzo della ridente periferia milanese, si fa assumere da Zara come commesso, poi ad un tratto scopre che c’è vita sui social e molla tutto. È così?

«Sì, facevo il commesso da Zara, mi misi in aspettativa e passavo le mattine a casa di un amico a smanettare col pc. Fu così che compresi che il web aveva una velocità incredibile. Tutto online poteva essere detto e fatto in breve, senza burocrazia né grandi investimenti. Lì ho capito il potere dell’e-commerce e ho iniziato a lavorarci».

Poi è arrivato Instagram.

«Appena è nato mi ci sono buttato. Con la mia società del resto vado dietro ai fenomeni. Oggi per esempio lavoriamo molto anche con TikTok e Spotify».

Addirittura Spotify?

«Sì, oggi creare la playlist giusta e farsi notare vale più di quanto uno creda».

Vive e opera da Miami. Come mai?

«È più facile avendo a che fare con una clientela internazionale. Faccio tutto via smartphone. Niente ufficio. I miei collaboratori sono sparsi per il mondo».

A proposito quante persone collaborano con lei?

«Dipende dal momento e dal progetto: 10, 20, ma anche 50 per volta. A seconda del progetto».

E se un giovane volesse proporsi? Che fa, manda il curriculum?

«No, semplicemente mi mostra il suo Instagram. Lo valuto per la sua creatività. Se è bravo, lo prendo subito».

Veniamo al libro. Costa 47 euro. Non sarà un po’ troppo?

«Macché, è pieno di cose utili. Ci ho messo tutto quello so. Non volevo fare la solita guida. E questa è anche la ragione per cui ho deciso di chiamarlo “La bibbia”. Lo leggi e capisci come funziona Instagram e i social che vanno oggi. C’è tanta roba. Forse lo traduco anche in cinese. E poi oggi che siamo sommersi dalle informazioni, se spendi tanto per un libro sarai più portato a leggerlo perché gli dai tu stesso valore. E non lo lasci sul comodino in attesa di tempi migliori. Quanti di voi hanno un sogno? Il mondo è cambiato tanto, negli ultimi anni. Grazie ad Instagram si può diventare milionari e questo libro vi spiega come. Io stesso con l’uso di Instagram e grazie al mio cervello ho creato molte aziende. Basta avere un’idea e saperla comunicare.Si può anche diventare delle star con Instagram senza dover ringraziare nessuno, solo grazie alle tue qualità. Io arrivo dalla strada, mi sono fatto da solo, ho fatto sacrifici, per arrivare ai massimi livelli nel mio lavoro. Dovete farlo anche voi, ognuno di noi ha una missione, pensate ad arrivare al successo fatelo per voi stessi. Non mollate è ora di vincere! Questo manuale del mio amico Mirko vi insegna a creare la vostra popolarità con i parametri Instagram, a diventare noti, a far diventare nota la vostra azienda e a vendere prodotti grazie al web. La vita è combattere per arrivare al risultato. Io l’ho sempre fatto e continuo a farlo. Impegnatevi e fate diventare i vostri sogni Realtà. Diventare un idolo, come lo sono io per milioni di persone è una grande soddisfazione, vi auguro di raggiungere i vostri risultati e ricordati che la vita è solo una. Ora è il vostro turno».

Mauro Masi per Affari Italiani il 5 dicembre 2019. Pochi giorni fa, il blogger e editorialista del New York Times Ross Douthat (molto noto anche per essere un cattolico impegnato e oggi critico di Papa Francesco) ha riproposto un suo famoso pezzo che suonava più o meno così «Resistiamo a internet». Attenzione, ci dice l' autore, stiamo diventando schiavi della Rete, abbiamo toccato il fondo e ora ci dobbiamo «de-internettizzare». È vero e in questa rubrica lo si sostiene da tempo ma, visto dove siamo arrivati, per essere realistici e poterlo fare senza troppi traumi bisogna prima capire bene, e questo lo sostiene anche Douthat, qual è la chiave del successo di internet. A mio avviso, la chiave dello straordinario successo di internet sta nella sua apertura («Open internet»), nella sua libertà (che, peraltro, è molto più presunta che reale) combinata con la possibilità che ognuno si senta una parte di un tutto e che in questo modo si illuda di contare qualcosa (i famosi 15 minuti di notorietà globale, cari ad Andy Warhol). Se uno scrive un tweet al Presidente degli Stati Uniti, al Papa o al suo idolo sportivo crede davvero che risponderà Donald Trump, Francesco o Leo Messi e risponderà proprio a lui. Non è così ma, e questo è il bello e l' arcano della Rete, non lo si può completamente escludere. È questa apparente libertà, o meglio questo sapore di apparente libertà e di democrazia diretta, che fa accettare a tanti di noi, pur potendo ben vedere la realtà, quello che la rete è diventata oggi: al tempo stesso il «major driver» della crescita mondiale non solo economica ma anche un Far West dove comanda chi ha la pistola più potente o chi spara per primo. Nessuno è in grado di decidere delle regole condivise eppure la rete vive di standard e gli standard sono fissati da poche grandi aziende, tutte americane, che non casualmente vengono ormai unanimemente indicate come le «Over the Top» (quelle «sopra a tutto») e che sono divenute esse stesse le icone del nostro tempo (oltre a essere le prime al mondo per capitalizzazione di Borsa): Google, Facebook, Twitter, Amazon, Apple, Microsoft. Gli standard che si sono affermati sulla Rete non prevedono la tutela dei diritti anzi su internet appare regolarmente ciò che altrove sarebbe impossibile perché vietato per legge. In questo senso è paradigmatica la vicenda del diritto d' autore/copyright. Il diritto d' autore è, da ben prima di internet, fonte di contrasti, polemiche, divisioni. Il boom del digitale e della Rete ha enfatizzato queste divisioni rendendole, se possibile, ancor più apodittiche. Scompare la differenza tra originale e copia e l' opera dell' ingegno messa online diventa un patrimonio di tutti e scompare, di conseguenza, il concetto dell'«avente diritto» in quanto ideatore/creatore dell' opera. Al limite nessuno può vivere della propria creatività perché tutto è (o può essere) trovato gratis online; quindi solo chi ha censo può dedicarsi all' arte, allo sviluppo delle idee configurando così un ulteriore paradosso di internet: l' anarcoide free internet favorisce una concezione aristocratica e oligarchica dell' arte e della creatività che richiama molto da vicino quello che accadeva nell' antica Roma dove solo i ricchi potevano dedicarsi alla politica in quanto il cursus honorum era rigorosamente privo di compensi, totalmente gratuito. Anche per questo ben venga la «de-internizzazione» della nostra società, tenendo però presente che non va confusa la fisiologia con la patologia, le «fake news» con «internet delle cose» e che la Rete è, e resta nonostante tutto, la chiave della modernità.

Lisa Eadicicco per it.businessinsider.com il 7 dicembre 2019. Il motore di ricerca di Google è diventato così pervasivo che è quasi impossibile ricordarci di quando non si riusciva a trovare una risposta a praticamente ogni domanda semplicemente cercandola su Google. Il temine inglese google è ormai così diffuso che il dizionario Merriam-Webster lo riconosce come verbo dal 2006. Ma anche se usi Google tutti i giorni, probabilmente ogni tanto non riesci a trovare quello che stavi cercando. Ecco dove entra in gioco Daniel Russell, che lavora come scienziato ricercatore per la qualità della ricerca e la felicità degli utenti presso la compagnia. Il suo incarico prevede anche l’esecuzione di test per comprendere meglio il modo in cui le persone usano il motore di ricerca di Google nella vita di tutti i giorni. E tale ricerca gli ha fatto notare tre abitudini comuni che possono complicare il raggiungimento della risposta che stai cercando. Diamo un’occhiata ai tre errori che, secondo Russell, le persone compiono quando eseguono una ricerca su Google. Fermarsi dopo una ricerca su Google quando si cerca un argomento. Di solito un’unica ricerca su Google non è abbastanza per comprendere pienamente un argomento, dice Russell, in particolare se complesso o ampio. Russell suggerisce di eseguire almeno due ricerche su un dato soggetto per ottenere una visione più esaustiva e completa. Adattare la tua domanda per ottenere un particolare risultato di ricerca. Un’altra pratica comune che Russell osserva tra gli utenti Google è quella di inserire una richiesta molto specifica per ottenere un risultato desiderato che potrebbe non rispondere con precisione alla domanda. Ad esempio, immagina di eseguire una ricerca per sapere qual è la lunghezza media di un polpo. Potresti avere sentito che la risposta è 53 centimetri, a forse non sei sicuro per cui hai deciso di compiere una rapida ricerca su Google per controllare. Invece di digitare la richiesta “lunghezza media di un polpo 53 centimetri”, dovresti cercare solo “lunghezza media di un polpo”. Eseguendo la prima potresti indurre Google a fermarsi a risultati di ricerca che elencano 53 centimetri come risposta, anche se non corretta. “Non vorresti mai influenzare una giuria”, ha detto Russell. “Così, analogamente, non dovresti inserire nella tua ricerca termini che inducono Google a darti un tipo di risposta specifico”. Evitare risultati di ricerca con parole che potresti non conoscere. Se vedi un risultato di ricerca che sembra promettente ma comprende termini che non conosci, non ignorarlo, dice Russell. Facendo così, potresti perderti un’informazione preziosa che include le risposte che stai cercando. Prova invece a eseguire un’altra ricerca con Google sulle parole che non consoci. Russell ha indicato un esempio, ricordando un caso in cui la persona che stava seguendo nella sua ricerca sul campo aveva inserito una query di ricerca del genere “Perché in estate mi vengono delle macchie bianche in faccia?”. Quella persona ha saltato il risultato principale perché conteneva la parola “ipopigmentazione”, un termine che si riferisce alle macchie cutanee più chiare rispetto alla carnagione normale, secondo Healthline. Ma questa persona non sapeva cosa volesse dire, per cui ha ignorato il risultato anche se includeva le informazioni che stava cercando. “Quando leggi o scrivi, non dovresti lasciare che le cose scivolino via”, ha detto Russell.

La dipendenza da Internet: «Ragazzi, il futuro non è virtuale». Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. Attaccati ai telefoni, connessi al web tanti giovani vivono in un mondo di relazioni sempre più «digitali». Ma è possibile essere felici da soli? L’analisi nell’anticipazione del nuovo libro di Paolo Del Debbio

«La dipendenza da Internet è una malattia che, tra coloro che sono nati nell’epoca della Rete e dei social, si sta diffondendo a ritmi molto veloci e, se non presa in tempo, può provocare ferite destinate a lasciare un segno profondo nei nativi digitali». Lo scrive uno dei non moltissimi giornalisti che conoscono gli italiani. Paolo Del Debbio vide arrivare — e contribuì a far arrivare — prima Silvio Berlusconi, poi Matteo Salvini. Ora, nel libro in uscita per Piemme, si occupa di noi, delle nostre famiglie. Titolo: «Cosa rischiano i nostri figli. L’incertezza di una generazione». Dipendere da Internet, annota Del Debbio, è come dipendere dall’alcol, dalla droga, dal gioco d’azzardo. Con una differenza fondamentale. L’alcol costa; magari poco, ma costa. La droga costa molto. Il gioco d’azzardo, per i ludopatici compulsivi, costa moltissimo. Internet è gratis. È stato notato che, quando un prodotto è gratis, in realtà il prodotto sei tu. Ma questo sembra lasciare del tutto indifferenti i giovani italiani. E non soltanto loro. Riconosciamolo: anche per noi, «immigrati digitali» come ci definisce l’autore, noi che non ci siamo caduti dentro da piccoli come Obelix nella pozione magica, soffriamo da dipendenza da cellulare. Lo guardiamo ogni secondo, ci alziamo di notte, controlliamo di continuo messaggi, mail, WhatsApp. Figurarsi i nativi digitali, che hanno imparato a usare lo smartphone o il tablet prima di imparare a leggere e a scrivere. Il rischio è che a leggere non imparino mai; o lo considerino un’abitudine desueta, d’altri tempi, riservata a pochi, come andare a cavallo o giocare a canasta. Il telefonino infatti non serve loro per telefonare; è un trampolino per gettarsi nel mare vasto della Rete. Dov’è in agguato Narciso. I pericoli non sono soltanto i violenti, gli adescatori, gli spacciatori, i bulli che mettono in rete le loro malefatte, e mettiamoci pure gli influencer che fanno pubblicità a pagamento senza dirlo; il pericolo è dentro di noi. È l’individualismo che non diventa vitalismo ma narcisismo: attitudine sterile per definizione. I nostri figli, scrive Del Debbio, «rischiano che, in un numero di anni che si contano sulle dita di una mano, le loro menti, i loro cuori, i loro corpi e le loro anime si chiudano nei confronti della vita reale e si aprano solo nei confronti della vita virtuale. Rischiano, in altre parole, di disamorarsi della vita vera e di innamorarsi della vita artificiale, quella dei social, fino ad ammalarsene». L’obiezione viene spontanea: si stava forse meglio quando la Rete non esisteva e i telefoni (fissi) erano solo per i ricchi? Quando partire per l’America significava morire agli occhi di padri, mogli, figli? Del Debbio contrappone due storie esemplari. Quella di Ermanno, emigrato negli Stati Uniti nel secolo scorso, e quella di Vittorio Emanuele, nativo digitale. Ermanno partì da Vico Pancellorum, un piccolo borgo sull’Appennino sopra Lucca, che l’autore conosce bene. Un paese spopolato dall’emigrazione. Prima di mettersi in viaggio per il nuovo mondo, gli abitanti andavano in chiesa a pregare il santo patrono, san Paolo. Poi si inginocchiavano dietro la sua statua lignea, la incidevano con un coltellino, e ne ricavavano una piccola scheggia che custodivano in un astuccio. Stringendo nel pugno quella scheggia, Ermanno arrivò a piedi al porto di Genova, vide il mare per la prima volta, sopportò 30 giorni di burrasca, affrontò gli umilianti controlli di Ellis Island e l’impatto con i nascenti grattacieli di New York. Quella scheggia gli ricordava chi era, in cosa credeva, da dove veniva. Vittorio Emanuele ha una qualità della vita incomparabile con quella di Ermanno. O, meglio, la avrebbe. Perché Vittorio Emanuele non vive. Se non virtualmente. È sempre connesso. A pranzo lascia il cellulare acceso. Il pomeriggio è per i videogame, in contatto con coetanei malgasci di cui non sa nulla, i problemi i sogni le paure; sa solo che giocano meglio di lui, e non riesce mai a batterli. A cena il padre gli impone di lasciare il cellulare in stanza. Per lui, una tortura: come smettere di correre, bruciare di sete e non avere l’acqua. La notte è per gli influencer. Lui ne segue, anzi idolatra uno in particolare: Heaven Now; il paradiso, ora. Motto: «Si può essere felici anche da soli, nella propria cameretta. Basta far sapere agli altri che ci siamo e sapere della vita degli altri. Stay linked!». Ma si può crescere così? Pensando i pensieri di un altro? Senza sapere chi si è, da dove si viene, cosa si vuole? Rischiando ansia, manie, depressione, vere e proprie malattie? C’è un solo rimedio a tutto questo, scrive Del Debbio nell’ultimo capitolo. L’educazione. Il dialogo. È fondamentale che le generazioni si parlino. Che i padri e i nonni affrontino i figli con la pazienza della goccia che scava la roccia. Anche a costo di rinunciare loro per primi a dipendere dalla rete e dai cellulari. I ragazzi vanno accompagnati nel percorso di vita: lo studio, il volontariato, la ricerca di un lavoro, che spesso li spaventa, rappresenta il loro timore non detto, quasi un mostro che li induce a chiudersi in stanza con lo smartphone e l’influencer. Non è facile, anzi è difficilissimo; ma non c’è altra soluzione.

Vittorio Feltri sul libro di Paolo De Debbio: "La mano del demonio, ecco cosa rischiano i nostri figli". Libero Quotidiano il 6 Novembre 2019. Si parla di Internet, di Rete, di social. E di ragazzi. Sono almeno trecentomila gli adolescenti che vivono una dipendenza da questi strumenti, al punto che essi non sono strade, bensì luoghi totalitari, da cui è impossibile uscire. E se ne sei costretto, soffochi, vai in astinenza, e capita di uccidersi. Ci sono rimedi a questa galera elettronica, che succhia umanità e soprattutto brucia giovinezze? Paolo Del Debbio con il suo profondo e avvincente Cosa rischiano i nostri figli (Piemme, pagine 175, 17,50) non ha la formula magica. Chiama «malattia» una sorta di sindrome, non la minimizza, non si risolve il problema con le prediche, ma con la cura, con gli specialisti. La solitudine non è assoluta. Del Debbio ci insegna a percepire, da dietro le alti pareti della droga-social, le grida disperate di tanti ragazzi. Non basta l'affetto per curarli. Occorre trattare tale stato di prostrazione per ciò che è: una patologia. L'amore dei genitori e degli educatori è la spinta che induce ad osservare e a capire che cosa sta accadendo. La passione vera, la disponibilità a versare se stessi per quell'adolescente sarà un fattore decisivo per convincerlo ad accettare di voler guarire. Ci sono centri idonei. E mi fa piacere veder citato il grande medico e collaboratore di Libero Luca Bernardo tra coloro che sono attivi in questi progetti. Sono almeno trecentomila i giovani prigionieri del virus per cui credi di esistere se sei virale. La forza del volume è di saper turbare. Mi ha fatto commuovere. Ti trascina a condividere il dramma di una generazione di «nativi digitali», nati cioè in questa giungla, e come sia stato possibile siano precipitati nelle fauci di Internet-il-Cannibale.

La causa. Risale anche alla generazione pre-elettronica. Abbiamo perso la «scheggia» racconta Del Debbio e non l'abbiamo perciò consegnata ai figli. L'autore ci porta nella valle toscana da cui proviene. Tanti da lì partirono per l'America, vivendo l'emigrazione come un esilio. Eppure queste persone, semi-analfabete, erano profondamente colte. Avevano un perno affettivo, un grumo di memoria vivace. Ermanno (figura simbolo) quanto i suoi compaesani prima del viaggio staccava una piccola scheggia di legno dalla statua di San Paolo, la faceva benedire dal prete, e la cuciva in una tasca. Era un fatto pagano? Non lo so. È un po' come il rosario impugnato da Salvini: indica un legame con qualcosa che nessuna multinazionale o nessuna potenza ideologica potrà portar via. Si tratta di ritrovare questa «scheggia». Internet accade tutta e solo nell' immediato. Taglia fuori dalla vita facendo credere che consista nella sua navigazione. I motori di ricerca sono bibliotecari ubriachi. Chiedi a Google un'immagine di Napoleone e ti viene fuori la scatoletta di sardine «Napoleon». Occorre una base su cui poggiare, «un filtro», alcunché di solido per affrontare il mare infinito e ingannevole di Internet. Anzi due filtri. Uno fatto di concetti, nozioni, chiarezza di punti di vista sulla storia per capire e selezionare. Il secondo è il lavoro più importante: quello di togliere le incrostazioni che impediscono di comunicare la strana impalpabile cosa che si chiama «l' umano in noi», dice Del Debbio, che non sappiamo bene in che modo definire ma si rivela nel momento in cui, davanti a certi racconti e immagini, ci viene «la pelle d'oca». Ripartire da lì. Un libro magnifico. Da leggere nelle scuole. Da meditare in famiglia. Con consigli pratici. Ne indico tre fra i molti.

1) Genitori controllate lo smartphone dei ragazzini. Oggi soltanto il 10 per cento lo fa. Stabilire che cosa e chi frequentano è importante.

2) Stabilire delle regole per la connessione. Tempi di silenzio, in cui tenersi staccati dalla Rete.

3) L'esempio degli adulti. Se in famiglia si privilegia il tweet col mondo esterno a un «come stai?» vero e serio, altro che «scheggia» nel senso di Ermanno, cioè come legame alla vita reale: si diventa schegge impazzite. Leggere il libro mi ha riportato alla mente un antico colloquio di cui riferirò tra poco con la dovuta riverenza. Erano gli anni '90, Del Debbio non era il conduttore televisivo con sangue freddo e riflessi caldi che conosciamo tutti. Neppure lui credo sospettasse un destino futuro di popolarità catodica.

Questo toscano classe 1958, con studi di teologia nella zucca, era noto tra gli addetti ai lavori poiché consigliere intellettuale di Silvio Berlusconi. In quelle vesti si sussurrava avesse concepito e messo in pagina il programma liberal-cristiano del Cavaliere. Probabilmente un capolavoro, sicuramente l'opera più inutile del mondo, un po' simile al fantastico progetto del Ponte di Messina. Dopo di che Del Debbio, che non aveva voglia di fare il mestiere della pedina, si dedicò alla comunicazione e all'economia, sfornando volumi di alta classe, ottenendo cattedre universitarie, pubblicando editoriali di pregio. Cercai di ingaggiarlo per il nascente quotidiano che stavo fondando, si disse dispiaciuto, tuttavia aveva altro in mente, e forse c'era stato qualche consiglio arcorese che non aveva potuto trascurare. Un «no, mi spiace», espresso con classe, del resto stava entrando come un esploratore di cose nuove tra le onde di Mediaset.

Eccomi al punto. Chi per primo mi tracciò un ritratto splendente di Paolo Del Debbio, indicandomelo quale uno dei pochissimi uomini di cultura vera e non abborracciata della scena pubblica italiana, e di sicuro il migliore nel centro-destra col trattino, fu Francesco Cossiga. Scrivo «fu» accanto al nome del Gatto Sardo, e se avessi tra le dita la penna invece dei tasti calcherei quelle due lettere fino a bucare il foglio. Non mi rassegno a questo «fu», mi fa rabbia ancora se ne sia andato presto. Provo un senso di vuoto e di rimpianto a proposito di lui e di Oriana Fallaci. Mi scuso e procedo. Cossiga mi raccontò di Del Debbio che passava come lui le vacanze in Inghilterra e Irlanda, entrambi studiosi di Tommaso Moro e del cardinale Newman. E di che Paese triste fosse l'Italia che non sapeva portare in alto un uomo come quel giovanotto «che si era laureato su Maritain». Ora trovo a pagina 168 queste cinque righe, che però sono il centro del libro, e del modo di intendere la vita, l'educazione, l'amicizia, il rapporto tra le persone di Del Debbio (e Cossiga).

Cito: «Come recitava il motto sullo stemma di un grande teologo e cardinale inglese, che è stato fatto santo lo scorso 13 ottobre, Henry Newman: "Cor ad cor loquitur", "il cuore parla a un altro cuore". E, potremmo dire, l'umanità di un corpo parla all'umanità di un altro corpo. E di un'altra anima». Lo scopo del volume di Del Debbio, che mi fa capire tanta della sua televisione, accusata stupidamente di populismo, è proprio questo: bucare il cristallo apparentemente infrangibile della solitudine in cui si trovano sperduti tantissimi giovani, coi loro padri, madri e nonni, che bussano invano a quella porta blindata. Da dietro esce un grido che chiede soccorso. Solo adulti consapevoli possono venire in soccorso alla «Incertezza di una generazione» (recita il sottotitolo). Ma lo siamo? Almeno proviamoci. di Vittorio Feltri

Paolo Del Debbio: età, peso, altezza, carriera e vita privata del conduttore di “Dritto e Rovescio”. Oriana Cantini il 12 Settembre 2019 su urbanpost.it. Cosa sappiamo del famoso giornalista al timone della trasmissione di approfondimento targata Mediaset?

Paolo Del Debbio è nato a Lucca, in Toscana il 2 febbraio 1958. Ha 61 anni, è alto 180 cm e pesa circa 83 kg. Si è laureato in filosofia presso la Pontificia Università della Santa Croce di Roma. Dal 1988 al 1993 ha lavorato presso Fininvest Comunicazioni, una società di “relazioni esterne ed istituzionali” del gruppo Fininvest, dapprima come “coordinatore del centro studi”, in seguito anche come assistente dell’amministratore delegato Fedele Confalonieri. Al momento è insegnante a contratto di etica ed economia all’Università IULM di Milano e scrive per Il Giornale. Nel 2001 Paolo Del Debbio si è iscritto all’Ordine dei Giornalisti Pubblicisti. Ha pubblicato diversi saggi come Global. Perché la globalizzazione ci fa bene, edito da Mondadori nel 2002. Il debutto in tv nel 2004 col programma Secondo Voi. La popolarità arriva però nel 2010 quando il 61enne affianca Federica Panicucci nella conduzione di Mattino Cinque. Tra le altre trasmissioni di successo: Dalla vostra parte, Perché sì perché no e Quinta colonna. Dal 7 marzo 2019 conduce Dritto e rovescio, sempre su Rete 4.

Carriera politica. Paolo Del Debbio è noto anche per la sua carriera politica, lasciata ufficialmente nel 2001. All’età di 35 anni, nel 1994, al fianco di Silvio Berlusconi, ha contribuito alla fondazione di Forza Italia. Si è candidato con il PdL come governatore della Toscana, ruolo che invece è andato a ricoprire il candidato di centrosinistra Vannino Chiti.

Vita privata di Paolo Del Debbio. Della sua vita privata si sa che è stato sposato con Gina Nieri, manager di Mediaset, dalla quale ha divorziato. Dal matrimonio sono nate due figlie: Maddalena e Sara. Al momento Paolo Del Debbio dovrebbe essere single. 

Senza pudore - La vita dei nostri figli sullo smartphone. Pose provocanti, sesso in pubblico, ricatti psicologici, violenza di ogni tipo. Viaggio nei telefonini dei nostri figli che stanno rovinando una generazione. Massimo Castelli e Terry Marocco il 9 dicembre 2019 su Panorama. Sembra un quadro di Edward Hopper, dove la banalità del quotidiano copre l’angoscia. Una famiglia come tante al ristorante: papà, mamma, una figlia, in quell’età che bambina è poco e ragazza è troppo, lo sguardo che non si sposta dal telefonino. «Stai sempre al cellulare», la rimproverano i genitori senza convinzione. Lei si alza indifferente e dice: «Vado in bagno», come fosse una risposta. Chiude la porta a chiave, solleva la maglietta e fotografa allo specchio i seni acerbi. Invio. Si gira di schiena, abbassa i pantaloni per mostrare l’intimo e scatta di nuovo. Invio. Quando torna al tavolo la mamma le sta amorevolmente tagliando la pizza. Benvenuti nel nuovo mondo dei nostri figli. Sesso casuale, bestemmie, inni a Adolf Hitler e all’Isis, droga, soprusi. Scabroso? Certo. Diffuso? Più di quanto osiamo temere. Da anni bambini e preadolescenti hanno a disposizione tecnologie poderose, strumenti dalle capacità infinite che li iperconnettono tra loro e con il mondo infinito di internet e dei social network. Il solco, che ha sempre diviso una generazione dalla precedente, con lo smartphone è diventato un intreccio di oscure gallerie digitali da cui gli adulti (cresciuti giocando in cortile), sono tagliati fuori. Vita reale e vita virtuale si mescolano, si confondono: «È la Onlife, come l’ha definita il filosofo Luciano Floridi» spiega Matteo Lancini, psicoterapeuta e presidente dell’Istituto Minotauro di Milano. «Bambini nudi e bambini nei forni crematori: più crei contrasti, più crescono i like. E alla base c’è una ricerca spasmodica di successo, popolarità. I nostri figli pensano che meglio essere morto e popolare, che vivo e trasparente». I pochi sprazzi di verità che ci sono concessi lasciano semplicemente esterrefatti. «Credo che la parola giusta sia “disperazione”» allarga le braccia Marco P., 51 anni, milanese, padre di una dodicenne che lui ingenuamente pensava ancora bambina. «Le abbiamo comprato il telefono in quinta elementare e da allora è diventato la sua vita». Ne fa un uso compulsivo. È come una droga. Ma purtroppo c’è di più, come racconta a Panorama: «In prima media le abbiamo permesso di connettersi ai servizi di messaggistica e ai social. Non possiamo tagliarla fuori dalla sua generazione, ci siamo detti. Invece l’abbiamo rovinata». Quando finalmente Marco accede al telefono della figlia è un vero trauma: conversazioni su Instagram Direct e WhatsApp infarcite di parolacce, riferimenti all’acquisto di macchinette per «svapare» e a compagni di scuola che usano marijuana, sexting con le sue foto nuda, baci saffici, immagini di genitali maschili in erezione. Fino a filmati di masturbazioni e sesso orale praticato dalla giovanissima nel bagno di un McDonald’s. Con le amiche, tante, tantissime, parlano di esperienze simili. Non è la bambina dolce ed educata che Marco credeva di avere in casa. «Non so spiegare la rabbia e la pena che ho provato. Ma la colpa è nostra» racconta con gli occhi stanchi. «L’abbiamo lasciata entrare in un “luogo” dove vale tutto, con milioni di ragazzi e nessun adulto a indicare cosa sia giusto e sbagliato». Un Paese dei balocchi che pensiamo virtuale e che invece è reale e crudo, dove si torna allo stato primordiale, alle pulsioni ormonali, alla legge del più forte. «Dopo questa scoperta le abbiamo parlato a lungo. Ha confessato che le foto erano solo per un ragazzino, che prima le ha detto di volersi fidanzare con lei, poi le ha girate agli amici ed è sparito. Sui social hanno cominciato a chiamarla “puttana”. Ha sofferto, ma ce ne siamo accorti in tempo, forse. Credo abbia imparato la lezione» conclude il padre, che ha deciso di cambiare turni di lavoro per poter stare più tempo a casa. «Il cellulare glielo abbiamo lasciato, ma la controlliamo, abbiamo tutte le password. Anche se un modo per sfuggirci lo troverà sempre».

Il suo non è un caso isolato. Un sondaggio di Pepita Onlus, cooperativa di professionisti dedicata a interventi educativi, su 1.227 ragazzi ha rilevato come questa tendenza a condividere immagini o video di natura sessuale («sexting») sia endemica tra i nati dal 2005 al 2007. Il 96 per cento dichiara di aver condiviso foto o video a contenuto sessuale (tra i nati dal 1999 al 2004 la percentuale scende al 33). I motivi? Essere popolare, divertirsi. «Siamo in un’epoca di erotizzazione precoce e quello che si conosce è solo la punta dell’iceberg» spiega l’avvocato Marisa Marraffino, esperta in reati informatici e attivissima nel fare formazione sulle problematiche legate all’utilizzo della tecnologia nelle scuole italiane. «Vivono tutto su internet. Velocemente, con una fragilità di sentimenti che unisce dipendenza tecnologica e affettiva. A 12-13 anni ormai si avvicinano al sesso e i primi rapporti avvengono sotto forma di ricatto psicologico. Un problema che riguarda soprattutto le ragazze che rimangono appese al messaggio del ragazzotto che gli dà la buonanotte. Basta ricordare il caso della giovane che si è presentata in ospedale con un’ustione alla guancia perché il fidanzato le ha chiesto di rimanere al telefono con lui fino al mattino».

È facile finire irretiti. Il fidanzato dice: «Facciamo un gioco», oppure «Ti mando una mia foto». E certo non è quella del sorriso. Poi continua: «Se mi ami, mandamene una tu». Lei rifiuta la prima volta. Lui insiste: «Io mi sono fidato, tu invece no. Se non la invii significa che non mi ami, quindi devo lasciarti...». E allora lei cede. Continua l’avvocato: «Dalle foto si passa al video e qualche volta all’incontro fisico. Il ragazzo quasi sempre condivide tutto con gli amici, a scuola, e così gli scatti cominciano a girare».

Ma può funzionare anche in altri modi. Ovvero senza tirare in ballo l’amore. Sui social si può accedere a tantissimi «profili» e dopo aver visto le foto capita di contattarsi senza conoscersi di persona. «Ti trovo carino. Che fai?», può essere il messaggio scritto da una giovane a un ragazzo che l’ha colpita con le immagini giuste. In questi casi Instagram funziona un po’ come fosse «Tinder piccoli» (Tinder è una popolare app per incontri casuali tra adulti). Nel giro di qualche botta-e-risposta ci si comunica l’ipotetica disponibilità a baciarsi. Scambiarsi foto provocanti è un attimo. Questo è quanto cresce nell’humus dei social, dove essere sexy è praticamente obbligatorio. Su Instagram e TikTok (la app tutta musica e balletti in grande ascesa), preadolescenti mostrano le loro forme con una malizia che sembra rimbalzare dai siti pornografici. Al porno d’altronde accedono fin dalle elementari. «Guardando la cronologia di mia figlia ho scoperto che ha scritto: “Come piacere a un ragazzo” sul motore di ricerca di YouPorn» si dispera una mamma milanese. «Anche lei, a 12 anni, ha inviato svariate foto del suo corpo a un ragazzo attraverso Instagram, con la raccomandazione di non mostrarle in giro. Come prima reazione, le ho detto che è una cretina. Ha sbagliato e lo sa, anche se ho l’impressione che non gliene importi nulla se le foto saranno viste. Certo che se capitasse, se ne pentirebbe amaramente». Alberto Pellai, psicoterapeuta dell’età evolutiva, ha appena pubblicato con Elisabetta Papuzza il saggio Cyber Generation (Franco Angeli), dove un capitolo è dedicato all’incontro con i contenuti “perturbanti” della rete: «Ricevo centinaia di mail di genitori sconvolti da quello che trovano sui cellulari dei loro ragazzi» racconta. «È il segnale di un mondo adulto che non presidia più il territorio. Gli adolescenti sono disarmati, inconsapevoli, sono loro stessi che mandano in giro foto problematiche. Cinque secondi di stupidità. Sperano che nulla accada, ma se succede qualcosa non sei più uno che ha fatto un errore, diventi tu l’errore». Come la ragazza di terza media di una scuola bene di Roma che aveva inviato al fidanzato un video dove si masturbava. Lui dopo averla lasciata l’ha fatto girare tra i suoi amici e lei si è trovata con tutta la scuola a conoscenza di quelle immagini. Non ha retto, si è ritirata dagli studi. «Le ragazze sono le più esposte, usano se stesse come un oggetto solo per ricevere like. Spesso sono vittime delle amiche bulle. Arrivano da noi con un carico di dolore infinito» dice Francesca Maisano, psicoterapeuta e referente del Centro nazionale sul disagio adolescenziale all’interno dell’ospedale Fatebenefratelli Sacco a Milano. Come Claudia (nome di fantasia), 15 anni, la cui unica colpa era quella di venire corteggiata da un ragazzo che piaceva a una sua amica. Così per invidia le altre creano un profilo fake, dove le sue foto vengono manipolate, involgarite. E tra i compagni gira una chat dal nome osceno: Claudia, la troia. Quando l’ha scoperto è crollata: ha cambiato tre istituti, ha perso peso, iniziando a soffrire di gravi disturbi alimentari.

«Per i genitori, soprattutto per i padri, vedere queste foto è angosciante. Non sanno, non immaginavano. Sono impreparati, nessuno gli ha spiegato cosa fanno i loro figli sul telefono» continua la psicoterapeuta. «Gli adolescenti faticano nelle relazioni, non ce la fanno a gestire il dolore. Si tagliano, hanno propositi di suicidio, vogliono ritirarsi da scuola». Anche per i maschi non è facile: «Vengono minacciati verbalmente in modi terribili. Le ultime cose che ho letto erano durissime: “Palle mosce, frocio di merda, devi morire di cancro tu e tutta la tua famiglia”. E questo in prima media» conclude Maisano. Il sesso è banalizzato e cresce in modo inquietante la componente violenta. Racconta la madre di un maschio: «L’altro giorno ho controllato la cronologia del cellulare di mio figlio tredicenne e mi sono accorta che negli ultimi mesi ha visitato spesso siti porno. La cosa che mi preoccupa sono i titoli di certi video: Stupro, Ragazze umiliate. Ho trovato anche un gruppo WhatsApp che coinvolge una decina di compagni di classe dove pubblicano immagini pedopornografiche e commenti razzisti. Mio figlio è un ragazzino riservato, timido. Quando vengono a casa i suoi amichetti li vedo giocare alla lotta o a nascondino. Mi sembrano dei bambinoni». Per le mamme sono bambinoni a vita, ma la versione di una compagna di sedici anni è diversa: «Quelle più piccole sono molto peggio di come eravamo noi. In poco tempo tutto è cambiato. Fumano a dieci anni, perdono la verginità a 12, a 13 i maschi spacciano. Le femmine inondano i compagni delle loro foto. I cellulari dei ragazzi ne sono pieni. Tutto per avere un po’ di “immagine”. Pose sexy, in perizoma o nude, anche mentre si toccano. Hanno perso il pudore». Anche perché in alcuni casi è garantito l’anonimato. ThisCrush (questa cotta), è un social collegato a Instagram nato per dare la possibilità di superare l’imbarazzo adolescenziale con messaggi «da sconosciuti», ma è diventato il mezzo per esprimere di tutto. Odio, disprezzo, volgarità. Come gli «hater» e anche di più. È a causa di messaggi di questa natura che a fine settembre una tredicenne si è tolta la vita gettandosi dal nono piano della sua abitazione nel quartiere Aurelio a Roma. Secondo quanto risulta dalle indagini non ha retto a frasi come «Demente e zoccola», «Se tu non esistessi sarebbe tutto migliore», e così via... «A dieci anni mia figlia, entrata in ThisCrush a mia insaputa, ha ricevuto il seguente messaggio: “Sei una culona schifosa ma se ti vedo ti inc... a sangue”» racconta una madre fiorentina. «Denunciare? Mi hanno detto che è complesso e spesso non porta a niente. L’ho solo costretta a togliere quella funzione». Negli ultimi anni la Polizia postale ha visto aumentare le denunce per sexting e cyberbullismo. «Sulle chat e sui social girano odio, discriminazione, razzismo, violenza, sexting e in questo calderone emergono anche le immagini pedopornografiche. La domanda che ci facciamo spesso è come inciderà tutto questo sulla personalità di un adolescente» riflette Fabiola Silvestri, dirigente del compartimento di Polizia postale e delle comunicazioni di Piemonte e Valle d’Aosta. «Si sentono forti, chiusi nelle loro stanze, dietro i monitor. Pensano di essere invisibili, ma non è così, ogni device può essere rintracciato». Il fenomeno è trasversale e l’età critica è quella delle medie. «Ma ci troviamo davanti anche a bambini e bambine di dieci anni. Pensano di non fare niente di male, condividono foto del loro corpo spesso in modo inconsapevole. La rete è particolarmente aggressiva verso le ragazze. A volte è così insopportabile che si arriva al suicidio, come fu per Carolina Picchio, che nel 2013 si uccise a 14 anni per cyberbullismo. Il nostro compito è anche la rimozione dei contenuti, ma non possiamo escludere che se sono stati scaricati con un servizio di messaggistica istantanea possano tornare a circolare, anche a distanza di tempo. Il web non dimentica». «Siamo a un passo, divisi da un vetro specchiato» canta Gemitaiz, rapper idolo di questa generazione. Noi e i nostri figli. Così vicini, immensamente lontani.

Violenza e fragilità, la vita dei nostri ragazzi al cellulare. La seconda puntata dell'inchiesta di Panorama tra videogiochi traumatici, cyberbullismo, sesso selvaggio e droga. Terry Marocco e Massimo Castelli il 19 dicembre 2019 su Panorama. Questi ragazzini come cento iene, con i cellulari attaccati alle vene». Gemitaiz, rapper romano, è quello che meglio sa interpretare la scatola nera che hanno nel cuore i nostri ragazzi. Trecentomila adolescenti italiani, maschi e femmine, su due milioni e 800 mila sono malati di Iad, ossia Internet addiction disorder. È più del 10 per cento, un numero semplicemente spaventoso. «Sono come canne al vento. E per i nativi digitali il vento soffia anche e soprattutto dai social network» scrive il giornalista e docente universitario Paolo Del Debbio nel suo ultimo saggio Cosa rischiano i nostri figli (Piemme). «È una dipendenza, come l’alcol, la droga. Non riescono più a vivere senza essere collegati per almeno sei ore al giorno. E se il cellulare si rompe soffrono di vere e proprie crisi di astinenza. Stati di ansia, tremori. Pochi tra gli adulti immaginano che si tratti di un fenomeno così esteso. Il 90 per cento dei genitori non controlla il cellulare dei propri figli» spiega a Panorama il conduttore di Dritto e rovescio. L’incertezza di una generazione persa nell’era della post-ideologia: «La violenza si scatena sulle chat perché non esiste un confronto diretto» continua Del Debbio. «Ho ripensato alle lettere dei soldati dal fronte durante la Prima guerra mondiale. C’era il dolore di aver sparato a un altro uomo dopo averlo visto negli occhi. Oggi invece i ragazzi “uccidono” senza mai guardare la vittima». Come è capitato a Sofia (nome di fantasia), di 14 anni, che vive in provincia di Verona. Tutto ha inizio perché a un’altra amica piaceva lo stesso ragazzino. Dopo pochi mesi Sofia scopre che è stato creato un suo profilo fake su Instagram, dal quale insulta pesantemente i compagni. Viene allontanata dal gruppo, anche se non ha fatto niente, ma nessuno le crede. «Noi abbiamo capito che era sincera» racconta la madre. «Soffriva, piangeva, non dormiva più. Viviamo in una piccola città, dove tutti sapevano. Si era creato il vuoto intorno». Dopo un mese scopre che circola anche una chat su WhatsApp a suo nome da cui partono bestemmie, minacce di morte, altre oscenità. «La nostra famiglia era provata, non riuscivamo più a gestire la situazione, abbiamo chiesto aiuto a uno psicologo e poi a un avvocato. La vittima paga un prezzo altissimo» continua la madre. «Siamo andati alla Polizia postale, ma denunciare un altro minore è molto pesante. Emotivamente difficile. Se non lo fai sei complice, eppure io pensavo al dolore della famiglia della ragazzina che aveva fatto tutto questo. Forse senza rendersene conto». Una volta era la scritta sul muro che si cancellava con un secchio di vernice, oggi lo stigma rimane. Come un Franti moltiplicato milioni di volte, che non si ferma ai cancelli della scuola ma raggiunge singoli e gruppi appena si accende il cellulare. Non c’è scampo. «Sei un escremento, una cacca. Nato per sbaglio, sei un errore del mondo». Queste le frasi che girano su una chat di dodicenni rivolte a un ragazzino di colore adottato che frequenta una scuola privata di Roma. A Milano tra i ragazzi bene delle medie e del liceo girava invece un’altra primizia: Le cagne di Milano, un gruppo su cui i maschi facevano transitare qualunque tipo di foto ricevessero dalle ragazze. A metà novembre in una media di Pogliano Milanese è partita una sfida, o challenge, come dicono i ragazzi, con l’obiettivo di superare le 500 persone. I numeri sono diventati impressionanti. Così le immagini apparse sui cellulari di centinaia di preadolescenti. Tra queste molti «sticker» estremi. Si tratta di una recente possibilità di creare le proprie icone, che nella versione di ragazzi con la voglia di stupire diventano un’aberrazione: anziché gattini sorridenti, foto di Hitler e di ebrei trasfigurati dall’avidità, marijuana, armi, dettagli pornografici ben scontornati. A Siena una madre ha denunciato il figlio tredicenne perché era entrato nel famigerato gruppo The Shoah Party. È la prima denuncia in Italia da parte di un genitore. I contenuti erano così scabrosi che persino i carabinieri del Comando provinciale, che hanno condotto le indagini, faticano a parlarne. Materiale pedopornografico, inni all’Isis e al nazismo, decapitazioni e stupri, rapporti sessuali anche con bambini molto piccoli. Racconta a Panorama il colonnello Stefano Di Pace: «La semplice descrizione fa ribrezzo. Sulla chat sono transitati più di 300 ragazzi, dai 12 ai 19 anni. Classi sociali diverse, un mondo trasversale. Senza controllo, adolescenti lasciati a se stessi. È qualcosa che colpisce profondamente». L’inchiesta coinvolge 25 persone, di cui 19 minorenni. «Di gruppi WhatsApp violenti ce ne sono molti più di quanti immaginiamo, certamente più di quanti hanno avuto clamore mediatico» spiega il procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minori di Milano, Ciro Cascone. «Tanti ragazzi parlano di droghe, di armi, fanno i duri in stile Gomorra. Quando è il caso li prendiamo, ma sono la punta dell’iceberg». Il primo a parlarne e ad avere il coraggio di pubblicarle su Facebook è stato, nel 2015, Pier Paolo Eramo, preside dell’Istituto Parma Centro. «Oggi sono diventate una moda. Si scagliano parolacce, bestemmie, copiano il linguaggio degli youtuber. Lo smartphone è il regalo per la Prima comunione, concesso senza fissare regole. E dopo un anno ti accorgi che tua figlia posta i video su TikTok in reggiseno e ha un account Instagram anche se non potrebbe». Per il preside i problemi arrivano già in quarta, quinta elementare: «Nell’ultima chat che ho letto due piccoli allievi si insultavano: “Ti ammazzo e sembrerà un incidente”. Erano bambini. Fragili, soli, in balia delle loro paure. Proibire non serve a niente. Bisogna stargli vicino». Continua il procuratore di Milano: «Il cyberbullismo si consuma tutti i giorni nel silenzio generale. La distanza fisica o l’impressione di anonimato fa sentire onnipotenti i ragazzini. Spesso l’aggressività non arriva alle minacce ma pur restando edulcorata, a bassa tensione, sa denigrare sottilmente, escludere dal gruppo. Abbiamo visto casi di ragazzi che hanno dovuto cambiare scuola e addirittura città». Nelle chat che bullizzano c’è qualcuno più aggressivo, mentre gli altri sorridono o si limitano a mettere un like. E ogni like è un sasso. «Si dileggia l’aspetto fisico: basso, grasso, brutto, sfigato. Siamo al confine del crimine d’odio», ammette Cascone. I canoni estetici richiesti dai social, soprattutto da Instagram, sono elevati, ardui da raggiungere. Una ricerca della Royal Society for Public health l’ha definito «il social network più pericoloso»: genera ansia, paura di sentirsi esclusi, addirittura depressione. Uno stato di cui soffrono più le ragazze come ha rilevato uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Lancet (il 60 per cento delle ragazze collega il problema alle insicurezze estetiche). Le foto vengono modificate, ma i difetti restano, così il senso di inadeguatezza, la mancanza di autostima che possono portare anche all’abdicazione della propria dignità, alla concessione del proprio corpo o delle sue immagini più intime (l’abbiamo visto nella prima parte dell’inchiesta, uscita sullo scorso numero). Facilmente si può scivolare nel cutting: forma di autolesionismo che consiste nel tagliarsi la pelle con lamette o oggetti affilati. Una tendenza in ascesa tra le giovanissime native digitali. Ma farli sentire colpevoli non serve. «Durante gli interrogatori della Polizia postale spesso i ragazzi non vogliono che i genitori siano presenti», racconta l’avvocato Marisa Marraffino, esperta in reati informatici, con una lunga esperienza di adolescenti e uso dei social. «Quando chiediamo il perché, rispondono: “Se fosse stato un buon genitore non mi avrebbe mai lasciato da solo a casa con l’accesso totale al computer”». Barbara Tamborini, psicopedagogista e autrice di La mamma di Attila (appena uscito per le edizioni Solferino), ha deciso di dare ai suoi quattro figli il cellulare solo alla fine della terza media. «Fino ad allora i gruppi giravano sul mio. E questo abbassava i toni. Mia figlia mi ha raccontato che, quando al liceo ha avuto il suo telefono, sono iniziate le parolacce e le espressioni più violente. Manca lo specchio, il confronto». Secondo Tamborini la tecnologia non dovrebbe entrare nelle loro vite fino ai 14 anni. «Proporrei un referendum. D’altronde nelle scuole della Silicon Valley, luogo simbolo dell’avanguardia tecnologica, fino a quell’età si coltiva la terra e si dà spazio alla creatività». Invece alle feste di quinta elementare non giocano più, guardano il telefonino e si annoiano terribilmente. Conclude la psicopedagogista: «Sono distratti, confusi da una serie di rumori di fondo. I videogiochi li lasciano iperattivi con una forte agitazione addosso». Il più eclatante è Fortnite, gioco di strategia e combattimento «in prima persona» utilizzato su cellulare e console che permette anche di comunicare in tempo reale (sono oltre 250 milioni gli appassionati nel mondo). Una mamma della provincia di Milano racconta: «Mio figlio ha 14 anni e quando gioca vive un’esperienza così immersiva che devo stare attenta a non interromperlo all’improvviso: una volta mi ha guardato come se volesse farmi del male. Ho avuto paura. Quando smette, magari dopo un paio d’ore di gioco, sembra un militare allucinato dalla battaglia. Una mini-sindrome post-traumatica da stress. E mi rendo conto che sono io a permetterglielo. Ma ormai i ragazzi sono controllati in tutto e quello è il loro mondo segreto. Lasciamoglielo». Meno ecumenico Emanuele, padre di due maschi di 12 e 13 anni che mostravano segni di dipendenza, o «gaming disorder», come è stato catalogato il problema: «Mi sono fatto coraggio e ho portato via la Playstation. Avevano cambiato personalità, diventando aggressivi tra di loro, con noi genitori, con gli altri». Alessandro, papà di due bambini di cui sente sfuggire le identità, inveisce: «Io stramaledico chi l’ha inventato». Il guado tra adolescenza e infanzia lo abbiamo attraversato tutti cercando di distinguerci dalla generazione precedente, riflette l’avvocato Marraffino: «Solo che il loro è un percorso più pericoloso, fatto di tecnologie misteriose per gli adulti. Bisogna che i genitori si sporchino le mani. Invece restano arroccati e si giustificano». Lorenza Patriarca, preside da quasi trent’anni dell’Istituto Tommaseo di Torino, dopo il caso Shoah Party, con una lettera ha chiesto aiuto ai genitori degli alunni delle medie: «Vi assicuro che queste non sono preoccupazioni peregrine o eccessive perché la possibilità di venire in contatto con persone e situazioni a rischio è molto concreta e si tratta di esperienze che possono segnare profondamente i ragazzi e le ragazze di quest’età. Controllare i loro dispositivi personali non è una violazione della riservatezza dei nostri figli, ma un modo per aiutarli a crescere meglio». Il portale per studenti Skuola.net ha chiesto a oltre quattromila ragazzi tra 11 e 25 anni di mostrare i contenuti dei loro smartphone. Uno su tre aveva materiale compromettente. Il 65 per cento ha confessato di scaricare video porno, l’11 aveva immagini di violenza. Una minoranza si dilettava con slogan inneggianti al nazismo e al fascismo (8 per cento), inviti a challenge (7 per cento), bullismo (5 per cento) e razzismo (4 per cento). «Mentre i genitori si preoccupano che il figlio non vada su Pornhub, lui sulle chat ha accesso a un mondo molto più vasto, insondabile, a cui non si possono mettere i lucchetti» spiega Daniele Grassucci, direttore del portale dedicato agli studenti. Vale la pena prendersi del tempo per esplorarlo, questo mondo. Su Instagram ci sono profili con migliaia di follower dove abbondano la droga come valore, le bestemmie come riferimento identitario, i soldi come scopo, la forzata sessualizzazione. Ma Panorama ha trovato anche profili dove ci si sfida a rompere con la testa alcuni oggetti (fino a farsi uscire il sangue dalla fronte) e altri dove si vedono ragazzini italiani, accento del Nord, brandire armi puntandole alla testa degli amici con sottofondo di musica trap. «Organizzo incontri nelle scuole per sensibilizzare padri e madri» aggiunge l’avvocato Marraffino, «ma arrivano in pochi, dieci, 15 persone a dir tanto. Non c’è voglia di sapere, di informarsi, di prendere coscienza. Tutto rimane silente, finché non si scopre che i loro figli fanno sexting. Solo quando il ragazzo diventa vittima di estorsione si spaventa e chiede aiuto». Per il procuratore del Tribunale dei Minori di Milano siamo di fronte a una grande ipocrisia collettiva: «Lo smartphone è come un’automobile: si regala a bambini delle elementari, che imparano a usarlo meglio di tutti noi, ma non ne hanno consapevolezza sociale, e questo può provocare molti danni. Lo concediamo con leggerezza, senza far loro alcuna scuola guida». La conclusione del libro di Paolo Del Debbio è una luce in fondo al tunnel: «Dobbiamo sforzarci di far immergere i nostri figli nella vita vera. Una volta provata la sua bellezza, neanche le asperità, né i dolori che, inevitabilmente, porta con sé, potranno portare a preferire la sua copia virtuale, povera e sbiadita». Basta accettare che la vita non è Walt Disney. Non sempre è facile. 

Jaime d'Alessandro per “Affari & Finanza - la Repubblica” il 9 dicembre 2019. Leggiamo sempre meno, guardiamo sempre di più video. Incrociando i dati del rapporto Programme for International Student Assessment (Pisa) dell' Ocse con quelli sulla fruizione dei dati online di Comscore, verrebbe da pensare che stiamo entrando in una nuova era dell' oralità dominata dai linguaggi visivi. E per ora non si può far altro che coglierne i lati negativi visto che quelli positivi, ammesso ci siano, nessuno li ha ancora misurati. Grazie all' Ocse sappiamo che un quindicenne su venti in Italia non sa distinguere fra fatti e opinioni in un test basato su commenti fittizi di un forum. In Italia il declino è conclamato stando al confronto con i risultati del 2012. Ma in realtà sulla comprensione dei testi il calo è generalizzato anche se altrove meno forte. Nel frattempo c' è stato il boom dei social network, soprattutto quelli che si basano su video e immagini. Instagram (utenti decuplicati in 5 anni) , TikTok (*122% l' ultimo anno). Attenzione però: il dato del boom di TikTok non tiene conto di chi ha meno di 18 anni, i numeri quindi sonopiù alti. Aggiungiamo un' altra ricerca, sempre di Comscore,su accesso e consumo dell' informazione. Il titolo dice già molto: "Dal virale al tribale, come sta cambiando la lettura delle notizie". Si mettono a confronto diverse generazioni e Paesi differenti e vien fuori gli italiani si informano significativamente più di inglesi e americani. Ma ciò che cambia notevolmente è l' approccio che contraddistingue la generazione Z, chi ha meno dei 22 anni, rispetto alle generazioni successive. Il 59% dei giovanissimi legge le notizie online solo quando ha bisogno di informarsi. Uno su tre dichiara addirittura di leggere le notizie malvolentieri, dato che aumenta vertiginosamente tra i giovanissimi americani (66,1%) e tra quelli inglesi (53,2%). Uno su cinque trova addirittura la loro lettura stressante. Le prime forme della scrittura risalgono al 3200 a.C. e prima che la scrittura diventasse di massa sono dovuti passare millenni. Oggi la stiamo forse abbandonando, nessuno però ha davvero studiato il linguaggio che stiamo adottando. Forse non è nemmeno un linguaggio degno di questo nome.

Tik Tok è il social del momento: cosa c'è dietro il successo planetario? Le Iene il 23 dicembre 2019. Ha reso vecchi tutti gli altri social e oggi non si parla d'altro: con un miliardo e 500 milioni di iscritti e un fatturato di 18 miliardi di dollari Tik Tok è la novità del momento. Assieme a Nicolò De Devitiis siamo andati a scoprire tutti i segreti che si nascondono dietro questa app. Ha scalato la classifica delle app più scaricate, superando Facebook, Instagram e Youtube. Ma come è nata Tik Tok, il social network del momento? Il miliardario cinese Zhang Yimingun due anni fa si è comprato Musical.ly per un miliardo di dollari: come Tik Tok ti dava la possibilità di creare dei piccoli video da 15 secondi. È molto facile: basta ripetere, a rallentatore, il testo della canzone selezionata e poi ci pensa l'app a rimetterlo a velocità normale. Ma come mai ha spopolato così tanto tra i ragazzini? “Facebook oramai lo usa mia nonna” ci dice Giulia, la 16enne popolare su Tik Tok grazie ai suoi 3 milioni di follower. E oramai sembra quasi un lavoro! Giulia infatti ha tutti gli attrezzi del mestiere: “Questo è il mio Ring Light, uno specchio illuminato per fare venire il video al meglio”. Cosa ha di diverso dagli altri social? “Dopo tanti anni dove hai sempre gente di successo, con la piscina, sono ricchi...Tik Tok invece è un po' nuovo!” commenta Marco Montemagno, imprenditore digitale. “Su Tik Tok non serve essere una modella alta 1 metro e 80, sei una ragazza normale che va a scuola e ha i suoi classici problemi adolescenziali”, aggiunge Giulia. Come funziona? “Sono azioni: non è quindi un qualcosa che guardo e basta” ci dice Matteo Flora, il fondatore di una società che si occupa di reputazione digitale. E usarlo è anche molto facile: “Ci sono dei formati facilmente copiabili: delle mossette che tutti fanno uguali”, continua l'esperto. Ma la cosa che sembra più attirare i ragazzi è l'elevato numero di visualizzazioni che si riesce a raggiungere: “Quando tu produci contenuti su Instagram il numero di persone che raggiungi è molto piccolo, su Tik Tok questo fa 2 milioni di visualizzazioni”, ci spiega Montemagno. E non è finita qui: “In Instagram noi siamo stati abituati a vedere le persone che seguiamo, Tik Tok invece ti suggerisce, ti studia e a quel punto ti propone dei contenuti sempre più mirati. Non in base a quello che pensi ma in base a quello che fai!” dice Montemagno. Quindi più tempo passerai a guardare tutorial di trucco, più l'applicazione ti proporrà quei tipi di video. “Crea una dipendenza maggiore con la piattaforma perché più mirato” conclude. La pubblicità esiste? “Sì, io sponsorizzo trucchi, prodotti per capelli e vestiti...”, ci spiega Giulia. Ma quindi guadagna tanto? Lei “non lo sa perché sono cose che gestiscono i genitori” ma noi possiamo dirvi che su Tik Tok si guadagna esattamente tanto quanto sugli altri social. Se quindi un tempo era la Silicon Valley, con i suoi Facebook, Google, Amazon e YouTube a dominare, oggi “la Cina si sta prendendo il mondo e questo potrebbe essere un problema” spiega Montemagno. Perché? “Siccome il governo cinese è dichiaratamente repressivo e censura contenuti, potrebbe decidere di applicare lo stesso approccio anche all'interno di Tik Tok all'estero”. Perché ora sono diversi? Perché in realtà di Tik Tok ne esistono due: uno in Cina, sotto il totale controllo delle leggi del governo cinese, e uno che ha invece i server negli Stati Uniti e a Singapore, proprio per rimanere staccato dalla possibilità di ingerenza del governo. E a sollevare il problema della censura ci ha pensato anche Mark Zuckerberg che dichiara: “Con Tik Tok i cinesi hanno superato tutti nel mondo, le proteste su questo social però sono state censurate: è questo l'internet che vogliamo?”. Insomma, il tema della censura è complesso. La privacy invece? “Il grande problema è che non si sa cosa facciano con l'immensa quantità di dati di tutti gli iscritti”, spiega Montemagno. “Ed è vero che sono quasi tutti ragazzini, ma significa comunque che conosceranno tutte le abitudini e i consumi dei prossimi cittadini del mondo”, aggiunge Flora. Ma, quindi, qual è la ricetta che funziona sui social? “Non c’è una formula, ma c'è una ricetta che funziona con dei pubblici: più si abbassa l'età, più è breve il contenuto che le persone utilizzano”, continua Flora. E c'è qualcosa che funziona sempre? “Sì, le emozioni”.

Tik Tok è il social del momento: “Facebook ormai lo usa mia nonna”. Le Iene il  17 dicembre 2019. Si chiama Tik Tok ed è il social del momento: l'anno scorso ha fatturato 18 miliardi di dollari. È un’applicazione nata in Cina che oggi sta superando anche Facebook e Instagram per il numero di iscritti. Non perdetevi il servizio di Nicolò De Devitiis, tra poco a Le Iene dalle 21.15 su Italia1. Oggi quasi tutti i ragazzini sono iscritti a Tik Tok: “Facebook oramai lo usa mia nonna”, ci dice Marta, 16 anni e 3 milioni di follower. Ma come mai ha spopolato così tanto? “Dopo tanti anni dove hai sempre gente di successo, con la piscina, sono ricchi...Tik Tok invece è un po' nuovo!” commenta Marco Montemagno, imprenditore digitale. Come funziona? “Sono azioni: non è quindi un qualcosa che guardo e basta” ci dice Matteo Flora, il fondatore di una società che si occupa di reputazione digitale. E usarlo è anche molto facile: “Ci sono dei formati facilmente copiabili: delle mossette che tutti fanno uguali”, continua l'esperto. E come vengono monitorati i contenuti? In Cina “il governo è dichiaratamente repressivo e censura contenuti” ci dice Montemagno. È molto semplice: non si può parlare di tutto. Ma applicheranno lo stesso approccio all'Europa?

Il TikTok di Matteo Salvini: il politico da piccolo come non l’avete mai visto. Notizie.it il 18/12/2019.  Il Segretario federale della Lega Matteo Salvini, è il primo leader politico a essere sbarcato su TikTok. Questo social cinese è stato lanciato nel settembre 2016 e di recente sta prendendo piede in Italia e in tutto il mondo. Nel mese di agosto l’applicazione è stata la più scaricata di tutte, solo in Cina conta mezzo miliardo di utenti attivi. Nella nostra Penisola sono invece più di 3 milioni, attualmente in crescita. Il social che permette la creazione di videoclip da 15 o 60 secondi in cui dare sfogo alla propria creatività, è frequentato perlopiù da ragazzini e minorenni che non hanno gradito l’intromissione della politica nella loro piattaforma.

Matteo Salvini e TikTok. Il leader politico Matteo Salvini è sbarcato da qualche tempo su TikTok, la comunicazione politica ora passa anche da lì. All’arrivo del Segretario della Lega sulla piattaforma, gli utenti si sono scatenati: i ragazzi non vogliono l’intromissione della politica sul loro social, in cui a prevalere è il divertimento. Debuttando su TikTok, Salvini ha subito trattato due argomenti molti discussi: il rispetto per le forze dell’ordine e l’immigrazione. In un recente video sulla piattaforma cinese, il politico ha postato un video con l’hashtag #maturare in cui è possibile vedere la sua trasformazione da bambino a oggi. La canzone “Ma il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano è la colonna sonora di questa carrellata di immagini.

“Personalmente la trovo un’irrispettosa invasione di campo”. Afferma Luciano Spinelli in merito alla partecipazione dei politici sul social. Spinelli è il ventenne italiano più seguito su TikTok e attualmente conta circa 7 milioni di followers al suo seguito. Secondo la sua opinione, la politica dovrebbe restare fuori dalla piattaforma di intrattenimento, in quanto è per definizione “una cosa seria”. “Se stai su TikTok non ti stai di certo dedicando ai problemi del paese. […] io personalmente dalla politica non mi aspetto semplici slogan ma ragionamenti articolati e risoluzione dei problemi […] L’unica cosa che viene in mente è che sono tentativi inutili e un po’ imbarazzanti. Credo che i ragazzi della mia generazione la vedano come me: si sentono esposti a un piccolo spettacolo di pessimo gusto.”

Conclude Luciano Spinelli rappresentando i giovani che popolano il social. Mentre Giorgia Meloni si è arresa e ritirata da TikTok, il leader della Lega continua a postare video.

Perché TikTok è diventata l'ultima frontiera della caccia al voto. È il social dei giovanissimi. Cioè dei futuri elettori. Salvini ci si è buttato. Meloni ci ha provato ma è scappata. Ecco come funziona. Mauro Munafò su L'Espresso il 17 dicembre 2019. Quando Twitter iniziava a essere utilizzato anche dai politici, la prima critica che veniva mossa suonava più o meno così: non è possibile fare politica in 140 caratteri. Dieci anni dopo, Donald Trump, utilizzatore compulsivo di Twitter, siede alla Casa Bianca e proprio con il suo uso del social sta segnando la politica internazionale. Questo fatto è meglio tenerlo a mente, quando si parla di politica su TikTok. La app sviluppata dalla startup cinese ByteDance, fino al 2018 conosciuta come Musical.ly, permette di realizzare brevi video di massimo 15 secondi accompagnati da un sottofondo musicale e di partecipare alle diverse “challenge”, sfide lanciate dagli influencer in cui ogni utente rivisita la canzone o il meme del giorno. Con i suoi 800 milioni di iscritti nel mondo, di cui 2 milioni e mezzo in Italia, è uno dei social con i tassi di crescita più sostenuti, aperto a tutti a partire dai 13 anni e con metà degli utenti sotto i 24. Un terreno di caccia vergine per i politici: i nuovi elettori e quelli di domani. A metà novembre Matteo Salvini ha aperto sulla piattaforma un suo profilo ufficiale, accumulando in un mese circa 80 mila follower. Anche Giorgia Meloni ha provato a entrare in questo mondo, sulla scia del successo virale del remix del suo discorso “Io sono Giorgia, sono una madre”. Per lei però è stato un flop, tanto che la pagina è stata chiusa in silenzio dopo pochi giorni. «La natura di intrattenimento di questo social ne rende difficile un uso politico nel senso classico», spiega Maria Cristina Antonucci, docente di Comunicazione politica alla Sapienza di Roma. «Può esserci solo un messaggio politico ridotto al suo nucleo essenziale, molto semplificato nel contenuto di pensiero. Difficile pensare a un formato di trasmissione secondo le modalità di broadcasting tradizionale, con cui i leader politici hanno finora usato Facebook, Twitter o Instagram. La vocazione di intrattenimento di TikTok sembra in questa fase troppo forte per essere piegata a usi differenti». Salvini e la sua squadra sembrano averlo capito, e infatti i contenuti fino a ora prodotti sfiorano appena i temi chiave della politica leghista e si concentrano piuttosto sull’effetto simpatia: la più apprezzata ad oggi risulta infatti una clip dedicata alla difficile reperibilità dei biscotti alla Nutella. «TikTok è un altro strumento che va nella direzione del ridurre la distanza tra il politico e il suo potenziale elettore», dice Edoardo Novelli, docente di comunicazione politica e sociologia dei media all’università Roma Tre. «In questo caso non viene rilanciato un contenuto politico, ma un soggetto. È un lavoro sul brand personale che risponde alla necessità del leader di essere popolare. Popolarità che poi potrà trasformarsi in consenso elettorale. In passato autorità, prestigio e competenze erano gli elementi su cui puntava la comunicazione politica. Con la rete il canone è cambiato e oggi serve dire “io sono come te”, “faccio quello che fai tu”». Resta però l’incognita di come questo tipo di comunicazione possa essere percepita da quei giovani che provi a raggiungere. «Non capisco il senso dell’uso di TikTok da parte di Salvini», dice Luciano Spinelli, creator di 19 anni e italiano con più follower sul social (oltre 7 milioni) . «Non basta far parlare di te per esistere, devi anche saper usare questi strumenti in modo dignitoso». Il suo giudizio sulla declinazione “politica” del social è fortemente negativa: «Personalmente la trovo un’irrispettosa invasione di campo. Sembra un voler presidiare l’ennesimo social di successo tanto per farlo ma senza avere un’idea chiara su come utilizzarlo. TikTok è intrattenimento mentre la politica dovrebbe essere altro. Per quanto loro provino a renderla divertente, la politica per definizione è una cosa “seria”, non è lo show scadente che ci stanno facendo vedere ultimamente». I casi internazionali di politici direttamente impegnati su questo social non sono tantissimi, per varie ragioni. Oltre alla particolarità dello strumento e al timore di fare una pessima figura con i futuri elettori, la piattaforma sconta lo scetticismo nei confronti della proprietà cinese da parte dei big statunitensi, di solito i primi a cavalcare questi fenomeni. Le inchieste giornalistiche del Guardian e di Netzpolitik hanno provato come i moderatori di questa app tendano a censurare i video sgraditi a Pechino, eliminandoli del tutto o riducendone la visibilità in maniera nascosta, senza dimenticare i sospetti sui possibili usi delle informazioni personali degli utenti. Per adesso hanno aperto un profilo ufficiale su TikTok il candidato alle primarie dem Usa Julian Castro e il giovane candidato di sinistra al Congresso Joshua Collins che, nelle sue brevi clip musicali, con una certa autoironia e il sorriso stampato in faccia, segnala di voler «mettere fine al capitalismo» mentre si agita come un forsennato. Ma i primi a non volere politici sul loro giocattolo sono i gestori dell’applicazione. TikTok ha vietato le inserzioni a pagamento da parte dei candidati, un business da milioni di dollari nell’anno delle presidenziali americane ma scivoloso, come ha dimostrato il caso Cambridge Analytica. Intervistato dal New York Times, il ceo Alex Zhu ha spiegato che la politica in generale è ammessa, a condizione che sia coerente con la linea della app improntata alla «gioia e alla creatività». Basta però cercare l’hashtag giusto per trovarsi di fronte a tanta propaganda e ben poca gioia. Se infatti molti politici restano dietro le quinte, lo spazio lo occupano i loro giovani sostenitori. I video con l’hashtag #trump2020 e #maga (che sta per Make America Great Again) hanno rispettivamente 352 e 180 milioni di visualizzazioni, uniscono musichette e balletti di ragazzini agli slogan della destra americana. In uno dei più popolari, un giovanissimo sostenitore di Donald Trump si muove a ritmo di un jingle mentre indica frasi che appaiono sullo schermo e recitano «l’aborto è omicidio», «le pistole non uccidono, sono le persone a farlo» e «ci sono solo due generi». L’effetto è piuttosto spiazzante, ma è valso alla clip 220 mila cuori, il corrispettivo dei like. «Il lancio della campagna #trump2020 ha mostrato le potenzialità di questa piattaforma che si presta benissimo alle varie tifoserie a sostegno o contro un candidato», spiega Riccardo Scandellari, divulgatore su branding e comunicazione nonché animatore del blog Skande.com. «Dimostra che è possibile fare politica con TikTok se si adotta il giusto registro comunicativo, improntato a una veloce comunicazione, in cui le informazioni devono essere semplici, univoche e di intrattenimento». Non sono però gli unici casi di “invasione” di contenuti seri in questo ambiente pensato per divertirsi, in cui si sperimenta anche una comunicazione dagli scopi più nobili. «L’Unicef ha lanciato una campagna per sensibilizzare sul tema dei diritti dei minori, la Croce Rossa ha usato TikTok per parlare dei cambiamenti climatici, il World Economic Forum ha un account nel quale tratta temi cruciali per il futuro del mondo», dice Vincenzo Cosenza, responsabile marketing di Buzzoole e tra i più attenti osservatori italiani in tema di social network. «Anche con messaggi molto semplici si può raccontare una storia. A volte un video di 15 secondi può bastare».

«I politici dovrebbero essere seri e non fare questi spettacoli di cattivo gusto sui social». Luciano Spinelli, 19 anni, è il creator italiano con più seguito su TikTok, il social musicale in cui è di recente sbarcato anche Salvini. "Dalla politica non mi aspetto semplici slogan ma ragionamenti articolati che portino alla risoluzione dei problemi. E se stai su TikTok non ti stai di certo dedicando ai problemi del paese". Mauro Munafò il 17 dicembre 2019 su L'Espresso. Ha 800 milioni di iscritti nel mondo, in gran parte giovani e giovanissimi. E adesso che la politica se ne è accorta, è iniziata la corsa a conquistarlo . Il social network TikTok fino a qualche mese fa sembrava un'isola felice per i ragazzi, impegnati in continue gare a ritmo di musica e brevi video di 15 secondi. Le cose adesso potrebbero cambiare. Matteo Salvini ha aperto un suo profilo ufficiale a novembre, Giorgia Meloni ci ha provato ma poi visto il flop si è ritirata. E in giro per il mondo si provano altri esperimenti. Resta da capire se si possa fare davvero politica in questo modo e conquistare così il voto dei più giovani. Il primo a non esserne molto convinto è Luciano Spinelli, 19 anni, youtuber e creator tra i più apprezzati in Italia e oggi i l più seguito del nostro Paese su TikTok con oltre 7 milioni di follower . «Personalmente la trovo un'irrispettosa invasione di campo. Sembra un voler presidiare l'ennesimo social di successo tanto per farlo ma senza avere un'idea chiara su come utilizzarlo. La cosa più divertente sono i commenti che questi personaggi ricevono dagli utenti. I social in fondo sono democratici e tendono a smascherare chi si improvvisa quello che non è».

Ma è possibile fare e parlare di politica su TikTok?

«Credo che i tempi che questo social mette a disposizione degli utenti siano troppo brevi per esprimere un ragionamento compiuto e io personalmente dalla politica non mi aspetto semplici slogan ma ragionamenti articolati e risoluzione dei problemi. E se stai su TikTok non ti stai di certo dedicando ai problemi del paese».

Che tipo di messaggio pensi possa essere veicolato in video di 15 secondi, con una musica di sottofondo?

«Io ho partecipato ad alcune campagne per sensibilizzare i più giovani su temi delicati. Insieme ad Amnesty International contro l’odio online, con Unicef e l’Unione Europea per i diritti dei bambini, e in questo momento ne sta partendo una contro le Fake News e gli stereotipi. Però si tratta di un messaggi molto diretti che ruotano sempre attorno a un hashtag e che usano un linguaggio che i diretti interessati recepiscono al volo».

Che ne pensi del profilo di TikTok di Matteo Salvini?

«Non ne capisco molto il senso, TikTok non mi sembra lo spazio giusto e voglio sperare che cambi la sua strategia. Secondo me non basta far parlare di te per esistere, devi anche saper usare gli strumenti che scegli di utilizzare. In modo almeno dignitoso».

Pensi che si possano conquistare le persone della tua età in questo modo?

«L’unica cosa che viene in mente è che sono tentativi inutili e un po' imbarazzanti. Credo che i ragazzi della mia generazione la vedano come me: si sentono esposti a un piccolo spettacolo di pessimo gusto. Altrimenti non si divertirebbero a lasciare commenti negativi sotto i video».

Quindi bocci su tutta la linea questo tipo di iniziative.

«Penso che questo uso di TikTok sia negativo, principalmente perché TikTok è divertimento ed intrattenimento mentre la politica dovrebbe essere altro. Per quanto loro provino a renderla divertente, la politica per definizione è una cosa seria, non è lo show scadente che ci stanno facendo vedere ultimamente».

I social hanno cambiato Internet, ma il vero problema è che hanno cambiato anche noi. Pubblicato mercoledì, 09 ottobre 2019 da Chiara Severgnini su Corriere.it. Una volta qui era tutto Internet. Poi sono arrivati i social e le app di messaggistica e nel giro di pochi anni lo hanno divorato. O, per meglio dire, sono riusciti a convincere una fetta consistente di utenti - in primis quelli con meno esperienza web alle spalle - di averlo fatto. Il boom dei social (a cominciare da Facebook, che da noi ha iniziato a imporsi intorno al 2008) ha cambiato il nostro modo di pensare alla Rete, ma soprattutto di fruirne. Si stava meglio prima? C’è chi lo pensa. Certo, una volta navigare era più lento, difficile e macchinoso. Ma, allo stesso tempo, era un atto più disimpegnato. Per certi versi più libero, o quanto meno liberatorio. Il web prima dei social era come una terra selvaggia tutta da scoprire, oggi somiglia a un ordinato giardino, zeppo di regole da seguire e costellato di pubblicità. Chi quella terra l’ha esplorata - o anche solo guardata dal finestrino di qualche forum o di un blog - oggi ha voglia di raccontarla, che poi è anche un modo per salvaguardarne il ricordo. Lo fa, ad esempio, la giornalista e scrittrice Eleonora C. Caruso nel podcast RetroWired (disponibile dal 3 ottobre su Spreaker e Spotify), che intende raccontare, puntata per puntata, vari aspetti del Web-che-non-c’è-più-o-forse-c’è-ancora. Ma davvero i social hanno divorato il web, inteso come tutto ciò di cui si fruisce tramite browser? La risposta è ni. Da un lato, lo strapotere dei social si fa sentire: se gli italiani passano in media 6 ore connessi, quasi un terzo di questo tempo è dedicato a Facebook&Co (e la metà se ne va in video, tra smart tv e streaming online). La classifica dei siti più cliccati in Italia vede al primo posto Google, seguito da Facebook; ma, guardando alla top-ten delle parole più cercate sul motore di ricerca nel 2018, scopriamo che Facebook è al secondo posto (dopo “meteo”). E così per tante persone — in particolare quelle che si connettono per la prima volta, e nell’ultimo anno, nel mondo, sono state tante: circa un milione — “andare su Internet” significa prima di tutto collegarsi a una piattaforma social come YouTube, Facebook o Instagram; oppure messaggiare su WhatsApp. Insomma, siti, blog, portali tematici, forum e via elencando non si sono estinti, ma sono scivolati in secondo piano. E, intanto, la Rete è stata invasa di nuovi utenti — un tempo li avremmo chiamati “noob” o “niubbi” — e la loro presenza ha cambiato le regole del gioco. Niente è più come prima. Già, prima. Ma come era, la Rete, prima dei social?

La prima connessione, in Italia, risale al 1986: anche volendo escludere la prima decade, quella decisamente pionieristica, tra 1996 e 2008 ci sono comunque dodici anni di esistenza di una Rete pre-Social. E, di conseguenza, di persone che l’hanno vissuta, in certi casi plasmata, e che ora la ricordano e a volte la rimpiangono. Un po’ perché la nostalgia è la cifra distintiva della nostra epoca, un po’ perché l’essere umano tende sempre a idealizzare il passato e un po’ perché la Rete di oggi, così social-centrica, ha tanti lati negativi che iniziano a farsi sentire. Non a caso, il web “di una volta” è oggetto di una certa fascinazione che talvolta sconfina nel collezionismo. Qua e là spuntano siti web che raccolgono design dell’epoca, gruppi Facebook che simulano epoche ormai scomparse o progetti come The Old Net, che raccoglie e riproduce siti Anni 90 (ed è introdotto da un testo in cui si legge: «il mio nome è Rich e non mi piace questa nuova Internet»). Ma la Rete di una volta è come un fiume carsico: non si vede, ma ogni tanto riemerge. Oppure trova uno stratagemma per ritagliarsi uno spazio in quella di oggi. Le newsletter, ad esempio, sono tornate in auge, dopo essere state relegate per un po’ ad archeologia digitale. E poi ci sono le chat di gruppo, che, secondo il New York Magazine, «stanno facendo tornare Internet divertente» e riproducono la sensazione di familiarità che caratterizzava i forum e le chat di circa 15 anni fa. Succede anche nei cosiddetti “tagging group”: gruppi chiusi su Facebook che nascono per essere taggati ironicamente sotto ai post, ma a volte sviluppano una loro community (e, secondo The Atlantic, così facendo «portano su Facebook la cultura dei forum»)». E vale la pena ricordare che anche Mark Zuckerberg si è accorto da un po’ del fatto che gli utenti, stufi di stare sempre in vetrina, hanno fame di recinti chiusi. Per questo, ha introdotto gli “Amici più stretti” su Instagram e ha investito nella rinascita dei “gruppi” su Facebook.

E poi ci sono i podcast. Certo, sulla Rete “di una volta” non c’erano, perché un lungo file audio mal si conciliava con le connessioni lente, ma hanno molte caratteristiche in comune con le forme di distribuzione e fruizione dei contenuti che la caratterizzavano: richiedono tempo (che una volta, online, serviva eccome) e in cambio offrono approfondimento (altra cosa un tempo costitutiva del web, oggi un po’ meno). Non a caso, è proprio attraverso un podcast che Caruso punta a sviscerare la Rete degli Anni 90 e nei primi anni Duemila. Con un duplice scopo. Da una parte, raccontarne la storia. Dall’altro, andare alla ricerca di strumenti e approcci di ieri che possano rivelarsi utili per chi naviga oggi. «La mia», spiega Caruso, «è stata una generazione cerniera tra l’analogico e il digitale. Ed è come se quelli tra noi che si sono buttati per primi online fossero diventati gli adulti della Rete di oggi». Dei veterani, insomma, con un bagaglio di esperienze potenzialmente utile a tutti. In particolare per i neofiti. «Chi oggi confonde Facebook con Internet spesso si dimostra anche privo delle competenze per usare la Rete in modo sensato ed educato», continua la scrittrice, «molto spesso si tratta delle stesse persone che non capivano cosa facessi quindici anni fa quando passavo le ore connessa dal pc di casa». In tutto questo analizzare e raccontare, ampio spazio sarà dato a quella che Caruso chiama «la memoria emotiva» dei veterani italiani della Rete: «Per me, ad esempio, Internet ha significato la fine della solitudine», spiega, «perché ho iniziato a navigare, nel 1998, spinta dal bisogno disperato di parlare con qualcuno della mia passione per i fumetti: essendo cresciuta in un paesino di 2500 abitanti, non avevo quasi nessuno con cui farlo. Per tanti, nella mia generazione, la Rete è stata anche un luogo di formazione emotiva, per non parlare del fatto che ha influenzato le scelte professionali future di tanti di noi». Il lato nostalgico fa parte dell’operazione? Inevitabilmente. Del resto, di caratteristiche della Rete vintage (per così dire) di cui è più che lecito provare nostalgia ce ne sono eccome. Con l’aiuto di Caruso, ne abbiamo identificate alcune che spiccano sopra le altre. Un’operazione, la nostra, che online non è nuova: dissertazioni sul tema “cose che ci mancano del web su cui siamo cresciuti” abbondano su portali come Reddit e su Quora, mentre sulle testate specializzate “la vecchia Rete non c’è più, viva la vecchia Rete” è ormai un genere letterario, che suona come un lamento collettivo. Condivisibile, ma a cui bisogna prestare attenzione. Vale la pena ricordare che la difesa della (presunta) Internet Culture originaria è uno dei segni distintivi di alcune delle community più aggressive e controverse di 4chan (e non solo), convinte che la Rete fosse migliore prima che diventasse nazionalpopolare. Come racconta Angela Nagle nel suo Contro la vostra realtà (Luiss), l’hacker Andrew Alan Escher Auernheimer, noto online come “weev” e oggi legato alla cosiddetta alt-right, in un’intervista del 2009 ha spiegato il senso della vasta operazione di trolling da lui lanciata e coordinata con queste parole: «Il trolling è essenzialmente l’eugenetica di Internet. Voglio che se ne vadano tutti, da Internet».

Questo non significa, ovviamente, che rimpiangere i bei tempi andati sia sinonimo di estremismo, ma solo che è importante ricordare cosa succede quando la nostalgia si salda con istanze iper-conservatrici, posizioni misogine e un’attitudine alla violenza verbale (e non solo, purtroppo): tutte cose che in certe nicchie del web — di ieri come di oggi — esistono. Detto questo, non si può negare che esista un’intera generazione convinta, legittimamente, di aver subìto un furto: quello della “loro” Rete, che ora è diventata di tutti ed è, perciò, irriconoscibile. Per dirla con il co-fondatore di Kickstarter, Yancey Strickler: «Internet è passato dall’essere la sede di sperimentazioni a basso rischio all’essere il posto dove corriamo più rischi in assoluto». Rischi reputazionali (ora che sui social ci sono tutti, dal collega di lavoro all’anziana zia, è dannatamente facile rovinarsi la vita con un post), ma non solo: tra cyberbullismo, privacy violate e truffe digitali, non passa giorno senza che ci venga ricordato il volto peggiore della Rete. Il problema non sta solo, superficialmente, nel fatto che la Rete non è più un Far West dove scatenarsi senza timore di essere visti e biasimati da qualcuno che conosciamo. Né nel suo essere ormai piena di pubblicità, "niubbi" e imprenditori digitali senza scrupoli pronti a monetizzare tutto (inclusi noi, anzi: soprattutto noi). La vera questione la mette a fuoco la saggista e poetessa americana Patricia Lockwood nell’esilarante quanto acuto saggio Communal mind (pubblicato dalla London Review of Books). L’autrice rievoca con tono nostalgico la vecchia piattaforma “Diaryland” (definita da Vice nel 2014 «anti-social network»), chiamandola «il posto dove facevo battute che oggi provocherebbero il mio licenziamento». Ma la sua analisi fa un passo in più, quello più indispensabile. Internet, ricorda Lockwood, «è stato un luogo di gioco», sì, ma anche e soprattutto «un luogo dove potevi essere te stesso». E ora? «Gradualmente è diventato il posto dove tutti siamo come tutti gli altri». A ferirci di più, forse, è proprio questo: non solo la Rete attorno a noi è cambiata, ma, in qualche modo, è riuscita a cambiare anche noi. E, per curare questa ferita, non basteranno tonnellate di nostalgia.

30 anni fa nasceva il World Wide Web: una rivoluzione per l’epoca moderna. Gianfranco Grieco il 12 Marzo 2019 su gazzettadellavaldagri.it  Tim Barners-Lee 30 anni fa dal Cern di Ginevra ci consegnava la più grande rivoluzione dell’epoca moderna: il WEB, al pari di internet inventata qualche decennio prima dai militari statunitensi. Andiamo con ordine. Tim Barners-Lee nel 1989 usando un computer NeXT ideò il progetto del World Wide Web una rete mondiale di contenuti rendendo internet accessibile a tutti. L’informatico inglese immaginava un sistema libero per condividere idee e conoscenza ma qualcosa, secondo l’ideatore, non è andato nel verso giusto: “metà della popolazione mondiale non è ancora connessa ad internet, chi è online si rende conto che la sua libertà e i suoi diritti non sono pienamente protetti e rispettati. La battaglia per il web che vogliamo è una delle cause più importanti del nostro tempo”. “Internet ha aiutato l’economia e ha dato voce a chi non ne aveva“- spiega Barners-Lee – “offrendo spazio anche a criminali e a propagatori di odio“ , ora aggiunge l’ideatore: “serve un contratto che ne difenda i valori“ . “La storia del web dimostra il potere della ricerca nel trainare l’innovazione e l’importanza di una libera circolazione delle scoperte scientifiche” dice la Direttrice del Cern Fabiola Gianotti. Oggi sono online 4 miliardi di persone e i siti internet sono 1 miliardo e 600 mila. In un minuto si fanno 3,7 milioni di ricerche su Google, si inviano 200 milioni di email e si guardano 4 milioni di video. Alcuni numeri pazzeschi della rivoluzione di internet prima e il web dopo, hanno cambiato profondamente le nostre abitudini di vita. Ritorniamo al 1989. Tim Barners-Lee dopo aver sviluppato un ampio database ipertestuale con link nel 1989 mettendo le basi al web, solo nei due anni successivi ampliò gli elementi necessari per un web funzionante: l’HiperText Transfer Protocol (http), HiperText Markup Language (html), il primo Web Server e le prime pagine web che descrivevano l’intero progetto. Nel gennaio 1991 furono attivati i primi web  server fuori dal CERN e il 6 agosto 1991 Berners-Lee pubblicò un breve riassunto del progetto World Wide Web sulla newsgroup alt.hypertext, cercando collaboratori. Proprio il 6 agosto 1991, ad essere precisi, viene indicata come la data di nascita del World Wide Web (WWW), giorno in cui l’informatico inglese Tim Berners-Lee pubblicò il primo sito web.

La differenza tra internet e web. Spesso si parla di internet e web come se fossero la stessa cosa. In realtà, non è così. C’è una differenza notevole tra i due concetti: La rete internet è l’infrastruttura tecnologica dove viaggiano i dati. Può essere immaginata come una specie di ferrovia digitale, con i propri binari (canali), stazioni (server) e regole (protocolli); Il web è uno dei servizi internet che permette il trasferimento e la visualizzazione dei dati, sotto forma di ipertesto. Tutto ciò che normalmente vediamo sul nostro browser. Oltre al web esistono altri servizi internet come la posta elettronica, i newsgroup, i trasferimenti FTP, etc…

Esempi: Quando visualizzo una pagina web sul browser sto utilizzando il Web. Quando scarico la posta elettronica sul mio computer, invece, non utilizzo il web. In entrambi i casi uso la rete internet per trasferire i dati ma i protocolli sono differenti.  Se internet fosse visto come un arete ferroviaria, il web dovrebbe essere immaginato come un treno moderno, comodo e ad alta velocità.

Per riassumere il web non è internet, ma soltanto uno dei servizi che lo compongono, al pari della posta elettronica o del trasferimento le via FTP. Il termine Web è spesso associato erroneamente a Internet, talvolta usato come sinonimo, soltanto perché è uno dei servizi più utilizzati dagli utenti.

Tim Berners-Lee, creatore del Www: «Il web è per tutti, e solo tutti insieme abbiamo il potere di migliorarlo». Pubblicato lunedì, 11 marzo 2019 da Michela Rovelli su Corriere.it. L’ha ideato, l’ha progettato e oggi continua a lottare per trasformarlo in quella piattaforma libera che avrebbe permesso a chiunque, da ogni parte della terra, di condividere informazioni, eliminando distanze geografiche e culturali. In occasione del trentesimo anniversario della nascita del World Wide Web, il suo creatore Sir Tim Berners-Lee racconta cosa si augura per i prossimi trent’anni di vita della sua creatura. E come ogni anno ha pubblicato una lettera aperta sul sito della sua associazione, la Web Foundation, fondata nel 2009. «Oggi più della metà della popolazione mondiale è connessa — scrive — è un momento per celebrare quanto lontano siamo arrivati, ma è anche un’opportunità per riflettere su quanto lontano ancora dobbiamo andare». Nel 2018, la lettera aperta di Berners-Lee si era focalizzata sulle possibili strade per migliorare il Web. E oggi prosegue nella stessa direzione. In primis, la vera e totale democratizzazione: «Il web è diventato una piazza pubblica, l’ufficio di un dottore, un negozio, una scuola, un cinema, una banca e molto altro. Per ogni nuova funzionalità e ogni nuovo sito, il divario tra coloro che sono online e coloro che non lo sono aumenta». Fondamentale, dunque, è rendere accessibile questa nuova ricchezza culturale e non solo che viaggia su Internet anche a quella metà di popolazione mondiale che oggi è ancora offline. L’ingegnere 63enne mette poi in guardia da un atteggiamento allarmista e pessimista nei confronti del web: «È comprensibile che molte persone si sentano impaurite o dubbiose sul fatto che sia qualcosa di buono. Ma visto quanto il web è cambiato negli ultimi 30 anni, sarebbe una sconfitta e un atteggiamento poco lungimirante pensare che non potremo cambiare il web che oggi conosciamo nei prossimi 30». Da dove iniziare? Tre le principali disfunzioni odierne e tre le possibili soluzioni immaginate da Berners-Lee. Innanzitutto, i deliberati comportamenti criminali, come gli attacchi hacker dietro ai quali si nascondono anche governi. Impossibile eliminare completamente il problema, ma è possibile invece «creare leggi e codici per minimizzarlo, proprio come abbiamo sempre fatto offline». Poi quei sistemi che promuovono funzionalità perverse dove il valore dell’utente viene sacrificato, come i modelli basati sui ricavi da pubblicità che si traducono in pratiche di clickbaiting e disinformazione. Infine le conseguenze inaspettate derivate da caratteristiche strutturali, come la polarizzazione dei toni o l’abbassamento della qualità dei contenuti. Su entrambi i punti è necessario partire da una riprogettazione del sistema stesso, che porta a incentivi (e ricavi) diversi. «Non si può incolpare un solo governo, un solo social network o un solo essere umano. Le narrative semplicistiche rischiano di esaurire la nostra energia mentre rincorriamo i sintomi dei problemi invece di focalizzarci sulle cause», aggiunge. Per inaugurare la seconda vita del World Wide Web, Tim Berners-Lee ha lanciato al Web Summit di Lisbona la chiamata per creare un nuovo contratto in cui tutti i soggetti che sfruttano la piattaforma globale - dai governi ai privati, fino agli utenti stessi - lavorino insieme per «stabilire norme chiare, leggi e standard», come ha ripetuto nella sua lettera. Obiettivo è presentare i primi risultati di questo progetto entro l’anno. «I governi devono tradurre i regolamenti per l’epoca digitale. E hanno la responsabilità di proteggere i diritti dei cittadini e la loro libertà online», mentre alle società spetta il compito di «non perseguire i loro guadagni a breve termine a scapito dei diritti umani, della democrazia o della verità scientifica». Parole d’ordine: privacy, diversità e sicurezza. Infine, la parte più importante spetta a tutti noi, che dobbiamo «chiedere conto ai governi e alle società degli impegni presi». Ed è su questo punto che il creatore del Www preme, sulla responsabilità di ogni singolo utente online: «Se non eleggiamo politici che difendono il web aperto, se non facciamo la nostra parte per costruire conversazione sane anche online, se continuiamo a cliccare “consenti” senza chiedere protezione per i nostri dati, andiamo nella direzione opposta». La più importante battaglia della nostra epoca, la definisce. E conclude: «Il web è per tutti e tutti insieme abbiamo il potere di cambiarlo. Non sarà facile. Ma se sogniamo un po’ e ci impegniamo molto, possiamo renderlo ciò che vogliamo».

Da «Hello» al progetto militare. I miti della nascita del Web. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 su Corriere.it da Massimo Sideri. La parola del debutto in Rete doveva essere «Login», ma il primo crash dei computer alimentò leggende sul messaggio di 50 anni fa. LO, in inglese, si legge «hello». «Ciao». È stata questa la prima parola che ha viaggiato su ciò che oggi chiamiamo Internet. Mezzo secolo fa. Oggi sembra una premonizione dell’illusoria amicizia universale brevettata dai social network, figlia del mito (inventato anch’esso) dei sei gradi di separazione del sociologo Milgram. Di fatto quel «LO» era anche l’articolo determinativo maschile della lingua italiana. Ma questo è un puro caso. Sulle origini della Rete c’è molta confusione e le leggende metropolitane prendono spunto dal moto ondoso delle verità alternative come quella secondo cui il famoso «Error 404» ricordasse il numero della stanza di Tim Berners-Lee al Cern di Ginevra («Non esisteva nessuna stanza 404 al Cern» mi spiegò lo stesso Berners-Lee in un’intervista per i trent’anni del World Wide Web). Dire in effetti chi sia stato il padre della Rete è un fatto tecnicamente arduo e intellettualmente rischioso: si va da J. C. R. Licklider e Leonard Kleinrock fino a Berners-Lee e Vinton Cerf. (Leonard Kleinrock)

Una certa paternità morale potrebbe anche essere individuata, libro alla mano, nell’autobiografica di Nikola Tesla. Ma su un’unica cosa c’è certezza: la sera del 29 ottobre del 1969 un messaggio partì da un computer dell’Università di Los Angeles, Ucla, per atterrare su un computer nei laboratori dell’Sri di Menlo Park. Erano le 22:30. In realtà quel «LO» trasformato da alcuni in «hello» altro non avrebbe dovuto essere che la parola «login», collegamento. La storia di Internet iniziò con un segno del destino: il primo di una serie interminabile di crash. La seconda parte, il «gin», non arrivò mai a destinazione. Dato che la trasmissione doveva essere di andata e ritorno il crash definì anche le gerarchie storiche: il piano prevedeva che da Ucla dovesse partire il «Log» e che da Menlo Park dovessero rispondere con «In». L’episodio cancellò dunque dalla cronaca il secondo laboratorio di ricerca che si muoveva sotto la supervisione di uno degli uomini più geniali e sfortunati della storia dei computer e della Rete: Douglas Engelbart. (Douglas Engelbart)

Morto nel 2013 Engelbart aveva predetto che «la rivoluzione digitale sarà di gran lunga più importante dell’invenzione della scrittura e anche della stampa». E aveva aggiunto: «In venti o trent’anni potremo portare in tasca tutta la conoscenza del mondo». Perché definirlo sfortunato? Perché non solo il suo laboratorio dovette lasciare, a causa di quel crash, gli onori della cronaca a Leonard Kleinrock di Ucla. Ma in aggiunta nessuno si sarebbe mai ricordato di riconoscergli la paternità di una delle più grandi invenzioni del Novecento, un piccolo oggetto comparso su tutte le scrivanie del mondo che avrebbe accorciato per sempre la distanza tra uomo e macchina grazie alla creazione di un linguaggio manuale: Engelbart ha inventato il «mouse» (se pensate che lo abbia creato Steve Jobs o che fosse un’intuizione dei famosi Xerox Park della Silicon Valley siete fuori strada).In realtà davanti alle due macchine quella sera del 29 ottobre di mezzo secolo fa c’erano due studenti anche loro dimenticati dalle cronache: Bill Duvall che si trovava in Menlo Park (famosa oggi per aver dato residenza al quartier generale di Facebook, meno per essere stato il luogo di uno dei primi laboratori di Thomas Edison alla fine dell’Ottocento) e Charlie Kline a Los Angeles.Anche l’idea che Internet sia nato come progetto militare sarebbe, in parte, da ridimensionare: il messaggio nasceva all’interno dell’Advanced Research Projects Agency, dal cui acronimo nacque il neologismo Arpanet, poi diventato Internet. Se è vero che si era in piena Guerra Fredda e che il progetto Arpa era finanziato dal ministero della Difesa americano è anche dimostrato che l’obiettivo era mettere in connessione i centri accademici. Il confine è sottile, certo. Ma esiste.Per essere completi nel tratteggiare una breve storia del web non si può tacere però di J. C. R. Licklider. La sua figura, seppure poco nota al grande pubblico, è più o meno santificata nella comunità californiana. Nella sede della start up da 35 miliardi di dollari Stripe ai nuovi arrivati si regala una t-shirt con la scritta aziendale e un testo giallo di Licklider. Nel 1961 lo scienziato che al tempo lavorava per la società Bolt, Beranek and Newman (la stessa Bbn che tornerà nel test del 1969) iniziò a studiare per cercare di comprendere come costruire una sorta di «biblioteca del futuro», un progetto finanziato dalla Ford Foundation. Scrisse Licklider agli inizi degli anni Sessanta: «Dobbiamo iniziare a rifiutare lo stesso schema di un libro fisico». E, ancora: «Le pagine stampate come strumento per la preservazione della conoscenza nel lungo termine verranno superate». Fu lui ad avere la visione di una sostituzione dei libri con i computer che sarebbero stati collegati in un «network». Il destino ci mise lo zampino portando Licklider a guidare Arpa nel 1963. Di lì a poco, nel 1964, nasceva Jeff Bezos. Resta da svelare il mistero Tesla. Cosa c’entra l’acerrimo nemico di Thomas Edison con Internet? Si legge nella sua autobiografia, si noti bene del 1919, di un sistema mondiale di trasmissione energetica senza fili che avrebbe permesso «l’interconnessione tra le preesistenti stazioni del telegrafo di tutto il mondo; l’instaurazione di un servizio telegrafico governativo del tutto segreto; l’interconnessione di tutte le stazioni; la distribuzione universale di notizie». Oggi lo chiamiamo Internet.

Il 27 ottobre 1994 online il primo banner pubblicitario: sono passati appena 25 anni e il mondo dell'advertising si è rivoluzionato. Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. «Hai mai cliccato qui con il tuo mouse? Lo farai». Semplice e diretto: era lo slogan del primo banner pubblicitario apparso su internet. Era il 27 ottobre 1994, solo 25 anni fa, quando questa trovata pubblicitaria fece il suo debutto: il sito HotWired, emanazione online del mensile statunitense Wired e quindi senza particolari entrate per sostenersi economicamente, aveva messo in vendita uno spazio sul proprio portale e a sfruttarlo sapientemente fu la compagnia telefonica AT&T. Sapientemente perché, nonostante la sottile immagine (468x60) e il costo sostenuto per la pubblicazione (60 mila dollari), riuscì a ottenere un CTR, il click trough rate, ossia la percentuale di click sul banner, molto alto. Il risultato, infatti, fu eccellente: il 30 % degli utenti online cliccarono sulla pubblicità. Si tratta di una percentuale assolutamente irripetibile, di questi tempi il CTR medio non arriva nemmeno allo 0.50 %.

L’italiano che lavorava con i creatori del web: «L’emozione di quella mia mail del 1973». Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 su Corriere.it da Massimo Sideri. Pierluigi Fiorani Gallotta e gli anni in California: «Ero nel primo nodo della Rete. Venivo da anni di calcoli su schede perforate e ricordo l’emozione del primo messaggio online. Login, accesso, oggi è un termine quasi vintage dell’informatica. Ricorda il Commodore 64, per chi sa cos’è. Ma cinquant’anni fa esatti, il 29 ottobre del ‘69, segnò l’inizio di una rivoluzione che ha poi cambiato le vite di tutti noi: fu il primo comando trasmesso tra due computer della rete Arpanet, la madre di Internet, tra l’Università Ucla e Menlo Park, nella Silicon Valley. Di fatto doveva essere la prima parola della Rete, il primo vagito di Internet, anche se un crash — il primo di una lunga serie — fece passare solo LO. «Quello di Ucla era il primo nodo della Rete» ricorda Pierluigi Fiorani Gallotta, un «quasi testimone» di quella stagione che oggi ci appare epica. «In realtà la mia esperienza alla Ucla nel gruppo di Leonard Kleinrock come research assistant, affiancato per due anni al Charlie Kline del “LO”, iniziò soltanto nel 1973, quattro anni dopo». Gallotta, seppur non dai primi albori, ha dunque partecipato allo sviluppo della Rete lavorando nel suo epicentro. «Quando arrivai il bambino era nato da poco e la rete non aveva ancora più di 20 nodi. Naturalmente quello di Ucla era il contributo fondamentale che Kleinrock aveva dato teorizzando e realizzando la rete a pacchetto, l’attuale Tcp/Ip, struttura portante di tutta l’Internet attuale. La rete era proprio ai primi passi, spesso zoppicante, e venendo io da anni di calcoli su schede perforate ricordo ancora la commozione all’invio della mia prima email da un terminale a “tubo catodico” Crt». Era il 1973, stiamo dunque parlando di una delle prime email mai inviate, quando un account era un privilegio per pochi ricercatori in pochissime Università. «Arrivai lì in quegli anni grazie a un professore del Politecnico di Milano, dove mi ero laureato, e trovai un ambiente del tutto diverso da quello accademico italiano: lo stesso Kleinrock, con cui superai un esame, era una persona molto alla mano». Gallotta ricorda che Gerald Popek, in particolare, lavorava sulla sicurezza delle reti, scrivendo dei testi di crittografia. Anche questo un primato. Il progetto Arpanet ha alimentato la convinzione che Internet fosse nato in ambienti militari. «Era finanziato dal Darpa e dunque dalla Difesa Usa, ma per quanto ho potuto vedere io dall’interno — testimonia Gallotta — era un esperimento puramente accademico: si trattava di mettere in connessione le Università». In effetti il padre spirituale dela Rete era stato J.C.R. Licklider che già nel ‘61, tre anni prima di essere nominato alla guida di Arpa, scrisse un articolo che ancora oggi appare visionario e in cui si parlava del progetto della biblioteca del futuro senza libri («Le pagine stampate come strumento per la preservazione della conoscenza nel lungo periodo verranno superate»). Peraltro la Difesa Usa si sfilò da Arpanet qualche tempo dopo lasciando spazio al progetto commerciale (il dominio .com, introdotto nel 1985, non sta per communication, come in molti pensano, ma per commercial). Curioso comunque che nel ‘73 nessuno parlasse del crash: «Non ricordo che se ne sia mai discusso» racconta oggi Gallotta. «Dopo due anni di studio, lavoro e vita entusiasmante a Ucla, dato il mio piccolo contributo alla rete concluso con un master in Computer Science quando da noi non era stato ancora inventato il corso di laurea in Informatica, la mia storia è proseguita in Italia nelle R&D dell’allora grande Olivetti e poi dell’Italtel/Siemens» conclude il ricercatore. Quei due anni ci permettono di dire oggi che anche nello sviluppo dela Rete c’è stato un piccolo contributo italiano. Ps. Gallotta è nato a Milano nel ‘47. Un candidato per l’Ambrogino d’oro?

Marcello Zacché per “il Giornale” il 30 ottobre 2019. Lo scandalo dei dati di Facebook - 87 milioni di profili utilizzati da Cambridge Analytica per influenzare le elezioni Usa del 2016 - ha avuto il pregio di fare emergere un problema dimenticato. O sottovalutato. Prima osservazione: nell'era di internet, la maggior parte dei suoi 4 miliardi di navigatori considera il web un luogo dove attingere a servizi gratuiti. Ma non è così. Il costo esiste e siamo noi, i nostri dati. Si chiama profilazione ed è quello che fanno gli over the top mentre noi navighiamo: ci fanno «il profilo» e lo mettono da parte. Certo, non sanno il nostro nome, ma poco importa. Per raggiungerci basta il nostro indirizzo web. Seconda osservazione: la rete è nata per aprire gli orizzonti, per rendere una ricerca effettuata da qualunque punto del pianeta, universale. E molti pensano che facendo una ricerca su Google tutti ottengano gli stessi risultati, in base alla rilevanza. Ma dal 4 dicembre del 2009 Google (nella foto il fondatore Larry Page) ha cambiato le sue regole e ha introdotto la filter bubble, un filtro in base al quale ognuno vede i risultati ritenuti più adatti. La combinazione di queste due caratteristiche operative dei big della rete si presta a molteplici implicazioni. Ne ha scritto bene Michele Ainis ne «Il regno dell' Uroboro», un saggio che fa luce sul fatto che, per esempio, un motore di ricerca è oggi in grado di rispondere alle domande ancora prima che l' utente le abbia formulate. Con tutte le conseguenze, anche filosofiche, che questo può avere. Per questo MiaEconomia si dedica questa settimana alle possibili alternative. A quelle app, che già esistono, che garantiscono la riservatezza dei dati. Magari non gratuitamente: alcuni motori di ricerca, email o social network chiedono un obolo, un abbonamento. Ma il punto è che, forse, è arrivato il momento di chiedersi se ne può valere la pena. Di questo modo diverso di navigare nel web potremmo sentir parlare sempre più spesso in futuro.

Camilla Conti per “il Giornale” il 30 ottobre 2019. «I dati personali sono usati come armi contro di noi con efficienza militare», una vera e propria «sorveglianza» che finisce «solo per arricchire le società che li raccolgono». Così parlò il 24 ottobre del 2018 Tim Cook, ad della Apple strappando applausi alla difficile platea della conferenza organizzata dall' Ue sulla privacy. Un duro atto d' accusa soprattutto contro Facebook, travolta dallo scandalo di Cambridge Analytica, e Google, pur senza menzionarli mai. E un appello a dare un giro di vite sulla privacy anche negli Usa come quello varato a maggio dell' anno scorso dalla Ue con il Gdpr, il regolamento generale sulla protezione dei dati (in inglese General Data Protection Regulation). Ma cosa è la profilazione? Quanto vale? L' articolo 4 del nuovo regolamento europeo la definisce come «qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell' utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica». I data broker ne hanno fatto un business: raccolgono informazioni online sui consumatori da fonti pubbliche, le aggregano, le interpretano e le analizzano per poi vendere quei dati (o punteggi analitici o classificazioni fatte sui dati) ad altri data broker o aziende, costituendo parte integrante dell' economia dei cosiddetti Big Data Analytics. I ricavi globali di questo specifico mercato, ha spiegato il centro ricerche Idc, sono stimati quest' anno a 189,1 miliardi di dollari (170 miliardi di euro), in aumento del 12% sull' anno precedente. Il tasso di incremento medio annuo fino al 2022 dovrebbe attestarsi al 13,2% per raggiungere i 274,3 miliardi (247,5 miliardi di euro) a fine periodo. Secondo i dati dell' Osservatorio sulla Digital Innovation, nel 2018 il mercato italiano della raccolta a analisi dei dati ha sfiorati gli 1,4 miliardi di euro, in crescita del 26% rispetto all' anno precedente. Il 45% della spesa delle aziende in Analytics è dedicata ai software (database e strumenti per acquisire, elaborare, visualizzare e analizzare i dati, applicativi per specifici processi aziendali), il 34% ai servizi (personalizzazione dei software, integrazione con i sistemi informativi aziendali, consulenza di riprogettazione dei processi) e il 21% alle risorse infrastrutturali (capacità di calcolo, server e storage da impiegare nella creazione di servizi di Analytics). Un vero tesoro cercato da imprese e gruppi di pressione non solo politici nelle miniere di dati offerte dagli stessi consumatori cliccando su Amazon, Google, Facebook, Microsoft, Alibaba, Tencent e altre centinaia di siti online. Senza dimenticare le app per il meteo, il Gps dell' auto che raccoglie abitudini, stili di guida, posizioni. Il che li rende la commodity del XXI secolo. Qualche anno fa, però, un giovane ingegnere di Torino, Federico Zannier, ha fatto un esperimento e ha deciso di «mettersi in vendita» per 2 dollari al giorno sul sito Kickstarter. Il pacchetto dati includeva: un elenco di pagine web visitate, le immagini del suo monitor ad intervalli regolari, le ricerche effettuate. Nella sua stima avrebbe fruttato non più di 500 dollari, ma la raccolta in realtà è stata di 2.733 dollari. La guardia deve essere alzata: secondo un rapporto realizzato da Teads , solo il 2% degli italiani, e in media il 5% degli europei, rifiuta i cookies e la conseguente raccolta di dati personali per ricevere pubblicità quando si trova su un sito di informazione.

 “INTERNET OGGI? UNO STRUMENTO CON UN LATO OSCURO”. Da Agi.it il 6 Ottobre 2019.  “Il nostro Internet era etico, di fiducia, gratis e condiviso. Oggi è passato da risorsa digitale affidabile a moltiplicatore di dubbi, da mezzo di condivisione a strumento con un lato oscuro. Internet consente di arrivare a milioni di utenti a costo zero in maniera anonima e per questo è perfetto per fare pure cose malvagie”. In un’intervista a la Repubblica si esprime così Leonard Kleinrock, cinquant’anni dopo aver lanciato Internet e interrogandosi oggi su pregi ed errori della sua grande visione di allora. Lo scienziato e pioniere della Rete, afferma anche che all’epoca del lancio di Internet non aveva “assolutamente pensato ai social network” non immaginandone nemmeno la possibilità della loro esistenza: “Allora si pensava a computer che parlavano, ma non alle persone. L’importanza delle persone l’ho capita dopo, con l’arrivo della mail. Poi con l’inizio dello spam nel ’94 cambiarono in male molte cose”. Nel senso che con spam, addio alla privacy, virus, furto di identità, pornografia e pedofilia, fake news, il problema si è posto ed “è nato quando si è voluto monetizzarlo”. Ovvero, “si è trasformato un bene pubblico in qualcosa con scopi privati che non ha la stessa identità del passato”. Ma all’epoca dell’esordio della Rete, della prima forma di connessione, il punto era che “dovevamo fornire una forte autenticazione di file” sostiene Kleinrock, nel senso che “ciò che mando dev’essere garantito e mai alterato” e perciò “ci voleva una chiara identificazione degli utenti: dimostrare chi comunica”. Ma il punto, aggiunge oggi lo scienziato, è che “non lo abbiamo fatto, non abbiamo messo dei paletti. E ora è difficilissimo” riuscirlo a fare, a riassestare la rotta della Rete. Ma cosa sarà Internet tra cinquant’anni, chiede il quotidiano. E la risposta di Kleinrock è che “vedo un futuro in cui sarà protagonista l’invisibilità delle macchine”, dice. “Useremo interfacce cerebrali. Avremo un sistema nervoso pervasivo globale per interagire. Ma per farlo dobbiamo trovare un equilibrio etico e tecnologico”. La scommessa è tutta qua e per ora Kleinrock nel suo laboratorio di Los Angeles sta cercando di plasmare il futuro della Rete e con l’Uncla Connection sta cercando di “replicare l’ambiente che ha portato alla scoperta della rete, fatto di connettività e cervelli, senza la monetizzazione. Lo faremo con menti giovani, con gli studenti. A loro dico che va bene sbagliare, basta continuare a cercare”, conclude.

Abbiamo sventato un cyberattacco (e siate pronti a farlo anche voi). Marco Lombardo, Venerdì 04/10/2019, su Il Gior0nale. Quando squilla il telefono le azioni della Bane&Ox sul listino di New York godono ancora di ottima salute. È una banca d'altronde, e di quelli con i clienti importanti e con un giro di milioni e milioni di dollari. Quando la telefonata finisce Bane&Ox è una banca in crisi, le azioni sono calate del 60 per cento, i network americani stanno facendo girare vorticosamente la notizia che migliaia di persone hanno tutti i loro dati e i loro conti bancari allo scoperto sul dark web. È in corso uno dei più importanti cyberattacchi della storia dell'economia mondiale. E noi ci siamo dentro. Bane&Ox per fortuna non esiste, ma la minaccia è assolutamente reale. Succede tutti i giorni, più volte al giorno, raccontano quelli di Ibm Security. E per questo hanno approntato una squadra di pronto intervento su un avveniristico camion: il Cyber Tactical Operation Center. Un mostro a 18 ruote, che contiene una vera e propria War Room. Perché di guerra si tratta. E d'altronde i numeri parlano chiaro: in media il costo di un data breach - di una violazione di dati - è di 136 euro per singolo documento. E gli incidenti di questo genere a cui non si pone rimedio entro i primi 30 giorni causano una perdita aggiuntiva di un milione di euro. Quindi, che fare? Bisogna avere un piano. Solo che, secondo i dati Ibm solo il 25% delle aziende italiane hanno un programma di risposta agli attacchi alla sicurezza informatica. E quasi tutte, in realtà, non hanno in mente che proteggere i dati non è solo questione di informatica. Anzi. Insomma: nel centro operativo mobile ci siamo divisi i compiti. C'è ad esempio chi si occupa dei rapporti con i Media e dunque risponde al telefono. «Siete sotto attacco?», la domanda. «Non confermiamo nulla», la risposta. Sbagliata. Perché non è come quando si viene beccati con l'amante: negare l'evidenza può salvare i matrimoni, ma non le quotazioni di Borsa. E infatti le azioni cominciano a scendere. Noi, quelli delle Risorse Umane, intanto dovremmo preoccuparci di sapere quali dipendenti dell'azienda sono adatti a ricoprire i ruoli di emergenza. Perché in pochi minuti succede di tutto: i bancomat dell'istituto vengono bloccati da un messaggio spedito dagli hacker; i telefoni cominciano a squillare furiosamente; la Cbs è già in onda a rullo accusando i vertici dell'azienda di scarsa trasparenza. Il grafico del Dow Jones intanto punta verso il pavimento, il team legale è in fibrillazione e fuori dai portoni c'è una giornalista in diretta dal marciapiede che sta concitatamente parlando senza avere la posizione ufficiale di alcun manager. «A questo punto qual è il prossimo passo?», chiede la nostra guida nel disastro. «Il reparto tecnico si attivi a spegnere i bancomat». «Giusto». Il responsabile media propone intanto di mandare un portavoce a parlare con la giornalista. Fuochino. Perché sarebbe poi compito delle Risorse Umane trovare il portavoce, ma possibile che in una situazione del genere la Bane&Ox non abbia qualcuno già di designato? Appunto. Ci voleva un piano quindi. Ed anche la soluzione: «La giornalista sul marciapiede è in condizioni di disagio. In attesa di fare una dichiarazione la si fa accomodare in una postazione comoda dentro gli uffici. Così da guadagnare tempo e credito verso i media». Sembra semplice. Non lo è, in condizioni di emergenza. Insomma, il caso Bane&Ox fa capire che esistono delle regole di cui bisogna dotarsi in anticipo per prevenire il panico. Ovvero: sapere chi chiamare, che linguaggio usare, chi è la persona da mettere a capo della squadra d'emergenza. E poi programmare quando comunicare tra i vari team, scegliere chi deve parlare con i media e avere davanti tutti i precedenti del genere per vagliare le mosse da eseguire. Perché l'importante è essere credibili e chiari. Mai negare, ma assicurare che si sta agendo per salvaguardare il denaro dei clienti. Tipo: «Stiamo mettendo in atto tutte le procedure del caso e comunque assicuriamo che i nostri correntisti non perderanno un dollaro: se ci saranno degli ammanchi sarà la banca a coprirli». Fuoco. Il grafico in Borsa comincia a risalire. E dunque: dopo un'ora e mezza di battaglia cibernetica e mediatica, alla fine la banca è salva. Gli hacker sono stati bloccati, la quotazione torna ai massimi, la normalità riprende il posto della concitazione. In realtà la nostra simulazione è solo una piccola parte del programma che viene proposto da Ibm alle aziende e ai suoi manager: dura più di 4 ore, perché le variabili possibili vanno oltre a quelle che hanno permesso di salvare la Bane&Ox. E il Cyber Tactical Operation Center viaggiante, ha una serie di dotazioni che possono servire come pronto soccorso contro un attacco in grande stile: sei chilometri di cavi, 20 workstation, 5 camere in Hd per monitorare il lavoro degli addetti alle postazioni, uno schermo da 75 pollici davanti e uno da 86 dietro in 4K, un server pieno di dischi solidi da 100 terabyte l'uno, un sistema di illuminazione a telescopio per fare giorno anche quando è notte. E non solo questo. Un vero elefante (in realtà è pesante come quattro) che può salvare la cristalleria digitale. Perché tutto va bene, fino a quando un giorno non squilla un telefono.

La guerra dei pirati di internet è più devastante di quella nucleare. Malware e virus sono alla portata di tutti. E hanno effetti peggiori della bomba atomica. Alessandro Curioni, giornalista e autore con Aldo Giannuli del libro «Cyberwar, la guerra prossima ventura» (editore Mimemis/Eterotopie), Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. «Un attacco cyber rivolto a una nazione e un'aggressione a tutti i Paesi membri». A fine agosto con queste parole il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg ha chiarito che dal punto di vista dell'alleanza occidentale potrebbe essere una condizione sufficiente ad attivare l'articolo 5 del trattato che prevede il diritto alla difesa collettiva. In effetti da tempo la NATO ha eletto lo spazio cibernetico a nuova dimensione degli scontro armati, non diverso dalla terra, dal cielo, dall'aria e dallo spazio. La posizione di Stoltenberg non è nuova, ma presenta alcuni aspetti critici. In primo luogo l'identificazione certa dell'aggressore. Lo storia dei della stragrande maggioranza degli attacchi cyber dimostra che le responsabilità non sono mai certe e i tempi per stabilirle possono essere molto lunghi. Rispetto a casi clamorosi di due anni orsono come i malware WannaCry e NotPetya si discute ancora oggi se a scatenarli sia stata la Russia, la Corea Nord oppure dei semplici criminali informatici. E la pubblicazione diventata nota come il «Manuale di Tallin» - dopo il devastante attacco DDos del 2007 che mise in ginocchio l'Estonia - rivela quanto la questione sia spinosa e non soltanto per l'attribuzione della responsabilità, ma anche per la soglia oltre la quale un'operazione cyber si possa configurare come un vero e proprio attacco. Gli esperti si sono divisi e per esempio si configura come attacco un malware che affligge un sistema di controllo di una rete di distribuzione elettrica e rende necessaria la sostituzione di un componente. Viceversa secondo la maggioranza dei redattori del Manuale un'operazione che blocca l'invio e la ricezione di messaggi di posta elettronica senza colpire i sistemi di trasmissione non sarebbe tale. A questo proposito in un recente articolo Jeremy Straub della North Dakota State University sostiene come un attacco cyber potrebbe essere devastante tanto quanto un bombardamento nucleare. Tuttavia nel primo caso esistono trattati internazionali che limitano la proliferazione di quel tipo di armi, nel secondo non esiste alcunché. Tutto sommato reperire la materia prima per costruire una bomba atomica non è poi tanto facile, viceversa per costruire un malware devastante basta un computer. Questo porta a uno degli aspetti più interessanti di un conflitto cyber: la fondamentale asimmetria. Nel lontano 1996, gli analisti della Rand Corporation, il celebre Think Tank statunitense definirono le sette caratteristiche tipiche dello strategic information warfare. La prima riguardava le basse barriere di ingresso sostenendo che «a differenza delle tradizionali tecnologie militari, lo sviluppo di tecniche basate sulle informazioni non richiede consistenti risorse finanziarie o il supporto governativo. Gli unici prerequisiti sono delle adeguate conoscenze dei sistemi e l'accesso ai principali network». Da allora, questa affermazione mai è stata smentita, ma al contrario ha acquisito contorni sempre più inquietanti. Innanzitutto i network sono diventati un unicum rappresentato da Internet e le «adeguate conoscenze» sono ormai patrimonio di tanti e raggiungibili praticamente da tutti. A questo hanno contribuito anche le numerose fughe di notizie che hanno coinvolto agenzia come la NSA, che negli ultimi anni ha subito il furto di una parte significativa del suo arsenale cibernetico ad opera di un fantomatico gruppo di criminali informatici noto come Shadow Brokers. In tale situazione un conflitto cibernetico conferma tutta la sua asimmetria non soltanto dal punto di vista del difensore, ma anche dell'attaccante. E a questo aggiungiamo che la pervasività delle tecnologie dell'informazione nei Paesi più evoluti e dotati di maggiori risorse militari, li renderà sempre più vulnerabili a una guerra cyber. Le realtà di questo tipo, statali e non, sono le più numerose e per esse un esercito cyber offrirà la sola e unica opportunità di resistenza e forse di vittoria.

Lo 007 che guarda il mondo dal buco di internet. Marco Lombardo, Venerdì 28/06/2019, su Il Giornale. Tutto è cominciato con un virus, ma la storia era già iniziata molto prima. Nell'ombra. Evgenij Valentinovic Kasperskij era un compagno della gloriosa Unione Sovietica quando fu accettato all'Istituto di Crittografia, Telecomunicazione e Scienze Informatiche di Mosca. Per un ragazzo sedicenne di Novossijsk, Russia meridionale, voleva dire entrare nel cuore dello Stato. Nel Kgb. Voleva dire tutto. Anno 1989, un salto in avanti: l'ufficiale d'intelligence Evgenij scopre qualcosa di strano nel suo computer: una specie di Tetris sta oscurando lo schermo blocco a blocco, la sicurezza nazionale era messa a rischio da Cascade, un virus che attacca le macchine per una guerra senza vittime ma dagli effetti spaventosi. Kasperskij ha l'idea: resettare tutto. Rifarsi un'altra vita. «Cosa mi ricordo di allora? Nulla. Era top secret». Otto anni dopo. Eugene Kaspersky, esperto informatico nato nel 1965, ha cambiato nome e ha cambiato missione. Dopo essere riuscito misteriosamente, e grazie a un suo vecchio professore, a smettere la divisa, con un amico e la moglie Natalja fonda una compagnia, un piccolo esercito. Così pensa una parte del mondo, che ancora non ha capito se sia un angelo o un diavolo. La Kaspersky Lab si occupa infatti di sicurezza informatica: oggi è una barriera opposta da milioni di computer agli attacchi cibernetici. Difende governi, aziende, privati cittadini. Corre in Formula 1 per custodire i segreti dei team dagli avversari, si insinua nei meandri del web alla ricerca di spie e criminali. Compila una lista nera aggiornata di malware messa a disposizione di chiunque sia disposto a pagare per averla. Confeziona programmi su misura per ogni pc del mondo. Eugene parla di cose terribili guardandoti con i suoi occhi blu di ghiaccio, ma sorridendo. E nel frattempo, dopo aver divorziato da Natalja (che per anni comunque è stata ai vertici dell'azienda), gira per il mondo, organizza conferenze, raduna imprenditori sul suo yacht, insegna nelle università. E ammonisce: «Il pianeta è sempre più connesso e i nostri figli hanno uno scarso senso della privacy. I cybercriminali sono sempre più aggressivi e non è più questione solo di sicurezza informatica. Difendersi è la linea di confine tra vivere e morire». Un santo dice qualcuno. Un nemico, per molti. Gli Stati Uniti per esempio: la Kaspersky è stata accusata dall'amministrazione Trump di ingerenza nelle ultime elezioni presidenziali. Di essere il braccio armato di Putin, di aver rubato documenti importanti per la sicurezza nazionale americana. I suoi software sono stati banditi dai computer del governo (anche da quelli britannici e olandesi) e da alcune aziende private come Best Buy. Ma nonostante i sospetti gettati da alcune inchieste giornalistiche, alla fine nessuno ha trovato le prove. «Sono solo supposizioni create ad arte» ribatte lui. Che intanto si è costruito una nuova indipendenza aprendo un data center in Svizzera: «La buona notizia per ora è che l'intelligenza artificiale è più stupida di una zanzara. Ma la cattiva è che la quantità di dati che analizza può essere usata per scopi inimmaginabili. Noi cerchiamo gente capace: informatici, matematici, fisici, ingegneri aerospaziali. Ma anche persone non laureate, se sono valide. Il mondo è cambiato: oggi smartphone e smart Tv sono veicoli inconsapevoli delle più grandi minacce per l'umanità. Noi siamo qui per difenderla». Un cibersanto, insomma. Forse. Un giornalista di Vice è riuscito l'anno scorso ad entrare al SAS, l'acronimo di Security Analyst Summit, una specie di convention che in realtà è un punto di incontro dove «l'unico limite è la tua immaginazione». Era la decima edizione, sembrava un film di James Bond: Lorenzo Franceschi-Bicchierai a Cancun, in Messico, si è trovato in una specie di open-bar, tra ricercatori, manager, (ex) hacker, belle ragazze e dipendenti dell'azienda. Presenti per allacciare contatti e scambiarsi pareri e informazioni. Kaspersky, salito sul palco jeans e barba incolta, ha parlato pochissimo. Ha sorriso. «Questa è l'unica occasione in cui non tengo una conferenza», ha detto lasciando poi campo libero all'evento. Dove la tequila scorre sempre a fiumi: «Controlla i tuoi drink, mi ha consigliato un partecipante di lunga data che ha chiesto di rimanere anonimo ha scritto il giornalista -. Mi hanno detto che ci sono stati diversi casi di partecipanti che hanno affermato di aver avuto cocktail in cui erano state mischiate droghe, o di persone che facevano irruzione nelle stanze di altri». A caccia di informazioni, qualcuno sospetta. Perché dentro Kaspersky Lab esiste una organizzazione chiamata GReAT, il Global Research a Analysis Team: secondo un ex ricercatore «fa solo la cosa giusta», ovvero andare a caccia di tutti gli hacker del mondo perché «non può esistere un malware buono. Mai». Però inevitabilmente le operazioni del GreAt si incrociano con quelle delle potenze mondiali. Kaspersky è accusata di aver scoperto e sventato un tentativo di attacco americano alle centrali nucleari iraniane (e gli iraniani sono amici della Russia), così come aver taciuto su attività di spionaggio israeliane (e gli israeliani stavano curiosando tra i documenti dell'amministrazione Trump), od anche di aver messo in pratica boicottaggi per conto di Putin. Eugene scuote la testa e risponde che si tratta di una campagna di stampa pagata dalla concorrenza. E d'altronde la sua azienda anche nel 2018 ha aumentato i ricavi ad oltre 700 milioni di dollari conquistandosi oltre 300 milioni di clienti. «Nel 2017 abbiamo affrontato molte sfide e accuse infondate. Questa è stata la risposta: c'è sempre più gente che ha fiducia in noi». La fiducia, afferma, è la cosa più seria che c'è. Ed è per questo che continua a girare il mondo mettendolo in guardia sul suo destino: «Secondo me internet dovrebbe essere diviso in tre aree: una rossa con dati sensibili dove puoi accedere solo se hai una password di sicurezza, una gialla con contenuti solo per chi è adulto e registrato e una verde per tutti. C'è troppa libertà sul web. E la libertà dovrebbe avere un controllo». Lo dice, ovviamente, sorridendo.

Snowden, tracciabilità Internet è pericolosa come l'atomica

Con i dati personali si influenzano elezioni democratiche. Ansa il 17 giugno 2019. "Se non fermiamo l'attuale processo di manipolazione e tracciamento di massa, il costo sociale sarà enorme e forse irreversibile". E' l'allarme lanciato da Edward Snowden, l'informatico e attivista statunitense che ha dato il via al Datagate, in collegamento video da Mosca in occasione dell'apertura del festival internazionale delle scienze 'The Big Challenge 2019' organizzato a Trondheim, in Norvegia, dall'Università norvegese per la scienza e la tecnologia (Utnu). "Il desiderio umano di interagire e cooperare è stato trasformato in un sistema totalitario di controllo sociale" ha incalzato Snowden. "Internet è in grado di connettere tutto il mondo senza confini, però è stato corrotto, come l'applicazione della fisica nucleare è stata rubata alla medicina e impiegata per costruire la bomba atomica". Secondo Snowden, questo controllo di massa si manifesta oggi in primis con "l'accesso e la vendita di dati personal da parte di soggetti privati" che "insieme ai governi di certi Paesi" sono così in grado di "influenzare perfino le elezioni delle nostre democrazie". Secondo l'ex agente della National Security Agency (NSA) americana, l'unica soluzione oggi consiste nel "cambiare il mondo, rendendolo pericoloso per quelli che limitano la nostra libertà". 

Riforma copyright Ue: cos'è e come cambia il diritto d'autore. «Riforma copyright Ue cos’è, cosa prevede e cosa cambia per internet se articoli 11 e 13 della delibera europea sul diritto d'autore vengono approvati». Redazione theitaliantimes.it il 5 luglio 2019.  Ma perché una riforma del copyright europea potrebbe minacciare la libertà di internet e sottoporla per sempre ad un controllo senza precedenti dei contenuti online? Per capirlo andiamo a spiegare in dettaglio la riforma copyright Ue cos’è, cosa prevede la legge e cosa cambia per internet se gli articoli 11 e 13 della delibera europea sul diritto d'autore vengono approvati? Ultimo aggiornamento: riforma copyright è stata approvata dall'UE con 438 voti favorevoli, 226 contrari e 39 astenuti, approvate anche delle modiche agli articoli 11 e 13, i più dibattuti.

Riforma copyright Ue approvata: ultime novità. Il Consiglio e la Commissione Ue hanno trovato l'accordo sulla riforma del copyright che tiene conto dei maggiori diritti e di una remunerazione più equa a editori, artisti, autori e giornalisti nei confronti delle grandi piattaforme online come Google, Facebook o Youtube. Si attendono ora i negoziati. A fine marzo 2019 il Parlamento Europeo vota sulla riforma del copyright, ed editori e giornalisti di tutta Europa hanno rinnovano il loro appello per il via libera alla direttiva sul copyright, dopo un dibattito durato quasi 3 anni. Via libera del Parlamento Ue all'accordo provvisorio raggiunto a febbraio sulle nuove norme del diritto d'autore in Internet con 348 sì, 274 no e 36 astenuti, le nuove norme Ue sul copyright, entrano in vigore, ecco quindi le novità e cosa cambia rispetto al vecchio testo modificato a febbraio:

DIRITTI EDITORI e SNIPPET GRATIS (ART.11). Riscritte le norme presenti all'articolo 11, approvata quindi la facoltà - e non obbligo - agli editori di stampa di negoziare accordi con le piattaforme per farsi pagare  l'utilizzo dei loro contenuti (riconoscimento dei diritti connessi). Snippet brevi e descrizioni non sono protetti dal copyright e si possono condividere liberamente e gratuitamente. Inoltre gli introiti dovranno essere condivisi con i giornalisti.

DIRITTI ARTISTI e RESPONSABILITA' per le PIATTAFORME (ART.13). l'articolo 13 della riforma del copyright che aveva fatto levare tantissime critiche è stato riscritto prevedendo che siano le piattaforme digitali come Youtube o Facebook a dover vigilare sui contenuti coperti da copyright caricati dagli utenti. Gli utenti quindi non saranno pù soggetti a sanzione. Le piccole piattaforme saranno esentate mentre le medie ci saranno obblighi ridotti. Inoltre c'è l'obbligo di meccanismi rapidi di reclamo, gestiti da persone e non da algoritmi.

Esclusi WIKIPEDIA, OPEN SOURCE, MEME: sono esclusi dal rispetto del copyright, i contenuti caricati su enciclopedie online che non hanno fini commerciali come Wikipedia o piattaforme per la condivisione di software open source, come GitHub, e sui cloud. Stessa esclusione per i meme, citazioni ecc. Riforma copyright Ue cos’è? Riforma copyright Ue cos’è? La Riforma copyright Ue è una nuova proposta di legge approvata in prima istanza dalla Commissione giuridica (JURI), in data 20 giugno 2018 ed approvata il 12 settembre 2018. Il 26 marzo 2019, il Parlamento Europeo ha dato il via libera al testo della riforma del copyright riscritta a febbraio scorso. Con la nuova riforma copyright Ue approvata cambiano le regole al fine di garantire maggiormente la tutela del diritto d’autore, il testo dei due articoli l’11 ed il 13 che avevano fatto gridare alla censura di internet sono stati cambiati a febbraio 2019. La nuova legge europea sul copyright non è ancora in vigore ma in tutti questi mesi sono giunti da varie parti in Europa, molteplici appelli da parte di europarlamentari, giuristi, attivisti e organizzazioni affinché vengano cancellati i due articoli, in modo che sia garantita la tutela della libertà di espressione. Tra i personaggi politici di spicco che si sono già fatti sentire contro la riforma del copyright e del diritto d'autore c’è il nostro ministro del Lavoro e del Mise nonché vice presidente Luigi Di Maio che in un lungo post sul blog delle Stelle si è già ufficialmente scagliato contro a quella che egli stesso ha definito, legge bavaglio.

Riforma copyright Ue ultimissime approvata: il parlamento europeo ha dato il via libera alla proposta di direttiva sui diritti d’autore nel mercato unico digitale, anche se sono state approvate delle modifiche proposte dal relatore Axel Voss, agli articoli 11 e 13 della proposta di direttiva sul copyright, quelli più dibattuti.

Riforma del copyright cosa prevedeva l'articolo 11: Cosa prevede la riforma del copyright Ue? La riforma del copyright Ue pur avendo degli obiettivi nobili come la tutela del diritto d’autore all’interno del mercato unico digitale europeo, potrebbe creare seri problemi alla libera circolazione delle informazioni online e quindi minacciare la libertà di internet. In questi giorni sul dibattito è intervenuto anche Luigi Di Maio che ha definito la legge, come di una legge bavaglio soprattutto in riferimento agli articoli 11 e 13 della delibera. Entriamo più nello specifico e andiamo a vedere riforma copyright cosa prevede l'articolo 11: In pratica nella riforma copyright Ue, ad essere fortemente criticati sono due articoli: l’articolo 11 e l’articolo 13, dove il primo prevede un diritto per gli editori, i grandi editori di giornali, la possibilità di autorizzare o bloccare l’utilizzo digitale delle loro pubblicazioni prevedendo anche una nuova remunerazione per l’editore. Ciò significa quindi che quando viene condiviso un articolo, quelle due o tre righe che compaiono al di sotto dell’indirizzo della pagina, dovrebbero essere tassate, cioè Google dovrebbe pagare l’editore per poter mostrare quell’anticipazione di articolo e condividerlo online.

Ecco cosa dice l'articolo 11 riforma copyright:

Capo 1 Diritti sulle pubblicazioni: Art. 11 Protezione delle pubblicazioni di carattere giornalistico in caso di utilizzo digitale 1. Gli Stati membri riconoscono agli editori di giornali i diritti di cui all'articolo 2 e all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2001/29/CE per l'utilizzo digitale delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico. 2. I diritti di cui al paragrafo 1 non modificano e non pregiudicano in alcun modo quelli previsti dal diritto dell’Unione per gli autori e gli altri titolari di diritti relativamente ad opere e altro materiale inclusi in una pubblicazione di carattere giornalistico. Essi non possono essere invocati contro tali autori e altri titolari di diritti e, in particolare, non possono privarli del diritto di sfruttare le loro opere e altro materiale in modo indipendente dalla pubblicazione di carattere giornalistico in cui sono inclusi. 3. Gli articoli da 5 a 8 della direttiva 2001/29/CE e la direttiva 2012/28/UE si applicano, mutatis mutandis, ai diritti di cui al paragrafo 1. 4. I diritti di cui al paragrafo 1 scadono 20 anni dopo l'uscita della pubblicazione di carattere giornalistico. Tale termine è calcolato a decorrere dal 1° gennaio dell’anno successivo alla data di pubblicazione.

In conclusione l’articolo 11 potrebbe quindi portare all'istituzione di una vera e propria tassa che le grandi piattaforme online come Google e Facebook dovrebbero agli editori, per poter pubblicare e condividere le notizie sulle loro piattaforme. In pratica i colossi del web dovrebbero mettersi d'accordo con ciascun editore e concordare con lui, una licenza annuale a pagamento per far apparire i suoi articoli nelle serp di ricerca o sui prodotti gestiti da Google o Facebook. L’idea di tassare le condivisioni proviene dall'incontro-scontro tra editori e grandi piattaforme online che prosegue ormai da diversi anni e vede da una parte gli editori che accusano big G e altri, di mostrare i loro articoli online senza permesso e senza offrire un compenso adeguato in cambio, dall'altro Google e Facebook che affermano che la gran parte del traffico verso i siti di notizie deriva proprio dalla pubblicazione delle anteprime e di altri elementi degli articoli negli aggregatori.

Riforma del Copyright cosa prevedeva l'articolo 13: Cosa prevede l'articolo 13 della riforma del Copyright? L'articolo 13 della riforma Ue sul copyright e sul diritto d'autore prevede per le società che danno accesso a grandi quantità di dati, di adottare misure per controllare in anticipo tutti i contenuti caricati dagli utenti. Praticamente tutte le piattaforme online che gestiscono milioni di dati, video, foto ecc, dovrebbero verificare che ogni cosa pubblicata online non possa ledere il diritto d’autore, per cui una multinazionale potrebbe bloccare ad esempio qualsiasi immagine attraverso su algoritmo. Queste multinazionali, che nella maggior parte dei casi non sono neanche in Europa ma si trovano al di fuori, avrebbero il potere di decidere cosa sia pubblicabile e cosa no e quali tipi di informazioni i cittadini potrebbero fruire e quali invece sarebbe meglio evitare e tutto ciò a discapito delle micro e piccole e medie imprese che lavorano sul web e che non hanno i mezzi economici che hanno invece le multinazionali.

Ecco cosa dice testualmente l'articolo 13 della riforma copyright Ue: CAPO 2 Utilizzi specifici di contenuti protetti da parte di servizi online: Art. 13 Utilizzo di contenuti protetti da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione che memorizzano e danno accesso a grandi quantità di opere e altro materiale caricati dagli utenti 1. I prestatori di servizi della società dell’informazione che memorizzano e danno pubblico accesso a grandi quantità di opere o altro materiale caricati dagli utenti adottano, in collaborazione con i titolari dei diritti, misure miranti a garantire il funzionamento degli accordi con essi conclusi per l’uso delle loro opere o altro materiale ovvero volte ad impedire che talune opere o altro materiale identificati dai titolari dei diritti mediante la collaborazione con gli stessi prestatori siano messi a disposizione sui loro servizi. Tali misure, quali l’uso di tecnologie efficaci per il riconoscimento dei contenuti, sono adeguate e proporzionate. I prestatori di servizi forniscono ai titolari dei diritti informazioni adeguate sul funzionamento e l’attivazione delle misure e, se del caso, riferiscono adeguatamente sul riconoscimento e l’utilizzo delle opere e altro materiale. Gli Stati membri provvedono a che i prestatori di servizi di cui al paragrafo 1 istituiscano meccanismi di reclamo e ricorso da mettere a disposizione degli utenti in caso di controversie in merito all’applicazione delle misure di cui al paragrafo 1. Gli Stati membri facilitano, se del caso, la collaborazione tra i prestatori di servizi della società dell’informazione e i titolari dei diritti tramite dialoghi fra i portatori di interessi, al fine di definire le migliori prassi, ad esempio l'uso di tecnologie adeguate e proporzionate per il riconoscimento dei contenuti, tenendo conto tra l’altro della natura dei servizi, della disponibilità delle tecnologie e della loro efficacia alla luce degli sviluppi tecnologici.

In conclusione l'articolo 13 prevede che tutti i contenuti caricati online nell’Unione Europea devono essere prima controllati e poi pubblicati in modo da evitare che materiale coperto dal diritto d'autore possa finire online senza le dovute tutele. Il sistema di controllo preventivo sul materiale pubblicato online dovrebbe quindi funzionare come il Content ID di YouTube ossia con un riconoscimento automatico che controlla che in tutte le immagini contenute in ogni video non siano presenti contenuti protetti da copyright, al fine di evitarne la pubblicazione senza permesso o di mostrarli solo con pubblicità, permettendo così la suddivisione dei ricavi tra i proprietari del diritto d’autore. Ma il Content ID è un sistema complicato e molto costoso e sembra quasi impossibile che un meccanismo simile possa essere applicato ad ogni immagine, video o articolo caricato online all'interno dell’Unione Europea. Infine è importante ricordare come il controllo preventivo dei contenuti prima della loro pubblicazione online, possa fungere da vero e proprio filtro alla libera circolazione delle informazioni su internet, a questo punto, dopo i problemi enormi creati in Europa con l'entrata in vigore della nuova Privacy 2018 con il Gdpr non ci rimane che aspettare e vedere i futuri sviluppi della riforma copyright Ue e se il governo italiano, riuscirà ad impedire l'arrivo delle nuove regole al diritto d'autore già aspramente criticate da Luigi Di Maio, Salviamo la rete dalla legge bavaglio. Riforma copyright cosa cambia? Esempio: Riforma copyright cosa cambia? Dopo aver letto attentamente gli articoli 11 e 13 della nuova delibera sul copyright europea andiamo a vedere qualche esempio su cosa e come potrebbe cambiare l'uso di internet in Europa all'interno del mercato digitale unico qualora le nuove regole sul diritto d'autore dovessero essere approvate anche con parere negativo dell'Italia: per poter condividere articoli o frammenti di essi, anche se vecchi di 20 anni, si dovrebbe ottenere una apposita licenza (a pagamento) da parte dell’editore; twittare senza licenza anche 4 o 5 parole di un titolo di un articolo pubblicato da un editore, è una violazione dell’estensione del diritto d’autore per gli editori. condividere un articolo "press publication" sui social media senza licenza è violazione del copyright: l’anteprima dell’immagine e il frammento di testo che Facebook, Twitter, Google generano in automatico quando si condivide un indirizzo web sono soggetti a licenza. siti come Pinterest, che consentono agli utenti di poter salvare un'immagine dal web e di usarle e ripubblicarle è una violazione dell’estensione del diritto d’autore per gli editori. Indicizzazione degli articoli sui motori di ricerca: anche questo diventerà un problema se la delibera sul copyright e sul diritto d'autore dovesse essere approvata in via definitiva e ciò perché qualsiasi motore di ricerca per poter fornire i risultati di ricerca agli utente, deve prima trovare tutti i siti utilizzando i cd. spider, poi creare un database in cui vengono inserite le copie di materiale coperto da copyright, per cui soggetto alla violazione in mancanza del pagamento della licenza agli editori interessati. siti come Wikipedia che consentono l’accesso ad una enorme quantità di opere caricate direttamente dagli utenti senza i controlli necessari per impedire la disponibilità dei lavori coperti da diritti, potrebbero scomparire con la nuova legge. Diritto d'autore ultime notizie: cosa cambia e cosa rimane Diritto d'autore ultime notizie: In base alle modifiche apportate al testo della riforma del copyright Ue, dopo le aspre critiche per una legge troppo dura, ecco cosa cambia rispetto al testo originale anche se non è quello finale, in quanto questo verrà definito solo al termine dei negoziati tra Parlamento, Consiglio e Commissione Ue che iniziarenno tra qualche settimana e poi vedere cosa succederà a maggio 2019, dopo le nuove elezioni europee. Ecco quindi cosa cambia e cosa rimane della legge sul diritto d'autore appena approvata dall'Ue: Responsabilità per le grandi piattaforme. in pratica i colossi del web, da Facebook a YouTube, dovranno pagare i contenuti prodotti da artisti e giornalisti e dovranno essere responsabili in caso di violazioni sul diritto d'autore dei contenuti da loro ospitati. Escluse le piccole e medie piattaforme: Le piccole e micro piattaforme sono escluse dalla riforma; Si alla condivisione ma gli snippet saranno protetti dal coptright: in pratica la condivisione tramite collegamento ipertestuale di singole parole si potrà ancora fare liberamente mentre gli snippet (foto e breve testo di presentazione di articoli) saranno coperti da copyright e quindi per poterli usare, le piattaforme dovranno pagare i diritti agli editori per il loro uso. I giornalisti dovranno essere pagati: ai giornalisti spetterà una parte della remunerazione ottenuta dalla loro casa editrice. No ai filtri si alla cooperazione: non dovranno esserci filtri sui contenuti ma una cooperazione tra piattaforme e coloro che detengono i diritti d'autore in modo tale da non colpire le opere che non violano il copyright, per far ciò le piattaforme dovranno provvedere ad istituire veloci procedure di reclamo, gestite da persone e non da algoritmi, qualora si presenti la necessità di fare ricorso contro un'ingiusta eliminazione di un contenuto. Gli artisti dovranno essere pagati: gli artisti potranno esigere un pagamento supplementare da chi sfrutta le loro opere quando il compenso corrisposto in origine è palesamente più basso rispetto ai benefici che ne derivano, incluse le entrate indirette. Esclusi dal diritto d'autore WIKIPEDIA, OPEN SOURCE, MEME: Il caricamento di contenuti su enciclopedie online che non hanno fini commerciali come Wikipedia o su piattaforme di condivisione di programmi open source, sono esonerati dall'obbligo di rispettare le nuove regole sul copyright, compresi i meme che tanto piacciono ai ragazzi ed adulti.

"Il web deve diventare un diritto dell'uomo. E l'Europa su questo deve svegliarsi". "Le sfilacciature della rete digitale impediscono ancora oggi a tre miliardi di persone di comunicare con il resto del mondo, di sapere che succede nel proprio paese e di aver accesso a conoscenza e informazione". Parla Romano Prodi, fondatore e presidente della Foundation for World Wide Cooperation. Gloria Riva il 04 luglio 2019. Si chiama world wide web, eppure la ragnatela di internet è tutt'altro che globale. Infatti il 40 per cento della popolazione mondiale non ha accesso al web, mentre il restante 60 lamenta lo strapotere di Amazon, Facebook, Google, monopolisti del digitale. Dalla fame d'informazione online al diritto alla connettività, L'Espresso dialoga con Romano Prodi, fondatore e presidente della Foundation for World Wide Cooperation, l'associazione che sta facendo un'azione di lobby per convincere l'Onu ad inserire la connettività fra i diritti dell'uomo, al pari della libertà e dell'istruzione. Perché la prospettiva di restare offline è allettante solo per qualche ora, giusto il tempo di prendere le distanze dalle email lavorative, dalle notifiche, dalla costante geolocalizzazione di Google, ma è indubbio che diciotto anni di world wide web abbiano portato ad allargare la base della conoscenza e della consapevolezza: «Le aree innervate dalla connessione internet sono quelle che più facilmente e velocemente si sviluppano, le altre hanno pochissima probabilità di evolversi. C'è una correlazione diretta fra connessione e crescita» spiega il professore.

Quanto è ancora locale la rete che s'atteggia a globale?

«Inizialmente pensavo che la disomogenea diffusione del web fosse una questione risolvibile in breve tempo, invece il percorso è lento e accidentato. Le sfilacciature della rete digitale impediscono ancora oggi a tre miliardi di persone, cioè al 40 per cento degli abitanti della terra, di essere online, di comunicare con il resto del mondo, di sapere che succede nel proprio paese e di aver accesso a un corso di formazione che, per esempio, può insegnare un metodo per rendere più fertile la terra».

Verrebbe da pensare che se la Dichiarazione dei Diritti Umani, adottata dalle Nazioni Unite nel 1948, dovesse essere riscritta oggi, oltre al diritto a non essere ridotti in schiavitù, quello all'istruzione, a una casa, al lavoro, includerebbe il diritto alla connettività. Eppure, questa piccola estensione, è più complicata del previsto. Da due anni il professore sta cercando di convincere le Nazioni Unite. Ha trovato il sostegno dell'Accademia Ponteficia, di Nicholas Negroponte, autore del best seller Being Digital ed esponente di spicco del Mit di Boston, e dell'economista Jeffrey Sachs, direttore dell'Earth Institute alla Columbia University e promotore di un modello alternativo al turbocapitalismo per sconfiggere le sempre maggiori disuguaglianze del sistema economico globale. L'iniziativa è stata sostenuta anche dal rappresentante italiano permanente all'Onu, prima dall'ambasciatore Sebastiano Cardi, poi Mariangela Zappia. Così come dall'Unione Africana. Non è bastato. Cosa manca ancora?

«Ci vuole un'ondata di convinzione generale, ci vuole una lobby politica interessata a portare questo tema all'ordine del giorno nelle Nazioni Unite. Poi servono i protocolli per la cooperazione fra i governi e un favorevole quadro generale per l'approvazione. Manca l'interesse mondiale a far sì che tutti possano avere diritto al web».

Perché tante resistenze?

«C'è sicuramente il timore, da parte di alcune nazioni, che i costi di una rete infrastrutturale digitale mondiale ricadano sui paesi ricchi e che il diritto alla connettività equivalga a un principio di gratuità. Ma avere un diritto non significa pretenderne la gratuità. È un falso problema: l'accesso al web è paragonabile al diritto all'acqua, che contemporaneamente entra nelle nostre case e nelle nostre bollette».

Di mezzo, insomma, ci stanno sempre i soldi. Ma vediamo, chi dovrebbe farsi carico della realizzazione delle infrastrutture digitali?

«Premesso che il riconoscimento del diritto non costa nulla a nessuno, nel medio periodo sarebbero le imprese che ritengono economicamente profittevole un investimento in quelle aree a farsi carico dei progetti. Sino ad oggi quelle che hanno sostenuto lo sviluppo dell'infrastruttura digitale nei paesi in via di sviluppo, specie in Africa, hanno guadagnato dall'implementazione di sistemi tecnologici avanzati. Ad esempio, abbiamo osservato lo sviluppo esponenziale di due banche africane che performano meglio e più velocemente rispetto a quelle dei paesi sviluppati, perché sono partite senza alcuna zavorra pre-digitale. Concretamente, se da un lato esistono imprese a sostegno dell'investimento e dello sviluppo, dall'altro ci sono spinte contrarie di paesi che non hanno alcun interesse a favorire una crescita culturale e civile di queste aree. Mi riferisco, per esempio, alla Cina, che si sta impegnando nello sviluppo hardware dell'Africa, costruendo strade e dighe, ma non in quello software delle infrastrutture digitali. Mentre gli Stati Uniti non hanno alcun motivo per investire in quell'area, specialmente da quando hanno avviato una politica di sostanziale autosufficienza energetica».

Quale ruolo sta giocando, invece, l'Europa?

«L'Europa dovrebbe svegliarsi, investendo sia nell'hardware, sia nel software. Dovremmo essere i più interessati alla crescita economica, culturale e civile dell'Africa, terra di conquista per la Cina, un paese che possiede il sette per cento delle terre coltivabili del mondo, ma il 20 per cento della popolazione globale. È chiaramente interessata a ritagliarsi una fonte di cibo e materie prime in Africa».

Perché l'Europa ha così tante remore a sostenere la connettività quale diritto universale, ad estenderlo a paesi poveri, come quelli africani?

«Centinaia d'anni di colonialismo non si cancellano in poco tempo e il peso degli ex paesi coloniali è ancora molto forte. Nonostante lo spazio di manovra della Commissione Europea stia crescendo, l'influenza di Francia e Gran Bretagna è ancora molto forte e questo rende tutto più difficile. Il risultato è l'assenza di una chiara e decisa presa di posizione comune. Sarebbe però moralmente doveroso e politicamente indispensabile approvare questo piano, perché nonostante l'Europa sostenga l'Africa con progetti di aiuto, non ha mai fatto il grande salto, affermando un progetto di sviluppo collettivo per il continente. Si potrebbe partire proprio da questo diritto alla connettività, che è fondamentale per garantire l'inclusione sociale, per promuovere l'innovazione nei diversi settori economici, dall'agricoltura alla sanità, dalla tutela dell'ambiente al mondo del lavoro, dall'uguaglianza di genere alla tolleranza. L'accesso a internet consentirebbe a milioni di bambini di accedere all'educazione scolastica di base. Se l'Europa e la Cina andassero al di là degli interessi politici, allora qualcosa potrebbe davvero cambiare. Certo, lo so, è utopia».

Eppure i tentativi di coinvolgere nazioni e delegazioni continuano. A fine gennaio Prodi ha incontrato Michelle Bachelet, Alto Commissario Onu per i Diritti Umani, per aggiornarla sull'esigenza di fare della connettività un diritto. Un altro passo è stato fatto, ma la strada è lunga.

«Le Nazioni Unite sono l'ago della bilancia. Tuttavia è un ente più complicato di quanto si possa immaginare e per ottenere un risultato significativo serve un vero e potente interesse politico».

Dall'altra parte dello spettro, c'è un sistema monopolistico che ha conquistato il controllo del digitale. Se oggi gli africani dovessero diventare cittadini del web, dovrebbero immediatamente fare i conti con Google, Amazon e Facebook, padroni assoluti della rete. Le big company del web crescono acquisendo ogni neonata e interessante start up anche per evitare che, in futuro, possa competere con loro, negando dunque ogni possibile concorrenza. E il sistema di indicizzazione delle ricerche Google, ad esempio, è gestito da un algoritmo i cui parametri non sono noti.

«È una questione molto importante e bisognerà pure che un giorno o l'altro l'antitrust torni a fare il proprio mestiere. Di regolamentazione del mercato mi sono occupato per lunghissimo tempo (prima interessandosi alla questione dei monopoli durante i propri studi economici, successivamente gestendo la ristrutturazione dell'Iri e dando il via al piano di privatizzazione nazionale, poi alla presidenza della Commissione europea, ndr). Era un periodo in cui il lavoro dell'antitrust era vivace, contrastava lo strapotere dei grandi monopolisti, come i Rockefeller, padroni delle ferrovie e dell'energia, per nulla amati dalla popolazione, perché avevano il potere di alzare i prezzi a proprio piacimento restringendo l'offerta. Oggi, invece, non c'è battaglia: sembra che per i politici sia difficile contrastare Google e Facebook, se non altro perché il costo di queste piattaforme è supportato dalla pubblicità e non grava direttamente sulle tasche dei consumatori. Quando utilizziamo Google Map ne percepiamo solo il vantaggio di poterci muovere facilmente in un luogo sconosciuto, mentre non capiamo che quel servizio viene pagato rinunciando a un po' di privacy. I cittadini non ne sentono direttamente il peso, ma c'è ed è gravoso. La svolta arriverà non appena la popolazione percepirà la privacy come un diritto indispensabile e inviolabile e allora capiranno che questo è un monopolio, che limita la concorrenza. Perché il web non è una gentile concessione, ma è un diritto».

Il punto di contatto fra chi non ha accesso al web e chi può sfruttarlo solo cedendo informazioni a Google e Facebook, sta proprio qui. Risolvere un problema significa affrontare anche l'altro.

«Se il web venisse considerato come un diritto per l'uomo, come un'infrastruttura di pubblica utilità, al pari di una strada, di un aeroporto, di un acquedotto, allora saremmo meno disposti ad accettare che una manciata di big company controllino questo bene prezioso che è l'informazione e la comunicazione digitale, che è la porta d'accesso per diventare cittadini del mondo. Credo che questi due obiettivi, il diritto alla connettività e l'affrancamento dai monopoli, vadano di pari passo e la conquista dell'uno sia strettamente legata all'altra. Ma per raggiungerli serve interesse, consapevolezza, serve un'ondata di interesse popolare».

·         Wikipedia ed il Recentismo.

 CHI È CAROLA RACKETE? BOH! ANDIAMO SU WIKIPEDIA! ANZI NO: L'ENCICLOPEDIA HA CANCELLATO LA PAGINA SULLA CAPITANA. DAGONOTA il 3 luglio 2019.  - Dentro Wikipedia si stanno scannando su Carola Rackete: l'enciclopedia online ha una regola particolare legata al ''recentismo'': prima che un personaggio o un evento sia degno di una voce, deve essere passato un po' di tempo, per evitare che sia un mero richiamo alla notizia del giorno e che rischi di dover essere aggiornata continuamente. Deve insomma cristallizzarsi. Ovviamente questo cozza con l'immediatezza di internet, e a definire cosa sia troppo recente e cosa no sono gli stessi utenti, ed è un tema scivoloso quando l'argomento è ''caldo'' come quello di Carola. Vari tentativi di far ''partire'' la pagina sulla Capitana sono stati abortiti: cancellata, cancellata, cancellata. Ma Wikipedia è trasparente, e le discussioni degli utenti pro e contro sono tutte online. Eccole: La pagina è stata cancellata. La procedura semplificata scade alle 23.59 di martedì 9 luglio 2019.

La pagina in questione si riferisce ad eventi recenti e rischia di diventare una voce giornalistica; inoltre essa si concentra principalmente sugli eventi controversi legati al caso “Sea Watch 3” e, proprio per la difficoltà nel darne una descrizione trasparente e neutrale, credo sia necessario aspettare prima di scriverne una voce su Wikipedia. — Questo commento senza la firma utente è stato inserito da TheWorm12 (discussioni · contributi) 09:45, 2 lug 2019.

Sì, sicuramente recentismo, non si può avere una voce di Wikipedia su biografie legate a fatti di stretta attualità. Tuttavia, in questa settimana la voce sarà consultatissima, e si apre con un bel "questa voce è stata proposta per la cancellazione". Chi non conosce i meccanismi di Wikipedia ci prenderà in giro, e se è un giornalista farà la solita critica a Wikipedia. Veramente non c'è strumento migliore della PdC in questi casi? Non era meglio discuterne al bar e poi spostarla in sandbox? --Lombres (msg) 11:00, 2 lug 2019 (CEST)

Se anche si sposta in sandbox sempre recentismo rimane: il fatto che la voce nel breve periodo possa essere alquanto ricercata per fatti di cronaca non rende il personaggio (almeno nell'immediato) enciclopedico. Per quanto riguarda il resto, non possiamo sempre star dietro ai vari fans di youtubers che doppiano film e si lamentano perché il loro idolo non ha la pagina su Wikipedia: se non hanno voglia di comprendere come funzioni il progetto e le regole su cui si basa, pazienza, mica possiamo perdere noi la vita a inseguirli.--Leofbrj (Zì?) 11:08, 2 lug 2019 (CEST)

Mantenere. La voce della capitana non può essere cancellata perchè è entrata nelle pagina di storia moderna cioè contemporanea (se non sbaglio anche nella storia collettiva) ed ha rilevanza enciclopedica ed è piena di fonti giornalistici e magari tra qualche anno li troveremo in qualche libro di storia italiana ed europea (cioè dell'Unione europea visto il tema che si tratta).. --SurdusVII 11:23, 2 lug 2019 (CEST)

Temo che si stia confondendo "rilevanza mediatica del momento" con "pagina di storia": quello che finisce o finirà per davvero nelle "pagine di storia" verrà stabilito solo col tempo e solo con la dovuta "distanza storica". Ci sono un sacco di fonti giornalistiche semplicemente perché è un fatto di cronaca su cui si sono spese molte parole e anche qua tra il "sacco di fonti" va fatta una pesante scrematura tra quelle che si concentrano sui fatti veri e propri (che sono quelli che interessano all'enciclopedia) e quelle di commenti e prese di posizione sulla vicenda. Dire che "tra qualche anno li troveremo in qualche libro di storia italiana ed europea" allo stato è pura WP:SFERA: che è proprio la trappola in cui si rischia di cadere molto facilmente proprio in casi di recentismo come questi.

Le enciclopedie ragionano con tempi diversi rispetto a quelli dei mezzi di comunicazione proprio per questo motivo: molto spesso c'è un'enorme nuvola di polvere che attira l'attenzione ma per capire se ci sia della sostanza enciclopedica bisogna aspettare che la polvere si depositi per vedere cosa effettivamente resta e se quel che resta ha valore da enciclopedia. Al momento siamo sostanzialmente solo nella fase acuta del clamore mediatico per cui anche se questa voce non dovesse rimanere nell'enciclopedia adesso, non sarebbe poi una cosa così grave. Anzi: se si dovesse confermare col tempo l'effettiva portata enciclopedica (non mediatica) di questo avvenimento, avremmo a nostro favore anche quel minimo di distacco e un numero di elementi fattuali in più per scrivere una voce migliore.--L736El'adminalcolico 11:53, 2 lug 2019 (CEST)

Il problema in questi casi è che le procedure di cancellazione sono controproducenti: per una settimana questa voce starà qui, proprio nel periodo del clamore mediatico, e tutti potranno leggersi una voce inadatta e poco obiettiva per sua natura; fra una settimana, quando i giornalisti avranno smesso di parlare della Sea Watch, la pagina sarà cancellata. Quindi paradossalmente la voce viene cancellata quando comincia a essere un pochino meno recentista (e non sto dicendo che fra una settimana diventa enciclopedica, eh!), e non si evita affatto la presenza di una voce di Wikipedia sull'immediata attualità. In questi casi ci vogliono procedure più brevi per assicurarsi che l'eccessivo recentismo venga eliminato subito, magari una cancellazione immediata, con uno spostamento in sandbox (non indicizzato, e ciò che non è su Google non esiste) seguito da discussione al bar --Lombres (msg) 12:00, 2 lug 2019 (CEST)

Forse ha ragione L736E.. mi sono espresso male.. riprovo a fare ragionare un pò l'argomento.. si che è vero che siamo in un momento storico che la capitana (o forse il termine corretto sarebbe criminale?) che ha fatto della visibilità sia in fatto di cronaca ma anche di storia politica come si vede dei fonti tra la guerra dell'UE e il governo Conte in particolare il ruolo del ministro degli interni ed anche di altri politici come quelli del PD che in quel caso è un fatto di rilevanza enciclopedica generale dato che ha fatto dei rumors per degli immigrati in tema di diritti ma qua in enciclopedia parliamo di storia contemporanea cioè di fatti coloro che hanno scritto nelle pagine bianche colorate di nero.. per cui in ogni caso la protagonista ha fatto la storia, punto!! ripeto questo è il mio parere.. --SurdusVII 12:07, 2 lug 2019 (CEST)

[↓↑ fuori crono] Surdus, "cronaca" e "storia contemporanea" sono due cose diverse. Alcuni avvenimenti sono sicuramente qualificabili immediatamente come "storici" (attentati dell'11 settembre, visita di Trump in Corea del Nord) ma molti altri, soprattutto questi che sono sostanzialmente episodi locali se inquadrati nel contesto del fenomeno storico complessivo, le migrazioni massicce che sono in corso da anni in tutto il mondo, non si possono qualificare come tali se non in base alle conseguenze nel lungo periodo. Non in base al tam tam a caldo.--L736El'adminalcolico 12:12, 2 lug 2019 (CEST)

Favorevole alla proposta di Lombres, che mi sembra possa permetterci di ragionare con più calma.--Janik98 (msg) 12:08, 2 lug 2019 (CEST)

Lombres ha centrato la questione. Aggiungo che imho questa voce è da immediata, senza aspettare la conclusione di questa PdC. --Idraulico (msg) 12:13, 2 lug 2019 (CEST)

Non ho parlato di cronaca ma di storia dei fatti!! comunque, in conclusione dopo aver letto (anzichè ascoltare ciascun vostro parere e/o opinione) la voce è da C4.. e magari in più là tra qualche anno se ne potrebbe parlare/discutere magari sui libri di storia (immagino qualche secolo in più là).. --SurdusVII 12:37, 2 lug 2019 (CEST)

Salve a tutti, ritengo che la pagina debba rimanere su Wikipedia ai sensi dell'art 21 della Costituzione che regola il diritto di cronaca, se ciò non fosse rispettato wikipedia e tutti gli amministratori creerebbero un caso mediatico anche qui su questa piattaforma. Ritengo che l'argomento trattato è enciclopedico poiché rispetta gli standard imposti da Wikipedia e rispetta il criterio di oggettività dell'argomento trattato distaccandosi pertanto da tutte le questioni ideologiche che sono nate nel corso di queste settimane sul caso della Sea Watch e della relativa Capitana Tedesca. Inoltre l'articolo è conforme al buon costume, mostrando imparzialità e rispetto curandosi di astenersi da opinioni personali e pregiudicative nei confronti della vicenda stessa, questo articolo si può paragonare a qualsiasi altro articolo che voglia informare dei fatti accaduti, riportandoli egregiamente così come sono accaduti senza storpiare i fatti. Inoltre c'è la questione che la cancellazione è stata proposta di proposito senza tener conto dei parametri oggettivi che regolano le pubblicazioni su Wikipedia, la pagina è stata contestata da soggetti esterni contestando l'argomento perché non in linea con il loro pensiero. Questa è una piattaforma libera e di informazione altrettanto libera, non può essere succube di ideologismi e segnalazioni o richieste di cancellazione che si basano su ideologie di sinistra e di destra. f.to Daniel Viennese — Questo commento senza la firma utente è stato inserito da Daniel Vienmese (discussioni · contributi) 12:48, 2 lug 2019.

Daniel Viennese, Wikipedia è una enciclopedia e non un sito di news per cui l'articolo 21 della Costituzione semplicemente non c'entra assolutamente nulla con questo progetto. Cerchiamo di evitare di tirare in ballo a sproposito i massimi sistemi.--L736El'adminalcolico 23:59, 2 lug 2019 (CEST) 

·         Gli Oscar alla carriera.

Lina Wertmüller, tutti gli Oscar alla carriera italiani. La regista di "Pasqualino Settebellezze" è omaggiata dall'Academy. Prima di lei Sophia Loren, Federico Fellini e non solo. Simona Santoni il 4 giugno 2019 su Panorama. Immancabili occhiali bianchi e ironia stringente, Lina Wertmüllernel 1977 è stata la prima donna a essere nominata all'Oscar come migliore regista, per Pasqualino Settebellezze. Allora non vinse, né vinse alle tre nomination successive, però ora l'Academy of Motion Picture Arts and Sciences ora la omaggia con l'Oscar alla carriera. "Sono felice per questa notizia", ha detto la regista novantenne. "Non me lo aspettavo l'Oscar, ma lo prendo volentieri". E poi la dedica: "Mi fa piacere dedicarlo a Enrico Job, compagno di una vita e di lavoro, e a nostra figlia Maria".  La 92^ edizione degli Oscar, che avrà la cerimonia di premiazione il 9 febbraio 2020 al Dolby Theatre, consegnerà l'Oscar alla carriera, oltre che alla nostra Lina, anche a Wes Studi, primo attore nativo americano a ricevere un Oscar (ha recitato in Balla coi lupi e L'ultimo dei Mohicani), e a David Lynch, enigmatico regista di cult come i filmVelluto blu e Mulholland Drive e la serie tv Twin Peaks. L'attrice Geena Davis, già vincitrice di un Oscar, riceverà invece un premio speciale per il suo lavoro umanitario. Ma la gagliarda Lina Wertmüller, che al recente Festival di Cannes - dove era presente per il restauro di Pasqualino Settebellezze (1975) - ha ricevuto anche i complimenti di Leonardo DiCaprio, non è la prima italiana omaggiata con un Oscar alla carriera. Ecco i precedenti Oscar alla carriera tricolori.

1991, Oscar alla carriera a Sophia Loren.Sophia Loren, la diva italiana più amata di Hollywood, che oggi ha 84 anni, ha ricevuto l'Oscar alla carriera nel 1991. Aveva già vinto l'Oscar alla migliore attrice nel 1962 per la sua interpretazione ne La ciociara di Vittorio De Sica: fu il primo Oscar assegnato a un'attrice in un film non in lingua inglese. Ricevette l'Oscar da Gregory Peck, a cui lei consegnò l'Oscar come migliore attore diversi anni prima.

1993, Oscar alla carriera a Federico Fellini. C'è stato un tempo in cui il cinema italiano faceva scuola nel mondo: Federico Fellini, candidato dodici volte al premio Oscar, ha vinto ben quattro statuette per il miglior film straniero con La strada,Le notti di Cabiria, 8½ e Amarcord. A consegnarglielo furono Sophia Loren e Marcello Mastroianni.

1995, Oscar alla carriera a Michelangelo Antonioni. Nel 1995 Michelangelo Antonioni, che già era stato nominato all'Oscar nel 1967 per la regia e la sceneggiatura di Blow-Up, riceve il giusto riconoscimento, l'Oscar alla carriera, introdotto da Jack Nicholsons. Nel 1985 il regista era stato colpito da un ictus che lo aveva quasi del tutto privato della parola. Sul palco per ricevere la statuetta, ad accompagnarlo, mano nella mano, sua moglie, che ha parlato per lui. Antonioni, comunque, sussurra un "Thank you" alla platea.

2001, Premio alla memoria Irving G. Thalberg a Dino De Laurentiis. Oscar onorario assegnato sporadicamente a "produttori creativi, i cui lavori riflettono delle continue produzioni cinematografiche di alto livello", il Premio alla memoria Irving G. Thalberg nel 2001 omaggiò Dino De Laurentiis, produttore italiano di tanti film di Mario Camerini, Luigi Comencini, Mario Monicelli, Federico Fellini, Steno, Vittorio De Sica. Già aveva vinto l'Oscar come produttore de La stradadi Fellini, miglior film straniero. A consegnare a De Laurentiis questo Oscar onorario fu Anthony Hopkins.

2007, Oscar alla carriera a Ennio Morricone. Per il mitico compositore italiano Ennio Morricone prima è arrivato l'Oscar alla carriera, nel 2007, poi quello alla migliore colonna sonora, ricevuto nel 2017, a 87 anni, per The Hateful Eight di Quentin Tarantino.  Nel 2007, a consegnargli l'Oscar onorario fu Clint Eastwood, protagonista di tanti western resi indimenticabili dalle note del maestro. Ecco il video della premiazione con Ennio, commosso, che parla in italiano, tradotto da Eastwood.

·         Che noia questi Oscar 2019 così politici.

Oscar 2019, miglior attore Remi Malek, "Green Book" vince come miglior film, scrive il 25 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Una commedia di amore e amicizia, Green Book, ha vinto l'Oscar per il miglior film alla 91ma edizione degli Academy Awards. Non era fra i favoriti ma era in qualche modo in perfetta linea con una serata i cui temi di integrazione hanno monopolizzato l'intera cerimonia. Insomma, una sorta di Oscar buonista anti Trump. La storia del viaggio del musicista Don Shirley e del suo autista nell'America profonda e razzista degli anni Sessanta, ha vinto tre statuette importanti, oltre a miglior film, anche migliore attore non protagonista, Mahershala Ali e migliore sceneggiatura originale, scritta tra gli altri da Nick Vallelonga, attore e sceneggiatore italoamericano che si è basato sulla reale esperienza del padre, che fu davvero l'autista del musicista jazz in quell'epico viaggio che sfidò la segregazione razziale e l'intolleranza del tempo. Ali non è stato l'unico attore afroamericano a vincere in questa serata di rivincita per le minoranze. Regina King, per Se la strada potesse parlare, è stata la prima della cerimonia a stringere in mano una statuetta: migliore attrice non protagonista. Poi Spike Lee, per BlacKkKlansman, ha ottenuto il premio per la migliore sceneggiatura non originale e ha infiammato la platea degli Oscar con un discorso molto politico: "Le elezioni 2020 sono dietro l'angolo, ricordiamocelo, possiamo fare una scelta di amore e non di odio". Ha ringraziato la bisnonna e "che era stata una schiava. Rendo omaggio a lei e ai nostri antenati, grazie al loro sacrificio siamo qui, grazie per aver costruito il Paese e sopportato il genocidio dei nativi". E poi c'è Roma, di Alfonso Cuaron, regista messicano che vinse l'Oscar per Revenant con Leonardo di Caprio. Il suo è un altro film dalla forte connotazione sociale, grande favorito della vigilia, che racconta la storia della domestica di famiglia nell'infanzia del regista messicano, a Mexico City. Roma, prodotto da Netflix, ha vinto premi importanti: miglior film in lingua straniera, miglior regista, migliore fotografia. "Questo film è dedicato ai 70 milioni di collaboratori domestici che lavorano nelle nostre case e che di solito sono relegate nello sfondo dei nostri film - ha detto il regista messicano - Gli immigrati e le donne proiettano il mondo in avanti". E poi c'è Rami Malek, vincitore dell'Oscar per il migliore attore protagonista con Bohemian Rhapsody. "Sono il figlio di immigrati egiziani, americano di seconda generazione, non ero la scelta più ovvia ma a quanto pare ha funzionato".  Insomma, altro che Mahmoodn. Bohemian Rhapsody è il film che ha vinto di più, quattro statuette, le altre però tutte tecniche: montaggio, sound editing e sound mixing. Anche il premio per la migliore attrice protagonista   è andato a Olivia Colman, straordinaria sovrana malata ne La Favorita. Ha battuto Glenn Close, che, nominata sette volte agli Oscar (questa volta per The Wife) non ha mai vinto. Praticamente la Toto Cotugno dell'Academy Awards. La Colman ha battuto anche Lady Gaga che si è rifatta con il premio alla migliore canzone, Shallow, da A Star is Born, forse il film dal risultato più deludente della serata che, a fronte di otto candidature ha portato solo quella andata alla cantante.

Che noia questi Oscar 2019 così politici. Applausi a Green Book, a Spike Lee, a Regina King. Ma oltre al riscatto nero e alla diversità, vorremmo premiato anche il buon cinema, scrive Simona Santoni il 25 febbraio 2019 su Panorama. Che noia questi Oscar buonisti, che inneggiano al riscatto, sempre e comunque. Dopo la protesta #OscarSoWhite del 2016 e l'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, presidente che vuole ergere muri tra Stati Uniti e Messico e scardinare lo ius soli, gli Oscar si sono messi addosso l'armatura dei riparatori di ogni danno, propri o altrui. Si sono cosparsi il capo di cenere per le dimenticanze del passato verso il cinema black e hanno brandito il pugno, pronti a lodare ogni tipo di minoranza e diversità. A volte, però, a discapito della vera qualità cinematografica. L'evidenza sta nei risultati degli Oscar 2019, dove un film stilisticamente audace come La favorita, ode alla settima arte, capolavoro di inquadrature, recitazione, sceneggiatura e scelte scenografiche, pur forte di dieci candidature ha vinto un solo Oscar, quello più facile da assegnare, come migliore attrice protagonista a Olivia Colman (che a differenza della traboccante e sorprendente Emma Stone, in gara insieme all'altra compagna di set Rachel Weisz come attrice non protagonista, non aveva una collega nera come contendente - nel caso di Emma, Regina King, vincitrice dell'Oscar con Se la strada potesse parlare -).

I risultati della 91^ edizione degli Oscar parlano di buoni sentimenti, fratellanza, amore da preferire all'odio, apertura al diverso e allo straniero. Tutto giusto, anzi, giustissimo, ma senza dimenticare che il cinema è un'arte, non un sermone. Può avere valore sociale, sicuramente, ma senza trascurare la ricerca artistica.  Se un regista (nero) talentuoso come Spike Lee, prima di oggi, aveva vinto solo un Oscar onorario, è chiaro che il passato non è stato giusto. Ma che il presente ora sia di manica larga nella misura opposta, in nome di una giustizia da ripristinare, ha qualcosa di stonato. 

Ecco i premi più politici di questi #OscarSoBack.

Tre Oscar - tra cui il più prestigioso come miglior film - per Green Book, storia di amicizia anti-razzismo tra un pianista afroamericano e un buttafuori italoamericano, molto divertente e ben ordita, che strizza però l'occhio allo spettatore. 

Per l'Oscar al miglior film, secondo noi la sfida più plausibile avrebbe dovuto essere tra La favorita del greco Yorgos Lanthimos e Romadi Alfonso Cuarón. Green Book a ruota (avevamo già detto che la sua vittoria, non avesse avuto la meglio La favorita o Roma, sarebbe stato un male minore). 

Mahershala Ali, candidato come migliore attore non protagonista, fa doppietta: seconda candidatura, secondo centro, e guarda caso tutto ciò dopo il 2016 di #OscarSoWhite (vinse anche nel 2017 con Moonlight, diventando il primo musulmano a vincere l'ambito premio). Meritato? Sì. Ma lo avrebbe meritato anche Sam Elliott per A star is born, attore bianco.

Tre Oscar anche a Black Panther, film Marvel sul supereroe nero re dello stato africano immaginario di Wakanda: colonna sonora, costumi e scenografia. Sul paco la costumista Ruth Carter ha ringraziato Spike Lee, il primo a credere in lei. Afroamericana anche la vincitrice dell'Oscar per scenografia (prodution design) Hannah Beachler.

L'Oscar alla migliore sceneggiatura non originale a BlackKklansmandi Spike Lee (colui che aveva levato la protesta #OscarSoWhite), film sul primo detective afroamericano nel Dipartimento di polizia di Colorado Springs, determinato a infiltrarsi nel Ku Klux Klan e a metterlo alle strette.

Regina King in Se la strada potesse parlare è una mamma nera coraggiosa che cerca di far uscire da prigione suo figlio, incarcerato solo per il colore della sua pelle. La sua performance è notevole, nella dignità misurata e calda. Ma è un tripudio di espressività l'interpretazione di Emma Stone ne La favorita, film che a suo modo parla anche di diversità (l'amore saffico tra la regina Anna d'Inghilterra e Lady Sarah Churchill). 

Gli Oscar della diversità.

Roma del regista messicano Alfonso Cuarón, insieme a Green Book, è stato l'altro vincitore. In bacheca tre Oscar, di cui due molto pesanti: migliore regia, migliore film straniero, migliore fotografia.

La regia e la fotografia de La favorita? Uno spettacolo. Nella categoria delle opere in lingua straniera, che sia stato ignorato un film come il giapponese Un affare di famiglia di Hirokazu Kore'eda fa un po' male al cuore.

Siamo sicuri che il fatto che Cuarón sia messicano - come lo era il vincitore dell'Oscar 2018, Guillermo del Toro con La forma dell'acqua - non sia stato un parametro in più per farlo vincere e dare così un'ennesima stoccata contro Trump? Del resto Spike Lee è stato chiaro, quando ha ritirato il suo Oscar, con un messaggio oltremodo politico: "Le elezioni 2020 sono dietro l'angolo, ricordiamocelo, possiamo fare una scelta di amore e non di odio".

Quattro Oscar a Bohemian Rhapsody, il film sui Queen molto pop e godibile pur senza particolari vezzi artistici? Tanti, troppi, anche se i premi sono per lo più tecnici, con la ciliegina dell'Academy Award a Rami Malek, attore di origini egiziane che interpreta Freddie Mercury, cantante di origini parsi, gay. Rami ha meritato - come avrebbe meritato anche il Christian Bale di Vice - ma anche qui, sullo sfondo, insieme ai meriti sembra esserci un omaggio alla diversità. L'attore trentasettenne, alla sua prima candidatura, ha voluto ricordare le sue origini: "Sono il figlio di immigrati egiziani, americano di prima generazione, non ero la scelta più ovvia ma a quanto pare ha funzionato".

Applausi a Rami Malek, a Green Book, a Spike Lee, a Regina King, al cinema. E, proprio perché amiamo il cinema, la speranza è che nel 2020 si possa parlare solo di #OscarSoBeautiful. Senza preoccuparci troppo di White o Black.

Da Nanni Moretti a Vice al cinema sbanca la politica (di sinistra nda). Intrighi. Retroscena. Uomini ombra. Sul grande schermo arriva il potere come protagonista inatteso, scrive Fabio Ferzetti l'11 gennaio 2019 su "L'Espresso". Se solo un paio d’anni fa ci avessero detto che durante le feste di Natale saremmo andati a vedere un film su Dick Cheney, l’uomo più grigio che abbia mai calcato la scena politica americana, probabilmente ci saremmo fatti una risata. Invece è proprio così. Esce anche in Italia, carico di candidature  e un Golden Globes per il migliore attore, “Vice - L’uomo nell’ombra” di Adam McKay, il regista e autore satirico che dopo esser riuscito a rendere scoppiettanti come una puntata del “Saturday Night Live” gli intrighi della finanza che nel 2008 portarono al crollo di Wall Street, stavolta prende di mira la figura del vicepresidente di George W. Bush, usando più o meno le stesse armi e in parte lo stesso cast (anche qui ci sono Steve Carell, stavolta nei panni di un ghignante Donald Rumsfeld, e soprattutto un lievitato, irriconoscibile, sbalorditivo Christian Bale in quelli di Cheney). La scommessa è ancora più forte, perché se un gruppo di finanzieri senza scrupoli autorizzano le più folli invenzioni di scrittura e di regia, la sorda ma inesorabile ascesa del futuro vicepresidente parte dagli anni già opachi della sua gioventù alcolica in Wyoming per passare attraverso l’11 settembre e le guerre in Afghanistan e in Iraq con annessi orrori come Guantanamo, leggi speciali e torture. Insomma c’è davvero poco da ridere, tanto più che il personaggio è tragicamente privo di carisma e anche la sua vita, tutta lavoro e famiglia, offre ben pochi appigli spettacolari. Ma proprio qui stava la sfida, e bisogna dire che il cinema così inventivo di McKay riesce a rendere le retrovie del potere veloci, pericolose e brulicanti come il pit stop di una corsa automobilistica. Oltre che imprevedibili per i mille dettagli che movimentano il racconto tessendo una trama fitta di insospettabili risonanze dietro le mosse di quel politico passato per l’industria petrolifera (la famigerata Halliburton) che all’epoca sembrava la quintessenza della mediocrità. Vista dall’Italia però la sfida vera forse è ancora un’altra. Il periodo delle feste di fine anno resta infatti quello di maggior incasso nel nostro scassatissimo cinemercato, ma mai come quest’anno in sala non ci sono solo Spider-Man e Mary Poppins, la Befana della Cortellesi e i quattro moschettieri di Favino e compagnia, bensì un nutrito gruppetto di pellicole di qualità che spesso per giunta sembrano avere una dimensione politica più o meno esibita - e sicuramente urgente di questi tempi. Pensiamo alla pastorella che pascolando il suo gregge sulle alture di Capri scopre l’arte, la scienza, l’amore, l’utopia, prima che il mondo venga risucchiato dal gorgo della Prima guerra mondiale, nel film che Martone ha dedicato con molte licenze storiche e sofisticati anacronismi a una delle comunità intellettuali più anticipatrici del Novecento, quella di Monte Verità (“Capri - Revolution”, già in concorso a Venezia). Ma pensiamo anche al delizioso “La donna elettrica” di Benedikt Erlingsson, che vede una moderna Robin Hood islandese combattere con arco, frecce e una dose monumentale di coraggio una battaglia solitaria contro la grande industria in nome dell’ambiente e di una visione tutta femminile del mondo. Per non parlare dei protagonisti belli e dannati di “Cold War”, il capolavoro di questo Natale, una cantante e un musicista polacchi che attraversano gli anni più bui della guerra fredda senza smettere di amarsi e inseguirsi tra Varsavia, Parigi e Zagabria, facendosi passare addosso tutte le bassezze e le tentazioni del blocco sovietico e di quello occidentale.

Ad aprire la strada del resto avevano pensato nelle settimane precedenti due film sicuramente non facili ma premiati da un successo che ha superato ogni previsione, “Santiago Italia” di Nanni Moretti e “Roma” di Alfonso Cuarón. Il film del messicano in particolare, approdato nei cinema fra mille polemiche, era stato annunciato per soli 3 giorni ma è poi rimasto in programmazione per settimane in una trentina di sale sparse per tutta Italia e veleggia ormai verso i centomila spettatori (cifre esatte Netflix non ne fornisce) pur essendo nel frattempo approdato sulla piattaforma, a conferma che il pubblico di casa nostra è molto più competente, motivato e diversificato di come lo si dipinge. Per cui anche il periodo delle feste, fino a ieri monopolio di pochi campioni d’incasso più o meno imposti dai padroni del mercato, si apre a titoli molto più interessanti. Che per giunta finiscono per intessere una specie di dialogo, come càpita nei festival quando film provenienti da paesi diversi sembrano connettersi misteriosamente per ridisegnare la nostra immagine del mondo. Così, sarà solo un caso, ma sia il documentario di Nanni Moretti che il film autobiografico di Cuarón ci riportano all’America latina insanguinata dei primi anni ’70 inquadrando quell’epoca con gli occhi del nostro presente. Ed è difficile anche non contrapporre l’intrepida protagonista de “La donna elettrica”, capace di tenere in scacco un paese senza smettere di fare i conti con il proprio desiderio di maternità, al comico gruppo di maschi schizzati o depressi che ritrovano faticosamente dignità e gioia di vivere formando un’improbabile équipe di nuoto sincronizzato in “Sette uomini a mollo” di Gilles Lellouche. Un’altra sorpresa di fine anno che aggiorna la formula irresistibile di “Full Monty” alla Francia smarrita dei nostri anni mettendo insieme un gruppo di maschi tanto impresentabili quanto adorabili. Con tanti saluti alle certezze di un modello di virilità ormai tramontato, ma anche ai rigori e agli eccessi del #MeToo. Come sempre è la commedia, insomma, a interpretare con maggior aderenza le sollecitazioni dell’epoca. Ma qui bisogna dire che la parte del leone, per ambizioni e novità, la fa proprio “Vice - L’uomo nell’ombra”. Che non forza certo in chiave comica la parabola di Dick Cheney, ma mescola con disinvoltura ogni possibile genere e linguaggio, commedia grottesca, biopic, varietà televisivo, documentario, news e addirittura musical, per ricostruire con la massima aderenza possibile il percorso e la personalità di un personaggio proverbiale per la capacità di tenersi lontano dai riflettori. Dietro il film, di cui McKay firma anche la sceneggiatura, ci sono biografie e studi rigorosi come quelli di Jane Mayer e Barton Gellman, ma sullo schermo conta soprattutto la capacità straordinaria di spezzare il racconto introducendo continuamente nuovi linguaggi e punti di vista. Un po’ come nel “Divo” o in “Loro” di Sorrentino, a cui McKay dice apertamente di essersi ispirato, ma con ingordigia perfino maggiore. In una scena tagliata al montaggio su suggerimento dell’amico Paul Thomas Anderson, il cinico Cheney si metteva addirittura a cantare. In un’altra, che invece è sopravvissuta, il vicepresidente e la sua insaziabile signora (Amy Adams) iniziano a esprimersi con linguaggio shakespeariano. Ma la parentesi in stile Macbeth alla Casa Bianca è solo un contrappunto ironico alla parabola dell’ex-galoppino di Rumsfeld che presto supera il maestro e sotto Nixon impara tutte le astuzie del potere. Come parlare senza essere registrato, o aumentare grazie a legali compiacenti il potere esecutivo del presidente (e dunque il proprio). Ma anche mascherare le operazioni più sporche grazie a trucchetti di marketing (così lo spaventoso “surriscaldamento globale” diventa un più morbido “cambiamento climatico”), abolire una legge degli anni ’40 sulla par condicio in tv, favorire la nascita di Fox News e di altri network schierati a destra. Infine, ormai vice di George W. Bush, allearsi con un ristretto gruppo di insider che hanno accesso ai rapporti dell’intelligence ancor prima del presidente. Magistrale la scena in cui, in piena emergenza 11 settembre, Cheney assume sostanzialmente il comando zittendo il precipitoso Rumsfeld, ansioso di fare guerra all’Iraq, con una sola sillaba, un paterno “Don...”. Come a dire stai calmo, faremo come ci pare, purché a tempo debito. Il resto è storia, ma se credevamo di sapere ormai tutto sulla guerra all’Iraq, “Vice” ridistribuisce le carte. Intorno a Cheney si muovono coprotagonisti e comprimari di quel periodo terribile, da Condoleeza Rice a Colin Powell, passando per Paul Wolfowitz e Scooter Libby, ma il centro resta sempre lui, il goffo, corpulento, impenetrabile Cheney, un monumento al cinismo che Bale rende muovendo solo la bocca e con parsimonia gli occhi. Di che sprofondare nel più cupo sconforto se dagli Usa non arrivasse, come un contravveleno, anche l’irresistibile addio al cinema di Robert Redford: “Old Man & the Gun”, di David Lowery, storia “quasi del tutto vera” di un anziano rapinatore gentiluomo che nei primi anni ’80 mette a segno una lunga serie di colpi in banca tutti uguali per tecnica ed esecuzione. Banche attentamente scelte in piccole città di provincia, bottino scarso ma sicuro, nessuna violenza ma anzi un tale concentrato di amabilità e buone maniere che perfino il poliziotto incaricato di dargli la caccia (Casey Affleck) finisce per soccombere allo charme di quel vecchio seduttore (che meraviglia l’incontro con la ritrovata Sissy Spacek, ancora più bella oggi che in gioventù). Un inno carico di nostalgia, nel garbo, nel ritmo, perfino nei toni della fotografia, all’epoca di “Butch Cassidy” e della “Stangata”. Un’epoca in cui era ancora possibile immaginare eroi senza vergognarsi o pentirsene un minuto dopo. Redford ha già annunciato che sarà il suo ultimo film, forse perché è decisamente migliore di quelli che aveva interpretato negli ultimi anni. Ma chiunque lo veda si augura che sia solo un’amabile bugia.

·         La tv è gay. Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay.

“Per lavorare in tv serve il patentino da gay e da tossico”. L’accusa di Fabio Testi. Adolfo Spezzaferro il 22 Dicembre 2018 su ilprimatonazionale.it Fabio Testi, volto noto del cinema e della tv a partire dagli anni ’70, da tempo non si vede più sulle reti nazionali. Per un motivo ben preciso, a detta dell’attore: non è né gay né drogato. In un’intervista a Radio Cusano Campus l’attore lancia un’accusa pesante contro i network televisi italiani: “Per lavorare in Rai e Mediaset servono patentini da gay e tossici“. Dove il “patentino” equivale anche a una disponibilità in quel senso, pure se gay non si è. “Sai quanti ne ho visti di amici miei che hanno accettato? Io mi sono trovato a metà film col regista che mi diceva se non accetti vai a casa e io dicevo ‘Ok vado a casa’. Ma sai quanti sono caduti e sono scesi a compromessi?”, rivela Testi in chiaro riferimento al “Me Too” italiano. “Per lavorare in Rai devo fare un tesserino da gay, poi uno da tossico per lavorare nell’altro ambiente. Ormai in Italia il lavoro artistico si è limitato a certi gruppi, dove io son tagliato fuori perché sono troppo quadrato. Io non ho tesserino e allora mi lasciano a casa così non gli rompo i coglioni”, spiega l’attore. Sul fronte della politica, emerge un altro dettaglio che completa il quadro. Testi infatti non disdegna l’attuale ministro dell’Interno. Fatto che – si sa – suona come una bestemmia nel mondo dello spettacolo italiano. “Tra Salvini e Di Maio ovviamente sono per Salvini. Prima di criticarli e di metterli alla gogna, vediamo cosa faranno e soprattutto ricordiamoci cos’hanno fatto i precedenti governi. Io ho tre figli che lavorano all’estero perché purtroppo non hanno la possibilità di lavorare in Italia, si sono formati qui e non possono lavorare nel nostro Paese”, conclude l’attore. Insomma Testi, protagonista di film importanti come “Il giardino dei Finzi Contini”, “Camorra e i “Guappi” e famoso anche all’estero (tra le sue ex compagne ci sono Ursula Andress e Charlotte Rampling), è fuori dai giochi anche per ragioni politiche, a quanto pare. E dopo queste affermazioni assolutamente fuori dal coro del pensiero unico e politicamente scorrette, sarà ancora più difficile vederlo nuovamente sui nostri schermi. Adolfo Spezzaferro

Fabio Canino: "Quando feci coming out, sembravo l'unico gay in tv". Intervistato dalla trasmissione radiofonica I Lunatici, Fabio Canino ha parlato del suo coming out e del suo ultimo libro. Gianni Nencini, Giovedì 06/06/2019, su Il Giornale. Ospite della trasmissione I Lunatici di Rai Radio 2, Fabio Canino ha parlato del suo coming out, di diritti gay e del suo ultimo romanzo. Il giudice di Ballando con le stelle ha rivendicato il fatto di essere stato uno dei primi gay dichiarati nella televisione italiana: "Il mio coming out avvenne in un momento in cui nessuno lo faceva, sembrava fossi l’unico gay in televisione". Fabio Canino scende poi nei particolari e ricorda come avvenne la sua dichiarazione: "Parlando al Costanzo Show di tradimenti io rivelai che ero stato tradito dal mio fidanzato". "Passò un bel messaggio, non era importante se a tradirmi fosse stato un uomo o una donna, ma semplicemente che anche io ero stato tradito, come le altre persone presenti su quel palco", ha aggiunto soddisfatto. Canino ha raccontato di non avere brutti ricordi del periodo del suo coming out ma adesso, secondo il conduttore fiorentino, la situazione è cambiata in peggio: "Oggi invece c’è un rigurgito, se fino a un anno e mezzo fa i messaggi negativi erano tre su dieci ora sono cinque su dieci". Fabio entra nel dettaglio di questi messaggi: "Ci sono persone che scrivono frocio fascista o frocio comunista". E poi commenta ironico: "Sono anche un po’ confusi. Perché finché si tratta di frocio siamo d’accordo tutti, ma fascista proprio no". Recentemente Canino ha dato alle stampe il libro "Le parole che mancano al cuore", un romanzo che racconta la relazione tra due calciatori di Serie A: "È una storia d’amore contrastata, mi piace raccontarla in un momento in cui si vuole distruggere qualunque tipo di differenza e di diversità". Secondo Fabio, proprio il sentimento è l'unica risposta all'odio: "L’amore riguarda tutti. È l’unica chiave di comunicazione universale. Anche il peggior omofobo e il peggior razzista una volta nella vita si sarà innamorato".

GAY IN TV… NON SI STA ESAGERANDO? Andrea Satta il 3 dicembre 2018. Mentre sono in attesa di eliminare la mia vecchia televisione a tubo catodico ancora perfettamente funzionate (ma che emana così tante radiazioni che deve essere alimentata col plutonio) e, che mi venga recapitato l’ultimo regalino che mi sono fatto, ieri sera, stanco dal lavoro mi sono guardato finalmente, con grave ritardo, il film conclusivo alla serie tv Sense8. La serie non ha avuto il successo che si meritava, per mano del tema e del metodo usato. Storie contorte che s’intrecciano in un’unione sia mentale che fisica che va ben oltre ciò che la tv ha da sempre mostrato. Sarà fantascienza, ma anche nelle evidenti cadute di stile (a tratti persino ridicole e non so quanto siano volute), Sense8 resta una perla difficilmente dimenticabile. Ma per il mio primo post nel mese di dicembre, voglio parlare facendo una riflessione/provocazione su come le serie tv si stiano evolvendo, includendo, non si capisce bene per quale motivo anche per i fini della storia narrata, personaggi omosessuali. Se in Sense8 non ho nulla da eccepire e buona parte della sua matrice ruota su questo aspetto, per gli altri non li capisco. Mi offrono lo spunto per dire che le tv seguono le mode e non il desiderio di sensibilizzare l’opinione pubblica. Quasi fossero costrette ad inserire gioco forza personaggi omosessuali. Due su tre serie tv horror viste molto di recente e tutte targate Netflix (Le terrificanti avventure di Sabrina, Hill House e Requiem), riportano personaggi gay e solo nell’ultimo dei titoli citati non vi è traccia di questa forzatura. Il perché la reputo una forzatura la dirò in seguito. In Sabrina è inspiegabile e palesemente inutile ai fini della storia e dell’evoluzione narrativa il personaggio di Ambrose. In Hill House lo studio, molto più approfondito dei personaggi, hanno reso assolutamente realistico e credibile il ruolo di Kate Siegel (ma in questo caso c’è la mano sapiente di Mike Flanagan a non lasciare nulla al caso). Senza dimenticare il bellissimo personaggio dell’avvocatessa in Jessica Jones. The 100 segue la stessa corrente in cui mi associo nell’esprimere un perché? che non costruisce ne forma sostanza alla storia. Sembrano essere buttati lì, per compiacere qualcuno o gruppi in particolare. Nell’osannata serie tv The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella), nel racconto non c’è traccia di personaggi gay (lo dico perché l’ho letto molto tempo fa). Nella serie tv, si! Perché? Perché andava inclusa? Persino in Star Trek Discovery hanno inserito il ruolo di due ufficiali omosessuali. Non c’è nulla di male, ma nelle serie tv precedenti non si è mai toccato questo tasto nei personaggi della flotta astrale… ed ora… Flup, eccoli spuntare dal nulla! Ma, Star Trek su certe cose è sempre stata all’avanguardia e molto coraggiosa in talune tematiche quindi si salva in corner ( e lo dico da Trekkie sfegatato). Stessa cosa per Orpahn Black, Grace & Frankie, il super sopravalutatissimo Modern Family (lo giuro, non capisco cosa ci sia di divertente in questa serie tv) e qualche altro che ora non mi viene in mente. Con l’omosessualità non si scherza perché si gioca con le emozioni delle persone, perciò le mie parole sono dettate da ciò che osservo con i miei occhi e con la mente: una banale analisi, molto personale di quanto finora visto e, per quanto mi riguarda, sta diventando norma vederli sempre più spesso nelle serie tv come nei cinema. Un cliché che alla lunga annoia e che non costruisce nulla di concreto. Per esempio in Orange is the new black, ha già stufato e la perdita di ascolto, dopo le prime due stagioni, dimostrano di avere perso lo sprint iniziale (ma il motivo è l’esagerata diversificazione a briciole dei personaggi, rendendo il ruolo di Piper addirittura secondario – un errore che NON si deve mai fare poiché lo spettatore non ha più un punto di riferimento preciso da seguire). Spesso i suoi personaggi sono troppo caricati e sembrano uno spot per i movimenti Lgbt. Invece, proprio come in Hill House, o nel dimenticato Six Feet Under, i personaggi devono essere veri e la condizione omosessuale secondaria ai personaggi della storia. Ciò non toglie che il movimento Lgbt in cui dice che nelle serie tv i gay sono troppo pochi e muoiono velocemente abbia realmente rotto i maroni. Il tanto osannato Will & Grace (che mi diverte veramente molto), rappresenta i gay in modo stereotipato. Ridi, ma proprio come in Modern family – che a me non fa ridere, i gay NON ne escono bene. Anzi, sono ridicolizzati a petulanti isteriche. Insomma, in conclusione a questa mia personalissima analisi, non si gioca sui sentimenti delle persone e certi personaggi è meglio non metterli o spingerli all’eccesso (in Sense8, alcune provocazioni sono per l’appunto provocazioni, come nel fotogramma finale, capace di rovinare la poesia e il sentimento di appartenenza che accomunava i personaggi e noi spettatori). Sta diventando pericolosamente una moda che alla lunga stanca. The L World ha un suo perché ed era fatta magistralmente e questa è la strada da intraprendere, senza forzature ad ogni costo. I casi di storie con gay fatte molto bene ci sono e come citato in alcuni dei titoli precedenti, sono esempi da seguire. Il resto? Moda e già questo la dice lunga sul suo valore educativo. I movimenti lgbt non capiscono che non si può obbligare le persone ad accettarli per la loro natura. Bisogna insegnargli il rispetto con pazienza e perseveranza. Spingersi oltre, può causare danni irreversibili e il sentimento di stanchezza si sta già palesando. Ma sembrano non accorgersene come petulanti isteriche.

I gay in tv sono un cliché, come tutto il resto. I personaggi del piccolo schermo una volta vivevano di quello che sapevano fare, della loro arte, oggi solo dei loro cliché. Per fortuna, però, ci sono le eccezioni. Matteo Giorgi su Rollingstone.it il 30 gennaio 2019. Vorrei cominciare questo post nella maniera più trombona possibile, quasi come se fossi uno di quelli che verranno sotto questo articolo a scrivere “Eh, ma che declivio ha preso Rolling Stone, prima parlava solo del rock vero mentre ora se dedica a li froci! Che brutta fine!” E che froci aggiungerei io! Sì, perché io me la ricordo nella mia gioventù quando in prima serata c’erano Leopoldo Mastelloni, Paolo Poli, Amanda Lear, Renato Zero inciuciato e libero nella versione pre-democristiana. Ricordo Mario Mieli in tuta da operaio e tacchi a spillo con gli operai dell’Alfa Romeo nel programma Tabù Tabù datato 1978. Ma ricordo anche Aldo Busi, che fa letteratura ad Amici, le Cronache marziane di Fabio Canino (che appena hanno cominciato a macinare ascolti sono state sospese), Eva Robin’s che presenta lo spin-off di Non è la RAI. Sembra quasi sia passato un secolo. Ma cazzo, è passato davvero un secolo! E le cose, ahimè, non sono certo migliorate. Tanto da indurre un movimento americano (LGBT fans deserve better) a chiedere che la comunità omosessuale sia rappresentata degnamente in tv. E se in America solo l’11% delle serie ha personaggi LGBT, nemmeno nel 16% dei casi le loro storie finiscono a lieto fine. A tal proposito rimembro quello che Luca Guadagnino ha dichiarato alla presentazione del meraviglioso Chiamami col tuo nome: «Molti non hanno finanziato il film proprio perché mancavano i cliché (…) come la presenza di un antagonista, che di solito alla fine permette agli amanti di superare ogni avversità o, se si tratta di una storia gay, di soccombere. Viceversa qui c’è un atteggiamento di supporto del mondo esterno, che mi ha dato la libertà di essere molto vicino ai miei personaggi». Probabilmente in una fiction italiana il padre, più che un discorso, avrebbe razzolato il buon Elio di mazzate. Riassumendo, in Italia, il gay deve essere macchiettistico, un po’ caricaturale, un po’ stereotipo e soprattutto etero normalizzato. Avete notato, ad esempio, che non esiste una “sessualizzazione” del gay televisivo? Anche nel dorato mondo di Uomini e donne (che pur ha fatto tanto per far sì che la casalinga di Voghera o più probabilmente di Reggio Calabria, potesse capire che esistono gay senza ciuffi biondi e pailettes, ma solo con rigorose t-shirt extralarge) mentre gli altri tronisti danno tutto il coatto di sé, tra pettorali ignudi, collanoni dorati che se ti piglia il riflesso t’acceca e soprattutto capaci di combinarne di tutti i colori in tutti i luoghi e tutti i laghi, il povero tronista gay si presenta con un “ciao, io ho un grave problema: ho la vitiligine.” Il tronista gay è quello che più di altri aspira alla suddetta “etero normalizzazione”, da famiglia tradizionale. Quello da matrimonio, figli, bulldog francese rigorosamente “per tutta la vita” (e senza bacio in diretta fino alla prima notte di nozze), se ci scappa pure la messa della domenica facciamo felici anche i vicini. Poi vabbè fuori dal mondo di “Uomini & donne”, il gay di regime e da salotto è quello “contrario al matrimonio”, “I figli poi mai sia”, “Certe cose si fanno nelle mura domestiche per non turbare” e “ho tanti amici eterosessuali!” Non occorre che vi faccia nomi, vero? Certo esistono le eccezioni, come Drusilla Foer, regina dei teatri italiani e vera rivelazione di X Factor di quest’anno e Costantino Della Gherardesca, il gay intellettuale da prima serata che fortunatamente rompe buona parte dei cliché: parla spesso di psicofarmaci, si definisce antisociale e descrive la realtà per quello che è: pane al pane vino al vino. «La monogamia non è naturale, è un’imposizione del cristianesimo. Gli omosessuali di oggi hanno copiato uno stile evangelico americano da coppia monogama cristiana che non mi appartiene affatto. Si sono conformati e hanno scelto la famiglia, anche come realtà economica». Peccato che i suoi programmi abbiano uno share da monoscopio notturno di Rai 1. Fatto questo lunghissimo excursus vado ad una chiosa sacrosanta, anche per un gay militante di vecchia data come me: sentire dire la frase fatta “i gay in televisione non mi rappresentano” ha un po’ stancato. Perché se ben ci pensate non è che le altre categorie se la cavino meglio eh. Una domenica, distrutto dall’influenza, mi sono sorbito salotti dove cantanti italiane parlavano di fantasmi e donne raccontavano della loro extrasensoriale esperienza con la loro ottava di seno. Insomma, Francesca Cipriani, che urla disperata da un elicottero, rappresenta forse tutte le giovani ragazze italiane? Gemma di Uomini e Donne è forse la portabandiera di tutte le “signore” di settant’anni? I personaggi televisivi, che una volta vivevano di quello che sapevano fare e della loro arte, oggi semplicemente vivono nei loro cliché. Sempre più omologati e racchiusi in archetipi che servono semplicemente a identificare più velocemente un concetto o una categoria: la soubrette dal seno rifatto, il tronista in cerca di visibilità, il calciatore sciupafemmine, e il gay sopra le righe. E qui andiamo all’ultimo problema legato alla rappresentazione televisiva delle persone omosessuali in tv: ce ne sono poche. O meglio, ce ne sono tantissime (e noi lo sappiamo) ma poche sono quelle che hanno fatto coming out e che quindi vengono ciclicamente invitati quando si parla dell’argomento. Fino a quel momento, fino a quando molti artisti continueranno a negare (a volte anche in modo decisamente imbarazzante) la propria natura o rilasceranno interviste dove parlano del proprio compagno o compagna usando termini come “amica di una vita” o convivente (penso anche a chi recentemente presentando il proprio disco ha avuto il coraggio di dire “Beh, se io fossi lesbica non avrei paura a dirlo” causando una sonora risata tra i giornalisti intervenuti) sarà inevitabile ritrovare in televisione le stesse persone.

Persone che, ci piaccia o no, hanno avuto le palle per dichiararsi al pubblico. Quindi, dico a te giornalista, dico a te celeberrimo cuoco di prima serata, dico a te attrice di fiction, dico a te cantante: fai coming out. (E poi decidi se cantare di amori etero o gay, chissenefrega).

“A MEDIASET SONO QUASI TUTTI FINOCCHI”. Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 28 gennaio 2019.

Platinette, pensaci tu: abbiamo sbagliato con quel titolo, «Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay»?

«Il titolo non mi è piaciuto ma, per dirla come Adrian, francamente me ne infischio. La tutela dei diritti degli omosessuali è sacrosanta però deve accompagnarsi alla capacità di essere obiettivi e alla determinazione di non voler fare le vittime a tutti i costi».

Quindi secondo te il titolo non era offensivo?

«Io non mi sono offeso. Erano chiari l' intento provocatorio e scherzoso e la mancanza di una volontà di insultare. Potrei dire che non è dei più riusciti, perché l' allegoria è poco simpatica e l' effetto non è stato goliardico, ma bisogna essere pronti a ironizzare. Abbassiamo i cannoni di Navarone, perché il titolo di Libero non provoca dei danni reali alla comunità gay».

Qualcuno sostiene che fomenterebbe l' omofobia?

«Prima che finocchio o gay, io sulla carta d'identità ho scritto italiano, mi rapporto con questo Paese e ti dico che noi omosessuali non abbiamo più bisogno di invocare quote e fare battaglie di categoria che affermino il diritto alla nostra diversità per mirare poi a essere trattati come gli altri. Ormai in Italia siamo ovunque, pienamente accettati. Non c' è intolleranza verso di noi. Guarda la tv, che è il metro popolare del mondo attuale: è innamorata dei gay, non c' è un programma nel quale non compariamo, spesso piazzati sopra un altarino. Quando ero giovane, giravo le balere della bassa padana a fare spettacoli con un gruppo di travestiti. Uno di loro, brutta come la morte, oggi fa il preside a Salerno, e magari la sera si traveste ancora. Più integrati di così».

Se ci difendi troppo, complichi ancora di più la nostra situazione: a che gioco giochi?

«Allora ti dico che il titolo non era aggressivo nei confronti dei gay ma un po' superficiale sì. Si prestava a diverse interpretazioni perché, come ha spiegato Umberto Eco nella sua fenomenologia della tv, ognuno ha la propria percezione della realtà. Il guaio della destra è che è un po' grossolana quando affronta la realtà, e questo è un imprinting duro da far sparire. In fondo è vero, i gay aumentano di numero e di potere, ma c' era un modo più elegante per dirlo. In questo dovete imparare dalla sinistra, che ha più classe e sfumature e perciò riesce a essere violenta e razzista senza destare scandalo».

Perché la butti in politica?

«La tutela dei gay è diventata un campo esclusivo della sinistra e questo mi infastidisce perché sfuggo il pregiudizio ideologico per cui non si può essere gay se non si è di sinistra. Se così fosse, Berlusconi dovrebbe chiudere Mediaset, dove sono quasi tutti finocchi. Quando Pannella si alleò con Silvio, io scoppiai di gioia: credevo molto nella rivoluzione liberale e libertaria, finalmente si poteva essere omosessuali e di destra. Poi ahimé, andò tutto a puttane».

Mi interessa il concetto del razzismo della sinistra.

«La sinistra fa della difesa dei diritti e delle diversità la propria bandiera ma poi ha un'incapacità strutturale di ammettere che ci possano essere valori, opinioni e principi validi al di fuori dei suoi steccati. È una vera e propria occupazione ideologica del potere: non lo dicono apertamente ma nei fatti non riconoscono possibilità di alternativa al pensiero dominante. Lo scontro attuale sugli immigrati ne è una prova lampante».

Spiegami.

«Non ti sembrano troppe quattro canzoni sui migranti al Festival di Sanremo? È il Festival della canzone italiana o dell' impegno? È quello il veicolo? Se hai la villa a Lampedusa, aprila ai migranti anziché fare i concerti sull' isola con i tuoi amici in nome dei profughi. Accogliamo i migranti in nome del rispetto della diversità? Ma allora, sempre in onore di quel principio, curiamoci di non emarginare gli italiani diversi dai radical chic e adoperiamoci perché gli immigrati non siano costretti a scappare dai loro Paesi in quanto diversi. Sai che penso? Anche in tema di gay, la sinistra parla, parla, ma poi non è che faccia molto per noi».

Tu ci vuoi inguaiare?

«Si vantano per la legge sulle unioni civili, ma guardiamo i numeri: si sono sposati in pochi e di questi in molti hanno già divorziato, si è rivelata un flop, però bisogna continuare a sostenere che è stata un' iniziativa di grande successo».

Conta il principio affermato, non credi?

«Io ringrazio il mio dna che mi ha fatto essere diverso, liberandomi dalla prigionia di legami famigliari a cui sono costretti gli eterosessuali. La mia famiglia me la scelgo io, ed è libera da doveri e contratti. Non faccio unioni civili e tantomeno pretenderei viaggi di nozze scontati come uno sposino. Sono frocio, scusa la parola ma per me non è volgare, e me ne vanto. Faccio della mia diversità un' arma di progresso, se inseguo i parametri eterosessuali finisco per regredire. Non andrei mai a comprarmi un figlio, lo riterrei un atto egoistico».

Anche gli eterosessuali fanno i figli per egoismo...

«Comprarlo però è un gesto volgare, perché dimostra che con il denaro tutto è possibile. Ti ripeto, usciamo dai luoghi comuni. La sinistra è per i gay, ma poi l' unica legge contro l'omofobia l'ha fatta Mara Carfagna. Bella com'è, ha messo insieme la Concia e la Mussolini e si è sbattuta per difendere persone diverse da lei e che oggi non le sono riconoscenti».

Stiamo divagando: scherzare sui gay si può o no?

«Certo che si può, pensa ai film di Ferzan Ozpetek o alle carnevalate di Cristiano Malgioglio, perfettamente consapevole di mettersi in ridicolo, o ai film degli anni Settanta».

Già, ma loro sono gay dichiarati e gli anni '70 sono lontani...

«Lo scherzo è ammesso, ma attenti ai toni grossolani. Serve uno sforzo per comprendere la sensibilità altrui. Se si intuisce la volontà di non offendere, a quel punto lo scherzo può favorire anche un incontro. La vostra è stata una bordata non intenzionale e le reazioni critiche che avete avuto erano prevedibili, anche se io non le condivido, perché un titolo va preso come tale, non è la verità assoluta e ha una vita di 24 ore. Il vostro è un po' da osteria padana ma non lede nessun diritto e non merita tante polemiche».

Perché dici che avremmo dovuto prevedere tutto questo pandemonio?

«Perché questa società è pervasa da un' irriducibile voglia di militanza. Gli statalisti della froceria sono in servizio perenne e alimentano polemiche degni di una portineria. A me invece interessano i diritti e il dibattito culturale. Basta con i piagnistei, trovo insopportabile il vittimismo».

Raccolgo la sfida: quando ho iniziato questo lavoro esisteva un giornale, Cuore, settimanale di resistenza umana, il quale metteva la figa tra le prime tre ragioni per vivere, oltre ad ammazzare Jovanotti, che ai tempi cantava «Ciao mamma» e a sinistra ancora non avevano capito che era dei loro. Se io facessi una cosa del genere oggi, mi chiuderebbero, tant' è che dopo il nostro titolo Cinquestelle ha detto che vuole toglierci immediatamente i finanziamenti pubblici: stiamo andando verso una fase oscurantista della società e dell' informazione?

«Voglio essere ancora provocatorio: ben venga l' oscurantismo, perché dal suo eccesso nascerà la ribellione che porterà allo smascheramento delle ipocrisie. Guarda cos' è successo con il #metoo: in un anno siamo passati dalle denunce della Argento al grande produttore Weinstein, al ragazzino che accusava Asia di stupro, fino al contratto tra lei e Corona per avere un flirt e agli interrogativi delle femministe se non stavano esagerando. Da dramma a farsa. Certe reazioni oscurantiste esagerate finiscono per rivelarsi un boomerang. Il mio timore non è il nuovo oscurantismo, ma che esso sia finto. Ho il sospetto che lo scandalo sessuale che ha travolto l' attore Kevin Spacey per fatti di trent' anni fa alla fine non sia stato che una via per chiudere una serie, House of Cards, che non funzionava più e costava».

L'hai sparata grossa...

«Che vuoi, io sogno un ritorno agli anni Sessanta, quella meravigliosa società borgese, che consentiva a tutti di fare tutto, purché nulla diventasse motivo di discussione».

Ma era una società ipocrita...

«Oggi la società è altrettanto ipocrita ma non è in grado di produrre i risultati di ieri perché l' ipocrisia è diventata istituzionale e non è più privata. Sono pratico, io. Il Sessantotto ha liberalizzato il sesso ma ha prodotto disastri. Io andavo a battere davanti alle fabbriche e gli operai, costretti dall' ideologia, avevano paura a dirmi di no perché si sarebbero sentiti sorpassati. Un tempo una porno attrice come Marilyn Monroe o Joan Crawford poteva diventare una diva e un modesto attore poteva diventare presidente degli Usa e abbattere i comunismi russo e cinese. Oggi abbiamo politici che diventano attori riempiendoci di selfie e dirette facebook».

Cosa pensi degli inviti a boicottare Libero dopo il nostro titolo?

«Ne penso tutto il male possibile. È una violenza, una reazione peggiore del danno prodotto dal titolo, che rischia di rivelarsi un boomerang su chi la mette in atto. Chi vuole battersi perché i gay siano accolti, accolga anche la diversità di Libero, pure se non lo condivide. Altrimenti finite per essere voi i veri discriminati».

Probabilmente saremo processati, come ci difenderesti?

«Processati? E perché? Non ci sono reati».

L' Ordine dei Giornalisti ti processa anche se non commetti reati. Come ce la caviamo? Dovremmo paragonarci ai gay e sostenere che noi di Libero siamo una categoria di giornalisti discriminati?

«Voi dovreste fare meno titoli che scaldano il pentolone e la sinistra non dovrebbe incazzarsi per i vostri titoli. Io farei una leggera ammissione di colpevolezza, per calmare le acque e rendere più democratico il monarca. Poi mi dichiarerei disponibile a emendare, magari facendo i servizi sociali presso una discoteca gay, per compensare il danno morale».

Non ci sarebbe un' alternativa?

«Beh, saresti spiritoso. Alla fine però, più che dei gay, io sarei preoccupato dall' aumento dei fessi. Tra questi vi è anche chi si scandalizza per voi ma non è colto da sconcerto per il fatto che gli immigrati arrivino in Italia e non in Grecia, che siamo guidati da una serie di improvvisati che ancora non ci hanno chiarito dove vogliono portarci, e che un ministro passi da un dicastero all' altro in spregio a ogni competenza. Ma dove si preparano, alle serali?».

Libero: "Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay". La Nuova Bussola Quotidiana il 25-01-2019. Ieri il quotidiano Libero titolava: “Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay”. Il sottosegretario con delega all'Editoria Vito Crimi, dichiara: "Avvierò immediatamente una procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l'erogazione dei fondi residui spettanti a un giornale che offende la dignità di tutti gli italiani e ferisce la democrazia''. Il vicepremier Luigi Di Maio gli fa eco: "Abbiamo fatto bene o no a tagliare i fondi a giornali del genere? Scriveranno queste idiozie senza più un euro di fondi pubblici". Di suo Vittorio Feltri, direttore di Libero, così ribatte: "L'omofobia ce l'ha in testa chi ci critica. Chi ci spara addosso ha letto solo il titolo ma non il testo, in caso contrario avrebbe scoperto che quei dati ci sono stati forniti dalle stesse associazioni gay. Di cosa ci si offende? E' un dato di fatto, abbiamo citato delle cifre, cosa c'è da indignarsi?"

Polemica su titolo Libero, Crimi: "Valutiamo blocco fondi". Adnkronos il 23/01/2019. E' polemica su Libero che oggi titola in prima pagina: "Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay". Il sottosegretario con delega all'Editoria Vito Crimi, dicendo di provare "disgusto" per quel titolo, annuncia: "Avvierò immediatamente una procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l'erogazione dei fondi residui spettanti a un giornale che offende la dignità di tutti gli italiani e ferisce la democrazia''. Il vicepremier Luigi Di Maio va su Facebook all'attacco del quotidiano diretto da Vittorio Feltri: "Abbiamo fatto bene o no a tagliare i fondi a giornali del genere? Scriveranno queste idiozie senza più un euro di fondi pubblici".

LA REPLICA DI FELTRI - Feltri replica così alle polemiche: "L'omofobia ce l'ha in testa chi ci critica". "Chi ci spara addosso - dice il direttore di Libero all'Adnkronos - ha letto solo il titolo ma non il testo, in caso contrario avrebbe scoperto che quei dati ci sono stati forniti dalle stesse associazioni gay. Di cosa ci si offende?". "E' un dato di fatto - sottolinea - abbiamo citato delle cifre, cosa c'è da indignarsi?". Quanto alla notizia dell'avvio della procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l'erogazione dei fondi residui spettanti al quotidiano, Feltri afferma: "Si parla da mesi del blocco dei fondi, chiamano i giornalisti 'puttane' e nessuno si scandalizza. Danno soldi a cani e porci e poi - conclude - dicono che siamo noi a uccidere la democrazia".

FNSI - Sulla polemica interviene la Federazione nazionale della Stampa italiana. "Il ministro Luigi Di Maio e il sottosegretario all'Editoria Vito Crimi - scrivono in una nota Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Fnsi - continuano ad avere un approccio sbagliato nei confronti del mondo dell'informazione. La giusta condanna di ogni forma di discriminazione e del linguaggio offensivo delle diversità, al quale si abbandona oggi il titolo di apertura del quotidiano Libero, non può giustificare in alcun modo - si sottolinea - la rivendicazione del ministro e del sottosegretario di cancellare qualsiasi forma di sostegno all'editoria". "Trasformare critiche legittime e condivisibili in provvedimenti di carattere ritorsivo è sbagliato, oltre che ingiusto".

LUXURIA - Intervenendo sulle polemiche Vladimir Luxuria dice all'Adnkronos: "Un titolo inaccettabile perché genera un'associazione negativa tra due elementi accostati l'uno all'altro, il calo di Pil e fatturato da una parte e l'aumento dei gay dall'altra. Come se le due cose si potessero paragonare, cosa c'entra? Aggiungendo 'c'è poco da stare allegri' al titolo di prima pagina, si dà a intendere che le due cose dovrebbero essere considerate entrambe in modo negativo, come se invece di gay si parlasse di criminalità. Quel titolo - conclude - è il prodotto di un clima preoccupante che si respira in Italia, sempre più omofobo".

Bufera su Libero, Feltri: "Chi ci spara addosso ha letto solo il titolo".  Adnkronos 23/01/2019. "L'omofobia ce l'ha in testa chi ci critica". Il direttore di 'Libero' Vittorio Feltri replica così alle polemiche suscitate dal titolo di oggi del quotidiano ('Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay'). "Chi ci spara addosso - dice all'Adnkronos - ha letto solo il titolo ma non il testo, in caso contrario avrebbe scoperto che quei dati ci sono stati forniti dalle stesse associazioni gay. Di cosa ci si offende? Se calano fatturato e Pil c'è qualcuno che se ne rallegra? E' un titolo fattuale, come direbbe Crozza". "E' un dato di fatto - sottolinea - abbiamo citato delle cifre, cosa c'è da indignarsi? Dov'è il problema, non si può dire che aumentano i gay? Siamo forse in Iran?". Quanto alla notizia dell'avvio della procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l'erogazione dei fondi residui spettanti al quotidiano, come annunciato dal sottosegretario con delega all'editoria Vito Crimi, Feltri dichiara: "Si parla da mesi del blocco dei fondi, chiamano i giornalisti 'puttane' e nessuno si scandalizza. Danno soldi a cani e porci e poi - conclude - dicono che siamo noi a uccidere la democrazia". ''Il titolo sui Gay? Sono gli unici che non sentono la crisi, Non si può dire? Secondo me invece il governo non si può permettere di censurare un giornale. Ci chiudesse allora, non capisco cosa voglia da noi''. Nessun dubbio nel difendere la prima pagina nemmeno per Pietro Senaldi, direttore editoriale del quotidiano. ''Noi facciamo dei titoli normali - dice - quello di oggi non offende nessuno e in futuro continueremo a fare titoli così, comprensibili e normali. E su questo diritto si è pronunciata anche la Federazione della Stampa''. Senaldi invita a leggere titolo e articolo: ''Dire che aumentano i gay è irriguardoso? A me non sembra. Non c'e' alcun giudizio di merito. Non apre contro i gay. Se si legge l'articolo si capisce che il paese è in crisi e gli unici a non sentirla sono gli omosessuali che aumentano. Dire che aumentano i cinesi è irriguardoso? Non si può scrivere? Forse il fatto che aumentano è un problema per qualcuno, ma non per noi''. Il direttore invita a leggere anche gli altri giornali: ''Tutti aprono sul fatto che la Germania non manda una nave nell'operazione Sophia e i cattivi sono gli italiani. Ma siamo impazziti? Calano fatturato e Pil e la gente si preoccupa che aumentano gli omosessuali. Sinceramente non capisco''.

Dagospia il 24 gennaio 2019. Questa mattina a "Non Stop News", la trasmissione di approndimento condotta da Pierluigi Diaco, Fulvio Giuliani e Giusi Legrenzi su Rtl 102.5, c'è stato uno scontro molto accesso tra lo stesso Diaco (unito civilmente al suo compagno Alessio Orsingher nel novembre scorso) e il direttore editoriale di Libero, Pietro Senaldi. Motivo la prima pagina di "Libero" di ieri che titolava: "Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay". Diaco fa notare a Senaldi che "la sessualità non è una patente di identità ma un dettaglio di una cosa più complessa chiamata personalità. Il genere sessuale non fa la persona. Il vostro titolo oltre che inelegante e pure vagamente omofobo".

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 24 gennaio 2019. Ieri Libero apriva il giornale con il titolo «Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay». Ero convinto che la notizia di cui preoccuparsi fosse quella economica, alla prima riga. Invece che il Paese vada in malora pare non interessi a nessuno, è scoppiato un putiferio sulla seconda parte, che ha scatenato l'ira della fazione grillina del governo, delle associazioni omosessuali e della nutrita schiera di benpensanti di cui il Paese abbonda, tutti specializzati a sentenziare senza prima leggere, in base ai pregiudizi che hanno in testa e ai dettami del politicamente corretto. Ma d' altronde, come diceva Albert Einstein, che non era proprio un idiota, «è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio». E noi di Libero siamo oggetto di pregiudizio, sbagliamo per definizione. José Mourinho, se si interessasse ai nostri guai, ci definirebbe vittime di razzismo intellettuale. Ci processano perché abbiamo detto che sono in crescita gli omosessuali. Dove sta l' offesa? È fattuale, taglierebbe corto Crozza. La cosiddetta società civile e le associazioni lgbt - se così si dice - hanno speso anni a convincere i gay a non vergognarsi e a fare outing, spiegando che non c' è nulla di male se un uomo preferisce un altro uomo a una donna. Quando però questi vincono le loro paure ed escono dal guscio ecco che, se un quotidiano riporta la notizia, finisce nell' occhio del ciclone. Eravamo fiduciosi che fosse una statistica che facesse piacere alla comunità gay, tant' è che il caporedattore di Gaynews, Francesco Lepore, che abbiamo intervistato sull' argomento, l' ha commentata con entusiasmo. Purtroppo però dobbiamo constatare che c' è gente a cui il nostro titolo non è piaciuto; evidentemente non sono contenti dell' aumento della comunità omo, che invece a noi non fa né caldo né freddo, la riteniamo semplicemente una notizia da dare perché segna un' importante mutazione della nostra società. Per pudore chiamiamo sui giornali e in tv gli omosessuali «gay» e non nei mille altri modi in cui la gente, anche chi oggi punta il dito contro di noi, li battezza volgarmente a telecamere spente. Poi però basta che un giornale non amato dai sacerdoti del politicamente corretto scriva che essi sono più oggi di ieri perché la notizia diventi indecente. L' omofobia ce l' ha in testa chi ci critica, senza neppure averci letto. A noi invece il boom della comunità omo non imbarazza e lo raccontiamo con innocenza. Ma forse il problema non è il fatto in sé, quanto che l' abbiamo riportato noi, viene il sospetto. L' avesse fatto qualcun altro, sarebbe filato tutto liscio. Non vorrei tirarmela, ma denuncio alla Federazione Nazionale della Stampa una campagna mediatica di intimidazione ai danni della nostra testata. Volete la prova? Siamo stati perseguiti dall' Ordine dei Giornalisti per il nostro «Patata bollente», riferito alle disavventure amministrative e sentimentali della sindaca Raggi. L' Ordine però non ha fatto nulla contro il direttore di Chi, Alfonso Signorini, condannato dal tribunale per aver sostenuto le stesse cose, solo in toni più espliciti. Perché Signorini no e io sì? Meglio non approfondire, ognuno si dia una risposta, ma è evidente che i discriminati siamo noi, non i gay. Il nostro titolo non offende e non ghettizza. Non si può più scrivere gay sui giornali? Ce lo dicano, ci adegueremo, a patto che valga per tutti. Ma a quel punto ci ritroveremmo in Iran, dove se qualcuno enfatizzasse che i gay aumentano finirebbe sulla forca, non in una democrazia occidentale. Ci fanno notare: che nesso c' è tra il calo del fatturato e del Pil e l' aumento dei gay? Nessuno diretto, e infatti nella titolazione non abbiamo legato le due notizie con un rapporto causa-effetto. Abbiamo scattato una fotografia del Paese, specificando nel sommario che l' Italia è economicamente a terra e gli omosessuali sono gli unici a non sentire la crisi, tant' è che aumentano. Non piace il titolo? Non comprateci, ma lasciateci in pace. Abbiamo aperto in quel modo solo perché la notizia ci sembrava più interessante di quella a cui la maggioranza degli altri giornali ha deciso di dare la massima rilevanza ieri, ovverosia la rinuncia della Germania, in polemica con il ministro Salvini, di inviare una nave in più nel Mediterraneo per salvare i profughi. Ognuno fa le sue scelte. Berlino non vuole soccorrere i migranti e usa il Viminale come pretesto per sfilarsi e i nostri giornali, anziché fare le pulci alla Merkel, ne approfittano per attaccare il governo accusandolo di nazismo e danno a prescindere ragione alla Germania, malgrado sul tema abbia un curriculum più ricco del nostro. Questa è disinformazione, ma nessuno si scandalizza, nessuno apre giudizi. Va di moda solo il processo a noi. In particolare ci attaccano i grillini. Si starebbero attivando per tagliare immediatamente ogni tipo di contributo a Libero. «Bisogna stare sul mercato», dicono. Ma in realtà tolgono i soldi solo a chi li critica e li aumentano a chi canta nel loro coro, come le radio, e per noi studiano leggi speciali, sullo stile di quelle per gli ebrei negli anni Trenta. Infatti hanno in mente per Libero la soluzione finale e non si preoccupano neppure di nasconderlo. La coppia Luigi Di Maio, vicepremier, e Vito Crimi, sottosegretario all' Editoria - secco e bombarda, ma sarebbe meglio chiamarli Minus e Habens - vuole avviare una procedura per chiuderci subito. È un comportamento talmente liberticida da aver meritato perfino le critiche della Federazione Nazionale della Stampa, che giudica l' iniziativa «ritorsiva, sbagliata e ingiusta» e accusa Minus e Habens di «usare il manganello contro la categoria per consumare vendette e regolamenti di conti». Cari governanti, delle due una: o Libero è un giornalaccio che non vale nulla, come dite, e allora non si capisce perché ve ne curiate così tanto, oppure vi dà fastidio, perché non vi piace quel che dice, e perciò che gli muoviate guerra dai vostri scranni di governo configura un attacco alla libertà di stampa e alla Costituzione. Da alfieri della democrazia diretta, dovreste fare di tutto perché sopravviva, per difendere, con la nostra, la vostra libertà, come diceva Voltaire, che aveva un pensiero più raffinato di Rousseau. Visto che vi interessate delle nostre miserie, permetteteci di occuparci brevemente delle vostre. Non perdete tempo con Libero, avete cose più importanti alle quali pensare. Gli italiani non vi giudicheranno sui contributi alla stampa, ma sulla promessa che avete fatto di abolire la povertà. Come denunciato dal nostro titolo («calano fatturato e Pil»), siete ancora lontani dall' impresa, e forse è proprio questo, più che la parte sugli omosessuali, ad avervi fatto saltare la mosca al naso. A destare scandalo, in questo Paese che si scalda solo per le cavolate, dovreste essere voi, che organizzate una festa per il varo dello stipendio a chi non lavora e mandate sul palco un comico a dire: «I grillini mi hanno dato una poltrona all' Unesco perché non conosco la geografia, ma d' altronde è giusto così, basta con questi plurilaureati». E giù applausi. Uno spot all' ignoranza e all' incompetenza, bel programma per centrare l' obiettivo del boom economico che avete di recente promesso. Chi si somiglia si piglia, forse per questo siamo destinati a non andare d' accordo.

Dago Spia il 23 gennaio 2019. Riceviamo e pubblichiamo da FILIPPO FACCI: «Caro Dago, da autore dell’articolo “Calano fatturato e Pil, ma aumentano i gay», pubblicato su Libero e tema di scandalo, vorrei tanto sapere - tra coloro che invocano la chiusura o la morte finanziaria di Libero - quanti hanno anche letto l’articolo a cui il famigerato titolo si riferisce, che è fatto dalla redazione come sempre capita coi titoli. Vorrei sapere quanti, nel caso, oserebbero parlare ancora di omofobia, che ricordiamo: corrisponde a un reato. E siccome però nessuno ha commesso reati – basta leggere - i fatti restano che alcuni governanti dei Cinque Stelle vogliono chiudere un giornale che non è mai stato tenero con loro. Tutti difesero Charlie Hebdo e la libertà di espressione, senza bisogno di condividerne i contenuti: in Italia questo non vale». Filippo Facci

(askanews il 23 gennaio 2019.) – “Provo disgusto per il titolo del giornale Libero. Un giornale che riceve soldi pubblici che prima pubblica titoli razzisti contro, poi oggi anche omofobi. Avvierò immediatamente una procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l’erogazione dei fondi residui spettanti ad un giornale che offende la dignità di tutti gli italiani e ferisce la democrazia. Mi aspetto che il giornalismo che tanto vede in noi il nemico, faccia sentire la sua voce. Probabilmente chi distrugge la credibilità della stampa sono proprio alcuni giornalisti”. Lo ha detto in una nota Vito Crimi, sottosegretario con delega all’Editoria. Questo il titolo di apertura del quotidiano Libero, direttore responsabile Pietro Senaldi:”C’è poco da stare allegri, calano fatturato e pil ma aumentano i gay”.

Da Adnkronos il 23 gennaio 2019. E' bufera su Libero che oggi titola in prima pagina: "Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay". Il vicepremier Luigi Di Maio va su Facebook all'attacco del quotidiano diretto da Vittorio Feltri: "Abbiamo fatto bene o no a tagliare i fondi a giornali del genere? Scriveranno queste idiozie senza più un euro di fondi pubblici. Vito Crimi - ha ricordato - ha avviato la procedura che azzererà i finanziamenti pubblici entro i prossimi tre anni". Il sottosegretario con delega all'Editoria dice a proposito del titolo di 'Libero': "Provo disgusto ". "Un giornale - scrive in una nota Crimi - che riceve soldi pubblici che prima pubblica titoli razzisti contro, poi oggi anche omofobi. Avvierò immediatamente - annuncia - una procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l'erogazione dei fondi residui spettanti a un giornale che offende la dignità di tutti gli italiani e ferisce la democrazia''. ''Mi aspetto che il giornalismo che tanto vede in noi il nemico -avverte Crimi - faccia sentire la sua voce. Probabilmente, chi distrugge la credibilità della stampa sono proprio alcuni giornalisti''. Su Twitter, Manlio Di Stefano, sottosegretario M5S agli affari esteri, scrive: "Titoli del genere, così come quello sui terroni, creano discriminazione e fomentano odio. L'ordine dei giornalisti ha il dovere - sottolinea - di intervenire tempestivamente. Tagliare i fondi a giornali come questo è doveroso. Questa non è informazione! NonLeggoLibero". Esprime la sua indignazione anche Alessandro Zan, deputato del Pd e da sempre attivista per i diritti Lgbt, che parla di "un titolo ignobile, fatto da un direttore disperato per il crollo delle vendite di copie del suo giornale". "Non è che i gay - dice l'esponente dem all'Adnkronos - aumentano o gli etero diminuiscono, perché l'orientamento sessuale di una persona non si decide, ma semplicemente si nasce così. E' la condizione umana della persona, tutto qui. Se mai oggi, fortunatamente, i gay e le lesbiche di questo paese si dichiarano in famiglia, agli amici e nei posti di lavoro e questa è la condizione e il presupposto fondamentale per essere felice come tutti gli altri". "Questo titolo - avverte Zan - evoca ancora l'omossessualità come colpa o come cosa di cui vergognarsi, perché alcuni (fortunatamente oggi la minoranza), vorrebbero ancora che gli omosessuali fossero nascosti e invisibili nella società''. 

Io e te, Pierluigi Diaco piange per il marito Alessio Orsingher. Il conduttore del format di Rai 1 si è lasciato andare ad un momento di commozione, nello studio televisivo dell'ultima puntata di Io e te. Serena Granato, Domenica 08/09/2019 su Il Giornale. Nel corso dell'ultima puntata di Io e te, trasmessa lo scorso venerdì 6 settembre, Pierluigi Diaco si è lasciato andare ad un momento di commozione e condivisione con il fedele pubblico di Rai 1. Il format Io e te è giunto al termine, passando il testimone alla trasmissione condotta da Caterina Balivo, Vieni da me, che tornerà nel palinsesto Rai lunedì 9 settembre. E, in occasione della puntata finale del suo programma, Diaco ha intervistato Maurizio Costanzo, il quale ha officiato la sua unione civile, celebrata nel 2017, con Alessio Orsingher. Così, nel corso dell'ultima diretta, che segna l'addio alla stagione estiva in tv di Io e te, Diaco ha voluto ritagliarsi uno spazio in trasmissione, da dedicare ai telespettatori. "Non vi nascondo l'emozione dell'incontro con Maurizio (Maurizio Costanzo, ndr) -ha esordito il conduttore nel corso della sua confessione intimista con il pubblico -. Volevo prendermi qualche minuto per noi. Ho iniziato a quindici anni a fare questo mestiere, tra radio e televisione, ho commesso tanti errori, ho dovuto governare la parte più spigolosa del mio carattere. Ho avuto varie occasione di lavorare in Rai, occasioni anche perse, perché non ero strutturato dal punto di vista comportamentale. Negli anni ho anche fatto un percorso. Devo l'uomo che sono diventato alla mia famiglia, alla mia mamma, alle mie tre sorelle. Ma devo la mia serenità e questo programma , che in realtà non si chiama "Io e te" e neanche "Io e voi", ma si chiama "Io e Alessio", la cosa a cui tengo di più".

La dedica di Diaco a Io e te. Dopo aver parlato al suo pubblico, Pierluigi Diaco (42 anni) ha voluto destinare una dedica a cuore aperto all'uomo che è riuscito a stravolgere la sua vita, il giornalista di La7 Alessio Orsingher (33 anni): "È il mio nucleo familiare. Mi rendo conto che per alcuni, chiamare famiglia due persone dello stesso sesso è un po' forte. Forse avete anche ragione, forse no. Non sta a me stabilirlo. Ho sempre tentato di accompagnare per mano anche chi è avverso a questo tipo di amore, alla conoscenza di questo sentimento. Non credo di avere la verità in tasca, non credo di essere perfetto, non credo di poter essere depositario di verità e di fare lezioni agli altri su come si deve vivere e su che sentimenti si debba avere. Quello che so è che da quando ho incontrato Alessio e nella mia vita è entrato Ugo, il mio cuore ha un altro modo di battere. Voglio condividere con voi la canzone del cuore mia, di Alessio e di Ugo".

Pierluigi Diaco: età, altezza, peso, il marito Alessio e i figli. Caffeinamagazine.it il 17 luglio 2019. Pierluigi Diaco ha un passato da idolo in tv e nel giornalismo addirittura prima della maturità, a 15 anni già faceva intervista ai politici su Italia Radio mentre a 16 anni era sul piccolo schermo a Tele Monte Carlo. Nel 1992 Pierluigi Diaco è tra i fondatori del Coordinamento Antimafia a Roma: in quegli stessi anni aderisce al Movimento per la Democrazia – La Rete. Nel 1995 debutta nel programma “TMC Giovani” nel 1995. Nella stessa stagione 1995-1996 conduce il programma Generazione X poi passa alle reti Rai. Qui conduce “La cantina” e “Maglioni marroni”. Qualche anno dopo Pierluigi Diaco arriva a Sky con il programma di approfondimento ‘’C’è Diaco’’. Conosciuto anche per l’attività di speaker radiofonico a Rtl 102.5, nel 2010 Pierluigi Diaco torna in Rai al timone di “Uno Mattina”, mentre l’anno successivo parteciperà come autore di “Bontà Loro” di Maurizio Costanzo. Opinionista fisso di “Domenica In”, raggiunge la notorietà anche con il programma “Io e Te”, una trasmissione piena d confronti e interviste svolte tra conduttore e ospiti in studio, e che punta tutta sull’emozionalità. In studio insieme a lui ci sono anche la comica Valeria Graci e Sandra Milo. 

Pierluigi Diaco è sposato con il giornalista Alessio Orsingher. Il 16 novembre del 2017 Alessio e Perluigi si sono detti ”sì”. La coppia ha scelto una chiesa sconsacrata per unirsi in matrimonio con pochi amici e parenti. A celebrare l’unione civile è stato il collega e amico storico di Diaco, Maurizio Costanzo. Mentre una dei testimoni è stata l’autrice televisiva Irene Ghergo. La cerimonia civile è stata seguita da un piccolo ricevimento rigorosamente per familiari e amici più intimi, mentre gli invitati hanno avuto il divieto assoluto di condividere scatti sui social. Pierluigi e Alessio si sono conosciuti nel 2015 ad una festa. Qualche mese prima delle nozze Pierluigi Diaco aveva parlato della sua situazione sentimentale, raccontando della convivenza col compagno: “Convivo con il mio compagno, Alessio. È la prima volta che ne parlo. Nei weekend, quando posso prendermi una pausa dal lavoro, andiamo al mare. Spesso al cinema. Abbiamo un bassotto molto simpatico, si chiama Ugo. Per molti anni, sono stato insicuro. Ho conosciuto la sicurezza quando l’ho incontrato. Alessio è una persona che mi sta affianco, non davanti. Tra i due, che sono colleghi, condividendo la professione giornalistica, sembra esserci tanto feeling. “Non credo nelle definizioni. – aveva detto – La sessualità è un dettaglio della personalità, non una patente d’identità. Non mi sono mai chiesto se ero etero, bisessuale o che altro. Ho sempre condiviso serenamente le mie storie con amici e familiari. Non sono stato sereno, semmai, dentro relazioni in cui la sessualità non si univa al sentimento. Poi, quando le due cose coincidono, è un momento: lo senti, è l’amore“. Pierluigi Diaco è alto un metro e settantasette centimetri per un peso di settantasei chili. È nato a Roma il 23 giugno del 1977, all’età di cinque anni è diventato orfano di padre e la mamma si è trovata a 39 anni a crescere tre figli.

Chi è Alessio Orsingher marito di Pierluigi Diaco: età, lavoro e carriera. Amalfi Notizie il 6 Settembre 2019. Alessio Orsingher è uno dei giornalisti più amati e conosciuti del piccolo schermo. Grazie alla sua simpatia e alla sua professionalità, ha conquistato l’ammirazione di migliaia di persone che lo seguono con affetto.

Chi è Alessio Orsingher marito Pierluigi Diaco: età, lavoro e carriera. Alessio Orsingher è nato il 19 febbraio del 1986 a Massa. Sin da giovanissimo si avvicina al mondo dello sport. In gioventù ha avuto anche una parentesi nel mondo della pallavolo che gli ha dato grandi soddisfazioni. Dopo il diploma ha conseguito la laurea in Scienze Giuridiche all’Università di Pisa. Per far diventare la sua passione per il giornalismo un vero e proprio mestiere, ha preso parte al Master in Giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. La sua carriera si è sviluppata poi in televisione. In questa stagione è stato uno dei protagonisti della trasmissione Tagadà in onda su La7. In pochi sapevano della relazione tra Alessio Orsingher e Pierluigi Diaco fino al 2017 quando quest’ultimo ha rivelato al mondo l’intenzione di convolare a nozze. Il 16 novembre del 2017 Alessio e Perluigi si sono detti ”sì”. La coppia ha scelto una chiesa sconsacrata per unirsi in matrimonio con pochi amici e parenti. E’ stato proprio Diaco a rivelare nella prima puntata della sua nuova trasmissione in onda su Rai 1 Io e te che da quando conosce il compagno la sua vita è cambiata in meglio. In un’intervista hanno raccontato che tra di loro è stato un vero e proprio un colpo di fulmine dal quale sono stati travolti entrambi.

·         L’Oscar LGBTI.

Oscar 2019, vince il politicamente corretto, scrive il 25 febbraio 2019 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Se l’anno scorso era il turno del #MeToo, quest’anno a stravincere sul palco degli Oscar 2019 di Los Angeles è il politicamente corretto. Nella serata in cui Green Book ha vinto l’Oscar per il miglior film mentre Alfonso Cuarón ha ricevuto gli Oscar alla regia e alla fotografia per Roma, a dominare incontrastata è la propaganda politically correct che tanto va in voga a Hollywood e dintorni. Dalle parole di Rami Malek, premiato come attore protagonista per la performance in Bohemian Rhapdsody, nei panni di Freddie Mercury, al discorso contro i muri e le frontiere dell’attore Javier Bardem, la cerimonia degli Oscar 2019 dimostra quanto il mondo dell’intrattenimento viva in una sua bolla tutta patinata, sempre più lontana dalla vita quotidiana, tra stoccate contro il presidente Donald Trump e la sua lotta all’immigrazione clandestina all’esaltazione dell’omosessualità e del “gender fluid”. Una serata zuccherosa all’insegna dei buoni sentimenti con pochi momenti di vivacità, fatta eccezione per la performance dei Queen. 

“Abbiamo fatto un film su un omosessuale e un immigrato”. Le parole di Rami Malek, attore protagonista di Bohemian Rhapsody, sono tutto un programma: “Abbiamo fatto un film su un omosessuale, immigrato, che ha vissuto impudentemente, e il fatto che questa sera stiamo festeggiando lui e la sua vita è la prova che abbiamo bisogno di storie come questa”. Non contento, Malek ha ricordato che lui, così come il cantante dei Queen, è figlio di immigrati: “Mio padre era egiziano. Sono un americano di prima generazione e parte della mia storia la sto scrivendo ora”, ha sottolineato guadagnandosi gli applausi delle star di Hollywood. Non meno tonfo di retorica il discorso dell’attore Javier Bardem. Salito sul palco per premiare il miglior film straniero degli Oscar 2019 – Roma, di Alfonso Cuaròn – l’attore spagnolo ha espresso un chiaro riferimento politico parlando di muri e confini e lanciando una frecciatina al presidente degli Stati Uniti Donald Trump: “Non ci sono confini o muri che possano frenare l’ingegno e il talento” ha sottolineato. “In qualsiasi regione di qualsiasi Paese di qualsiasi continente ci sono sempre grandi storie che ci commuovono”, ha detto Bardem sul palco insieme all’attrice Angela Bassett. “E stasera celebriamo l’eccellenza e l’importanza delle culture e delle lingue dei diversi Paesi”. A vincere però la statuetta come miglior film è Green Book, film di Peter Farrelly basato sulla storia vera di Shirley, un virtuoso della musica classica, e del suo autista temporaneo in tour negli Stati del Sud, dall’Iowa al Mississipi: una pellicola contro il pregiudizio razziale ma paradossalmente non abbastanza politicamente corretta per gli attivisti più liberal, che accusano Farrelly di essere un sostenitore del presidente Trump. 

L’abito di Billy Porter che “supera i generi” agli Oscar 2019. L’opinione pubblica progressista ha esaltato l’attore Billy Porter, apparso sul red carpet con un eccentrico abito “gender fluid”, uno smoking con gonna di velluto firmato Christian Siriano. “Quando arriverà la fine del genere sul tappeto rosso” si chiede il New York Times. “Con Billy Porter, Elsie Fisher e alcuni altri Oscar, il tappe rosso sta iniziando a scoprire un favolo terzo modo di essere”. Né uomo né donna, quindi, ma “gender fluid”. Ennesima fissazione dell’ideologia politicamente corretta dove essere uomo e bianco diventa una colpa. 

E l'Oscar va... al cinema corretto, premi a "Green Book" e "Roma". Hollywood punta su una commedia sull'integrazione e sul film di Cuarón. Miglior attore Malek-Mercury, scrive Pedro Armocida, Martedì 26/02/2019, su Il Giornale. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. E così la 91esima cerimonia degli Oscar è rimasta coerentemente senza conduttore dopo la rinuncia dell'attore Kevin Hart per le polemiche seguite ad alcune suoi tweet omofobi di ben nove anni fa. Perché Hollywood non dimentica, mai, di essere la capitale, oltre che del cinema, del politicamente corretto. Dunque la maggior parte dei premi può essere letta in quest'ottica, vagamente politica, anche se parliamo comunque di film di grande qualità. Come Green Book di Peter Farrelly che si è portato a casa la statuetta del miglior film scompaginando le aspettative del grande favorito, Roma, di Alfonso Cuarón comunque vincitore (Netflix pare abbia investito 25 milioni di dollari nella campagna degli Oscar) con il triplete di peso: miglior regia (è la quinta volta in sei anni che vince un messicano), miglior fotografia (sempre dello stesso regista), migliore film straniero. Due titoli emblematici perché parlano di integrazione nei loro paesi, Stati Uniti e Messico da tempo divisi sulla questione immigrati: «Ma facciamo tutti parte dello stesso oceano» ha detto Cuarón. Anche se ad alzare muri contro Green Book è uno come Spike Lee, mentre Steven Spielberg ha detto che è il suo «buddy movie preferito dai tempi di Butch Cassidy», forse perché a dirigere una storia su un afroamericano di successo che si fa scorrazzare per l'America da un autista bianco c'è un regista non nero. «Ogni volta che qualcuno fa l'autista per qualcun altro, perdo» ha scherzato, ma non troppo, Spike Lee riferendosi all'anno in cui vinse A spasso con Daisy e il suo Fa' la cosa giusta non venne nemmeno candidato. Ora Green Book, a parti invertite, racconta di come a volte bisogna sedersi al posto di dietro per andare avanti: «Questo è un film sull'amore che supera le differenze», ha detto il regista che finalmente viene premiato (Oscar anche alla migliore sceneggiatura originale) con una commedia dopo aver diretto, insieme al fratello Bobby, l'esilarante Tutti pazzi per Mary. Come tutti black sono i premi che seguono. «Dedico questo premio a mia nonna, la mia eroina che mi ha incoraggiato a fare tutto quello che volevo», ha detto l'afroamericano Mahersala Ali, miglior attore non protagonista due anni dopo Moonlight di Barry Jenkins che ora, con Se la strada potesse parlare, ha portato l'Oscar a Regina King come miglior attrice non protagonista. Grazie al cinecomic Marvel Black Panther vince come miglior costumista per la prima volta un'afroamericana, Ruth E. Carter, che ha ringraziato Spike Lee con cui aveva esordito in Malcolm X: «Spero che questo premio ti renda orgoglioso!». Il regista di BlacKkKlansman che ha vinto ora il suo primo Oscar competitivo per la migliore sceneggiatura non originale, pensando di stare a un comizio, invece, ha detto: «Le elezioni del 2020 sono dietro l'angolo, ricordiamocelo, possiamo fare la cosa giusta», ogni riferimento all'uomo nero Donald Trump è... voluto. Di immigrazione s'è parlato anche con il premio al miglior attore andato a Rami Malek che interpreta il leader dei Queen in Bohemian Rhapsody: «Sono figlio di immigrati egiziani, americano di prima generazione, non ero la scelta più ovvia ma a quanto pare ha funzionato. Anche Freddie Mercury era un immigrato». A questo proposito possiamo allora essere contenti perché c'è un pezzetto d'Italia nell'Oscar al miglior film di animazione andato a Spiderman: un nuovo universo in cui l'uomo ragno, anche qui di colore, è stato disegnato dall'artista marchigiana Sara Pichelli. Alla fine grazie a Olivia Colman, migliore attrice per il ruolo della regina Anna in La Favorita di Yorgos Lanthimos (il vero sconfitto della serata), sul palco è arrivata un po' di ironia: «Ricordo di quando ero un'addetta alle pulizie, amavo quel lavoro ma ho sempre sognato questo momento». Standing ovation del pubblico. Lady Gaga, nominata anche come migliore attrice, s'è dovuta invece accontentare dell'Oscar per la migliore canzone, Shallow, uno dei brani di A Star Is Born di Bradley Cooper che ha cantato insieme al regista e attore sul palco a cui ha fatto gli occhi più che dolci. Dopo la premiazione - a Los Angeles sono le otto di sera quando finisce - cena al Governor's Ball di Hollywood dove, ad attendere i 1500 ospiti, c'era Wolfgang Puck, lo chef più in degli States, che è arrivato a proporre pure i bocconcini di quaglia fritti. In puro «Nashville style», of course. Sovranisti almeno a tavola.

·         Cannes delle femministe.

Marco Giusti per Dagospia il 25 maggio 2019. Siete avvisati. A un giorno dalle elezione europee, con il pericolo di governi poco democratici in tutto il mondo, da Cannes arriva un messaggio preciso di appoggio e solidarietà verso gli ultimi e verso i temi importanti. "In questi giorni in cui la democrazia è persa, posso dirvi che siamo stati molto democratici e abbiamo preso questa decisione all'unanimità”, detto Alejandro Inarritu dando la Palma d’oro quindi al film più politico, il coreano Parasite di Bon Joon-ho, capolavoro di commedia nera sul popolo dei miserabili che succhia non solo wifi dai più ricchi. Ma in generale questa Cannes segna il trionfo della diversità, dei miserabili, dei migranti, della lotta di classe, dei brasiliani in lotta col regime di Bolsonaro, dei registi neri, delle registe femmine, e meglio se africane. cinema dei vecchi maestri, bravi e meno bravi, in forma o meno in forma, è del tutto pensionato dalle scelte di Inarritu e della sua giuria, che va premia i film più duri e difficili che affrontano temi importanti. Non solo la Palma d’Oro a Parasite, ma anche il Gran premio a Atlantique della senegalese Mati Diop, strepitosa opera prima al femminile su temi importanti come i migranti, la globalizzazione, l’identità africana. Un film meraviglioso e un premio giustissimo. Premio della giuria ex-aequo al francese Les miserables del regista nero francese Ladj Ly, opera prima molto amato dalla critica, e al brasiliano Bacarau di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles, duro film di genere ma molto politico su come si vive sotto la dittatura di Bolsonaro. Ladj Ly ha dedicato il film a tutti “i miserabili di Francia”. Bravo. Miglior regia al discusso Le jeune Ahmed dei fratelli Dardenne, cupo film su un ragazzo francese musulmano di seconda generazione che si getta nella guerra di religione. Un film e un premio che faranno discutere. Non è un film facile per nessuno, ma molto serio e molto rosselliniano. Pedro Almodovar si deve accontentare per il suo Dolor y Gloria, dolente ritratto autobiografico sul suo degrado fisico e sull’amore per la mamma, del premio al miglior attore maschile, cioè il suo attore feticcio Antonio Banderas. Potevamo anche tifare per il nostro Pierfrancesco Favino per Il traditore, ma Dolor y Gloria è un film che ha molto colpito un po’ tutti e il premio a Banderas è anche e soprattutto un premio al film. "C'è molto dolore dietro il lavoro dell'attore”, ha detto Banderas, “non tutto è un tappeto rosso. Per fortuna ci sono anche notti di gloria, oggi è una di queste”. Migliore attrice è la rossa inglese Emily Beecham per Little Joe di Jessica Hausner, sorta di fiaba nera fantascientifica dove lei interpreta una scienziata genetica che ha progettato un fiore in grado di dare felicità alla gente. Ma non è proprio così. Premio per la migliore sceneggiatura a Portrait de la jeune fille en feu di Celine Sciamma, che ha vinto pure il premio Queer di Cannes, storia d’amore lesbo ma soprattutto storia della liberazione di una creatività femminile dalle regole patriarcali maschile dell’arte. Si pensava che il film potesse vincere qualcosa di più, ma forse c’erano troppi maschi in giuria. Manzione speciale a It Must Be Heaven del palestinese Elia Suleiman, passato l‘ultimo giorno. La Camera d’Or, il premio per la migliore opera prima, e quest’anno ce ne erano moltissime, va al belga Nuestras madres diretto dal guatemalteco César Diaz passato alla Semaine dela Critique. Il regista ha voluto dedicare il premio alle 250 mila vittime del genocidio guatemalteco. A Un Certain Regard. Strabordante quest’anno di opere prime, vincono una serie di film innovativi e fuori dalle regole. A cominciare dal melodramma anni ’50 brasiliano A vida invisivel de Life of Euridice Gusmao di Karim Aïnouz, un film sontuoso che può vantare perfino la presenza della vecchia Fernanda Montenegro. Premio della Giuria a O que arde dello spagnolo Oliver Laxe. Premio per la regia al russo Beanpole, opera seconda di Kanterim Balagov, ritenuto dai più opera straordinaria con due giovani ragazze nella Leningrado del dopoguerra. Premio per la migliore interpretazione a Chiara Mastroianni per Chambre 212 di Christophe Honorè, molto amato dai critici francesi. Premio speciale della giuria al discusso Liberté dello spagnolo Albert Serra, pieno di scene forte di erotismo sadiano. Premio Coup de coeur du jury va, ex-aequo, a La femme de mon frère di Monia Chakri e The Climb di Michael Angelo Covino. A Bruno Dumont e al suo Jeanne, melo musicarello sulla Pulzella d’Orlèans, va solo una menzione speciale. Meglio che niente.

Delon, vittima di una cultura del linciaggio. Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Pierluigi Battista su Corriere.it. Siamo a Cannes e sembra una parodia comica di un film catalogato come «serio», come la trasposizione da Parigi a Zagarolo che Franchi e Ingrassia proposero del famoso tango di Bertolucci. Ma la damnatio di Alain Delon decretata da un manipolo fanatico non è comico, non è la parodia grottesca di cose molto serie come il «sessismo» e il «razzismo». No, è tragicamente vero. È vero che il premio alla carriera che Cannes assegnerà a un’icona storica del cinema viene contestato. È vero che il nome di Alain Delon viene ostracizzato. È vero che di Alain Delon si chiede la messa al bando non per quello che ha fatto, ma per quello che ha detto, ritenuto sconveniente dalle vestali del pensiero censurato. Fosse una manifestazione di solitaria intolleranza, la bizzarria di menti eccitate, davvero non varrebbe nemmeno la pena di parlarne. Ma invece l’ostracismo contro Alain Delon è solo l’ultimo anello di una catena di intolleranze, di intimidazioni, di linciaggi di immagine che sta sconvolgendo da anni il mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo. Chiudono mostre d’arte, bandiscono i classici della letteratura dalle università, impediscono l’uscita del film di Woody Allen. Ora si gettano su Delon, senza timore del ridicolo perché sanno che ormai il messaggio intimidatorio è arrivato: chiunque può essere messo al rogo (simbolico, ancora, e per fortuna), la caccia alle streghe può partire in ogni momento, anche approfittando di un festival internazionale. Ma bisogna insistere, pensare che premiare Delon per la sua carriera è cosa giusta e sacrosanta e che nessuno strepito potrà occultare questa semplice verità. Bisogna avere anche un po’ pena per le menti sovreccitate dei nuovi paladini della censura e del silenzio intimorito. E neanche questa è una parodia.

Delon, un caso a Cannes «Non merita la Palma è maschilista e omofobo». Pubblicato martedì, 14 maggio 2019 da Corriere.it. Sessista, razzista, misogino… Il caso Delon cresce, monta. E azzanna gli zombie di Jarmusch, oscurando l’inaugurazione. Le femministe contestano Alain Delon per le sue idee e per come le esprime. L’icona del cinema francese riceverà la Palma d’oro alla carriera e la polvere delle polemiche ricopre il tappeto rosso. Non è bastata la difesa d’ufficio del delegato del Festival Thierry Frémaux: «Non gli diamo il Nobel per la pace ma un premio alla carriera». Ha aggiunto che Alain Delon, 83 anni, in sostanza va capito, appartiene a un’altra epoca, che non è quella del dopo Weinstein e del politically correct. L’attore ieri ha rilasciato un’intervista al quotidiano Nice Matin, eludendo la querelle, smorzando i toni, ma rievocando il suo tumultuoso rapporto con Cannes, che mai lo ha premiato. Ventidue anni fa non fu invitato all’anniversario dei 25 anni del Festival, e insieme col suo amico Jean- Paul Belmondo lo boicottò. Si adontò perché nel 1984 non fu selezionato il suo film Notre Histoire, girato da Bertrand Blier (vinse il César come migliore attore). Questa la considera una riconciliazione, ma fonti a lui vicine, al di là delle dichiarazioni dovute («la prima volta al Festival fu nel 1961 con Che gioia vivere di René Clement un grande onore») dicono che ha a lungo esitato se ricevere o meno il riconoscimento. Tutto è cominciato con la presa di posizione dell’associazione femminista americana Women and Hollywood, per bocca della presidente Melissa Silverstein che ha chiesto al Festival di ritirare la Palma a Delon, raccogliendo 15 mila firme in una petizione, in costante aumento. Colui che nell’intervista al quotidiano della Costa Azzurra è «Il mostro sacro del cinema», per il movimento femminista sembra solo un mostro, dai «valori aberranti». Da «faccia d’angelo», come veniva chiamato per la sua bellezza insolente, a faccia di bronzo (stando alle accuse): «Cannes manda un segnale negativo alle donne e alle vittime di violenza; siamo deluse». All’attore rimproverano di essersi espresso contro le adozioni da parte delle coppie omosessuali, e di essere un simpatizzante della destra politica. In effetti l’attore è amico di Jean-Marie Le Pen, che conobbe al tempo del servizio militare durante la guerra d’Indocina. Ma non si può dire altrettanto che abbia in simpatia la figlia Marine, che non votò al recente ballottaggio. A Nice Matin Delon ha detto: «Ho avuto una carriera impensabile, in un’altra epoca, altri tempi… Ho lavorato con Clément, Visconti, Losey». Memorie: «Oggi siamo rimasti in tre della cosiddetta banda dei cinque: Trintignant, Belmondo e il sottoscritto. Cassel e Brialy se ne sono andati. Il cinema mi ha indicato una strada e salvato dalla morte». I travagli familiari, la famiglia adottiva, il collegio, la gioventù ribelle…Ha sempre sbandierato il suo amore per le donne: «Non ho chiesto nulla e mi è capitato tutto. Esisto solo per loro, e a loro devo tutto», ha detto in tv ospite di Fabio Fazio. Aggiungendo con ironia che da giovane fu molestato da tante ragazze. Le femministe gli rinfacciano i toni machisti, come uno di quei boxeur che ha interpretato. Scoperto in Italia negli Anni 60 da Luchino Visconti, a tratti parla in terza persona. Si è chiuso nella nostalgia e nell’orgoglio: «Ho fatto quello che volevo, quando volevo, con chi volevo. Sono rivolto più al passato perché ne ho avuto uno straordinario. Sono un vincente. Ho interpretato i ruoli che mi hanno proposto e non sono stato male. Alla fine nella maggior parte dei miei film muoio, e il mio pubblico si sorprende. Ma per essere un eroe devi morire».

Alessandra Magliaro e Francesco Gallo per l'ANSA il 14 maggio 2019. Non sono gli zombie di Jim Jarmusch a turbare la vigilia del festival di Cannes che comincia domani sera con I morti non muoiono, l'horror comedy con Bill Murray, Adam Driver (assente), Selena Gomez, Cloe Sevigny ma le femministe che hanno addirittura lanciato una petizione per boicottare la Palma d'oro onoraria al mito del cinema francese Alain Delon guidata da avvocatesse in prima fila per i diritti delle donne come Melissa Silverstein, fondatrice di Women and Hollywood. "Le contestazioni a Delon? Lo premiamo con la Palma d'oro alla carriera non con il Nobel per la pace" ha detto con convinzione il delegato generale del festival di Cannes Thierry Fremaux incontrando la stampa internazionale per dare il via alla 72/ma edizione. Il riconoscimento a Delon è stato contestato perchè il controverso attore ha ammesso di aver avuto atteggiamenti violenti con le donne. Ma non solo, perché si è anche espresso contro l'adozione da genitori dello stesso sesso ed è notoriamente vicino alla destra, alle posizioni del Fronte Nazionale di Le Pen. "Nessuno è perfetto - ha commentato sconsolato Fremaux - ma le contraddizioni sono nella storia di ciascuno. Posso non essere d'accordo con quello che ha detto in passato, ma dobbiamo anche contestualizzarlo: Delon appartiene ad un'altra generazione e a ben dire il Fronte di Le Pen rappresenta il 20 per cento dei francesi. Noi qui premiamo l'attore, l'artista che ha incantato Visconti e ci ha fatto sognare al cinema con Il Gattopardo". Insomma, anche se ben mascherata, una certa preoccupazione c'è. Del resto Cannes è sotto la lente d'ingrandimento anche per il gender gap: lo scorso anno la disuguaglianza negli alti incarichi dell'organizzazione del festival e nella selezione è stata presa di mira con clamore dal gruppo 50/50 2020 che auspica la parità entro il 2020. Fremaux ha ricordato "l'impegno firmato un anno fa" e la strada senza ritorno imboccata per avere più donne nei centri di potere del festival. Con appena quattro film in competizione? "Sono 15 anzi 20 se contiamo i cortometraggi. Del resto la sottorappresentazione delle donne registe della industria cinematografica è un problema più ampio che non dovrebbe essere discusso solo una volta all'anno durante il festival. Siamo in cammino, non siamo arrivati ma nonostante ciò posso dire che stiamo migliorando anzi stiamo provando ad essere perfetti: è un inizio di cambiamento, siamo lo specchio di quanto accade nella società". L'anima politica del festival è forte, ha ricordato Fremaux, citando i nuovi film di Loach, Dardenne, Les Miserable di Ladj Ly, Bacurau di Mendoncha figlio e Juliano Dornelles, per citarne alcuni "ma questo in equilibrio con l'anima romantica della selezione". Se lo scorso anno ha regnato la polemica Netflix, quest'anno, ancora tenendo duro con una selezione che non li ha compresi, il tema sembra essere, almeno alla vigilia meno appetibile, superato dai malumori per gli incastri punitivi delle proiezioni per la stampa tutte embargate in contemporanea con quelle ufficiali. Cannes ribadisce di voler essere al centro del cinema dal 14 al 25 maggio esaltando le première con il cast e l'eco attrattiva del tappeto rosso, la stampa si adegui. Per la sicurezza esagera: con la polizia a cavallo di Seine-et-Marne ed è anche un onore, una missione prestigiosa sottolinea il brigadiere capo Jean Emanuel Cotelle, capo dell'Unità equestre dipartimentale della polizia nazionale che con il suo assistente hanno raggiunto la cittadina con i loro cavalli Aldo e Titan per partecipare alla messa in sicurezza del Festival di Cannes. Per dodici giorni, dal 14 al 25 maggio, per questa 72esima edizione, la popolazione della città passerà da 75.000 a più di 200.000 persone. Garantire la sicurezza è diventata una priorità. Quasi 700 agenti di polizia sono mobilitati poi attorno all'evento e 639 telecamere puntate sulla città. Nelle vicinanze del palazzo, le guardie di sicurezza filtreranno i passaggi ai portici. Enormi fioriere in cemento antisfondamento , infine, già come l'anno scorso circoscrivono la Croisette. Stessa protezione anche dalla parte del mare: nessuna barca può avvicinarsi al palazzo.

·         Cannes, Nuovo Cinema Paradiso e il premio 30 anni fa.

Cannes, Nuovo Cinema Paradiso e il premio 30 anni fa. E dire che all’inizio fu un flop e dovettero proiettarlo gratis. Pubblicato venerdì, 17 maggio 2019 da Alessio Ribaudo su Corriere.it. «Quando il film uscì nel novembre 1988, nelle sale italiane, non andò a vederlo nessuno. Gli incassi furono disastrosi, tranne che a Messina, dove il film andò benissimo e non capivamo il perché». Il dubbio che si era posto Peppuccio Tornatore, sul flop iniziale del suo capolavoro «Nuovo Cinema Paradiso» ha, invece, una spiegazione ben precisa. «Gianni Parlagreco non era solo il gestore del cinema Aurora nel pieno centro di Messina ma era un appassionato cinefilo che non si dava pace dell’insuccesso di quella magnifica pellicola — spiega l’avvocato Ninni Panzera, cinefilo e anima di TaoArte e del Taormina Film Fest» — tanto che la tenne in cartellone con ostinazione ma ebbe pure un colpo di genio: invitò la gente a entrare gratis e, solo se il film fosse piaciuto, alla fine avrebbero pagato. È stato un vero trionfo perché nessuno scelse di non pagare». Un successo contagioso. «Io stesso gestivo in città una piccola sala da appena 50 posti dedicata a Don Milani — prosegue Panzera che nel 2014 ha allestito anche apprezzate mostre sui 25 anni del capolavoro di Tornatore — e lo riproposi: ogni sera era stracolma». Sembra una favola nella favola ma proprio il pubblico messinese, probabilmente, tenne in vita quella pellicola. Esattamente così come era successo nel 1981 con «Ricomincio da tre»: ignorato nel resto d’Italia e osannato nella città di Colapesce. «Nuovo Cinema paradiso incassò 120 milioni in tutta Italia e di questi 72 solo a Messina e, a quel punto, ho deciso di invitare Peppuccio per un incontro con gli spettatori della sala Milani — ricorda Panzera da Cannes dove ha appena presentato alla stampa la mostra «Le stelle di Taormina» sui film girati nella perla dello Jonio —. Lui ne fu entusiasta perché, sotto sotto, era curioso di scoprire il perché di quel successo in città». L’incontro avviene davvero alla fine gennaio del 1989 davanti a un pubblico entusiasta. «C’era la gente arrampicata ovunque nella Saletta Milani quella sera - ricorda divertito lo scrittore messinese Fabio Mazzeo, attualmente in classifica con «La solitudine degli amanti» - perché l’entusiasmo di Parlagreco e Panzera era stato contagioso in città e noi stessi giovanissimi cronisti alle prime armi avevamo visto il film alla Milani proprio su invito di Ninni. Aveva ragione perché notammo subito che sarebbe passato alla storia e al regista bagherese tributammo una meritata ovazione». Tornatore, quella sera, rimase colpito. «Lo vidi fra il frastornato e lo smarrito perché, come disse lui, era stata “una carezza in tempo di schiaffi” e per due ore filate si raccontò a cuore aperto. Anzi disse che “la sera prima di addormentarmi, sogno che Messina sia tutto il mondo e che il successo che il film ha avuto qui si possa replicare ovunque”». L’incontro si chiuse con una premonizione. «“Non dico che con questo film voglio vincere l’Oscar ma spero che abbia almeno un’altra opportunità….”». Il regista riprese coraggio e, dopo aver accorciato di alcuni minuti la pellicola, nel maggio del 1989 gli viene assegnato al Festival di Cannes il «Grand prix speciale della giuria». L’anno dopo, nel 1990, la consacrazione: vittoria sia al Golden Globe sia al Premio Oscar come miglior film straniero. Dalla polvere all’altare in un solo anno. In più, con il vanto di essere il primo film ambientato in Sicilia (principalmente nel Palermitano fra Bagheria, Cefalù, Castelbuono, Lascari, Chiusa Sclafani, Palazzo Adriano, Santa Flavia, San Nicola l’Arena e Termini Imerese) a cui hanno partecipato tanti attori e comparse isolani, con protagonisti ispirati a uomini siciliani (L’Alfredo interpretato da Philippe Noiret è tratteggiato sulla figura del fotografo e proiezionista bagherese Mimmo Pintacuda) ma che, in realtà, cambia il racconto cinematografico da «sulla» Sicilia a «dalla» Sicilia. Il motivo è semplice: è una vera e propria metafora di epoche che cambiano e che partendo dall’isola si proiettano e sovrappongono sul mondo intero. Perché «Nuovo cinema paradiso» si basa sul concetto di tempo. C’è il divenire ma anche l’assenza e se il tempo non esiste, le vite delle persone e le idee potranno sempre incontrarsi: basta la magia dell’amore. Come diceva Alfredo al piccolo Totò: «Qualunque cosa farai, amala, come amavi la cabina del Paradiso quando eri picciriddu». Ironia della sorte, il divenire del tempo ha fatto sì che il cinema Aurora chiudesse esattamente come il «Nuovo cinema paradiso» di Giancaldo immaginato da Tornatore ma l’amore per quella pellicola e quella favola messinese è ancora forte.

·         Woodstock, i tre giorni che hanno cambiato il mondo.

Introduzione di Martin Scorsese al libro “Woodstock, i tre giorni che hanno cambiato il mondo” (Hoepli), pubblicata da “Robinson – la Repubblica” 4 marzo 2019. Il mio punto di vista su Woodstock è limitato. Quanto limitato? Dunque, per la maggior parte di quel lungo weekend dell'agosto del 1969 sono rimasto confinato su una piattaforma di circa tre metri di larghezza, proprio a destra del palco, appena dietro una pila di amplificatori, tutto concentrato sui musicisti e le loro performance. Ero uno dei montatori del film che stavano girando. Il mio compito era individuare le sequenze che ci sarebbero servite al momento di montare la pellicola. Avevamo sette cameraman al lavoro per ogni singola esibizione e, nei limiti di quanto riuscissi a comunicare con loro (sorprendentemente bene, considerando tutte le difficoltà del caso), tentavo di dirigerli e indicargli le scene che non potevano vedere, perché i loro occhi non si staccavano dai mirini delle telecamere. In alcuni momenti, poi, dovevo fare i conti con problemi molto più urgenti - come, per esempio, mantenere l'equilibrio in quello spazio stretto e strapieno di persone. Dipendevamo infatti gli uni dagli altri, per la nostra incolumità. Se qualcuno mi avesse spintonato per farsi largo, sarei potuto cadere dalla piattaforma. Ma non è successo nulla di tutto ciò a nessuno di noi. Non c’era modo di procurarsi cibo o di andare in bagno. Non ho quasi mai visto il pubblico, tanto ero concentrato su ciò che accadeva sul palco: semplicemente, era una presenza inquieta e potenzialmente imprevedibile che aleggiava dietro di noi. Ogni tanto vedevo di sfuggita Michael Wadleigh, il regista, con la sua telecamera e le cuffie storte, mentre tentava di comunicare via radiomicrofono con gli altri operatori. Più che altro, riprendevamo ciò che ci era possibile ma curiosamente eravamo fiduciosi (forse per incoscienza giovanile) nel fatto che avremmo portato a New York materiale buono per il montaggio finale. È lì che quest' avventura è iniziata. Avevo incontrato Wadleigh alla scuola di cinema della New York University e lui aveva girato le sequenze in bianco e nero, su pellicola da 16 mm, per il mio primo film. Eravamo nostalgici dei pionieri del rock degli anni 50 - Fats Domino, Little Richard, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry -, un genere già quasi scomparso dai radar. Così ci venne l'idea di organizzare un concerto con tutti loro, e noi lo avremmo filmato. Poi ci giunsero all' orecchio voci di Woodstock. Wadleigh decise di andare là a capire se questa situazione poteva diventare un modello d' ispirazione per ciò che avevamo in mente. Poco dopo ci telefonò dicendo che avremmo dovuto girare noi il film. A parte la passione comune per la musica, nessuno di noi era ciò che si definirebbe un hipster, anche se Wadleigh si era fatto crescere appositamente una bella barba, prima di partecipare a Woodstock. Quando l'avevo incontrato per la prima volta era un giovane del Midwest, ordinatissimo, con i capelli corti e dall' aspetto molto pulito, sempre in camicia. Io all' epoca ancora non possedevo il mio primo paio di jeans. Diciamo che il mio look era da universitario medio. In più, non ero proprio un tipo da campagna. Avevo l'asma, ero allergico praticamente a tutto ciò che la natura aveva da offrire. Eppure eccoci tutti là - affamati, esausti, a lottare contro il fatto che la priorità degli organizzatori di Woodstock non era certo la comodità o l'incolumità di chi girava il film. Avevano problemi molto più urgenti da affrontare. Non so quanta affluenza si aspettassero per quel weekend, ma di certo non mezzo milione di persone. Ed erano in emergenza praticamente sotto ogni punto di vista: cibo, servizi igienici, assistenza medica. Alcune torrette per le luci minacciavano di crollare e il terreno si stava trasformando in un mare di fango. Non è un mistero il motivo per cui così tanta gente era arrivata fino a Woodstock: c'era la possibilità di ascoltare tanti grandi musicisti insieme e in pochi giorni. Ma è da sempre un mistero il fatto che Woodstock sia stato un evento pacifico. Voglio dire: sarebbe potuta andare storta qualunque cosa, in qualunque momento. A volte mi guardavo dietro le spalle e pensavo: "E se qualcosa va male? E se una droga non è buona, o lo è troppo, e questa gente decide di caricare il palco?". Noi, i filmmaker, avevamo le spalle coperte. John Calley, dirigente Warner Bros, aveva acconsentito a coprire i costi del noleggio delle telecamere e dell'acquisto della pellicola per il documentario per una somma di circa 15.000 dollari, che tempo dopo definì come " l'equivalente del costo di un pasto a Las Vegas". Ricordò anche di aver pensato che, in caso avessimo fatto un buco nell' acqua, lui avrebbe comunque recuperato i soldi spesi vendendo il girato come immagini di stock ad altri documentaristi. Comunque non avevamo fondi sufficienti a coprire l'intera realizzazione del film. Ricordo di aver visto Bob Maurice, il nostro produttore, mentre la musica risuonava altissima dietro di lui, al telefono con gente a cui diceva che questo stava diventando un evento storico e che sarebbero stati folli a non investire nell' impresa. Woodstock, il film, sotto molti punti di vista è stato una scommessa giocata sul filo. Credo che, senza il film, il concerto sarebbe poco più di una nota a margine nel contesto sociale e culturale degli anni 60. Ciò che il film ha fatto, e continua a fare, è stato distillare l'esperienza di Woodstock e mantenerla viva e vibrante. La nota a margine è diventata una pietra miliare, un modo, per la mia generazione, di ricordarci chi eravamo. È ancora più significativo che sia stato un modo, per le nuove generazioni, di entrare in contatto con lo spirito anarchico degli anni 60. O meglio, con una parte di quello spirito, quella più gioiosa. Dal canto mio, per vari motivi, ho abbandonato la partita prima che il film fosse terminato. Ma la cosa ebbe un enorme impatto su di me. Tanto che ho poi realizzato altri film dedicati a concerti. Però quell' esperienza mi ha segnato in maniera molto più profonda. Ricordo che mi lamentavo per le condizioni difficili delle riprese. Ma col passare degli anni ho iniziato a pensare a Woodstock, il concerto e il film, come a un momento trascendente nella mia vita, qualcosa che mi ha connesso intimamente alla mia generazione. Sono sicuro che ci siano tracce di quell' esperienza nel modo in cui penso alla mia vita e al mondo in cui viviamo. E ho il sospetto che sia lo stesso per tutti coloro che erano a Woodstock.

Woodstock compie 50 anni: hippie birthday al festival che ha cambiato la storia. Quattro giorni di pace, amore, droga e fango. La fotografia di un'epoca e di un evento che ha cambiato per sempre la storia della musica. Gianni Poglio il 17 maggio 2019 su Panorama. Un trionfo artistico, un evento epocale e un disastro finanziario: sono queste le tre facce del festival musicale più importante di sempre, quello che ha cambiato definitivamente la cultura e l’iconografia della musica dal vivo. Fino quei leggendari giorni dell’agosto 1969 (15,16,17 e 18) nessun organizzatore di eventi aveva mai osato sfidare apertamente nel nome delle “buone vibrazioni” le leggi del caos e della sicurezza. La tempesta perfetta si realizzò grazie all’incontro tra le suggestioni hippie di Alex Lang (manager di gruppi rock minori) e Artie Kornfeld (un discografico della Capitol Records) e l’illimitata disponibilità economica di due businessman rampanti in cerca di investimenti ed emozioni forti: l’avvocato Joel Rosenman e l’ereditiero-milionario John Roberts. Il progetto iniziale dei “fantastici quattro” era costruire uno studio di registrazione a Woodstock, dove si era stabilito in pianta stabile Bob Dylan, ma dopo poche ore di conversazione, l’idea della sala d’incisione svanì e il progetto del più grande raduno rock di sempre prese il sopravvento. L’inizio di un sogno diventato storia ma anche di un mare di guai. Che iniziarono a manifestarsi quando, dopo aver stipulato decine di dispendiosi contratti con artisti e band, scoprirono, a una manciata di settimane dallo show, di non avere un luogo dove tenere il concerto. Solo dinieghi e porte in faccia: a Woodstock e dintorni le amministrazioni comunali e la popolazione temevano l’invasione hippie. A salvare l’utopia dei fantastici quattro e dell’intera generazione dei figli dei fiori ci pensò però il proprietario di un caseificio di Bethel, Max Yasgur, che concesse il suo terreno in affitto per la non modica cifra di 75 mila dollari. Fu comunque l’ultima buona notizia per gli organizzatori. Che alla fine della maratona rock si ritrovarono con un buco da due milioni di dollari ripianati solo all’inizio degli anni Ottanta grazie ai proventi dei diritti discografici e cinematografici. Dal pomeriggio del 15 agosto 1969, il suono delle straordinarie quanto indimenticabili performance dei musicisti diventò paradossalmente la colonna sonora di un gigantesco girone infernale. Le sparute recinzioni non riuscirono a contenere la folla e almeno trecentomila persone entrarono gratis nell’area del concerto, le strade che conducevano al festival diventarono inaccessibili con auto in coda per venticinque miglia. Gia dalle prime ore del mattino del 15 agosto gli unici mezzi che consentirono ai musicisti di raggiungere Bethel furono gli elicotteri noleggiati all’ultimo istante (e a caro prezzo) dagli organizzatori. Scarseggiavano i bagni, il cibo, l’acqua e l’assistenza medica (provvidenziale fu l’intervento di centinaia di volontari e abitanti del posto che garantirono cure, coperte, torte e sandwich al mezzo milione di presenti). A complicare il tutto, la pioggia che trasformò il terreno in fango e un’incalcolabile quantità di droga in libera circolazione tra il pubblico e nel backstage dove le bevande di alcuni musicisti vennero “allungate” da manine anonime con allucinogeni di varia natura. Per quattro giorni lo sconfinato prato di Mister Yasgur si trasformò in uno stato nello stato, senza regole e senza polizia. Inferno e paradiso insieme. I media presenti immortalarono il momento: “A Bethel si balla, si canta, ci si denuda, si fa sesso senza inibizioni e non si dorme mai nel nome e nello spirito dello slogan del festival: pace, amore e musica”.  Tra le rare menti “lucide” in quel contesto, la troupe del regista Michael Wadleigh (di cui faceva parte anche un giovane Martin Scorsese, che trascorse la maggior parte dei quattro giorni del concerto appollaiato su una piattaforma a lato del palco per suggerire ai cameraman chi e che cosa inquadrare) ed Eddie Kramer, il produttore incaricato di registrare l’audio di tutte le esibizioni. "Artisti, manager, security, staff: erano tutti fuori di testa” ricorda Kramer. “A un certo punto un mixer prese fuoco e gli addetti alla sicurezza, in preda all’lsd, iniziarono a danzargli intorno. 'Nessuno lo spegne?' osai chiedere. "Noi non rubiamo il lavoro alle nuvole" fu la risposta…”. Totalmente anarchico fu il festival e totalmente anarchiche, oltre che eccezionalmente ispirate ed improvvisate, furono le performance degli artisti: Richie Havens, visto che i musicisti prima e dopo di lui non riuscivano a raggiungere Bethel a causa del traffico, suonò per tre ore di fila arrivando ad improvvisare dal nulla un brano, Freedom, diventato uno dei momenti cult di Woodstock. Straordinaria anche la performance degli Who, interrotta dall’irruzione sul palco di un tizio che il chitarrista del gruppo, Pete Townshend, allontanò a colpi di manico di chitarra. E poi ancora Janis Joplin, irresistibile e completamente strafatta al tempo stesso, il virtuosismo magico di Santana e il potente rock soul-funk di Sly and Family Stone saliti in scena alle tre di notte. Fino a Jimi Hendrix, il genio, l’ultimo ad esibirsi alle nove del mattino di lunedì 18 agosto davanti a poche migliaia di reduci (gli altri stremati avevano già preso la via di casa). Quando si sfilò la chitarra, qualche secondo dopo la fine dell’ultima canzone, Woodstock era già storia… 

Massimo Cotto per “il Messaggero” il 31 luglio 2019. Chi c'era può battersi le mani, gli altri possono solo mangiarsele. Cinquant'anni fa, dal 15 al 17 agosto 1969, andava in scena contemporaneamente il più importante festival rock (anche se non il più bello, quello fu Monterey, anno di grazia 1967), il più splendido paradosso della musica popolare e la più grande delle illusioni: il festival di Woodstock, qualcosa che in breve travalicò il suo senso musicale per diventare simbolo di un nuovo modo di pensare, essere, agire. Oggi, per festeggiare degnamente le nozze d'oro, Michael Lang, che nel 1969 fu il principale promotore, sta cercando in tutti i modi di replicare quel raduno, incontrando enormi difficoltà. Le notizie dell'ultima ora dicono che se ci sarà, non sarà nel luogo originale, ma lontano mille miglia: a Columbia, nel Maryland, al Merriweather Post Pavillon, un anfiteatro naturale che può contenere al massimo 20 mila persone. Niente, in confronto alle 500 mila che fecero di Woodstock il più fantasmagorico dei festival dello scorso millennio. Woodstock sta al rock come il 68 alla società italiana. Con una sostanziale, enorme differenza: ogni volta che ci si avvicina all'anniversario del 68, scatta implacabile la triade di domande: fu vera gloria? Ha cambiato davvero qualcosa o tutto è stato assorbito dal sistema? Quali valori sopravvivono di quel movimento? Su Woodstock, invece, tutti sembrano d'accordo nell'identificare in quei tre giorni il punto più alto e puro dell'essenza rock, il momento di cristallizzazione di un sogno, quello che il rock potesse diventare la mappa di un nuovo mondo che aveva come capitali le tre parole più usate in quel raduno: pace, amore, musica. Io vado controcorrente. Rivolgo a me stesso e al mondo del rock le stesse domande riservate al 68: fu vera gloria? Ha cambiato davvero qualcosa o tutto è stato assorbito dal sistema? Quali valori sopravvivono di quel movimento? Ma andiamo con ordine a analizziamo i fatti, partendo dal primo, grande paradosso: a Woodstock non c'è stato nessun concerto, mai, perché le autorità cittadine, dopo aver analizzato a fondo i possibili benefici, ma anche i sicuri rischi di un festival di quelle dimensioni in una cittadina di 7 mila abitanti, all'ultimo momento decisero di non concedere l'autorizzazione. Gli organizzatori, disperati, si misero alla ricerca di un'altra sede, che individuarono a Bethel, a 87 chilometri da Woodstock, dove una signore chiamato Max Yasgur, un contadino di origini russo-ebraiche nonché principale produttore di latte della contea, era proprietario di un enorme campo in grado di ospitare tutta la gente del mondo. Sui biglietti era già stato stampato il nome di Woodstock e dunque Woodstock fu. Per la storia, non per la geografia. Secondo paradosso: Yasgur era un reazionario, lontano mille miglia dagli ideali hippie. Diede in affitto il suo campo senza pensarci troppo. Del resto, gli organizzatori si aspettavano al massimo 40 mila persone. Yasgur divenne quindi un eroe della controcultura, santificato da quei figli dei fiori di cui non condivideva alcun ideale. Terzo paradosso: quel sogno che pareva infrangibile, quell'utopia pacifica e folle che la musica potesse fermare persino le guerre («mettete dei fiori nei nostri cannoni», per semplificare) annegò miseramente tre mesi dopo, ad Altamont, durante un concerto dei Rolling Stones. Gli Hell's Angels, inspiegabilmente utilizzati come servizio d'ordine, uccisero a coltellate un ragazzo, Meredith Hunter, mentre cercava stupidamente di raggiungere Mick Jagger sul palco. Nelle immagini si vede chiaramente che Hunter impugnava una pistola, che, tuttavia, non fu mai ritrovata. Poco importa. Conta che quella fu la fine del sogno. Game Over. Ecco perché sorrido nel vedere come Woodstock continui a essere celebrato anno dopo anno. Non che mi dispiaccia, anzi. È solo che non ho mai visto un accadimento della storia ricevere tanti peana pur avendo conosciuto una vita e un'influenza così brevi nel tempo. Forse, a bene vedere, è questo il quarto paradosso: celebrare non quel che è stato, ma ciò che poteva essere: un sogno lungo e bello, un'idea che poteva trasformarsi in realtà come a Cana Gesù trasformò l'acqua in vino. Di sicuro, quel che rimane è la musica. Straordinaria. Crosby, Stills, Nash & Young e Johnny Winter, Who e Jefferson Airplane, che simboleggiavano due diverse rivoluzioni, quella dei mods inglesi e quella psichedelica dei ragazzi californiani. Joan Baez, al sesto mese di gravidanza, che commuove con We Shall Overcome e le canzoni di Dylan. E poi Joe Cocker che lancia l'urlo che lo manderà dritto nella storia, quel ruggito incredibile che trasforma With A Little Help From My Friends dei Beatles da deliziosa marcetta a inno esistenziale. I Ten Years After e The Band di Robbie Robertson, Sly & The Family Stone e Santana, gli immensi Creedence e i lisergici Grateful Dead, la cui esibizione fu purtroppo segnata da problemi tecnici. Se ne accorsero in pochi, perché erano tutti troppo fatti di erba o troppo assorbiti dalla bellezza di un rito collettivo che si stava compiendo, tra la pioggia che cadeva e la musica che diluviava. Nessuno si rese neanche conto che Janis Joplin salì sul palco imbottita di droghe e incapace di dare il meglio di sé. Alla gente bastava che ci fosse, che fosse lì a condividere quel momento. Alla fine, per me, le immagini più belle sono due. La prima è la copertina del disco triplo, che ritrae Nick e Bobbi Ercoline, due ragazzi che stavano insieme da pochi mesi e che il fotografo immortalò in una foto che fece epoca: loro due avvolti da una coperta, per ripararsi dal freddo e proteggere il loro amore; ci sono riusciti, perché stanno ancora insieme, cinquant'anni dopo. La seconda è di Jimi Hendrix, che firmò un'irripetibile versione di The Star Spangled Banner, l'inno americano. Come a dire: cambiamo la storia, cambiamo musica. Jimi fu il più pagato delle star che si esibirono a Woodstock, tanto che Michael Lang si lasciò scappare una frase a mezza voce, detta ai suoi collaboratori, che, intercettata, procurò qualche ora di panico: «Che nessuno si lasci scappare quanto prende Hendrix». In una foto si vede lui, che morirà poco dopo, con giacca bianca ornata di perline, jeans, catenina al collo e bandana in testa. Ha gli occhi socchiusi, guarda la chitarra. Sembra distante da tutto e da tutti. Come se attorno a lui non ci fosse nulla e nessuno. Come se avesse in qualche modo capito che quel sogno oceanico di smuovere le masse e costruire un mondo alternativo era destinato a spegnersi come sigaretta nel vento. Hendrix è perso nel suo, di mondo. In un festival che aveva cercato di toccare le corde giuste, lui continuava a toccare le corde della sua chitarra.

·         La culla dell’hip hop quando la musica era la voce del ghetto.

La culla dell’hip hop quando la musica era la voce del ghetto. Fu un antidoto alla guerra tra le gang. Dagli scantinati quei suoni, che venivano dai sound system di Kingston (Giamaica), sbancarono per la prima volta le classifiche con “rapper’s delight”, della Sugarhill gang. Poi gli argini si ruppero e quel genere conquistò il pianeta. Paolo Delgado il 30 Maggio 2019 su Il Dubbio. Sembra assurdo oggi, dopo decenni di dominio incontrastato di un hip- hop che ha contaminato e spesso colonizzato l’intera produzione musicale ma c’è stato un tempo in cui quella musica nascente era davvero per pochi intimi. Per i ragazzi che vivevano nel quartiere più disastrato della Mela, il South Bronx, e per i pochi sparsi nel mondo con antenne capaci di cogliere le prime quasi impercettibili scosse dei terremoti in arrivo.

Non è stato un attimo fuggente. Ci sono voluti parecchi anni perché dagli scantinati del Bronx quella musica, che derivava direttamente dai Sound System di Kingston, Giamaica, sbancasse per la prima volta le classifiche con Rapper’s Delight, della Sugarhill Gang. Ma Clive Campbell, in arte Dj Kool Herc, nato a Kingston nel 1955, arrivato nel Bronx a 12 anni, la suonava già da sei anni, dall’estate del ‘ 73, per gli homies, direttamente nelle cantine del palazzo dove viveva la famiglia. Quando il pubblico diventò troppo folto spostò piatti e casse, un Sound System a tutti gli effetti, nei locali del Bronx. La scena musicale è sempre piena di pionieri, padrini e fondatori. Dj Kool Herc però fondatore lo è stato davvero: la grammatica dell’hip- hop la ha scritta lui, isolando le parti strumentali segnate dal basso, ‘ the Break’, mixandole, estendendole. Lavorava col funk americano, impossibile trovare tracce di reggae o del nascente dancehall nella sua musica. Ma l’eredità giamaicana era nel metodo, perché nell’isola dei Rasta e dei Rude Boys i djs come Lee Perry e U- Roy erano protagonisti già da un pezzo. Fu ancora lui a battezzare b- boys e b- girls i ragazzi che facevano miracoli di acrobazia nella break dance e ad adoperare il nuovo stile, con la sua competizione feroce tra djs, come antidoto non violento alla guerra tra bande che insanguinava il Bronx. Anche questo, dopo decenni di gangsta, è difficile ricordarlo.

L’hip- hop, come il meglio della cultura popolare del secolo scorso, è nato nei ghetti e per gli abitanti dei ghetti. Musica e cultura delle strade. A differenza degli altri pionieri arrivati subito dopo di lui e che dal giamaicano di new York avevano imparato tutto, Grandmaster Flash e Afrika Bambataa, Dj Kool Herc, non ha mai voluto registrare. Come il fondatore del jazz, Buddy Bolden, non c’è modo di ascoltarlo. La musica del ghetto del tardo 900, oltre a un padre, ha anche una madre, ancora meno riconosciuta di lui. A contrabbandare l’hip- hop oltre i confini del South Bronx è stata Sylvia Robinson, nata Vanterpool. Negli anni ‘ 50, con il duo Mickey & Sylvia, aveva piazzato un hit clamoroso che ancora oggi, una volta o l’altra, hanno sentito tutti, ‘ Love is Strange’. Cresciuta ad Harlem, la ex ‘ Little Sylvia’, a 44 anni, aveva mantenuto un orecchio capace di ascoltare quel che le strade avevano da dire. Fu lei, nel 1979, a produrre Rapper’s Delight e tre anni dopo The Message, il pezzo di Grandmaster Flash and the Furious Five, che ruppe definitivamente gli argini. Fino a quel momento il rap era stato storia del Bronx. Dopo The Message diventò storia della musica.

·         Gli artisti senza pensione.

Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera” 4 febbraio 2019. A quasi mezzo secolo dalla consegna del premio Oscar ad Amarcord, il protagonista Bruno Zanin ha avuto una di quelle sorprese che ti cambiano la vita. In peggio: ha scoperto che non può avere la pensione come attore. «Mi sono rivolto a un patronato di Domodossola. Dall' estratto conto Inps risulta che, nei 143 giorni trascorsi sul set fra gennaio e luglio del 1973, ero dipendente del Tennis club Diano Marina. Assurdo. Per aver diritto alla minima, dovrei versare altri cinque anni di contributi». Zanin abita ai piedi del monte Rosa, a Vanzone, in una vecchia baita. I capelli del Titta Biondi, che nel capolavoro di Federico Fellini incarnò l'amico d' infanzia del futuro regista, sono diventati grigi. Dal 2018 riscuote l’assegno sociale concesso ai meno abbienti: 470,90 euro al mese. «Per arrotondare, ho inventato il libro a chilometro zero». Parla del suo romanzo autobiografico Nessuno dovrà saperlo, scaturito da una violenza sessuale subita a 13 anni, a opera di un missionario che poi si sarebbe impiccato in Venezuela. «Chi legge questo libro, non lo dimenticherà», ha scritto Ferdinando Camon. Fu pubblicato la prima volta dall' editore Tullio Pironti e tradotto anche in spagnolo. Ora l'autore se lo ristampa in proprio e lo invia a chi ne fa richiesta attraverso la sua pagina Facebook.

Com' è possibile che un attore figuri all' Inps come giardiniere?

«Non ho mai messo piede in quella località ligure, anzi, a dirla tutta, nemmeno so dove sia. Magari il Tennis club Diano Marina apparteneva al produttore Franco Cristaldi. Eppure sul libretto di lavoro c' è il timbro del legale rappresentante "Società F.C. Srl Amarcord". Mi sono spariti i contributi su altri film, produzioni Rai in appalto, spot pubblicitari, un paio di fotoromanzi, una stagione teatrale. Addirittura dal carteggio Enpals-Inps risulta che a retribuirmi come attore ci furono persino due società di scommesse sportive».

Crede che anche Fellini fosse in regola come raccattapalle o allibratore?

«Come no». (Ride).

Che tipo era il regista?

«Insuperabile. Pochi potevano eguagliarlo. Mi scelse per caso fra il pubblico di Cinecittà, dopo che il suo amico Gustavo Adolfo Rol, il sensitivo torinese, gli aveva profetizzato: "Smetti di cercare il protagonista. Ti troverà lui". Appena scritturato, a me Rol disse: "Sta' attento, Zanin. Federico è un vampiro"».

Addirittura.

«Era istrione, ruffiano, egocentrico, bugiardo patologico. In pubblico affettuoso marito della moglie Giulietta Masina; dietro le quinte tirannico carceriere di Anna Giovannini detta la Paciocca, amante tenuta a sua disposizione dentro una torre di avorio. Governava la troupe in modo imperioso, urlava, pareva Mosè sceso dal Sinai. Tolse il saluto al fratello Riccardo, colpevole d' aver firmato un film da due soldi con il cognome Fellini. Per una beffa del destino morì nella stessa stanza del Policlinico Gemelli di Roma dov' era spirato il congiunto».

Non starà esagerando?

«Chieda a Moraldo Rossi, il suo primo aiuto regista. Comunque con me Federico era tenerissimo. Mi scriveva letterine gentili. Si vantava d' avermi raccomandato a Giorgio Strehler per Il campiello al Piccolo di Milano. Saputo che ero senza soldi, mi scritturò per Ginger e Fred, pagato profumatamente per non fare nulla nel ruolo di un paziente bendato, quindi irriconoscibile: secondo lui dovevo restare per sempre il Titta di Amarcord».

Le voleva bene.

«E io a lui, moltissimo. Mi ha dischiuso una carriera durata quasi vent' anni e interrotta solo per mia volontà. Non gli ho perdonato due bidoni. Quando mi diede buca in un ristorante cinese di via Cavour, a Roma, dov' ero ad aspettarlo con uno dei miei due figli, all' epoca undicenne, armato di macchina fotografica per immortalare l'evento. E quando a Parigi recitavo in francese Eugène Ionesco al Théâtre de la Ville. Mi aveva promesso di venirmi a vedere con Giulietta Masina. Gli feci tenere due posti in prima fila alla première. L' indomani trovai in camerino un biglietto di scuse: era dovuto andare a cena con la moglie dall' ambasciatore italiano. Peccato che il diplomatico la sera prima fosse con la consorte a teatro proprio per incontrarvi Fellini. Era fatto così. Nella sua villa di Fregene imitava al telefono la voce della colf per non farsi trovare: "Il maestro non è in casa"».

Mi risulta che lei abbia avuto rapporti un po' spigolosi nel mondo del cinema, per esempio con Gian Maria Volonté.

«Teneva le distanze, ma non solo con me. Per assomigliare allo statista dc nel film Il caso Moro, mi trattava come se fossi davvero un brigatista. Un 9 aprile, mentre recitavamo, giunse negli studi della De Paolis una grande torta di compleanno. Lui credeva che gliel' avesse mandata Armenia Balducci, la sua compagna di allora. Ne diede una fetta a tutti, tranne che a me. Quando scoprì che il dolce mi era stato regalato dal mio agente, rimediò una porzione fra i presenti. "Non sapevo che compissimo gli anni nello stesso giorno", si scusò. "Non sembri un ariete. Per me sei del segno del calamaro. Butti inchiostro per nasconderti, solo tu sai da che cosa"».

Perché rinunciò al mestiere di attore?

«È un mondo di cartapesta, di non realtà. Il luogo ideale per alcuni, una gabbia di sofferenza per altri. Io non ho fatto nulla per entrarvi, vi sono stato portato in braccio dalla fortuna. Volevo indietro la mia vita selvaggia di prima».

Da allora di che ha campato?

«Mi sono buttato in avventure scriteriate, come quella di andare in Bosnia a fare per tre anni il Brancaleone degli aiuti umanitari fai da te. Ci ho ricavato corrispondenze di guerra per la Radio Vaticana, Der Spiegel , Famiglia Cristiana , una volta anche per il Corriere della Sera . Dopo un periodo di depressione nera, ho ripreso a girare il mondo».

Dov' è stato di recente?

«A camminare per tre mesi in Turchia, sulla via Licia, sentiero impervio con panorami inimmaginabili. Mentre ero lì, un giovane film-maker comasco, Alberto Gerosa, mi ha chiesto via Facebook se fossi disposto a lavorare in un documentario-verità che stava girando a Hong Kong. Il personaggio che dovevo impersonare era un prete accusato di pedofilia, fuggito all' estero per evitare l'arresto. Così ho tirato dritto fino in Cina».

Come riesce a pagarsi questi tour?

«La provvidenza ogni tanto mi fa l'occhiolino. Per la parte a Hong Kong, per esempio, mi hanno ben retribuito. Vivo di poco o niente, giro con lo zaino, dormo in tenda. Non ho l'auto, non ho vizi, non fumo, non assumo droghe. Ho amici che mi vogliono bene, il miglior investimento che potessi fare nella vita. E nessuno di loro è famoso, se si escludono Raffaele La Capria, il suo ex genero Francesco Venditti e il compianto Edward Melcarth, il pittore-scultore prediletto dal miliardario Malcom Forbes che affrescò l'hotel Pierre di New York e disegnò gli occhiali di Peggy Guggenheim. Mi raccattò in una calle veneziana e mi educò. Andavo a colazione dalla collezionista con lui e il mio cane Whisky».

So che ha compiuto molte volte il Cammino di Santiago di Compostela.

«Non mi tiri dentro a competizioni di questo genere, le odio, "io ne ho fatti tre", "e io quattro", "ma io li ho fatti d' inverno". Il Cammino di Santiago è diventato la via Veneto di un tempo. Pochi lo affrontano con lo spirito delle origini. I pellegrini fighetti lo percorrono per sfoggiare materiale tecno da migliaia di euro, Zanin per ammazzare la disperazione che ogni tanto gli serra la gola».

Qual è il suo più grande desiderio?

«Chiedere scusa a tutte le persone che ho ferito e scandalizzato con comportamenti da filibustiere. Vorrei dire al regista Marco Tullio Giordana che sono molto addolorato per aver perso la sua amicizia. Mi ha rivelato un dono, la scrittura, che non sapevo di possedere. È una gran bella anima, non lo sento da una quindicina di anni. Colpa mia. Talvolta mi capita di essere cattivo perché le mie rotelle non sempre funzionano».

Da chi ha avuto di più nella vita?

«Dalla buonanima di mia madre Adele, che mi ha insegnato sin da piccolo a credere nel bene, a perdonare, a dare una mano a chi è in difficoltà. Ho avuto un'infanzia edenica nei campi del Veneziano. Portavo i fiori alla Madonna, ripetevo all' infinito la giaculatoria "Gesù e Maria ve vogio tanto ben" insegnatami da mia nonna Teresina, cadevo in estasi. Durante una di queste trance, vidi una donna che affogava con due bambine in un canale. La sera ne parlai in casa. L' indomani fu trovata una mamma annegata con le figliolette: s' era suicidata».

Crede ancora in Dio?

«Sì, ma ultimamente sono più dubitante che credente. Temo che Lui non si fidi più dell'umanità, che ci abbia abbandonato al nostro destino. In duemila anni di cristianesimo lo abbiamo troppo deluso. Siamo egoisti, intolleranti, pronti a maltrattarci a vicenda, finti. Sento di essere fasullo anch' io. Recito una commedia infinita. Lo dimostra questa intervista, in cui ho fatto di tutto per sembrare simpatico, intelligente e originale».

Può dirsi felice?

«A volte mi capita di esserlo per qualche momento: un gatto che viene a strofinarsi tra le mie gambe, un cane che mi scodinzola, un bimbetto che mi sorride, un amico che mi telefona. Cose minime eppure enormi. Quanto l'infelicità di non riuscire più a godere d' essere vivo in questo mondo sgangherato che mette paura».

·         Unesco: quanto paghiamo per diventare patrimonio dell’umanità.

Unesco: quanto paghiamo per diventare patrimonio dell’umanità, scrive Milena Gabanelli (ha collaborato Adele Grossi) il 29 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera". Siamo il Paese più bello del mondo: è un fatto. La maggior parte delle bellezze mondiali, dichiarate Patrimonio dell’Umanità, si trovano in Italia. Un totale di 54 meraviglie fra monumenti, parchi, centri storici, luoghi culturali espressamente dichiarati «unici» dall’Unesco, l’organizzazione delle Nazioni Unite che ad oggi tutela 1092 luoghi sparsi in tutto il mondo. Il riconoscimento è così prestigioso che quasi ogni anno puntiamo a incrementare la lista e di solito ci riusciamo: tranne la Valle D’Aosta e il Molise, ogni nostra regione ha uno o più siti ammessi al Patrimonio, confermando all’Italia il record indiscusso fra i 167 Paesi che possono sfoggiare il marchio Unesco. Tutta questa bellezza ha un prezzo. Per far funzionare l’istituzione e portare avanti, fra gli altri, l’oneroso compito di «identificare, proteggere e trasmettere alle generazioni future» l’immenso patrimonio mondiale, l’Unesco, solo quest’anno ha potuto contare su un budget di 780.590.945 di dollari. Di questi, solo 20.363.217 ce li hanno messi le Nazioni Unite, perché al resto devono pensare i singoli Stati, con un contributo obbligatorio annuale calcolato in base a reddito e popolazione. L’Italia ha versato 12.237.220 milioni di dollari nel solo 2018. Prima di noi ci sono Giappone (31.601.935 dollari), Cina (25.858.800 dollari), Germania (20.860.085 dollari), Francia (15.864.635 dollari), Regno Unito (14.571.695 dollari) e Brasile (12.482.095). Siamo il settimo contributore ordinario, ma il primo finanziatore per contributi volontari extra-bilancio: 28.054.715 nel 2017. Cosa vanno a finanziare tutti questi soldi? Non la tutela del patrimonio, perché per quello non sono previste entrate ordinarie. L’organizzazione, infatti, ha piuttosto il compito principale di «costruire la pace attraverso la cooperazione internazionale in materia di istruzione, scienza e cultura». Proprio «all’istruzione» va la cifra maggiore del budget: 206.341.273, nel 2017, mentre 318.5 milioni di dollari sono impiegati per pagare gli stipendi del personale e mandare avanti gli uffici, e per le missioni che i rappresentanti Unesco organizzano sui luoghi per verificare lo stato di salute dei siti tutelati e fornire eventuali consigli alle amministrazioni locali. Per quanto riguarda le necessità concrete necessarie a tutelare il patrimonio mondiale, l’Unesco vi destina solo il 3% del proprio budget: nel Fondo World Heritage Convention 1972, nel 2017, si contavano precisamente 30.554.167 dollari e, di questa cifra, poco o nulla entra nelle casse degli Stati in cui effettivamente si trovano le «meraviglie» universali. «Noi non riceviamo soldi dall’Unesco — ci hanno confermato dal Ministero degli Affari Esteri — ma versiamo molto perché abbiamo molto patrimonio e perché ci interessa tutelare i Paesi in via di sviluppo», quelli che, invece, effettivamente hanno potuto contare sulle risorse dell’organizzazione, destinate per la maggior parte a Brasile, Afghanistan, Iraq, Giordania e Myanmar. Diverso destino dovrebbe toccare alle risorse dell’ulteriore specifico Fondo istituito proprio per la tutela del patrimonio mondiale, ovvero solo 1.791.968 dollari, considerando i contributi obbligatori, cui per fortuna si aggiungono le donazioni e i contributi volontari versati da alcuni Stati, fra i quali però questa volta l’Italia non figura. Sta di fatto che, dal 1972 a oggi, l’unico contributo ottenuto dall’Unesco ammontava a 20.000 dollari ricevuti nel 1994 per un corso dal titolo: «Informazioni, documentazione e utilizzo delle pubblicazioni dell’Unesco sul patrimonio culturale e naturale». In sostanza, l’Unesco certifica che siamo belli, ma alla tutela concreta poi, gli Stati devono pensarci da sé, il che vale anche per il patrimonio istituito nel 2003 per i beni «immateriali»: come «la dieta mediterranea», «l’arte della pizza napoletana», quella «dei muretti a secco», iscritta appena un mese fa; la «pratica agricola della vite ad alberello di Pantelleria» e numerose altre ancora che — vale la pena chiederselo — non avrebbero in fondo la stessa autorevolezza senza il brand Unesco? Non devono nutrire alcun dubbio le amministrazioni locali del nostro Paese che per candidarsi non badano a spese. L’ultima assemblea annuale del World Heritage Committee, chiamata a decidere sulle nuove candidature, si è tenuta a luglio scorso a Manama, la capitale del Bahrein. All’elenco è stata ammessa la città di Ivrea perché «esprime una visione moderna del rapporto tra produzione industriale e architettura». Per iscrivere la città piemontese si sono sborsati 452.624 euro; meno del mezzo milione di euro che avrebbe tirato fuori la Regione Veneto per far ottenere il marchio alle colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene, poi bocciate. Dovrebbe valerne la pena perché, portando a casa la targa Unesco, si può attirare turismo, anche se le ricadute effettive sono difficili da misurare. Un dato piuttosto sconfortante diffuso dall’ufficio statistico dell’Unione europea, che calcola il numero di impiegati nel settore culturale, vuole per il momento l’Italia appena al 19esimo posto, su 28 presi in considerazione. In compenso ci sono i finanziamenti che il Ministero dei Beni Culturali può destinare ai beni iscritti al Patrimonio in base a una apposita legge del 2006. Da sempre, a ricevere di più c’è il sito «I Longobardi, i luoghi del potere» cui sono stati destinati oltre 750.000 euro solo negli ultimi 4 anni; mentre nel 2017, 105.000 euro sono andati ai paesaggi vitivinicoli del Piemonte, 100.000 euro per l’arte rupestre della Val Camonica, per Modena, Pompei e le strade nuove di Genova. In totale, negli ultimi 10 anni, il Ministero ha finanziato il nostro patrimonio con 25.434.706,24 euro, mentre quelli che abbiamo versato nello stesso periodo obbligatoriamente nelle casse dell’organizzazione ammontano a 120 milioni di dollari. Davvero possiamo permetterci una spesa così imponente? O sarà come diceva Francis Bacon: «Non c’è bellezza perfetta che non abbia qualcosa di sproporzionato».

·         La lingua italiana è un diritto.

La lingua italiana è un diritto. Pubblicato domenica, 27 ottobre 2019 da Corriere.it. Qui sotto un estratto dal volume «Il sentimento della lingua», edito da il Mulino (domande di Giuseppe Antonelli, in dialogo con Luca Serianni).

Mi piacerebbe dare insieme a te uno sguardo al futuro. La prima domanda è, allora: come ti piacerebbe che fosse l’italiano dei prossimi anni o decenni?

«Mi piacerebbe che fosse una lingua condivisa; in tre direzioni. All’interno della comunità dei parlanti, la padronanza linguistica dovrebbe estendersi ai registri non colloquiali, quelli che vanno oltre la contingenza quotidiana, oltre il “lessico fondamentale” definito da Tullio De Mauro. È un auspicio che comporta prima di tutto, com’è ovvio, un incremento del livello culturale medio, a partire dalla lettura e dal contatto con la grande tradizione letteraria. La seconda direzione riguarda i “nuovi italiani”, ai quali bisogna assicurare tutti i diritti dei nativi, a partire dalla lingua. Non basta che un bambino sia nato in Italia: imparerà certamente, andando all’asilo e a scuola, un italiano parlato e colorito regionalmente indistinguibile da quello dei suoi coetanei, e con loro condividerà l’orizzonte di vita (giochi, immaginario televisivo eccetera), ma senza il retroterra linguistico assicurato da chi abbia genitori e nonni italofoni. Si tratta di un capitale prezioso, sul quale è doveroso investire. Terza direzione: l’italiano all’estero. Ha dell’incredibile — in presenza di condizioni non favorevoli (scarso peso della lingua italiana nel mondo, numero relativamente ridotto di parlanti nativi, penuria di risorse finanziarie) — l’interesse che suscita l’italiano all’estero. Continuare a trascurare questo aspetto sarebbe grave: sia per quel che riguarda l’investimento simbolico sull’identità italiana, sia per quel che riguarda, concretamente, gli aspetti economici, a partire dal turismo, un settore colpevolmente in crisi».

«Il sentimento della lingua» (il Mulino, pp. 146, euro 14)Quali sono le possibili linee di espansione della nostra lingua?

«Sono quelle tradizionali, inevitabilmente legate a stereotipi: il Paese del sole e del mare, dell’arte, della musica e della storia. Un tempo si diceva anche della gioia di vivere; ma questo mito, falso già allora, oggi sarebbe intollerabile e possiamo lasciarlo perdere. Né il sole né i resti archeologici hanno rapporto diretto con la lingua, certo. Ma il soggiorno in un luogo e la conoscenza del territorio sono una delle condizioni che favoriscono l’interesse per i suoi abitanti e per la lingua in cui si esprimono».

Cosa manca per arrivare a questo risultato?

«Manca un investimento adeguato in questi settori. Vanno potenziati i corsi d’italiano all’estero, gestiti dalla Società Dante Alighieri e dagli istituti di cultura. Ma anche questo in sé non basta. Insisto sul turismo in senso lato e cito il problema dei centri minori, dei piccoli paesi, in stato di abbandono, con tutto quello che ciò comporta in termini di degrado idrogeologico del territorio. Molto spesso sono posti interessanti, dal punto di vista artistico e urbanistico, adatti a un turismo di qualità […]».

Luca Serianni (1947), professore emerito di Storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma. Si può reagire alla pressione dell’inglese?

«Sì, attraverso un esercizio di salutare autodisciplina. I parlanti più consapevoli possono evitare anglicismi d’accatto e ancora di più dovrebbero farlo le istituzioni pubbliche, i direttori di reti televisive, di giornali eccetera. Non si dica che si tratta di una battaglia persa in partenza: anche nel mondo dell’informatica, riconosciuto regno dell’inglese, accanto ad attachment si sente sempre di più allegato. Nelle lingue i conti non si fanno mai una volta per tutte, almeno finché c’è ancora qualche parlante in vita. Ma, tra i tanti possibili rischi, questo non è un rischio che riguarda gli italiani».

Internet, i social network, le chat, i messaggini stanno modificando le nostre abitudini comunicative e dunque anche linguistiche. È un bene? È un male?

«Né un bene, né un male: è un fatto. Un fatto, però, da non sopravvalutare in termini linguistici. I messaggini sono diventati ormai obsoleti per i più giovani, che ricorrono ad altri mezzi di comunicazione, anche vocali. È un settore in forte evoluzione e dubito che possa esercitare un influsso davvero profondo sulla lingua. Semmai il rischio, che non vedo solo io, è che attraverso i social le persone diano il peggio di sé, senza alcuna remora (diciamo pure: senza nessuna salutare dose di ipocrisia). Violenza, risentimento, rancore, attacchi personali. Ma tutti aspetti in cui la lingua non è che il docile mezzo di espressione: l’importante è controllare, e all’occorrenza reprimere, i propri istinti peggiori».

Giuseppe Antonelli (1970), professore ordinario di Storia della lingua italiana all’Università di PaviaPiù in generale: cosa si potrebbe o dovrebbe fare in concreto per l’italiano?

«Creare le condizioni per un suo rafforzamento. All’interno, puntando sulla scuola e badando a non far perdere alle nuove generazioni il contatto con la grande cultura scritta, del passato (i classici letterari che è essenziale accostare a scuola) e del presente (saggistica nelle più varie ramificazioni); attivando o potenziando i corsi di lingua per i “nuovi italiani” (esemplare è quello che in proposito si fa in Germania, per esempio). All’estero, incrementando promozione e insegnamento dell’italiano nel mondo. Tutto questo non è solo un auspicio da anime belle; c’è dietro, insisto, un preciso risvolto economico e non volerlo cogliere rappresenta una notevole responsabilità da parte della classe politica [...]».

L’ultima domanda è: in tutto questo cosa può fare un linguista? Cosa hai cercato e cercherai di fare tu in prima persona?

«Come altri studiosi, il linguista può avvertire la responsabilità di coinvolgere più ampie cerchie di persone nelle cose che studia. Tutti abbiamo nella nostra bibliografia saggi che, in partenza, sapevamo che nessuno avrebbe letto e che, non di rado, si scrivono con una certa voluttà intellettuale [...]. Per quel che mi riguarda, scrissi tanti anni fa un articolo sui vari nomi di colore usati per descrivere l’urina da parte di un gruppo di medici primo-ottocenteschi: credo che non l’abbiano letto più di cinque o sei persone me compreso (e lo sapevo in partenza). Da tempo questo gusto non ce l’ho più e sono diventato molto sensibile alla divulgazione (buona divulgazione, mi auguro). Io stesso, come lettore, ho interesse per libri con questo taglio che riguardano la storia contemporanea o il diritto, per citare due àmbiti che non appartengono alla mia formazione remota. E per quel che riguarda la lingua italiana possono essere numerose le occasioni in questo senso; più che per la biologia molecolare o per la fisica quantistica, non meno affascinanti, ma che richiedono una certa confidenza con nozioni preliminari, per le quali non basta in genere quel che si è a suo tempo studiato al liceo (e comunque non tutti hanno percorsi liceali alle spalle). Poi, certo, tutto può essere oggetto di studio, e a una certa età, lo sappiamo bene, tenersi allenati è un ottimo modo per fronteggiare l’inevitabile declino cognitivo legato all’invecchiamento. Nel caso della lingua italiana, avverto anche l’esigenza di un certo impegno civile: diffondere la padronanza della lingua e della sua storia è un modo per rafforzare il senso di appartenenza a una comunità».

·         Le radici meridionali della lingua italiana.

La Divina Commedia è razzista, via dalla scuola. Proposta shock di "Gherush92", organizzazione di ricercatori e professionisti delle Nazioni Unite: "Contenuti islamofobici e antisemiti." Globalist 13 marzo 2012.

Stereotipi, luoghi comuni, contenuti e frasi offensive, razziste, islamofobiche e antisemite che difficilmente possono essere comprese e che raramente vengono evidenziate e spiegate nel modo corretto. E' il contenuto di alcune terzine della Divina Commedia che, secondo 'Gherush92', organizzazione di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti, razzismo, antisemitismo, islamofobia, andrebbe eliminata dai programmi scolastici o, quanto meno, letta con le dovute accortezze. ''La Divina Commedia - spiega Valentina Sereni, presidente di Gherush92 - pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all'antisemitismo e al razzismo''. Sotto la lente di ingrandimento in particolare i canti XXXIV, XXIII, XXVIII, XIV. Il canto XXXIV, spiega l'organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: ''Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell'apostolo che tradì Gesù)''; ''giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio, persona infida, traditore'' (De Mauro, Il dizionario della lingua italiana). Il significato negativo di giudeo è esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell'antisemitismo. "Studiando la Divina Commedia - sostiene Gherush92 - i giovani sono costretti, senza filtri e spiegazioni, ad apprezzare un'opera che calunnia il popolo ebraico, imparano a convalidarne il messaggio di condanna antisemita, reiterato ancora oggi nelle messe, nelle omelie, nei sermoni e nelle prediche e costato al popolo ebraico dolori e lutti''. E ancora, prosegue l'organizzazione, ''nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù; i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti''. ''Nel canto XXVIII dell'Inferno - spiega ancora Sereni - Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l'Islam come una eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli. L'offesa - aggiunge - è resa più evidente perché il corpo ''rotto'' e ''storpiato'' di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un'offesa''. Anche i sodomiti, cioè coloro che ebbero rapporti "contro natura", sono puniti nell'Inferno: I sodomiti, i peccatori più numerosi del girone, sono descritti mentre corrono sotto una pioggia di fuoco, condannati a non fermarsi. Nel Purgatorio i sodomiti riappaiono, nel canto XXVI, insieme ai lussuriosi eterosessuali. ''Non invochiamo né censure né roghi - precisa Sereni - ma vorremmo che si riconoscesse, in maniera chiara e senza ambiguità che nella Commedia vi sono contenuti razzisti, islamofobici e antisemiti. L'arte non può essere al di sopra di qualsiasi giudizio critico. L'arte è fatta di forma e di contenuto e anche ammettendo che nella Commedia esistano diversi livelli di interpretazione, simbolico, metaforico, iconografico, estetico, ciò non autorizza a rimuovere il significato testuale dell'opera, il cui contenuto denigratorio è evidente e contribuisce, oggi come ieri, a diffondere false accuse costate nei secoli milioni e milioni di morti. Persecuzioni, discriminazioni, espulsioni, roghi hanno subito da parte dei cristiani ebrei, omosessuali, mori, popoli infedeli, eretici e pagani, gli stessi che Dante colloca nei gironi dell'inferno e del purgatorio. Questo è razzismo che letture simboliche, metaforiche ed estetiche dell'opera, evidentemente, non rimuovono''. ''Oggi - conclude Sereni - il razzismo è considerato un crimine ed esistono leggi e convenzioni internazionali che tutelano la diversità culturale e preservano dalla discriminazione, dall'odio o dalla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e a queste bisogna riferirsi; quindi questi contenuti, se insegnati nelle scuole o declamati in pubblico, contravvengono a queste leggi, soprattutto se in presenza di una delle categorie discriminate. E' nostro dovere segnalare alle autorità competenti, anche giudiziarie, che la Commedia presenta contenuti offensivi e razzisti che vanno approfonditi e conosciuti. Chiediamo, quindi, di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali o, almeno, di inserire i necessari commenti e chiarimenti''.

COSÌ LA SICILIA INFLUENZÒ LA LINGUA. Valeria Ferrante 17 marzo 2011 su La Repubblica.  «La Sicilia, insieme ad altre regioni, concorse all' eliminazione dell' uso del cosmopolitico latino medioevale, creando le premesse per lo sviluppo di una "lingua letteraria". Attribuirle la nascita dell' italiano, sarebbe comunque improprio. Quello che Foscolo, Cattaneo, Manzoni avevano sognato, che l' italiano diventasse davvero la lingua comune degli italiani, è solo oggi una realtà. Prima, non esistendo un popolo che lo parlasse, l' italiano era rimasto segno di unità e identità solo peri pochi che sapevano leggere e scrivere: dunque peri letterati». Lo afferma Tullio De Mauro, patriarca dei linguisti, ragionando sull' importanza dell' italiano, come fattore determinante per la nascita dell' unificazione politica, e su come la Sicilia possa aver influito nel processo di formazione di una nostra identità nazionale e quindi alla nascita della lingua comune. «Il contributo della Sicilia è stato molteplice - continua lo studioso - Particolare rilievo ebbero le opere di Verga, Pirandello, De Roberto, Gentile, o di autori oggi dimenticati come Giovanni De Cosmi. In un contesto di corale rinnovamento si inscrisse anche l' esperienza della Scuola siciliana che ebbe un ruolo certamente significativo. Con la nascita della poesia d' amore si determinò uno spostamento dell' asse culturale che, dal nord della Francia, con i trovatori della Provenza, si sarebbe posto in Italia e nello specifico in Sicilia». Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Stefano Protonotaro, Cielo d' Alcamo, Giacomino Pugliese, Rinaldo d' Aquino - quasi tutti funzionari statali - raccoltisi nel 1230 intorno alla corte di Federico II, formarono la cosiddetta Scuola siciliana, che assunse un ruolo d' avanguardia nella formazione della prima espressione poetica italiana. «Primi in Italia furono i poeti di Sicilia - scrive Noemi Ghetti nel suo libro "L' ombra di Cavalcante e Dante" (edizioni L' Asino d' oro, 230 pagine) - a trasformare, nel passaggio alla scrittura, le parlate volgari che si pensano germinate spontaneamente dal latino, modellandole, ciascuno, secondo le esigenze della personale espressione poetica: singulari arbitrio obnoxiae, dice Dante». È dunque dalla lirica d' amore, un espediente escogitato da un uomo innamorato per farsi meglio comprendere dall' amata, ignara di latino, che si può ricondurre l' origine della nostra lingua letteraria: « Oi lassa innamorata - recitò una sera, nella stanza dorata di Federico II, Guido delle Colonne - contar vo' la mia vita, e dire ogni fiata, come l' amor m' invita». Se fu Dante il primo che, a partire dai dialetti - le lingue volgari teorizzate nel "De vulgari eloquentia"- si pose la «questione della lingua» avviando la sua ricerca di un «volgare illustre», fu proprio la nostra isola, privilegiata perché lontana e in opposizione alla Roma dei papi custode del latino dell' Impero, che divenne un centro di grande sperimentazione artistica, scientifica, e soprattutto letteraria. Citando un passo del "De vulgari eloquentia di Dante", la Ghetti prosegue: «tutto quanto gli italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano (...) tutto quanto, al tempo loro i migliori spiriti italici riuscivano a fare, veniva primamente alla luce presso la corte di sì nobili sovrani. E poiché trono del regno era la Sicilia, è avvenuto che, ogni cosa i nostri maggiori producessero in volgare, si chiami siciliana; nome che anche noi manteniamo e che i posteri non potranno mutare». A far da ponte tra la Scuola siciliana e gli stilnovisti fiorentini fu Guittone, lo stesso che Dante cita nel XXIV canto del Purgatorio: «O frate, issa vegg' io (...) il nodo che l' Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch' io odo! ». L' innovativa ricerca poetica siciliana, eredità riconducibile in parte agli arabi, oltre che ai greci, si lega all' immagine femminile, quel «dir d' amore» che il Sommo poeta nella "Vita nuova" rintraccia nell' uso letterario della «lingua del sì». Il più vibrante, carnale e anticonvenzionale tra gli intellettuali della Magna curia è certamente Cielo D' Alcamo: « Rosa fresca aulentissima ch' apari inver' la state le donne ti disiano, pulzell' e maritate », declama il poeta che «per originalità delle immagini e la freschezza della lingua in cui esprime il desiderio rimane un unicum nella poesia delle origini», come scrive la Ghetti. Ma lo studio originale e acuto sulla natura dell' amore, «meraviglioso senso» che «stringe con furore», della Scuola siciliana si esaurì, con la morte di Federico II (1250), cui seguì il rapido declino del dominio imperiale nel Sud, conteso da Angioini e Aragonesi. L' eredità dei poeti federiciani, dei quali pochissimi manoscritti ci sono giunti, fu raccolta nell' Italia centrale dai cosiddetti poeti siculo-toscani poiché i modesti poeti insulari del XIV secolo ignorarono completamente i loro illustri predecessori. Questo perché molti intellettuali toscani erano infatti vissuti alla corte di Federico II: Firenze, diventata una capitale economica in forte espansione. «La scelta del fiorentino scritto trecentesco - prosegue De Mauro - a lingua che fosse comune e specificatamente propria dell' Italia, si andò affermando già nel secolo Quattrocento nelle nascenti amministrazioni pubbliche dei diversi stati in cui il Paese era diviso e si consolidò poi trai letterati del XVI secolo quando sempre più spesso la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio cominciò a dirsi italiano e non più fiorentino o toscano. Mancarono ancora per secoli quelle condizioni di unificazione politica, economica e sociale e di sviluppo della scolarità elementare che in altri paesi europei portavano i popoli a convergere verso l' uso effettivo delle rispettive lingue nazionali». «Se quindi è vero che il volgare illustre fu tenuto a battesimo in Sicilia - aggiunge Franco Lo Piparo, ordinario di Filosofia del Linguaggio - ciò è avvenuto perché il nostro idioma ha una vicinanza più che naturale con il toscano, o con quello che sarebbe in seguito divenuto "l' italiano" di Dante, Petrarca e Boccaccio, ed ecco spiegato anche il motivo per cui fra le due regioni, nel secondo decennio del Duecento, si generò un fitto scambio culturale e letterale. Detto ciò non credo che sia il caso di andare a rivendicare un primato, se non addirittura una primogenitura. La domanda che invece dovremmo porci è forse questa: perché non vi fu un prosieguo? La Sicilia passò all' italiano in maniera del tutto silenziosa, come intellettualmente silenziosi furono i secoli successivi all' esperienza federiciana. Si è dovuto aspettare la letteratura verista perché qualcosa all' orizzonte riemergesse. Un romanzo come "I Malavoglia" non poteva per esempio non essere che opera di un siciliano. Si tratta infatti del primo romanzo in cui l' italiano non è più la lingua dell' uomo colto, ed in cui i personaggi, degli umili pescatori, non usano per dialogare neppure quella parlata tipica degli incolti, essi piuttosto usano un italo-siciliano, a metà strada tra lingua e dialetto, con cui Verga e lo stesso amico Capuana si esprimevano, e con il quale noi ci esprimiamo tutt' oggi. A mio avviso ebbe più influenza sulla formazione della lingua italiana "I Malavoglia" che non la scuola dei poeti siciliani alla corte di Federico II».  Valeria Ferrante

LA LINGUA ITALIANA È NATA IN SICILIA. NEGLI SPAZI BIANCHI DELLE PERGAMENE DEI NOTAI. rai.it.  In questo articolo che vi segnaliamo si parla di alcune interessanti "scoperte" che riguardano le origini della lingua italiana: il ritrovamento, in una biblioteca lombarda, di alcune poesie della scuola siciliana. Si tratta di frammenti di poesie importanti, ascrivibili tra gli altri ad autori come Giacomo da Lentini, "il Notaro" fondatore della Scuola, e addirittura a Federico II, l’imperatore-poeta che ne fu il geniale promotore, trascritte sul retro di pergamene che riportano sentenze di condanna di alcune famiglie guelfe. La trascrizione induce a ipotizzare l’esistenza di un piccolo canzoniere di liriche della Scuola siciliana, circolante in Lombardia in quegli anni. Si intacca in questo modo una consolidata ricostruzione storica che fa dei toscani, all’indomani della caduta degli Svevi e del partito ghibellino a Benevento (1266), i soli eredi della poesia siciliana. Il ritrovamento dà forza all'ipotesi che circa un secolo di poesia d'amore siciliana sia stato "nascosto" da un "sistematico lavoro di risemantizzazione in funzione spirituale e cristiana del lessico volgare delle origini" processo al quale ha preso parte anche Dante.

LA LINGUA ITALIANA È NATA IN SICILIA, TRA GLI SPAZI BIANCHI DEI NOTAI. Noemi Ghetti parcodeinebrodi.blogspot.com il 22 giugno 2013. Il ritrovamento di alcune poesie della scuola siciliana in una biblioteca lombarda da parte del ricercatore Giuseppe Mascherpa riporta in primo piano il dibattito sulle reali origini della lingua italiana. Ne è esempio la scoperta di almeno quattro testi poetici siciliani sul verso di pergamene recanti sentenze di condanna di esponenti di grandi famiglie guelfe per violazioni di norme sui tornei. A quei tempi, si sa, i notai erano spesso poeti, e riempivano in tal modo gli spazi bianchi, al fine di impedire che ci fossero aggiunte illecite a margine degli atti. Si tratta di frammenti di poesie importanti, ascrivibili tra gli altri ad autori come Giacomo da Lentini, ‘il Notaro’ fondatore della Scuola, e addirittura a Federico II, l’imperatore-poeta che ne fu il geniale promotore. Avvenuta nel cruciale ventennio 1270-1290, la trascrizione induce a ipotizzare l’esistenza di un piccolo canzoniere di liriche della Scuola siciliana, circolante in Lombardia in quegli anni. E va ad aggiungersi al recente ritrovamento di un altro manoscritto mutilo, rinvenuto da Luca Cadioli nella soffitta di una dimora nobiliare milanese, che contiene l’unica fedele traduzione dal francese del Lancelot du lac, il famigerato romanzo sugli amori di Lancillotto e Ginevra, ricordato da Francesca da Rimini nel canto VI dell’Inferno. Le trascrizioni dei siciliani sono interessanti soprattutto perché lasciano intravvedere l’originale veste linguistica delle liriche, finora perduta tranne che in un singolo caso, e sono antecedenti alla versione toscanizzata attraverso cui le conosciamo. Se ne ricostruisce, è quanto qui ci importa dedurre, il panorama di una cultura letteraria laica, diffusa nel Duecento nella penisola italiana ben al di là di quanto lo schema tradizionale lasci immaginare. Si intacca in questo modo una consolidata ricostruzione storica che fa dei toscani, all’indomani della caduta degli Svevi e del partito ghibellino a Benevento (1266), i soli eredi della poesia siciliana. E in effetti viene subito in mente che l’Italia settentrionale accolse catari e trovatori in fuga, all’indomani della feroce crociata albigese che disperse la civiltà della vicina Provenza. E che nell’Italia settentrionale persisteva una diffusa tradizione di cantari francesi d’amore e d’avventura che, ripresa felicemente nella Ferrara quattrocentesca dall’Orlando innamorato di Boiardo, fu poi riportata nel Furioso di Ariosto alla norma anche linguistica del fiorentino canonizzato nel 1524 dal cardinale Pietro Bembo. La reazione della Chiesa contro la magnifica fioritura laica del Duecento fu infatti durissima, se ancora nel febbraio del 1278 nell’Arena di Verona un immane rogo arse gli ultimi 166 catari, e nel 1285 fu assassinato il filosofo parigino Sigieri di Brabante. Scomunicato e condannato a morte, attendeva il perdono papale nella curia di Orvieto, dove si era rifugiato dopo che nel 1277 il vescovo di Parigi Tempier aveva giudicato eretiche le proposizioni dell’averroismo latino che avevano animato, col De amore di Andrea Cappellano, la poesia delle origini fino allo Stilnovismo di Guinizzelli e Cavalcanti. Il delitto certo non passò inosservato negli ambienti Stilnovisti. Così nell’ultimo decennio del Duecento venne la conversione di Dante dall’amore per la donna all’amore per Dio, che procede per tappe successive dalla Vita Nova attraverso il Convivio fino alla Commedia. Venne, nell’anno 1300 in cui si colloca il viaggio oltremondano della Commedia, l’esilio da 

Firenze firmato da Dante e la precoce morte di Cavalcanti...Nel Poema sacro Federico II è condannato all’Inferno (X) nel girone degli eretici «che l’anima col corpo morta fanno», a cui è destinato il maestro e «primo amico», dotato sì di «altezza d’ingegno», ma che «ebbe a disdegno» la fede. Pier delle Vigne, poeta siciliano segretario dell’imperatore, è collocato tra i suicidi, e racconta a Dante il proprio dramma in modo involuto, perché la colpa imperdonabile dei Siciliani, agli occhi di Dante, è l’avere tentato una ricerca sull’amore passione carnale, al di fuori della religione, inventando una nuova lingua. Sordello da Goito, trovatore che aveva trovato fortuna in Provenza ed era rientrato in Italia nel 1269, di origini mantovane al pari di Virgilio, è collocato invece nel Purgatorio (VI-VIII), al pari di altri poeti del Duecento. Il pregiudizio nei confronti dei Siciliani ha dunque radici antiche, e un’analisi attenta dei testi danteschi e le soluzioni che via via si imposero nella secolare ‘questione della lingua’ dimostrano come, a dispetto dei riconoscimenti, esso abbia origine da Dante stesso. Fu il Sommo poeta a costituirsi come ‘padre’ della moderna lingua italiana, oscurando cento anni di ricerca della poesia d’amore da cui essa era nata, con un sistematico lavoro di risemantizzazione in funzione spirituale e cristiana del lessico volgare delle origini. Ancora nell’Ottocento un critico sensibile come Francesco de Sanctis dimostra una certa sordità nei confronti dei poeti della Scuola siciliana, e si è dovuto attendere fino al 2008 per avere la prima edizione critica completa e commentata in tre volumi dei Meridiani. Noemi Ghetti

Dante perde la paternità: la lingua italiana è nata in Sicilia. I poeti siciliani diffusi in Lombardia prima che in Toscana. Le poesie Giacomo da Lentini, "il Notaro" trovate in una biblioteca lombarda Noemi Ghetti globalist l'11 gennaio 2017. Il ritrovamento di alcune poesie della scuola siciliana in una biblioteca lombarda da parte del ricercatore Giuseppe Mascherpa riporta in primo piano il dibattito sulle reali origini della lingua italiana. Il tema è stato a suo tempo riproposto da Cesare Segre che ha sottolineato come proprio al «cambiamento di prospettiva» nella ricerca sia dovuto l'improvviso rivelarsi, negli ultimi tempi, di manoscritti duecenteschi in luoghi fino ad ora insospettabili. Ne è esempio la scoperta di almeno quattro testi poetici siciliani sul verso di pergamene recanti sentenze di condanna di esponenti di grandi famiglie guelfe per violazioni di norme sui tornei. A quei tempi, si sa, i notai erano spesso poeti, e riempivano in tal modo gli spazi bianchi, al fine di impedire che ci fossero aggiunte illecite a margine degli atti. Si tratta di frammenti di poesie importanti, ascrivibili tra gli altri ad autori come Giacomo da Lentini, "il Notaro" fondatore della Scuola, e addirittura a Federico II, l'imperatore-poeta che ne fu il geniale promotore. Avvenuta nel cruciale ventennio 1270-1290, la trascrizione induce a ipotizzare l'esistenza di un piccolo canzoniere di liriche della Scuola siciliana, circolante in Lombardia in quegli anni. E va ad aggiungersi al recente ritrovamento di un altro manoscritto mutilo, rinvenuto da Luca Cadioli nella soffitta di una dimora nobiliare milanese, che contiene l'unica fedele traduzione dal francese del Lancelot du lac, il famigerato romanzo sugli amori di Lancillotto e Ginevra, ricordato da Francesca da Rimini nel canto V dell'Inferno. Adesso come allora, ancora una volta per noi, «Galeotto fu il libro e chi lo scrisse»: questi ritrovamenti suonano come una convalida dell'originale idea che la nostra lingua nasca agli inizi del Duecento dalla rivolta dei poeti siciliani contro il latino ecclesiastico, sviluppata nel 2011 nel saggio L'ombra di Cavalcanti e Dante (L'Asino d'oro edizioni). Le trascrizioni dei siciliani sono interessanti soprattutto perché lasciano intravvedere l'originale veste linguistica delle liriche, finora perduta tranne che in un singolo caso, e sono antecedenti alla versione toscanizzata attraverso cui le conosciamo. Se ne ricostruisce, è quanto qui ci importa dedurre, il panorama di una cultura letteraria laica, diffusa nel Duecento nella penisola italiana ben al di là di quanto lo schema tradizionale lasci immaginare. Si intacca in questo modo una consolidata ricostruzione storica che fa dei toscani, all'indomani della caduta degli Svevi e del partito ghibellino a Benevento (1266), i soli eredi della poesia siciliana. E in effetti viene subito in mente che l'Italia settentrionale accolse catari e trovatori in fuga, all'indomani della feroce crociata albigese che disperse la civiltà della vicina Provenza. E che nell'Italia settentrionale persisteva una diffusa tradizione di cantari francesi d'amore e d'avventura che, ripresa felicemente nella Ferrara quattrocentesca dall'Orlando innamorato di Boiardo, fu poi riportata nel Furioso di Ariosto alla norma anche linguistica del fiorentino canonizzato nel 1524 dal cardinale Pietro Bembo. La reazione della Chiesa contro la magnifica fioritura laica del Duecento fu infatti durissima, se ancora nel febbraio del 1278 nell'Arena di Verona un immane rogo arse gli ultimi 166 catari, e nel 1285 fu assassinato il filosofo parigino Sigieri di Brabante. Scomunicato e condannato a morte, attendeva il perdono papale nella curia di Orvieto, dove si era rifugiato dopo che nel 1277 il vescovo di Parigi Tempier aveva giudicato eretiche le proposizioni dell'averroismo latino che avevano animato, col De amore di Andrea Cappellano, la poesia delle origini fino allo Stilnovismo di Guinizzelli e Cavalcanti. Il delitto certo non passò inosservato negli ambienti Stilnovisti. Così nell'ultimo decennio del Duecento venne la conversione di Dante dall'amore per la donna all'amore per Dio, che procede per tappe successive dalla Vita Nova attraverso il Convivio fino alla Commedia. Venne, nell'anno 1300 in cui si colloca il viaggio oltremondano della Commedia, l'esilio da Firenze firmato da Dante e la precoce morte di Cavalcanti. Nel Poema sacro Federico II è condannato all'Inferno (X) nel girone degli eretici «che l'anima col corpo morta fanno», a cui è destinato il maestro e «primo amico», dotato sì di «altezza d'ingegno», ma che «ebbe a disdegno» la fede. Pier delle Vigne, poeta siciliano segretario dell'imperatore, è collocato tra i suicidi, e racconta a Dante il proprio dramma in modo involuto, perché la colpa imperdonabile dei Siciliani, agli occhi di Dante, è l'avere tentato una ricerca sull'amore passione carnale, al di fuori della religione, inventando una nuova lingua. Sordello da Goito, trovatore che aveva trovato fortuna in Provenza ed era rientrato in Italia nel 1269, di origini mantovane al pari di Virgilio, è collocato invece nel Purgatorio (VI-VIII), al pari di altri poeti del Duecento. Il pregiudizio nei confronti dei Siciliani ha dunque radici antiche, e un'analisi attenta dei testi danteschi e le soluzioni che via via si imposero nella secolare 'questione della lingua' dimostrano come, a dispetto dei riconoscimenti, esso abbia origine da Dante stesso. Fu il Sommo poeta a costituirsi come 'padre' della moderna lingua italiana, oscurando cento anni di ricerca della poesia d'amore da cui essa era nata, con un sistematico lavoro di risemantizzazione in funzione spirituale e cristiana del lessico volgare delle origini. Ancora nell'Ottocento un critico sensibile come Francesco de Sanctis dimostra una certa sordità nei confronti dei poeti della Scuola siciliana, e si è dovuto attendere fino al 2008 per avere la prima edizione critica completa e commentata in tre volumi dei Meridiani. Interessa qui segnalare a margine, nel ristretto numero degli studi 'inattuali' del secolo scorso come quelli di Bruno Nardi e Maria Corti, l'originale giudizio gramsciano dei Quaderni del carcere sul Duecento e Dante. Se è forse più conosciuto il saggio sul canto X dell'Inferno contenuto nei Quaderni (1931-32), con esplicite prese di distanza da Croce e importanti messaggi in codice destinati all'"ex amico" Togliatti, certo meno noto è l'apprezzamento di Gramsci per Guido Cavalcanti. Le sue parole, che lo erigono a «massimo esponente» della rivolta al pensiero teocratico medievale e del consapevole uso del volgare contro la romanitas e Virgilio, furono riprese quasi alla lettera da Gianfranco Contini. La Commedia è per Gramsci, che fu fine linguista, il «canto del cigno medievale», e il suo lavoro di latinizzazione del volgare segna la crisi della rinascita laica e il passaggio all'umanesimo cristiano. Leggere la Commedia «con amore» è atteggiamento da «professori rimminchioniti che si fanno delle religioni di un qualche poeta o scrittore e ne celebrano degli strani riti filologici». Apprezzarne i valori estetici, scrive a Iulca in una lettera dal carcere del 1931 mettendola in guardia da una trasmissione acritica del poema ai figli, non vuol dire condividerne il contenuto ideologico.

Scuole - Le tre scuole, siciliana, siculo-toscana, stilnovo. Skuola.net il 19/6/2019.

LA SCUOLA SICILIANA.

Nella produzione poetica siciliana si riscontra una comunanza di temi e di stili riconducibili alla presenza di un caposcuola, Iacopo da Lentini, che rielabora il modello provenzale. Con i siciliani la poesia diventa un genere nel quale il testo in versi si distacca definitivamente dalla musica. Non va dimenticato poi che l’aspetto più rivoluzionario di questa scuola consiste nella creazione e nell’adozione di un codice poetico in lingua volgare. L’attenzione dei poeti della Suola Siciliana si concentra totalmente sull’amore no, cioè perfetto, essi inoltre cercano di esaltare, tramite similitudini tratte dall’ambito naturalistico e scientifico, lo splendore dell’amata (che appare sempre meno concreta, quasi sublimata e divinizzata, anticipando quanto avverrà in Guinizelli e negli stilnovisti). Sul piano delle strutture metriche con la scuola siciliana si affermano definitivamente nella tradizione letteraria italiana tre forme principali: la canzone di argomento sublime, la canzonetta con temi narrativi e spesso dialogati e il sonetto, quasi sicuramente inventato da Iacopo da Lentini. La lingua poetica usata dai siciliani è di livello alto, curata sotto l’aspetto lessicale e ricca di artici retorici: alla base troviamo il volgare siciliano, privato di ogni residuo dialettale e fortemente influenzato dal periodare latino.

LA LIRICA SICULO-TOSCANA La cultura poetica siciliana non sopravvive alla ne del dominio svevo nell’Italia meridionale in seguito alla battaglia di Benevento. Fortunatamente, la ricca esperienza poetica elaborata alla corte di Federico non scompare ma si trasferisce al nord nell’area emiliana e toscana. A differenza dei siciliani, i poeti di questa nuova fase della lirica non possono essere identificati con il termini unitario di “scuola” per la grande diversità che li caratterizza sia sul piano della poetica sia su quello del linguaggio. Questi poeti si ispirano e al modello siciliano e a quello provenzale apportando importanti novità sul piano tematico e formale. Per quanto riguarda le scelte contenutistiche accanto al tema amoroso, ricompaiono i riferimenti cronachistici, la tematica morale e soprattutto quella politica. Innovativa è l’adozione di un volgare toscano alto. In Italia viene introdotta per la prima volta dai rimatori toscani la ballata, sconosciuta ai siciliani.

LO STILNOVO La nuova corrente poetica si sviluppa nel fertile crocevia culturale che lega le città di Bologna e Firenze. Precursore dello stilnovo è il bolognese Guido Guinizelli. In seguito lo stilnovo si sviluppò in toscana e in particolare a Firenze. È stato Gianfranco Contini ad attribuire per primo allo stilnovo il carattere di “scuola poetica”, individuandone i presupposti teorici nella congruenza di obiettivi, nell’adesione a una poetica comune e nella condivisione di un linguaggio lirico nuovo per forma e temi. Nello stilnovo abbiamo una rielaborazione e una selezione dei temi della tradizione precedente: alcuni di questi (come la devozione dell’uomo all’amata) sopravvivono; altri (come le immagini tratte dai bestiari o dal mondo marinaresco) scompaiono; altri ancora (come l’immagine della donna angelo) assumo maggiore pregnanza di significato nella concezione più spirituale e approfondita della passione amorosa, elaborata dagli stilnovisti. Il motivo della gentilezza e della nobiltà dell’animo appare intimamente unito a quello dell’amore, di conseguenza se ne deduce che tale nobiltà non è legata alla stirpe ma solo alle qualità personali. Questo concetto era già stato espresso da alcuni trovatori provenzali, nei quali, però, ci si riferiva solo al contesto sociale della corte; al contrario con lo stilnovo ci ritroviamo in ambito cittadino. Gli stilnovisti rifiutano nei propri componimenti qualsiasi altro tema che non sia quello amoroso. Protagonista assoluta della poesia stilnovista è la gura femminile, che diventa tramite fra l’uomo e la sfera divina. La donna esercita una funzione salvifica non solo sull’amante, ma anche su tutti coloro che le si avvicinano. Nello stilnovo la donna rivolge il saluto e lo sguardo, ma non colloquia più con l’amante ed, inoltre, è lodata non più per le sue virtù estetiche e mondane, ma per quelle spirituali. A livello stilistico e linguistico, nello stilnovo, troviamo una sintassi piana e lineare, la scelta di una lingua cittadina ma colta e raffinata, la rinuncia a forme plebee, un limitato uso di artifici.

L’italiano deriva dal siciliano? Pietro Cociancich su patrimonilinguistici.it. Com’è noto, sono molti i miti esistenti sulle lingue regionali del nostro Paese. Tra di essi, uno dei più diffusi è quello che l’italiano derivi dal siciliano, visto che questa lingua è la prima che ha sviluppato una tradizione poetica. Questa impostazione però è scorretta: vediamo di farci luce.

Alle origini del mito. Federico II di Svevia, sotto il cui regno e auspici fiorì la Scuola siciliana. Lo stesso imperatore scrisse alcuni componimenti in volgare siciliano.

La “scuola siciliana”. Le prime testimonianze di letteratura in volgare in territorio italiano nacquero in Sicilia sotto la dinastia sveva (metà del XIII secolo). Il grande prestigio culturale che l’imperatore Federico II di Hohenstaufen seppe dare alla propria corte diede vita a una scuola poetica “siciliana”. A questa scuola poetica appartenevano molti dei membri della cancelleria reale, come notai e giudici, ma anche lo stesso imperatore Federico II e suo figlio Enzo di Sardegna. Essi prendevano ispirazione, nei temi e nello stile, dalla poesia provenzale, che parlava soprattutto di amore cortese. Le innovazioni letterarie degli eruditi siciliani (che in realtà venivano un po’ da tutta l’Italia meridionale governata da Federico) furono molto rilevanti per la storia della letteratura occidentale: per esempio Giacomo da Lentini(circa 1200-1260) è considerato l’inventore della metrica del sonetto. Dal punto di vista linguistico, i lirici siciliani utilizzarono una forma aulica del volgare siciliano isolano (senza una precisa forma standard), arricchendolo di latinisimi e di francesismi di origine colta e utilizzati nell’ambiente cortigiano di Federico. Insomma, una versione di siciliano molto variabile a seconda dell’autore, ma caratterizzata da un linguaggio molto ricercato.

L’eredità letteraria. Manfredi, figlio illegittimo di Federico II e ultimo sovrano svevo della Sicilia. In seguito alla morte di Federico II, la monarchia sveva entrò velocemente in declino, che i suoi discendenti non riuscirono a impedire. Con la fine della stabilità garantita dall’imperatore Hohenstaufen, anche la civiltà cortese siciliana che aveva creato scomparve presto nel dimenticatoio. L’eredità poetica della scuola siciliana venne però conservata da alcuni copisti e raccolta dalla prima generazione di poeti toscani, come Guittone d’Arezzo (1230-1294); e molti dei temi e delle sperimentazioni linguistiche dei poeti siciliani vennero ripresi anche da autori successivi, come Dante Alighieri. L’Alighieri fu un grande estimatore della lirica siciliana e del volgare in cui essa si esprimeva, tanto da fargli affermare nel suo De Vulgari Eloquentia: Comincerò esercitando l’intelligenza nell’esame del siciliano: in effetti questo volgare sembra avocare a sé una fama superiore agli altri, perché tutto ciò che gli Italiani fanno in poesia si può dire in siciliano, e perché conosco molti maestri dell’isola che hanno cantato con gravità, come nelle canzoni Amor che l’aigua per lo foco lassi e Amor, che lungiamente m’hai menato.

In generale possiamo dire dunque che la poesia siciliana influenzò in modo rilevante quella in toscano. Ma come si è arrivati ad affermare che la lingua italiana ha origine dal siciliano?

Un equivoco linguistico. Questione di vocalismo tonico. Le differenze linguistiche tra siciliano e toscano sono molto rilevanti: per esempio, per quello che riguarda il vocalismo tonico, ossia l’inventario vocalico della lingua. E proprio una questione legata al vocalismo determinerà il diffondersi dell’equivoco di cui tratto in questo articolo. Vediamo la cosa più nel dettaglio. Il vocalismo tonico siciliano si distingue in modo netto da quello italiano-toscano, e in generale da quello di quasi tutte le lingue romanze. L’italiano ha un sistema di 7 vocali: a, é, è, i, ó, ò, u. Per questo viene definito eptavocalico. 

Il siciliano invece ha un vocalismo basato su 5 vocali: a, è, i, ò, u. Dunque viene definito pentavocalico. Ecco qualche esempio di confronto tra parole latine, siciliane e toscane che ti aiuterà a capire meglio la questione del vocalismo.

BELLU -> bèddu (italiano bèllo)

TELA -> tila (toscano téla)

NIVE -> nivi (toscano néve)

FILU -> filu (toscano filo)

FOCU -> fòcu (toscano fòco)

VOCE -> nuci (toscano vóce)

NUCE -> nuci (toscano nóce)

LUNA -> luna (toscano luna)

Ovviamente questo sistema non è esente da variazioni locali: in ampie zone del siciliano (per esempio la città di Palermo, ma anche il territorio del Ragusano) sono presenti dittongazioni come biéddu o fuòcu. Si ritene che questo vocalismo sia stato causato da alcune innovazioni locali e forse dall’influenza della pronuncia bizantina (il greco rimase diffuso in Sicilia per molti secoli nel Medioevo), che avrebbe condizionato l’antica pronuncia di *téla, *névi, *vóci. Gli autori siciliani, benché nei fatti usassero una varietà colta sopradialettale con molti prestiti latineggianti o di origine provenzale, mantennero nella loro scrittura il carattere del volgare siciliano autentico, sistema pentavocalico incluso.

Un problema di tradizione. Allora perché a noi sono arrivate poesie siciliane che seguono il vocalismo del toscano, apparendo molto italiane e poco siciliane?

Dante Alighieri fu un grande estimatore della lirica siciliana, pur conoscendola solo in forma toscanizzata. I copisti toscani, quando trascrissero le poesie della scuola siciliana, decisero di rendere “più leggibili” (per sé stessi) i testi, e cambiarono deliberatamente il sistema vocalico siciliano in quello italiano. Gli autori toscani successivi, che non avevano avuto accesso agli originali, conobbero la lirica siciliana solo nella veste toscanizzata. Di qui si sviluppò la credenza che il siciliano avesse influenzato l’italiano. C’è anche da considerare che nell’opinione di molti autori dell’epoca il “volgare” italiano fosse una lingua unica da nord a sud, che si era frammentata per via della caduta dell’uomo ai tempi della Torre di Babele (era l’opinione espressa nel De Vulgari Eloquentia da Dante). Oggi noi sappiamo che le cose sono andate diversamente e che siciliano e italiano sono due lingue differenti. Ma ai tempi non era così. Gli intellettuali dell’epoca hanno pensato che tra siciliano e toscano non dovesse esserci una grande differenza, dato che uno poteva essere benissimo una varietà dell’altro.

Equivoci letterari e linguistici. Le trascrizioni toscaneggianti portarono anche ad alcuni imprevisti: difatti, nella versione toscana non tutte le rime siciliane combaciavano. Questo inconveniente (piuttosto regolare) venne interpretato o come una licenza poetica o come un’imperfezione stilistica (mentre invece la soluzione era più semplice: era una rima che funzionava con il vocalismo siciliano; tolto quello, anche la rima veniva meno). Da questo equivoco nacque la cosiddetta rima siciliana, cioè una rima sbagliata apposta, con cui i toscani credevano di omaggiare la lirica siciliana!

Ecco alcuni esempi di rima che in siciliano funzionano, in toscano no:

Morire/avere (in siciliano muriri/aviri)

Distrutto/sotto (in siciliano distruttu/suttu)

Croce/luce (in siciliano cruci/luci)

Esempi di "rima imperfetta alla siciliana" sono presenti, per esempio, anche nella Divina Commedia. Ecco per esempio nel Canto X dell’Inferno (vv. 69-71):

Di sùbito rizzato gridò: “Come?

dicesti ‘elli ebbe’? Non viv’elli ancora?

Non fiere li occhi suoi lo dolce lume?”

L’altro inconveniente, con molte più conseguenze a lungo termine, fu la credenza che i siciliani avessero realmente scritto le proprie poesie in quella lingua, all’apparenza così diversa da quella parlata sull’isola. Ne era convinto anche Dante che, sempre nel De Vulgari Eloquentia, afferma: Dico dunque che, se si prende il volgare siciliano secondo la parlata locale media, sulla quale dovrebbe basarsi il giudizio, questa lingua non è minimamente degna dell’onore della preferenza, perché è pronunciata con una certa lentezza, come in Tragemi d’este focora, se t’este a bolontate.

Se invece lo prendiamo dall’uso dei migliori Siciliani, come si può osservare può osservare nelle succitate canzoni, non differisce in nulla dalla lingua più degna di lode. Noi siamo a conoscenza della forma linguistica originaria delle liriche siciliane perché un componimento (uno solo!) si è salvato dalla furia toscanizzante dei copisti. Si tratta di Pir meu cori alligrari, di Stefano Protonotaro. A esso vanno aggiunti anche diversi frammenti di altre liriche del tempo.

Possiamo dire che l’italiano deriva dal siciliano o no?

La teoria del siciliano padre dell’italiano viene vista con favore da due categorie di persone:

chi ritiene che tutti i "dialetti" siano delle sorta di dépendance dell’italiano (nell’ambito del cosiddetto "italoromanzo"), e quindi non ci troviamo di fronte a lingue diverse;

chi, volendo difendere la specificità della lingua siciliana rispetto a quella italiana, eccede in zelo e insiste in una superiorità del siciliano su tutte le altre parlate.

In entrambi i casi, ci troviamo di fronte a un’interpretazione scorretta della storia linguistica dell’Italia.

Se infatti si può dire che la letteratura toscana venne influenzata da quella siciliana (la prima esperienza poetica in volgare dell’Italia medievale), è errato fare lo stesso ragionamento con la lingua.

Lingua e letteratura, infatti, sono cose diverse. Dunque, possiamo dire che la letteratura italiana nasce grazie all’influsso della poesia siciliana. La lingua italiana però non nasce in Sicilia e non deriva dal siciliano. 

Facciamo un gioco. Prendiamo qualche verso di una poesia siciliana tra quelle toscanizzate, in questo caso il famoso contrasto Rosa fresca aulentissima di Cielo d’Alcamo:

“Rosa fresca aulentissima, c’appari in ver la state,

le donne ti disiano, pulzell’e maritate;

tràgemi d’este fòcora, se t’este a bolontate;

per te non ajo abento notte e dia,

penzando pur di voi, madonna mia”.

Ora proviamo a fare l’operazione inversa, “sicilianizzando” il testo:

“Rosa frisca aulintissima, c’appari in ver’ la stati,

li donni ti disianu, pulzell’e maritati;

tràgimi d’esti fòcura, se t’esti a buluntati;

pir te nun aju abentu notti e dia,

pinzandu pur di vui, madonna mia”.

Forse era così che suonava nella versione originale il sonetto di Cielo D’Alcamo. 

L’EDUCAZIONE CINICA DI VITTORIO FELTRI. Da I Lunatici Radio2 il 19 giugno 2019.  Vittorio Feltri è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Il direttore di Libero ha parlato dei dati sulla povertà fotografati dall'Istat: "Il mio quotidiano oggi pubblica questa notizia e cioè che trenta milioni di italiani su sessanta milioni non pagano un euro di tasse. Questo è un elemento di cui bisogna tenere conto. Per quanto riguarda la povertà devo dire con molta franchezza che non mi risulta da molti anni che qualcuno muoia di inedia. Non credo che ci siano tutti questi poveri e quello che dico è suffragato dai dati. L'Italia è il Paese con i risparmi bancari più alti d'Europa, più dell'80% degli italiani abita in case di proprietà e quindi parlare di miseria diffusa pare uno scherzo della natura. L'Italia è un Paese ricco che però viene annullato dal monte di interessi che deve pagare sul debito pubblico. Ma il debito pubblico con trenta milioni che non pagano le tasse è una cosa ovvia. Questo, più che un Paese di poveri, è un Paese di ladri. Perché non pagare le tasse pare molto simile a un furto. Chi stabilisce se uno è povero o non è povero? Come si misura la povertà? Io da ragazzo non andavo mai in vacanza e non avevo niente che mi potesse rendere ricco, però non mi consideravo povero perché mangiavo tutti i giorni, stavo bene e andavo a scuola. Oggi invece se uno non ha due telefonini, un'auto di grossa cilindrata, una vacanza di due settimane e la possibilità di andare in discoteca tutte le sere viene considerato povero". Sugli esami di maturità: "Un tempo era uno scoglio notevole che bisognava superiore studiando il più possibile. Oggi invece la scuola non boccia più perché non ha il coraggio di fare selezione, non esiste meritocrazia. E se non esiste meritocrazia nella scuola poi non c'è neanche nella società. Se copiavo? Ho copiato anche alla maturità, quando stavo facendo l'esame di matematica. Andai nel pallone, c'era una ragazza che sembrava una mezza suora, l'ho minacciata di morte se non mi avesse fatto copiare, lei si è messa a ridere e mi ha fatto copiare. Però durante le scuole medie e le superiori io ho sempre fatto copiare i miei compiti di latino. Fornivo addirittura dei pezzi di carta con le parti più complesse delle traduzioni". Sull'Italia femminile ai mondiali: "Le donne sono bravissime, non solo nel gioco del calcio. Hanno piedi educati, rispettano l'arbitro, non protestano mai, quando fanno fallo chiedono scusa, sono più educate, mi piacciono più degli uomini. Ma non solo nel calcio. Anche nel giornale le donne sono più brave degli uomini. Si impegnano di più, scrivono meglio, sono capaci. Quando al mio giornale arriva questa stagione e i bambini non vanno più a scuola, io consento a tutte le mamme di portare i bambini in redazione. I bambini se stanno con le mamme non rompono le scatole, non mi sono mai pentito di avergli dato libero accesso.  Avere dei bambini in redazione non disturba, tu gli metti a disposizione due o tre tavoli con qualche foglio, disegnano, le mamme stanno attente e i bambini non rompono i coglioni. C'è anche libero accesso ai cani in redazione, è una cosa normale, mi stupisco che altri non la adottino".

Su Andrea Camilleri: "Non l'ho mai conosciuto, però è chiaro che la sua capacità di applicare criteri matematici ai suoi racconti mi ha sempre sorpreso e ne sono ammirato. Mi dispiace, quando un uomo vecchio muore c'è sempre un certo dolore. Però mi consolerò pensando che Montalbano non mi romperà più i coglioni. Basta, mi ha stancato. Poi quando vedo Montalbano mi viene in mente l'altro Zingaretti, che non è il massimo della simpatia. Questa comunque è una opinione personale e scherzosa, in me Camilleri suscita ammirazione, è un grande scrittore, e bisogna ricordare che la lingua italiana è nata in Sicilia, solo dopo abbiamo adottato quella Toscana. E i siciliani parlano meglio di qualunque altro italiano. E scrivono meglio degli altri italiani".

Redazione Bergamo News 19 giugno 2019.  Feltri: “Non vedere più Montalbano in tv unica consolazione se Camilleri se ne va” Dall'editoriale di mercoledì 19 giugno all'intervista in radio: il pensiero del giornalista bergamasco sullo scrittore siciliano sta creando imbarazzo e indignazione. Il dispiacere per le condizioni siche di “un grande scrittore”, le lodi per le sue “capacità affabulatorie” e, infine, il solito commento personale senza peli sulla lingua: sta creando imbarazzo e indignazione l’editoriale del direttore di Liberto Vittorio Feltri, pubblicato sull’edizione di mercoledì 19 giugno. Già dal titolo “Pur grande scrittore – Andrea Camilleri marxista impenitente” si era capito su cosa avrebbe poggiato il commento del giornalista bergamasco: “Camilleri è in punto di morte e probabilmente se ne andrà presto – inizia – Mi affretto a dire che, per quanto comunista, aveva un talento notevole di narratore che me lo rendeva simpatico”. Così, nella storia “politica” di Camilleri, Feltri inserisce anche le lodi per le sue qualità: “Alcune sue opere si inseriscono perfettamente nella tradizione letteraria siciliana, cito a capocchia Pirandello, Verga, Sciascia. D’altronde la lingue italiana si è sviluppata in Sicilia per merito di Federico II di Svevia, sebbene in seguito sia stato ufficialmente adottato l’idioma toscano o, meglio, fiorentino. Segno che gli isolani padroneggiano il lessico e non stupisce che palermitani e catanesi siano diventati scrittori importanti, fondamentali. Le capacità affabulatorie di Camilleri non sono in discussione, la struttura matematica dei suoi racconti è esemplare e ammirabile”. “L’arte non ha bandiere, e quella di Camilleri va riconosciuta per quello che è: mirabile. Non tutta, ma quasi – ha concluso – Oggi, di fronte alla probabilmente prossima ne, riconosciamo allo scrittore ogni merito tecnico e a lui ci inchiniamo. L’unica consolazione per la sua eventuale dipartita è che finalmente non vedremo più in televisione Montalbano, un terrone che ci ha rotto i coglioni almeno quanto suo fratello Zingaretti, segretario del Partito democratico, il peggiore del mondo”. E il direttore di Libero ha poi confermato tutto a Rai Radio2, nel programma I Lunatici: “Non ho mai conosciuto Camilleri però è chiaro che la sua capacità di applicare criteri matematici ai suoi racconti mi ha sempre sorpreso e ne sono ammirato. Mi dispiace, quando un uomo vecchio muore c’è sempre un certo dolore. Mi consolerò pensando che Montalbano non mi romperà più i coglioni. E mi fa venire in mente l’altro Zingaretti, che non è il massimo della simpatia. Questa comunque è una opinione personale e scherzosa, Camilleri mi suscita ammirazione, è un grande scrittore”.

·         La Citazione sbagliata.

CHI (NON) L'HA DETTO? LA VITA E’ UNA CITAZIONE SBAGLIATA.  Massimiliano Parente per il Giornale il 4 luglio 2019. Ipse dixit. Mica vero. Tipo che voi, per fare bella figura, in una conversazione dite che «Il fine giustifica i mezzi», appellandovi all'autorità di Machiavelli. Solo che Machiavelli quella frase non l'ha scritta da nessuna parte. Come d'altra parte la famosa sentenza «Eppure si muove», attribuita a Galileo, che l'avrebbe pronunciata uscendo dal Tribunale dell'Inquisizione nel 1663 (come sapete sosteneva che era la Terra a girare intorno al Sole, non viceversa). Ma anche questa frase Galileo non l'ha mai pronunciata, se l'è inventata lo scrittore Giuseppe Baretti, nel 1757, un secolo dopo. Ma a volte le citazioni altrui generano addirittura delle doppie gaffe. Come Oscar Farinetti, il quale ha citato «Come diceva Goethe a forza di ripetere una roba questa diventa vera». A parte che non era Goethe a Goebbels (altrimenti a Farinetti non sarebbe mai passato per la testa di citarla), ma in realtà non l'ha mai pronunciata neppure Goebbels. Però a forza di affermare fosse una frase di Goebbels è diventata di Goebbels, come afferma appunto la sentenza di chissà chi. Per non parlare dei filosofi greci, lì non si capisce mai chi ha detto cosa. Perfino la famosa risposta di Socrate «Conosci te stesso» non sembra sua. Viene attribuita a Solone, a Talete, a Chilone, a Femonoe, vissuti prima di Socrate. Insomma, per non sbagliarsi è meglio dire che un giorno un filosofo greco la disse, chi esattamente lasciamo perdere. Idem per la famosa frase di Massimo D'Azeglio «Fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani», è stata espressa in forma molto diversa, a sintetizzarla così è stato Ferdinando Martini nel 1896. «Quando sento la parola cultura metto mano alla pistola», disse Joseph Goebbels. Sicuri? No, neppure questa, come documenta Stefano Lorenzetto in un libro appena uscito, intitolato Chi (non) l'ha detto? (Marsilio). La frase è infatti di Baldun von Schirac, capo della Hitler-Jugend. Così non è di Maria Antonietta «Se non hanno più pane, che mangino brioche», forse l'avrà detta, forse no, ma in ogni caso l'autore è Jean Jacques Rousseau. Come non è di Mussolini «Dio, patria e famiglia», che a intervalli regolari crea molti subbugli e contestazioni, dovete prendervela con Giuseppe Mazzini. A volte sono i film ad attribuire le frasi erroneamente. Nel film Apollo 13 Jim Lovell, interpretato da Tom Hanks, pronuncia il famoso allarme: «Houston, abbiamo un problema», ma a dirlo è stato un altro astronauta, Jack Swigert. Quanti di voi avete sentito dire: «Preferisco il paradiso per il clima, l'inferno per la compagnia»? L'avrà detta sicuramente Oscar Wilde. Però l'ha citata come propria Mark Twain nel 1901, ma anche il politico Benjamin Wade, quindi boh. Ma neppure è di Oscar Wilde: «Posso fare a meno del necessario ma non del superfluo», ma la citazione è attribuita spesso a Alphonse Karr, ma è di Voltaire. In compenso Voltaire non ha mai detto «Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire». Non ce n'è traccia in nessuno scritto o lettera di Voltaire. Non vorrei deludervi troppo, ma Sherlock Holmes non ha mai detto: «Elementare, Watson!». Non la trovate in nessuno dei romanzi di Conan Doyle. Solo ne Il caso dell'uomo deforme, ma in modo leggermente diverso. Watson dice a Holmes: «Semplice!», e Holmes risponde: «Elementare!». Non si salva ovviamente Charles Darwin, lo scienziato più frainteso in assoluto. Non ha mai detto che gli uomini discendono dalle scimmie, per esempio, casomai gli uomini sono scimmie, e deriviamo tutti da un antenato in comune (l'antenato in comune tra noi e uno scimpanzé è vissuto cinque milioni di anni fa). Soprattutto lo si nomina sempre per spiegare l'evoluzione come «La sopravvivenza del più forte», ma è una deformazione di Herbert Spencer, teorico del darwinismo sociale, un'interpretazione erronea che piacque molto a Adolf Hitler. La teoria dell'evoluzione parla infatti della sopravvivenza del più adatto, non del più forte, concetti completamente diversi. Non per altro i dinosauri si sono estinti e più adatti erano i piccoli e deboli mammiferi da cui noi primati ci siamo evoluti dopo sessanta milioni di anni. E nell'Italia di oggi non è che prevalgano i più forti, dagli influencer ai politici, ma i più adatti. All'idiozia collettiva dei social. Come vi stupirà sapere come Darwin non abbia mai parlato di «evoluzione» ma di «trasformazione». E quanto sono belli certi aforismi di Ennio Flaiano, tipo quando scrisse che «I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Oppure: «Ho poche idee ma confuse», come disse Flaiano. In verità entrambe le frasi sono di Mino Maccari, però bisogna ammettere che attribuirle a Flaiano fa molta più scena. «Dio è morto, Marx pure, e anch'io non mi sento molto bene». Lo sanno tutti, è di Woody Allen. Col cavolo, è di Eugène Ionesco. E per finire, chi non ha citato la celebre gaffe di Mike Bongiorno «Ahi, ahi, ahi, signora Longari mi è caduta proprio sull'uccello»? Solo che sembra essere un'altra leggenda metropolitana, perché non c'è nessuna registrazione a provarlo, neppure ai tempi di Youtube. Insomma, pure l'uccello di Mike Bongiorno era falso.

Giancristiano Desiderio per il “Corriere della sera” il 4 luglio 2019. Una volta Indro Montanelli confessò che quando era incerto sulla paternità di una citazione tagliava la testa al toro e l' attribuiva a Montesquieu che considerava così autorevole da aver potuto dire praticamente di tutto. Sulla fallibilità della memoria umana e sull' escamotage montanelliano è costruito il libro di Stefano Lorenzetto che non saprei dire se è più divertente o più istruttivo: Chi (non) l' ha detto (Marsilio). Le cose che scrive Lorenzetto, che Mario Cervi chiamava l' Oracolo - scoprite voi perché -, vanno lette sempre con considerazione, talmente è preciso, scrupoloso, enciclopedico al limite dell' infallibilità. Per capirci: questo «dizionario delle citazioni sbagliate» ha la bellezza di ben tre indici: i presunti autori, i nomi, le citazioni. Si va da Gesù a Nereo Rocco, da Agostino d' Ippona a Carlo Cottarelli, da Benito Mussolini a Donald Trump, da Francesco d' Assisi a Moana Pozzi con il risultato, per dirla con una citazione, che «il naufragar m' è dolce in questo mare». Così il modo migliore di leggere il libro-dizionario è scorrere l' indice delle citazioni. Qui viene il bello. Prendiamo un classico: Giulio Andreotti. Era bravo nelle battute e negli aforismi, quasi quanto Ennio Flaiano. Senz' altro sua è «il potere logora chi non ce l' ha», che va quasi a braccetto con «a pensar male si fa peccato, ma spesso s' indovina». Quest' ultima, però, non è di Andreotti ma, forse, del cardinale Francesco Marchetti Selvaggiani e il giovane Andreotti, come ricordò lui stesso, la sentì per la prima volta nel 1939, pronunciata dal porporato all' Università Lateranense. Tuttavia, nello stesso anno la frase apparve nelle cronache milanesi del «Corriere della Sera» e ancora il 9 giugno 1969 nella rubrica del Proverbio del giorno: «A pensà maa se fa maa, ma se induvinna». Fu, però, Giovanni Malagodi a identificare la frase con Andreotti quando in un' intervista nel 1977 disse che il democristiano dava dei giudizi sugli uomini sostanzialmente veri, ma era un po' troppo incline ad abusare del «detto toscano» che «a pensar male si fa peccato ma spesso s' indovina». Altra citazione: «Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento molto bene». Enzo Biagi, che ricorreva non poco alle frasi celebri ed a effetto, l' attribuì a colpo sicuro a Woody Allen e per ben due volte su «Panorama» nel 1992 e nel 1996, ma la frase è, invece, di Eugène Ionesco, drammaturgo del teatro dell' assurdo, anche se non si sa né dove né quando l' abbia effettivamente pronunciata. Il che è un po' assurdo. Come, in fondo, è un po' assurda la storia della frase più celebre di Mike Bongiorno che Mike Bongiorno non disse: «Ahi ahi, signora Longari, mi è caduta sull' uccello!». Per iniziare la Longari, campionessa di Rischiatutto , non esiste perché il vero nome della donna è Maria Giuliana Toro, che nel 1998 rivelò: «Mai pronunciata quella frase. Mica per niente: io stavo lì, no?Ho sempre smentito anche Bongiorno. Ho rivisto le registrazioni di tutte le puntate. Niente di niente. È buffo che io sia ricordata per un falso clamoroso. Potenza della televisione. Non è vero ciò che è vero, è vero solo quello che la gente ritiene sia vero». Ma la frase piaceva così tanto che alla fine Mike, anni dopo in un' altra trasmissione, disse veramente la frase che non disse mai. La verità è che la citazione ha un suo fascino e, come diceva Jorge Luis Borges, «la vita stessa è una citazione», sempre che l' abbia effettivamente detto, avverte ironicamente Lorenzetto. Ecco perché la citazione perfetta è quella non scritta: non è vera ma è verosimile e per questa sua potente qualità alla fine è di fatto un mito. Il montanelliano «turatevi il naso ma votate Dc» è leggendario. Il grande giornalista scrisse l' editoriale sul «Giornale» il 4 maggio 1976: temeva il sorpasso del Pci sulla Dc e invitò i lettori a turarsi il naso e votare i democristiani. Da quel momento in poi la frase di Montanelli è diventata un modo di dire per dire che a volte, per evitare guai peggiori, bisogna fare di necessità virtù. Sennonché, non solo la frase non era di Montanelli, ma di Gaetano Salvemini e risaliva, addirittura, ad Adolf Hitler , ma in quello storico «fondo» il giornalista non la scrisse. Eppure, tutti citiamo Montanelli, proprio come Montanelli citava Montesquieu. Vien quasi da correggere Borges: la vita è una citazione sbagliata.

·         Ecco l'italiano dei giornali.

Misericordina o liquidismo? Ecco l'italiano dei giornali. La Treccani pubblica un dizionario dei neologismi La maggior parte nasce dalla creatività dei media, scrive Matteo Sacchi, Lunedì 07/01/2019, su "Il Giornale". La lingua italiana non è una cosa morta, statica. Fortunatamente la nostra è una lingua viva, che cambia nel tempo e si arricchisce. Come? Nel passato pescando dai dialetti, l'humus su cui è cresciuta la parlata nazionale o grazie alle invenzioni degli scrittori (Dante era un grandissimo creatore di neologismi). Oggi, parola della Treccani, i maggiori creatori di lemmi nuovi sono i giornalisti. Negli ultimi dieci anni avrebbero creato 3mila e cinquecento espressioni nuove. Sotto la direzione scientifica di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana ha raccolto e catalogato tutte queste espressioni comparse sulle testate cartacee e online. Le troverete tutte nel dizionario Neologismi. Parole nuove dai giornali 2008-2018. Un folto gruppo di termini sono in realtà espressioni d'autore. Per citarne qualcuna c'è l'«asinocrazia» partorita dalla fervida mente del politologo Giovanni Sartori (1924-2007), oppure «Guerrasantista» uscito dalla penna di Guido Ceronetti. Ma sono i giornalisti, stricto sensu, che hanno inventato il maggior numero di parole. C'è il «barcamenista» del critico televisivo Aldo Grasso; la «complottocrazia», oppure la «dichiarazionite» coniata da Pierluigi Battista. Ovviamente, parlando i quotidiani molto di politica, va segnalato che sono i composti con il suffisso «crazia» a farla da padrona in questo geminare di lemmi. Se come dicevamo ha iniziato Sartori, con il governo degli asini non si può dimenticare la «zerbinocrazia» che per Massimo Gramellini identifica la società dei nostri giorni. E nemmeno la «maggiordomocrazia» e la «mignottocrazia» scaturite dalla penna di Paolo Guzzanti. Esistono poi un sacco di espressioni più comuni, magari senza un padre nobile, che si sono affermate con l'uso e che, pian piano, hanno iniziato a comparire in sempre più articoli. E qui il fenomeno è un po' più preoccupante perché non si tratta più di creatività alla Gianni Brera (1919-1992) la cui onomaturgia giornalistica era straordinaria (da «contropiede» a «uccellare»). Spiegano i due autori del volume, infatti, che si sono trovati «a verificare un preoccupante aumento delle parole presenti nei quotidiani provenienti da altri idiomi: il materiale raccolto documenta che i forestierismi - nella quasi totalità di provenienza angloamericana - costituiscono il 20% della produzione neologica rilevata nei quotidiani (a fronte di poco più del 10% riscontrato nel dizionario pubblicato nel 2008)». Insomma brutti calchi da altre lingue di cui si potrebbe fare a meno. Quasi meglio i neologismi creati da Papa Bergoglio: «balconare», «giocattolizzare», «mafiarsi» e «nostalgiare». Il pontefice scherzando ha anche cercato di curare i fedeli con «la misericordina». Di misericordia ne ha poca il tempo. E solo lui ci dirà quante di queste parole sopravviveranno. Di certo qualcuna sì, ma chissà quali...

·         L’età della parolaccia.

La supercazzola di Amici miei arriva all’università. L’Arno e il Giornale il 25 novembre 2019. Chi l’avrebbe mai detto che i mitici giri di parole nonsense del conte Mascetti e dei suoi sodali sarebbero sbarcati all’università? Eppure è proprio così. Il 27 novembre alle ore 9,00 presso l’Università degli Studi di Firenze (Aula 105 in Via Laura 48) si parlerà della “Fenomenologia della supercazzola”. Previsti interventi di Benedetta Baldi (presidente Corso di Studi in Scienze umanistiche per la Comunicazione Unifi, Zeffiro Ciuffoletti (docente di Storia sociale della Comunicazione Unifi), Roberta Lanfredini (docente di Filosofia Teorica Unifi), Matteo Galletti (docente di Filosofia Morale Unifi), Neri Binazzi (docente di Sociolinguistica italiana Unifi e collaboratore Accademia della Crusca), Antonio Vinciguerra (Storia della Lingua italiana Unifi e borsista Accademia della Crusca), Flavia Trupia (Associazione per la Retorica). L’idea è della pagina Facebook Conte Raffaello “Lello” Mascetti e del brand di t-shirt Supercazzola, in occasione dei 4 anni da quando il termine è entrato nel vocabolario della lingua italiana Zingarelli. A proposito, che dice il dizionario a proposito della supercazzola? “Parola o frase senza senso, pronunciata con serietà per sbalordire e confondere l’interlocutore”.

L’attualità del messaggio. Qualcuno si potrebbe chiedere: ma che senso ha parlare della supercazzola addirittura all’università? In realtà nella comunicazione esistono moltissime frasi che sembrano corrette e logiche ma del tutto logiche non sono e, in taluni casi, sono utilizzate espressamente come strategie di persuasione. Un esempio classico (molto usato in politica) è quando si demolisce un interlocutore non sulla base di ciò che dice ma a livello personale. Un altro esempio è individuare un nemico comune in modo tale da non parlare di altre tematiche più urgenti e importanti. Oppure c’è anche il caso di chi sfoggia quantità industriali di numeri per convincere i propri interlocutori di conoscere a fondo ciò di cui sta parlando. C’è anche chi usa parole o espressioni dalla difficile comprensione, volutamente per non essere chiaro. Molti di voi sorridendo a questo punto diranno: “Ma questo è politichese!” È vero, ma solo in parte. C’è anche l’aziendalese. Esempio di supercazzola in Amici Miei:

Mascetti: “Tarapìa tapiòco! Prematurata la supercazzola, o scherziamo?”

Vigile: “Prego?”

Mascetti: “No, mi permetta. No, io… scusi, noi siamo in quattro. Come se fosse antani anche per lei soltanto in due, oppure in quattro anche scribàcchi confaldina? Come antifurto, per esempio”.

Vigile: “Ma che antifurto, mi faccia il piacere! Questi signori qui stavano sonando loro. ‘Un s’intrometta!”

Mascetti: “No, aspetti, mi porga l’indice; ecco lo alzi così… guardi, guardi, guardi. Lo vede il dito? Lo vede che stuzzica?Che prematura anche? Ma allora io le potrei dire, anche con il rispetto per l’autorità, che anche soltanto le due cose come vicesindaco, capisce?”

Vigile: “Vicesindaco? Basta ‘osì, mi seguano al commissariato, prego!”

Perozzi: “No, no, no, attenzione! Noo! Pàstene soppaltate secondo l’articolo 12, abbia pazienza, sennò posterdati, per due, anche un pochino antani in prefettura…”

Mascetti: “…senza contare che la supercazzola prematurata ha perso i contatti col tarapìa tapiòco”.

L’età della parolaccia senza confini  (ma siamo sicuri  che paghi?). Pubblicato sabato, 10 agosto 2019 da Michele Farina su Corriere.it. La commessa della libreria Waterstones consegna la copia del libro avvolta nel cellophane: «Dev’essere per proteggere i bambini», sorride. Anche il titolo allude senza essere troppo esplicito: «The f!$*@ing history of swearing». Potremmo tradurlo (al limite del turpiloquio): «La fottuta storia del turpiloquio». La parola «nascosta» comunque la riconoscono tutti: fu pubblicata la prima volta in una poesia del 1503 dello scozzese William Dunbar, che osò scrivere «Fukkit» alla fine di un verso. Equivale più o meno al nostro «fanc». Hollywood la sdoganò nel 1970 in una puntata di Mash (fuxt). Oggi, nelle sue rigogliose varianti, è tra i termini più usati della lingua inglese. E perfino «apprezzati»: qualche giorno fa «l’autorevole Financial Times» ha pubblicato un articolo in cui si sostiene che «le persone intelligenti capiscono perché dire parolacce sul posto di lavoro paga». Il posto di lavoro forse più ambito nel Regno Unito è quello di primo ministro. E infatti l’impeccabile Theresa May ha dovuto lasciare le chiavi del governo a Boris Johnson, che ha un linguaggio scompigliato quanto la capigliatura. BoJo è uno che scrive libri su Churchill ma parla come il poeta Dunbar a fine verso. Il mondo degli affari esprime preoccupazioni sulla Brexit? Lui risponde: chissenefrega del f!$*@ing business. Chiaro che non è un termine che usa in pubblico tutti i giorni (nel film «Pulp Fiction» invece ritorna 1,74 volte al minuto). Ma ce ne sono altri. Il Financial Times ricorda come il premier sia affezionato a turds, str..zi, che ha usato anche per qualificare il governo francese. Arrivato al potere a fine luglio, Boris ha addolcito il suo eloquio tagliente, dopo averne fatto un segno distintivo del suo personaggio. Dunque, se è arrivato in cima lui, significa che sul lavoro la parolaccia «paga». O comunque non penalizza. «È percepita dagli altri come un segno di autenticità e onestà» riportano gli studi universitari sintetizzati dal FT. Lo swearing funziona. Anche in Italia Matteo Salvini invita i deputati «ad alzare il cu...», e i sondaggi mica lo penalizzano. Esistono ricerche scientifiche sulla pratica (un tempo considerata disdicevole se non ignobile) dell’imprecazione. La scienziata Emma Byrne ha scritto un libro liberatorio (e non cellofanato) che s’intitola «La parolaccia ti fa bene». Psicologi americani hanno provato che inveire aiuta a sopportare meglio il disagio. Semplificando il loro test: due gruppi di persone mettono il braccio nell’acqua ghiacciata. Ai primi è permesso imprecare, ai secondi no. Chi resiste di più? I primi, e di un bel 50%. Ma negli studi più recenti si va oltre: non solo è liberatoria e rafforza i legami di gruppo. La parolaccia farebbe risultare più «credibile», più «vero», chi la pronuncia. Davvero? Dipende anche da chi la dice (e a chi: meglio non rischiare con i superiori). Clark Gable nel 1939 alla fine di «Via col Vento» usò un’espressione bandita che diventò una delle battute più famose della storia del cinema: «Francamente me ne infischio». «Frankly, my dear, I don’t give a damn». Per quel «damn» (non me ne frega un accidenti) la produzione pagò una multa di 85 mila dollari. Vi immaginate se l’avesse detto Vivien Leigh? Nel suo libro Emma Byrne spiega bene la divisione di genere che per secoli ha giocato anche nel linguaggio: potere (maschile) e purezza (femminile). È vero che la parità è stata raggiunta più sul fronte del turpiloquio che dello stipendio: in uno studio del 2018 il professor Tony McEnery ha setacciato un corpus di 10 milioni di parole pronunciate da 376 volontarie. Rispetto agli anni ’90 del secolo scorso, le donne oggi usano cinque volte di più la parola che anche in italiano comincia con la f (fanc...): 546 volte ogni milione di termini. I maschi? Solo 540 volte. Le donne e gli uomini che praticano lo swearing possono tirare un sospiro di sollievo a Salford, vicino a Manchester, dove il consiglio comunale la settimana scorsa ha ritirato la disposizione del 2016 che prevedeva multe salate per chi imprecava in pubblico (fino a mille euro per i recidivi). Ci sono alcune aree del Regno Unito (una quindicina) dove misure simili sono ancora attive. Ma i tempi cambiano. E ora c’è f!$*@ing Boris sulla tolda di comando.

·         Storia della parola «bullo»: oggi è un delinquente ma significava amico.

Storia della parola «bullo»: oggi è un delinquente ma significava amico. Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Corriere.it. Le parole, proprio come le persone, nascono, si sviluppano, magari fanno dei figli, godono di momenti di straordinaria notorietà, invecchiano e talvolta cadono nell’oblio. Una parola che di questi tempi vive un grande successo è bullo: evidentemente abbiamo spesso bisogno di riferirci a teppistelli prepotenti e arroganti. Tanto è diffusa la parola, quanto è incerta e discussa la sua origine. Molti la fanno discendere da una antica parola tedesca, bule, che significa «amico intimo». Significato positivo che però arrivando in Italia dal Veneto, proseguendo verso sud si sarebbe degradato fino a descrivere il giovane prepotente. Altri scomodano l’olandese boel (vuol dire fratello) che però non doveva comportarsi proprio bene se successivamente «invadendo» l’inglese avrebbe in qualche modo generato l’inglese bully (prepotente). L’unico concetto su cui sembra esserci un vasto consenso è la china discendente di questa parola da «buon ragazzo» a gradasso. Non è certo l’unica. Una delle più note è proprio l’aggettivo bravo, che oggi utilizziamo per complimentarci con un bambino che ha svolto correttamente il proprio compito o per segnalare il suo ottimo comportamento. O nei confronti di un atleta dopo una gara vittoriosa. Chissà se sarebbero altrettanto contenti, bambini e atleti, sapendo che quel bravo probabilmente deriva dalla latino barbarum (selvaggio, indomito), per influsso di pravum (malvagio). Alessandro Manzoni aveva tentato di metterci in guardia, nei «Promessi sposi», scatenando i bravi, soldati mercenari al servizio di Don Rodrigo, contro il povero don Abbondio. Certo conoscerne l’origine ci potrà fare comodo a teatro alla fine di uno spettacolo che magari non ci è piaciuto tanto. Se intorno a noi la platea applaudirà convinta, potremmo alzarci e gridare “bravo”, tenendo per noi, soddisfatti, il significato che preferiamo. Nessun dubbio invece sul fatto che il bullismo rappresenti un problema: le sue azioni mirano deliberatamente a ferire le vittime, con violenza fisica e psicologica, soprusi e intimidazioni. La rivoluzione tecnologica ha messo a disposizione nuovi mezzi per questi comportamenti deviati che possono ampliarne di molto risonanza ed effetti (cyberbullismo). Il meccanismo è invece perversamente semplice: il bullo sceglie una vittima tra i più deboli perché arroganza e violenza sono intimamente legate alla vigliaccheria. E spesso è contornato e aiutato da una platea di complici che magari non imitano i suoi comportamenti, ma non li ostacolano e anche in questo caso - tranne meritorie eccezioni - non è certo il coraggio a prevalere. É troppo vasta per essere relegata all’ambiente scolastico. La presenza massiccia di esempi negativi adulti fa sì che il bullismo sia entrato nelle dinamiche della nostra società contemporanea. Il 52° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, vero e proprio «stato dell’arte» dell’essere italiani oggi, diffuso a dicembre 2018, sottolinea che siamo incattiviti per l’economia che non decolla, il patto sociale che si è rotto, e siamo in preda a «una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico». Gli autori del sito unaparolaalgiorno.it nell’esaminare la parola bullo ci segnalano: «abbiamo fin troppe parole per indicare i giovani delinquenti, e per certo troppo poche per indicare gli amici cari». Hanno ragione.

·         La Rai editrice.

LIBRAI ALLA RAI. (AGI il 7 maggio 2019) - Crossmedialità e un catalogo sempre più ricco: accanto a generi più propriamente radiotelevisivi di intrattenimento o spettacolo, al cinema o alla fiction, ci sono la storia, la musica, la divulgazione scientifica, lo sport, l'ambiente, fenomeni di costume, l'approfondimento giornalistico. Rai Libri sceglie il Salone di Torino, il più importante appuntamento per l'editoria italiana e quest'anno in programma dal 9 al 13 maggio, per presentare la nuova strategia editoriale della casa editrice del Servizio pubblico, a pochi mesi dal lancio del nuovo marchio. Alberto Angela, Bruno Vespa, Vincenzo Mollica, Andrea Delogu, Massimiliano Ossini, Cristoforo Gorno sono alcuni dei componenti della squadra di autori con cui Rai Libri partecipa all'importante appuntamento editoriale. "Il nostro obiettivo è allargare la platea dei potenziali lettori di Rai Libri, raggiungendo tutti i tipi di target - spiega Flavio Mucciante, direttore della casa editrice - ritagliandoci un ruolo coerente e ben delineato nel mercato". Il libro diventa così "elemento centrale nel moderno racconto della Rai, potendo incrociare i suoi piani narrativi con quelli degli altri media, in particolare della televisione, integrandone i contenuti". Una delle parole d'ordine per il prossimo futuro della nuova casa editrice della Rai è "novellizzazione", ovvero la rielaborazione di una sceneggiatura in forma di libro, tendenza questa che è partita dagli Stati Uniti, legata al boom delle serie televisive sulle piattaforme digitali. "La sua potenziale forza è dirompente - assicura Mucciante - considerando il trend in crescita esponenziale della platea di questo genere televisivo". Sarà Massimiliano Ossini ad aprire il palinsesto delle presentazioni di Rai Libri, intervistato dalla giornalista Alessandra Comazzi venerdì 10 maggio alle 18:15. Conduttore televisivo di trasmissioni di successo come "Linea Bianca", Ossini descrive la montagna in Kalipè, lo spirito della montagna, la sua prima prova letteraria, che ha ottenuto ottimi riscontri con numerose ristampe e oltre dodici settimane in classifica tra i libri più venduti. Sabato 11 maggio, alle 11:35, Cristoforo Gorno, autore televisivo, esperto e studioso di storia, presenta con Piergiorgio Odifreddi "Io sono Cesare, memorie di un giocatore d'azzardo" (in uscita il 30 aprile ). Una vita straordinaria, che diventa per la prima volta un'autobiografia. Dalla congiura di Catilina alla campagna in Gallia, dal passaggio del Rubicone agli attimi precedenti il tragico epilogo delle Idi di marzo: nel memoriale che scrive a Gaio Ottavio - futuro Cesare Augusto - Giulio Cesare ripercorre in prima persona i momenti cruciali della sua avventura al galoppo, nella consapevolezza che la vita è un lancio di dadi e la vittoria una dea con le ali. "Una risata festosa...nasconde sempre una lacrima dolorosa", oppure "La vita ci mette alla prova...e quando finisce ci riprova": sono solo due tra gli aforismi di Vincenzo Mollica, contenuti nel volume “Scritto a mano pensato a piedi”, che il popolare giornalista del Tg1 presenterà con l'amministratore delegato di Rai Com, Monica Maggioni, sabato 11 maggio alle 12:30. Performance sul palco dell'attrice e imitatrice Gabriella Germani, che leggerà alcuni passi del volume interpretando vari personaggi.   E sempre sabato 11 maggio, alle 18:15 Alberto Angela verrà intervistato da Monica Maggioni su "Come eravamo2, una collana che l'autore considera il "romanzo degli italiani", venti volumi che dal mondo degli Etruschi arrivano fino all'Unità d'Italia, raccontando la vita quotidiana di una famiglia, le "piccole storie - dice Alberto Angela - che hanno fatto la Grande Storia del nostro Paese". Domenica 12 maggio, alle 12:15 Andrea Delogu, la giovane conduttrice "Stracult", preferita da Renzo Arbore, presenta "Dove finiscono le parole, storia semiseria di una dislessica", che in pochi giorni ha conquistato la vetta degli store digitali. Un libro che è insieme testimonianza e terapia. "Ho scoperto di essere dislessica a ventisei anni - racconta Andrea - dopo un percorso educativo difficile, particolare, perchè la dislessia era considerata da molti un disturbo ancora sconosciuto". "Ho scritto questo libro un po' per i genitori, per far capire cosa provano i loro bambini, un po' per chi ignora di essere dislessico". Saperlo ti aiuta a liberarti e a vivere come me - dice Andrea Delogu, che si definisce ora "felicemente dislessica". Originale l'esperimento di stampa con una font per dislessici. E una parte dei proventi è destinata all'Aid, l'Associazione Italiana Dislessia.     Perchè fu Neil Armstrong il primo uomo a mettere piede sulla Luna quando sarebbe toccato a Buzz Aldrin? Perche' Aldrin dovette aggiustare un contatto elettrico con la punta di una biro evitando il rischio di restare nello spazio? Perchè Collins temette di rientrare da solo sulla Terra? Bruno Vespa con "Luna" (in uscita il 30 aprile) ci riporta al 20 luglio 1969, giorno cruciale nella storia dell'umanità, raccontando con il consueto spirito investigativo i retroscena dell'avventura, che ha segnato la memoria collettiva e i ricordi di ognuno di noi. Presentazione del volume: domenica 12 maggio, alle 18:15. A dialogare con Bruno Vespa, l'amministratore delegato di Rai Com, Maggioni.

 (ITALPRESS il 7 maggio 2019) - Il rapporto che c'è stato finora tra libro e prodotto televisivo va completamente ribaltato: "il grande vantaggio di un editore crossmediale, come la Rai, è quello di poter incrociare i piani narrativi di un'opera letteraria con quelli degli altri media, in particolare della televisione, integrandone i contenuti. E' necessario sperimentare nuove forme di narrazione, dove ciascun medium diventa uno dei set di un'unica grande storia". E' quanto afferma il direttore di Rai Libri Flavio Mucciante, in un intervento per il Giornale dell'Associazione italiana editori, in vista del Salone del libro di Torino, in programma dal 9 al 13 maggio.  Lo sbarco sulla luna e i retroscena della "guerra fredda" per la conquista dello spazio, la storia come un romanzo, dagli Etruschi all'Unita d'Italia, aforismi, spirito della montagna e persino un'autobiografia semiseria per scoprire la propria dislessia e vivere felici: sono alcuni dei temi che la Casa editrice del Servizio Pubblico affronterà, tra pochi giorni, a Torino, negli incontri con i lettori, nel corso del più importate appuntamento dell'editoria italiana. Tra gli autori proposti nel nuovo catalogo di Rai Libri: Alberto Angela, Vincenzo Mollica, Milly Carlucci, Bruno Vespa, Antonella Clerici, Osvaldo Bevilacqua, ai quali presto si aggiungeranno Franco Di Mare e Salvo Sottile, tutti personaggi che danno prestigio al ruolo della Rai - dice Mucciante, che invita, però, anche a tener d'occhio outsider come Andrea Delogu, Massimiliano Ossini, Cristoforo Gorno e le  "maestre di cucina" Natalia Cattelani e Luisanna Messeri. "E' necessario saper raccontare una società che cambia con il taglio di una modernità accessibile a tutti - spiega il direttore di Rai Libri - saper intercettare fenomeni e linee di tendenza emergenti, impegnarsi a fondo nello scouting, alla ricerca di nuovi autori e talenti sui quali investire". Due nomi su tutti con i quali sono allo studio importanti progetti: Isabella Potì, giovanissima pastry chef di fama internazionale, indicata dalla rivista americana Forbes tra gli under 30 più talentuosi d'Europa e la campionessa della nazionale di volley femminile Miriam Sylla. Dopo il successo editoriale dell'esperimento-pilota "Compagnia del cigno" con il "prequel" letterario delle storie dei sette giovani protagonisti della fiction tv, una delle nuove parole d'ordine è "novellizzazione", la rielaborazione di una sceneggiatura in forma di libro, una tendenza partita dagli Stati Uniti, legata al boom delle serie tv sulla piattaforma Netflix. "Il libro può raccontare quanto non si vede in televisione, la premessa o lo svilupparsi di una storia e, in ogni caso, può rappresentare una sorta di spin off della serie tv, un prodotto destinato a tutti i tipi di target, anche agli adolescenti più lontani dalle forme di lettura tradizionale, attraverso le vicende di quei personaggi che hanno imparato ad amare sullo schermo". Il libro - secondo Mucciante -  "rappresenta oggi per il mondo editoriale quello che  il vinile è' per la musica". Un oggetto da conservare e preservare, che può sperimentare nuove modalità narrative, nel segno di una crossmedialità autentica, attraverso step graduali. "Il primo sul quale stiamo ragionando - dice Mucciante - è una possibile collaborazione con le altre piattaforme digitali della Rai: l'utilizzo - là dove i temi e gli archivi lo rendano plausibile - di una sorta di QR Code, leggibile con un cellulare, che possa rimandare direttamente dalle pagine del libro ai contenuti digitali delle piattaforme Rai, che in qualche modo possa completare o aggiungere elementi visivi alla narrazione su carta". Qual è il segno distintivo dell'identità di Rai Libri?  "La coerenza tra comunicazione e prodotto è per noi essenziale - afferma Mucciante - come pure andare ad occupare un preciso posizionamento sul mercato, nel segno di un piano editoriale con una sua forza e autorevolezza". Ma Rai libri, rispetto alle altre case editrici, ha una responsabilità in più: "contribuire a rilanciare una socializzazione della lettura, stringendo un rinnovato "patto di fiducia" con il cittadino-utente. E poi fornire quante più informazioni possibili nell'era del boom dell'e-commerce per consentire al lettore una scelta ragionata e consapevole, rilanciando, allo stesso tempo, il ruolo del libraio, della sua cultura e competenza, a dispetto degli algoritmi che sfornano di continuo proposte su misura per ciascuno di noi". In questo scenario, qual è il libro che manca o che Rai Libri vorrebbe pubblicare? Su questo Mucciante non ha dubbi: "Visto che parliamo di sogni, possiamo esagerare. Guardando oltreoceano, direi Bruce Springsteen per raccontare qual è oggi la distanza tra la realtà e il sogno americano, che "The Boss" ha sempre voluto misurare con la sua musica. In Italia, invece, manca un libro a quattro mani di Andrea Camilleri e Rosario Fiorello, penso ad un lungo dialogo, scandito da alcune parole chiave, che potrebbe intitolarsi "Alfabeto siculo".